mercoledì 31 luglio 2013
ARROSTO DI ANNECCHIA AL FORNO CON SALSA D’AGRUMI
ARROSTO DI ANNECCHIA* AL FORNO CON SALSA D’AGRUMI
Per la preparazione di questa succulenta ricetta, se si vuole ottener il miglior risultato occorre fornirsi in macelleria di un pezzo abbastanza grosso di carne non di manzo, ma rigorosamente di vitello/a anzi di *annecchia che con derivazione dal lat. annicula→anniclja→annecchia indica il vitello o la vitella molto giovane quella bestia cioè che sia stata macellata quando non abbia superato l’anno d’età ed abbia gustose carni sode, morbide e non grasse (occorrerà infatti avvolgerle con del lardo).
Ingredienti per 6 persone:
Un pezzo da 1,5 kg. a 2 kg. di pezza a cannella(altrove noce) di vitello/a giovanissimi,
1 grossa cipolla dorata mondata e tritata,
4 arance,
2 limoni,
50 gr di zucchero,
½ bicchiere d'aceto di vino rosso,
1 bicchiere dl di vino rosso,
1 cucchiaio colmo di fecola di mais o di patate,
2 cucchiai di sugna,
2 etti di lardo di fianco affettati sottilmente,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Salate e pepate la carne ed avvolgetela con le fettine di lardo. Mettetela in una pirofila verniciata di strutto con la cipolla mondata e tritata e cuocetela nel forno preriscaldato a 220° per 1 ora. Se dovesse scurire troppo, abbassate a 190°. Durante la cottura, irroratela spesso con dell’acqua bollente.
Prelevate la scorzetta di due arance con l'aiuto di un pelapatate in modo da non intaccare la parte bianca. Dividete le scorzette in striscioline sottilissime e scottatele per 1 minuto in acqua bollente, quindi scolatele. Pelate a vivo due arance e tagliatele a fette. Spremete i limoni e le altre due arance. Raccogliete i succhi e l'aceto in una ciotola e unitevi le scorzette.
Togliete la carne dalla pirofila e tenetela da parte al caldo. Versate il sugo in un pentolino e portatelo a ebollizione. Sfumate con il vino e abbassate la fiamma al minimo.
Mettete lo zucchero in un altro pentolino con 2 gocce di succo di limone e fate caramellare a fuoco medio. Quando il colore sarà ambrato, versate i succhi e l'aceto e fate ridurre di metà. Riunite i due liquidi in una pentola e unitevi le fette di arancia. Lasciate bollire per 1 minuto, quindi unite la fecola diluita con un cucchiaio di acqua e mescolate per 1 minuto ancora.
Disponete la carne su un piatto di portata caldo e distribuite intorno un po'di scorzette e di fettine d'arancia.
Servite la salsa caldissima a parte.
Questo gustoso arrosto può essere accompagnato oltre che con la sua salsina aromatica, con un contorno di patate fritte o in umido o con verdure bollite o cotte al vapore e condite all’agro con olio,aglio, sale e limone o aceto bianco.
P.S. Con lo stesso procedimento si può cucinare un grosso pezzo di arista di maiale evitandola di avvolgerla nel lardo in quanto già grassa e morbida di suo, con l’accortezza però di servirla caldissima.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
AGNELLO E SALSICCIA CON I FUNGHI
AGNELLO E SALSICCIA CON I FUNGHI
Ingredienti e Dosi per 6 persone:
1Kg. di salsiccia di maiale (a punta di coltello),
1 Kg. di groppa di agnello tagliato in grossi pezzi di cm. 5 x 3 x 2,
1/2 Kg. di funghi cardoncelli, 2 spicchi d' aglio mondati e tritati,
½ kg. pomidorini ciliegia,
1 etto di pecorino laticauda grattugiato,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento:
Porre in un tegame da forno ben unto d' olio, i pezzi di agnello lavati ed asciugati,i rocchi di salsiccia lavati e punzecchiati ed i funghi cardoncelli nettati e sfettati alla francese (taglio obliquo con lama posta a 45°). Aggiungere l' aglio sminuzzato, i pomidorini ciliegia tagliati in quattro, il sale, il pepe ed il pecorino grattugiato. Cospargere il tutto con olio e con due bicchieri d' acqua bollente ed infornare per un’ora a 220°. A metà cottura abbassare la temperatura portandola a 180°.
