SCHIZZECHIÀ - CHIOVELLECÀ
Questa volta intendo soffermarmi sui verbi in epigrafe, verbi antichissimi presenti se non in un po’ tutti gli scrittori sei-settecenteschi, certamente già negli antichi calepini del napoletano con in quello notissimo del Pietro Paolo Volpe (1869) che li riporta ambedue sebbene per il primo egli scelga la forma schizzechejare/schizzechejà e ne azzarda addirittura una resa in italiano traducendo piover minuto – piovigginare etc.
Dirò súbito che dei due verbi in epigrafe quello ancóra vivo, vegeto ed usatissimo (come verbo altamente espressivo) nel parlato partenopeo, è soltanto il primo (usato – ovviamente! – trattandosi di un verbo che riguarda un fenomeno atmosferico, solo in terza persona (impersonalmente cioè), nelle forme schizzechéa schizzechiava à schizzechjato.(ricordo che in pretto e corretto napoletano l’ausiliare dei verbi indicanti fenomeni atmosferici è esclusivamente il verbo avere ( à chiuoppeto ( è piovuto) – à sciuccato (è nevicato) e non è chiuoppeto – è sciuccato )contrariamente all’italiano che usa indifferentemente il verbo essere o avere ) Il verbo chiovellecà non è piú in uso da troppo tempo ed è rimasto confinato negli scritti di Cortese, di Basile e nei dizionari del d’Ambra, del Volpe e dei Filopatridi dove è riportato con un fantasioso piovizzicare.
Ma facciamo un passettino indietro; ò detto che il P.P.Volpe azzardò una traduzione rendendo i napoletani schizzechejare/schizzechejà nonché chiovellecà con piover minuto – piovigginare – ed addirittura con un inesistente italiano piovillicare (spudorato adattamento del napoletano chiovellecà) etc. In realtà nessun verbo dell’italiano può compiutamente rendere il significato soprattutto di schizzechià che è un evidente denominale di schizzeco (diminutivo di schizzo (cfr. il suff. eco da icus) lemma onomatopeico che significa sí stilla, goccia, ma pure e forse piú briciola, minutissima parte d’un qualcosa); se ne ricava che (forse) l’unica espressione italiana che possa rendere con una buona approssimazione lo schizzechéa napoletano potrebbe essere non pioviggina, né piove minuto, ma stilla goccia a goccia che comunque non renderebbe compiutamente l’idea (contenuta in schizzechéa ) di una radissima, sottile, intermittente caduta di poche, pochissime gocce d’acqua.
Quanto al verbo chiovellecà ricordato che è abbondantemente desueto ed è presente ormai solo negli scritti di antichi scrittori partenopei e nei calepini di compilatori ovviamente d’antan, ma fortunatamente pure in taluni dizionari di attenti, precisi studiosi contemporanei) dirò però che pure tali studiosi si vedono costretti, per spiegarne il significato, a ricorrere, in mancanza d’altro, a solito impreciso piovigginare e quanto all’etimo pare che non vi siano certezze assolute, sebbene quasi tutti si siano messi sulla medesima strada piú morfologica che semantica; D’Ascoli ipotizzò un non chiarito frequentativo di chiovere (che per incidens è dal latino pluere con il consueto passaggio di pl a chi ed epentesi di una v eufonica),la medesima cosa ad un dipresso la fa pure l’amico prof. C. Iandolo che però chiarisce la ricostruzione morfologica del verbo parlando di chiovere con un doppio infisso diminutivo ed iterativo secondo il percorso chiovere+ell+ic-are. Personalmente seguendo un diverso percorso semantico mi sento di poter proporre l’idea di vedere in chiovellecà un incrocio tra il solito chiovere ed il verbo lat. vellicare inteso però non nel senso di pizzicare, ma in quello di titillare atteso che lo stillare quieto e goccia a goccia che è proprio del chiovellecà in fondo si traduce in una pioggerella che titilla, vellica quasi chi ne è colpito.
Affermata con convinzione, ancora una volta, la superiorità espressiva del napoletano a petto dell’italiano, mi fermo qui e do l’appuntamento alle prossime voci. Per ora satis est.
raffaele bracale
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