‘O NFINFERO
La parola in epigrafe costituí il titolo di una simpatica divertente canzone partenopea degli anni intorno al 1950, frutto della collaborazione di Giuseppe Cioffi (musica) e del figlio Luigi (parole) ed indicò, fino a quando durò nel parlato popolare, una sorta di millantatore ridicolo e vanesio, un bellimbusto un po’ guappo ed un po’ vigliacco, quanto non un picaro nell’accezione di mendicante d’amore; poi la parola sparí e l’ultima volta che l’udii fu negli ultimi anni del ‘960; fortuna che rimase la briosa canzonetta che ci offre materia di ricerca per numerose particolari parole in essa presenti e che non si ritrovano quasi piú sulla bocca dei napoletani, se non su quella di quei partenopei che ànno valicato la soglia dei sessanta anni. Esamino quelle di cui mi sovvengo, cominciando proprio da quella in epigrafe:
- nfinfero; segnalo súbito che la parola non va scritta, come pure erroneamente capitò di fare a Luigi Cioffi autore delle parole della suddetta canzonetta, con alcun segno d’aferesi iniziale e cioè: ‘nfinfero, ma semplicemente : nfinfero; infatti la enne d’avvio non sta per in→(‘n), ma è semplicemente la prostesi di una consonante eufonica alla parola finfero; del significato ò già detto; per l’etimologia ci troviamo nel campo delle ipotesi; infatti nessuno dei vocabolaristi partenopei a me noti e che ò potuto compulsare, si è voluto sbilanciare, rifugiandosi nel limbo pilatesco di un etimo incerto; la mia ipotesi è invece che la parola, alla medesima stregua dell’altrove esaminate fanfaro/fanfero, possa collegarsi all’antico sostantivo spagnolo fanfa= iattanza sia pure con il cambio della vocale a in i che con la u è la vocale piú chiusa e dunque intesa piú elegante in linea con il vanesio portamento del finfero/nfinfero rispetto a quello piú gradasso ed aperto del fanfaro/fanfero, parole in cui dura la apertissima vocale etimologica a di fanfa.
Continuo prendendo in esame il ritornello della canzonetta predetta, ritornello che suonando ad un dipresso cosí:
Venitelo a vedé,
mo passa ‘o nfinfero
cu ‘o cuollo ‘mpusumato
e ‘a capa a gliommero.
E se dà ll’aria ‘e ll’ommo ammartenato…,
ma nun è overo i’ ll’aggiu canusciuto:
è ‘nu bbuono guaglione,
veramente ch’è bbuono,
forze è ttre vvote bbuono,
troppo bbuono, troppo bbuono
pe chella llà!
offre il destro per illustrare alcune interessanti parole; e sono:
- ‘mpusumato: praticamente: indurito in quanto sottoposto ad una bagnatura (e successiva stiratura) in una soluzione di acqua ed amido, soluzione che in napoletano è ‘o bagno ‘e pósema; la parola pósema (che è esattamente l’amido e che diede lo ‘mposemato/’mpusumato = inamidato e dunque indurito da riferirsi in primis agli indumenti o a parte di indumenti come colletti e polsi di camicia da uomo stirati in modo da renderli rigidi, ma da riferirsi anche estensivamente a chi abbia ed inceda con atteggiamento impettito o anche sia agghindato in maniera eccessivamente ricercata) è da riferirsi etimologicamente al greco apòzema che indica, tal quale il derivato posema un quid bollito, filtrato, colato; l’amido, sostanza di riserva di molti vegetali, chimicamente analoga agli zuccheri che si presenta come una polvere o scaglie biancastre, in effetti è ottenuto per colatura e sedimentazione da particolari piante;
- gliommero o gliuommero : è esattamente – come dalla sua etimologia latina glomere(m) con evidente metaplasmo nel passaggio al maschile dall’orignario neutro glomus/meris - il gomitolo, ma nella fattispecie della canzonetta, significa una particolare pettinatura maschile nella quale il ciuffo principale della capigliatura, quello prospiciente la fronte, sia pettinato a mo’ di gomitolo con l’ausilio di olî o brillantine, di tal che l’uomo che fosse cosí pettinato ed impomatato si possa dire in napoletano alliffato che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto; rammenterò che la parola gliuommero fu usata anticamente anche per indicare un rotolo di monete di circa 100 pezzi di argento, oltreché (secoli 14° e 15°) delle composizioni poetiche di contenuto ameno (ne scrisse anche il Sannazaro(Napoli 1456-1530), poeta ed umanista italiano, che compose opere in lingua latina ed in volgare.) a mo’ di filastrocche semplici e scorrevoli i cui versi si dipanavano velocemente come il filo di un gomitolo;
- ammartenato : che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
- tre vvote bbuono: letteralmente: tre volte buono e cioè: cosí eccessivamente buono da risultare essere sciocco, stupido e credulone e non soltanto il mite,il mansueto, il bonario che, secondo l’etimologia latina bonu(m) dovrebbe connotare il buono.
Soffermiamoci ora sulle due strofe della predetta canzonetta, per vedere se ci offrono il destro di illustrar qualche altra interessante parola;
1° strofa
Chillo putesse stà
dinto â meglia vetrina,
chillo se po’ chiammà
cuollo tuosto e puzine…
e allora comme va ca Mariannina,
ca ‘e dinto a ‘stu quartiere era ‘a riggina,
cu ttanti ggiuvinotte,
tanti uommene deritte,
s’è misa proprio cu ‘stu guajo ‘e notte?