Piatto gustosissimo in cui i sapori forti della salsiccia e dell’agnello son mitigati dal delicato sapore dei cardoncelli, pur in presenza del formaggio pecorino!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
VARIE 2479
1.'O PURPO S'À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
2. DÀ 'NCOPP' Ê RECCHIE.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo, convinti di conoscere e sapere tutto o quasi lo scibile umano e d’essere attrezzati a risolvere ogni problema della vita quotidiana (sia propria che degli altri!) Nei loro confronti bisogna usare una sana metaforica violenza colpendoli sulle orecchie per fargliele abbassare.
3. N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A FORA...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí grosso)che non entri per intero nella eventuale pentola destinata all'uso. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esageratamente pezzo di merda da meritarsi di esser paragonato ad uno stronzo che ecceda i limiti della pentola.
4.TANTE VALLE A CANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente: parlano in tanti...
5.SÍ, SÍ QUANNO CURRE E 'MPIZZE...
Letteralmente: sí quando corri ed infili! La sarcastica locuzione sottolinea icasticamente lo sciocco comportamento di chi sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare e vale quasi: “quel che tu ti auguri avvenga,in realtà non avverrà mai!”. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
6.MADONNA MIA, MANTIENE LL'ACQUA!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o più dei contendenti.
7. OMMO 'E CIAPPA.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione ebbe origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cosiddetta repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino capula→cap(u)la→capla→clapa→ciappa) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di détta consorteria.
8.'A NAVE CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,rappresentando la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui è piú opportuno tradurre quando la nave va, la fava cuoce.
9. ESSERE 'NU CASATIELLO CU LL'UVA PASSA.
Letteralmente: essere una caratteristica torta rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi come la torta menzionata già greve di suo per esser preparata con una pasta lievitata intrisa abbondantemente di strutto e ripiena di molto formaggio, uova, salame, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
10. NCE VONNO 'E CQUATTE LASTE E 'O LAMPARULO.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si glori di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente.
11. ESSERE 'NU/’NA SECATURNESE.
Letteralmente: essere un sega tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo che circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli truffaldini guadagni: venne poi la carta-moneta, le monete d’oro e d’argento vennero ritirate dalla circolazione e finí il divertimento.
12. ESSERE 'NA MEZA PUGNETTA.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stante la ridottissima capacità fisica, intellettiva e morale essendo il risultato non di una normale copula, ma di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero.
13. ESSERE 'NA GALLETTA 'E CASTIELLAMMARE.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
14. 'E CURALLE LL'À DDA FÀ 'O TURRESE.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.
15. MO T''O PPIGLIO 'A FACCIA 'O CUORNO D''A CARNACOTTA
Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute (già sbiancate e lessate atte cioè ad essere consumate) o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono dapprima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita per il tramite d’un lungo spago e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di significare che ci si trovi nell'impossibilità o che manchi la volontà di aderire alle richieste.
16. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio eterno del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
17. DICETTE 'O SCARRAFONE: PO’ CHIOVERE 'GNOSTIA COMME VO’ ISSO, MAJE CCHIÚ NIRO POZZO ADDEVENTÀ...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
18. ABBACCA ADDÓ VENCE.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare (dal lat. volg.*ad-vadicare→avvad’care→avvaccare→abbaccare= andare verso qlcn) presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani.
Brak
VARIE 2478
1 FÀ COMME A SANTA CHIARA:
DOPP' ARRUBBATA CE METTETTENO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti a danno della antica chiesa partenopea.
