martedì 29 marzo 2011

VARIE 1103

VARIE 3

1. STÀ A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: stare, essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione estrema di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'abblativo della locuzione è appunto l'ablativo, cioè l’ultimo caso delle declinazioni latine, caso che indica il luogo in cui o da cui avviene/proviene l'azione, lo strumento o il modo dell'azione, la causa ecc.; la denominazione di ablativo è stata estesa poi anche ai casi terminali delle declinazioni di altre lingue indoeuropee: ed ambedue le voci derivano dal lat. ablativu(m) (casum), deriv. di ablatus, part. pass. di auferre 'portare via'; nella voce napoletana abbiamo il tipico raddoppiamento rafforzativo espressivo della labiale esplosiva b;
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un movimento; stare, trovarsi, essere;
2. STÀ MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per traslato adiacente, collegato, unito espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato ad altro, ma anche traslato riferito a cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m) o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
3 CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA...
Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso ciò che avviene per le famose mele annurche che raccolte non ancóra completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della maturazione che rendono annurco=indulcato→annulca(t)o→annurco il frutto.
tiempo= tempo dal lat. tempus con tipica dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve: ie←ĕ;
paglia = paglia, l'insieme degli steli disseccati dei cereali già mietuti e battuti con etimo dal basso lat.palia(m) o palea(m), ma nel napoletano forse per il tramite del catalano palla (cfr. pronunzia paglia)
ammaturano= maturano voce verbale (3° pers. plur.ind. pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv. di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost. femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat. mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare= addolcire deriva la voce annurca secondo il percorso indulcata→annulcata→annurca(ta),come ò già indicato, quantunque qualcuno un po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è limite!

5. STAMMO ALL'EVERA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6. HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: ÀI sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7. FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere un capitano e gòdine i benefici.
8 CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A CHI PARLA ARRETO, 'O CULO LE RISPONNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 A CRAJE A CRAJE COMME Â CURNACCHIA.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non ha seria intenzione di lavorare .
11 CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
12 'O PESCE GRUOSSO,SE MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande si mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è certamente lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande, checché ne dicano taluni arruffapopolo che blaterano di pretestuose lotte vittoriose condotte da poveri e deboli, accreditati di essere comandati da eroi senza macchia e senza paura… Sciocchezze! Gli eroi non esistono…
13 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
14 JÍ METTENNO 'A FUNE 'E NOTTE.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
15 SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
16 PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina âespleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
17 PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova,adiacente l’attuale via Nuova Marina infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri partiti dal centro storico della città e diretti al Camposanto.
18 CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
BRAK

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