Venitelo a vedé etc.
2° strofa
Chillo se vo’ spassà
e va bbuó s’è capito,
e tu falle ‘o spassà,
quanno po s’è spassato
i’ afferro ‘o pupo e ‘o faccio ‘na ‘mmasciata:
lle dico: “ Giuvinò, cagnate strata!
Volete fare il gallo
cu cchella pullanchella?
Va lla, vatté, ca sî ‘nu pappavallo!
Venitelo a vedé… etc.
Le espressioni e parole piú significative che penso di poter segnalare sono:
po’ voce verbale (pote←pote(st)→po(te)→po’ = puó (3à ps. sg. ind. pres. dell’infinito puté = potere voce dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -e°ntis.
po e non po’ = poi avv. di tempo, direttamente dal lat. po(st) e rammento che in napoletano le cadute finali di consonanti non necessitano di segni diacritici(apostrofi o accenti) necessarî invece nella caduta di vere sillabe: (cfr. ciò che accade per mo =ora derivante per me – come alibi ò scritto - da mox e non da modo o ancóra in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle,
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
- cuollo tuosto e puzine letteralmente: colletto duro e polsini (inamidati) anticipando all’incirca ciò che sarà reiterato sotto la voce ‘mpusumato del ritornello; tuosto che già esaminai altrove di per sé sarebbe tostato in quanto part. passato del verbo tostare, frequentativo di torrere = disseccare, tostare e dunque indurire;
- uommene deritte letteralmente: uomini diritti(dal lat.:dirictu(m)p.p. di dirigere) nel significato estensivo di uomini accorti, scaltri, furbi e dunque capaci di assicurarsi le grazie femminili;
- guajo ‘e notte letteralmente: guaio (occorso) di notte; guajo etimologicamente da un antico tedesco wàwa =disgrazia, sventura ed in senso piú limitato: calamità, fastidio, impiccio; riferito al bellimbusto vanesio della canzonetta è da intendersi nell’icastico primario senso di disgrazia o sventura; un guaio è sempre una cosa disdicevole, ma il napoletano lo à reso addirittura insopportabile addizionandolo con lo specificativo temporale di notte, periodo del giorno certamente il meno adatto per porre riparo ad un ipotetetico guaio cui, se occorso di giorno, si potrebbe, forse, trovare un rimedio, ma accadendo di notte se ne vede accrescere (e di tanto!) il suo fastidioso impiccio, non offrendosi – stante il tardo orario – possibilità di antidoto;
- spassà: letteralmente: divertirsi, prendere un godimento tal quale quello derivante da un’intesa fisica o anche solo spirituale con una donna; nella cennata canzonetta lo spassà (etimologicamente da un latino expassare iterativo di expàndere= distendere l’animo; dal medesimo expassare son derivati spasso=divertimento,godimento, nonché spassuso che è non chi si diverte, ma chi fa divertire, chi rallegra gli altri) indica solo un piú limitato svagarsi importunando o infastidendo la donna di riferimento, se non l’amoreggiare senza la necessaria serietà di intenzioni, serietà di intenti che non è mai ipotizzabile nello nfinfero;
- pupo letteralmente indicherebbe(etimologicamente da un latino pupu(m) che à la medesima radice di puer, pusus e putus) il fanciullo,ma nell napoletano con la parola pupo si è soliti indicare un pupazzo, un fantoccio e segnatamente il manichino usato nelle vetrine dei negozi di abbigliamento per esporre gli abiti in vendita: famosissimo a Napoli ‘o pupo ‘e Martone : il fantoccio di Martone (antico negozio di abbigliamento per bambini/e) usato per indicare chi si mostri o inceda agghindato di tutto punto, ma manchi della necessaria scioltezza, risultando troppo rigido ed impacciato; qui la parola pupo è usata un po’ per sostenere quanto affermato nella prima strofa circa la cennata vetrina, un po’ per sottolineare la rigidezza impacciata del bellimbusto protagonista della canzonetta;
- ‘mmasciata: letteralmente: ambasciata, ma qui raccomandazione pressante etimologicamente attraverso un antico provenzale embaissada da un originario latino:ambaxus per ambactus = servo mandato in giro, in quanto messaggio portato da un servo;
- pullanchella: letteralmente: pollastrella, gallina molto tenera e giovane e, per traslato, anche giovane ragazza,innamorata di primo pelo ed addirittura,(ma non qui in questa canzonetta), anche giovane prostituta; etimologicamente pullanchella è un diminutivo vezzeggiativo di pullanca dal latino pullus =pollo, ma per il tramite dello spagnolo pullancón/a = pollastrona;
- pappavallo: letteralmente: pappagallo, ma qui – come anche nel toscano – nell’accezione che connota chi è solito infastire le donne per istrada; nella conzonetta in esame lo nfifero viene indicato come chi non abbia la necessaria valenza che gli permetta di fare il gallo e si debba contentare d’essere solo un fastidioso pappagallo; interessante l’etimologia di pappavallo che è pervenuto al napoletano non per adattamento fonetico del pappagallo toscano, ma dal turco papagâi attraverso lo spagnolo papagayo→papavayo con tipica mutazione della g in v come ad es. in gulio/vulio= voglia o al contrario della v in g come ad es in guappo che è dal latino vappa. o in vorpa/volpa→golpa che è dal latino vulpe(m)
Raffaele Bracale
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