2 A STRACCE E PPETACCE
Ad litteram: A stracci e brandelli; locuzione usata per indicare sarcasticamente tutte le azioni fatte in modo discontinuo, con scarsa applicazione, a morsi e bocconi, azioni che lasciano presagire risultati pessimi.
stracce s. m. plurale di straccio= pezzo di tessuto logoro, riutilizzabile industrialmente per la fabbricazione di carta e tessuti o impiegato in usi domestici per pulire e spolverare (in quest'ultimo caso, anche come prodotto commerciale specificamente fabbricato a tale scopo); nella loc. ‘nu straccio ‘e, (fam.) per indicare cosa o persona qualsiasi, di poco conto: nun tène ‘nu straccio ‘e vestito ‘a metterse ‘ncuollo=addosso; ‘nu straccio ‘e marito, ‘e mugliera; nun tene neppure ‘nu straccio ‘e amico pe se cunfidà; spec. pl. indumento logoro e dimesso: jí in giro vestuto ‘e stracce.
quanto all’etimo, straccio è un deverbale di stracci-are/à che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre';
petacce s.f. plurale di petaccia = cencio, brandello, straccio ed estensivamente abito di tessuto logoro; piú in generale con tutte le accezioni del precedente straccio, ma con valore accresciuto nel negativo: cchiú ca ‘nu straccio era ‘na petaccia!
quanto all’etimo, petaccia appare a taluno un derivato dello spagnolo pedazo= pezzo ma a mio avviso non è errato vedervi un derivato del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica = pezza secondo il seguente percorso morfologico: pettia(m)→pet(ti)a(m) + il suff. dispregiativo aceus/a→accio/a; tuttavia è anche ipotizzato un lat. volg. *pitacium accanto al classico pittacium/pittacia= cencio, brandello. C’è da scegliere, quantunque a me piaccia la derivazione dal lat. volg. *pettia(m).
3 'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda,una tunica di cipolla. È il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
4 NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla, per cui è buona norma che taccia e non esprima giudizi o pareri.
5 TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE; TANTA GLIUOMMERE 'A DO' 'E CCACCE?
Letteralmente: Tu non cuci, non fili e non tessi, tanti gomitoli da dove li tiri fuori? Tale domanda sarcastica la si rivolge a colui che fa mostra di una inesplicabile, improvvisa ricchezza; ed in effetti posto che colui cui viene rivolta la domanda non è impegnato in un lavoro che possa produrre ricchezza, si comprende che la domanda è del tipo retorico sottintendendo che probabilmente la ricchezza mostrata è frutto di mali affari. È da ricordare anche che il termine gliummero =gomitolo dal lat. glomus)indicava, temporibus illis, anche una grossa somma di danaro corrispondente a circa 100 ducati d'argento.
6 MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. E' una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
7 FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze.
8 SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
9 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
10 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
11 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DA 'E MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
12 TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefíci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
13 POZZA MURÍ 'E TRUONO A CCHI NUN LE PIACE 'O BBUONO.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano TRUONO significa sia tuono che percosse violente.
14 'A FORCA È FATTA P''E PUVERIELLE.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccaggione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.
15 DARSE 'E PIZZECHE 'NCOPP' Â PANZA.
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. E' il consiglio che si dà a chi ad una contrarietà sarebbe pronto a render la pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare assestandosi dei pizzichi sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronto a scatenare una guerra!
16 'NCOPP' Ô MUORTO SE CANTA 'O MISERERE.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto del danno patito, mai prima.
17 BBUONO PE SCERIÀ 'A RAMMA.
Letteralmente: buono per pulire le stoviglie di rame. Cosí in modo quasi rabbioso viene definito un frutto cosí aspro di sapore da non essere edibile, ma che può solo servire alla pulizia delle pentole di rame. Un tempo, quando non esistevano acciai inossidabili o allumini leggeri, le pentole erano in rame opportunamente ricoperte di stagno; per la loro pulizia e lucidatura ci si serviva di pietra pomice, arena 'e vitrera (sabbia da vetraio ricca di silice), e limoni con i quali si soffregavano le pentole fino a detergerle e addirittura farle luccicare. Per traslato, la locuzione in epigrafe si attaglia anche a chi è di carattere cosí aspro e spigoloso da non consentire ad alcuno di avervi rapporti.
18 PISCIÀ ACQUA SANTA P''O VELLICULO.
Letteralmente: orinare acqua santa dall'ombelico. La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa.
19 Ê TIEMPE 'E PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in un tempo lontanissimo. Cosí vengono commentate cose di cui si parli che risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE della locuzione non è la famosa maschera creata dal compianto attore napoletano Peppino De Filippo; ma è la corruzione del cognome PAPPACODA antichissima e nobile famiglia partenopea che à lasciato meravigliosi retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie strade napoletane.
20. ARRETÍRATE, PIRETO!
Letteralmente: Ritirati, peto! Imperiosa ed ingiuriosa invettiva rivolta verso chi, per essere andato fuori dei limiti consentiti, si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla sua sede vi possa rientrare a comando...
21. A 'NU PARMO D''O CULO MIO, FOTTE CHI VO’.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere, si diverta chi vuole. Id est: fate pure i vostri comodi, purchè li facciate lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi arrechiate danno!
22. DICETTE 'O MIEDECO 'E NOLA: CHESTA È 'A RICETTA E CA DDIO T''A MANNA BBONA...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati positivi.
23. FÀ 'NU QUATTO 'E MAGGIO.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni. Nel lontanissimo 1611 il vicerè Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si operavano nella città di Napoli, fissò appunto al 4 di maggio la data fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il giorno 4, da allora divenne la data nella quale gli inquilini erano soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili concessi in fitto.
24. S'À DDA ÒGNERE L'ASSO.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti.
25 PARÉ 'NU PIRETO ANNASPRATO.
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo si dice salacemente di chi si dia troppe arie, atteggiandosi a superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
26. L'ACCÍOMO Ê BBANCHE NUOVE.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che dovrebbero costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subiti dai saldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
27. CHI TÈNE CUMMEDITÀ E NUN SE NE SERVE, NUN TROVA 'O PREVETE CA LL'ASSOLVE.
Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma pure un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.
28. QUANNO NUN SITE SCARPARE, PECCHÉ SCASSATE 'O CACCHIO Ê SEMMENZELLE?
Letteralmente: poiché non siete ciabattino, perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.
29. 'A RIGGINA AVETTE BISOGNO D''A VICINA.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una società dove nessun uomo è un'isola.
30. METTERE A UNO 'NCOPP' A 'NU PUORCO.
Letteralmente: mettere uno a cavallo di un porco. Id est: sparlar di uno, spettegolarne, additarlo al ludibrio degli altri, come avveniva anticamente quando al popolino era consentito condurre alla gogna il condannato trasportandolo a dorso di maiale – animale di cui la città di Napoli brulicava essendo detta bestia allevata da chiunque e dovunque – affinché il condannato venisse notato da tutti e fatto segno di ingiurie e contumelie.
31 SENZA D’‘E FESSE NUN CAMPANO 'E DERITTE.
Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono i furbi; id est: in tanto prosperano i furbi in quanto vi sono gli sciocchi che consentano loro di prosperare.
32 'O PURPO S'À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
33 DÀ 'NCOPP' Ê RECCHIE.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana violenza colpendoli, sia pure metaforicamente, sulle orecchie per fargliele abbassare.
34 N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A FORA...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí grosso)che non entri per intero nella ipotetica pentola destinata all'uso della bollitura. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri per pensiero e/o azione, cosí esageratamente pezzo di merda da eccedere i limiti della ipotetica pentola in cui dovrebbe esser bollito.
35 TANTE GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente? Parlano in tanti... come si vuole che giungano ad una conclusione pratica
36 SEH, SEH QUANNO CURRE E 'MPIZZE!..
Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non potrà avvenire, nè avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
37 MADONNA MIA, MANTIENE LL'ACQUA!
Letteralmente: Madonna mia reggi l'acqua. Id est: fa’ che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
38 OMMO 'E CIAPPA.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione à origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cd repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
39 'A NAVE CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui è piú opportuno tradurre se la nave va, la fava cuoce.
40 ESSERE 'NU CASATIELLO CU LL'UVA PASSA.
Letteralmente: essere (simile ad) una caratteristica torta rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi come la torta menzionata già greve di suo per avere tra i suoi ingredienti numerosissime uova e pinoli, tutte cose che ad alcuni risultano grevi ed indigesti, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
41 NCE VONNO 'E CQUATTE LASTE E 'O LAMPARULO.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si gloria di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente .
42 JIRSENE CU 'NA MANA ANNANZE E N'ATA ARRETO.
Letteralmente: andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove aveva eseguito la cessio bonorum – in napoletano: zitabona -, aveva cioè poggiato le nude natiche su di una colonnina posta innanzi al tribunale a dimostrazione di non aver piú niente. La locuzione perciò significa e si usa per indicare chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.
43 A - MIETTE MANO Â TELA
B - ARRICIETTE 'E FIERRE
Le due locuzioni indicano l'incipit e il termine di un'opera e vengono usate nelle precise circostanze da esse indicate, ma sempre con un valore di sprone; sub A: metti mano alla tela, ossia, prepara la tela ché è giunto il momento di cominciare il lavoro. sub B: metti a posto i ferri, è giunta l'ora di lasciare il lavoro.
44 ESSERE 'NU/’NA SECATURNESE.
Letteralmente: essere un/una sega tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo in cui circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
45 ESSERE 'NA MEZA PUGNETTA.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stante la ridottissima capacità fisica, intellettiva e morale essendo iperbolicamente il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero.Espressione da usarsi per dileggio nei confronti di uomini piccoli o minuti.
46 ESSERE 'NA GALLETTA 'E CASTIELLAMMARE.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
47 'E CURALLE – oppure ‘O CURALLARO - LL'À DDA FÀ 'O TURRESE.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.
48 MO T''O PPIGLIO 'A FACCIA 'O CUORNO D''A CARNACOTTA
Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute già atte ad essere consumate o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad òc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di significare che ci si trovi nell'impossibilità di aderire alle richieste.
49 PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo kuffa/quffa= corbello.
50 DICETTE 'O SCARRAFONE: PO’ CCHIOVERE 'GNOSTIA COMME VO’ ISSO, MAJE CCHIÚ NIRO POZZO ADDEVENTÀ...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
Brak
N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, ETC.
N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A FORA...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei un cosí grosso stronzo )che non entri per intero nella ipotetica pentola destinata all'uso della lessatura. Iperbolica e barocca locuzione-offesa (forse un po’ becera…, ma divertentissima!) usata nei confronti di chi si dimostri per pensiero e/o azione, cosí esageratamente pezzo di merda da eccedere i limiti della pentola in cui dovrebbe o potrebbe esser lessato/bollito.
aggio scaurato= ò bollito, ò lessato voce verbale (1ª pers. sg. pass. pross.) dell’infinito scaurare/scaurà = scaldare, render caldo, cuocere, lessare,bollire derivato dal latino volgare ex (intensivo) + caldàre←calidare con tipica alternanza osco-mediterranea d/r e consueto passaggio di al→au come altrove da altus→àuto→àveto= alto o da alter→àuto→ato= altro.
strunze = stronzi plurale metafonetico di stronzo= stronzo
s. m. (volg.) escremento solido di forma cilindrica
(fig.) persona stupida, odiosa, cattiva, maligna (e son queste le accezioni considerate per la voce in epigrafe) dim. stronzetto, stronzino. con etimo dal long. strunz = sterco;
jesce= esci voce verbale (2ͣ pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ascire/ascí = uscire ma qui debordare, tracimare con etimo dal tardo lat. ab-exire→*a-(e)xire→assire→ascire;
piere/i= piedi, estremità plur. metafonetico di pere= piede con etimo dal lat. pede(m) con tipica alternanza osco-mediterranea d/r.
‘a fora = da/di fuori loc. avv. di moto da luogo;
‘a (da non confondere con ‘a= la art. determ. femm.) è la prep. semplice da che deriva dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc;
fora = fuori avv. di luogo; la voce partenopea deriva dal lat. fora-s e non da fori-s (da cui invece l’italiano fuori) come si evince – nel napoletano – dalla mancanza di dittongazione e/o metafonia Raffaele Bracale 21/02/07
martedì 30 luglio 2013
VARIE 2477
1.Ê CANE DICENNO
letteralmente: dicendo ai cani locuzione pronunciata magari accompagnata da un gesto scaramantico con la quale si vuol significare: non sia mai!, accada ai cani e non a noi, ciò che stiamo dicendo!
2. A MMORTE ‘E SÚBBETO.
Ad litteram: a morte subitanea id est: repentinamente, senza por tempo in mezzo; detto soprattutto in riferimento ad ordini da eseguirsi, come indicato in epigrafe, con la stessa immediatezza di una morte repentina.
3. AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Ad litteram: Ò visto la morte con gli occhi Con questa tautologica locuzione si esprime chi voglia portare a conoscenza degli altri di aver corso un serio, grave pericolo tale d’averlo portato ad un passo dalla morte, vista da molto vicino e di esserne venuto fortunatamente fuori, tanto da poterlo raccontare.
4. ACCURTÀ ‘E PASSE A QUACCHEDUNO
Ad litteram:accorciare (ridurre) i passi a qualcuno; id est: ridimensionare i movimenti di qualcuno al fine di impedirgli di procedere oltre; detto soprattutto di chi - mostratosi troppo saccente e supponente - si stia comportando, conseguentemente, con boria e vacua baldanza; ebbene è buona norma che costui venga ridimensionato, con parole ed atti, perché comprenda quali sono i limiti nei quali deve muoversi e non li ecceda.
5. ACCUSSÍ À DDA JÍ
Ad litteram : cosí deve andare; fatalistica espressione con la quale a Napoli si suole accettare tutte quelle situazioni che non possono essere eluse o evitate ed alle quali perciò bisogna - sia pure obtorto collo - soggiacere.Talvolta per completamento della frase in epigrafe ed a significare un totale abbondono nell’ Ente supremo che muove tutti gli accadimenti umani, si aggiunge un religioso e rassegnato e accussí sia ( e cosí sia).
6. ACCUSSÍ VA ‘O MUNNO
Ad litteram: cosí va il mondo: espressione analoga alla precedente, ma con un piú marcato senso di impotenza davanti alla ineluttabilità di taluni avvenimenti, che – in qualsiasi parte del mondo – evolvono nella medesima maniera...
7.ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE
Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procurare, a colui cui è rivolta, un grave, gravissimo anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli francesi che nell’abbondonare l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata con due significati, uno meno grave, l’altro piú duro; nel significato meno duro l’espressione significa mancare a un impegno, a un appuntamento; nel significato piú minaccioso l’espressione è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; infatti con l’espressione T’aggi’ ‘abbruscià ‘o paglione! si vuol significare: Devo arrecarti tutto il danno possibile, bruciandoti persino il pagliericcio su cui dormi, per non darti piú modo neppure di riposare!
Anticamente l’espressione in epigrafe valeva come minaccia di sodomizzazione. ma è difficile comprende quale sia il percorso semantico seguíto per apparentare il paglione (pagliericcio) con la sodomizzazione; si può ipotizzare ragionevolmente che si sia usato il termine paglione come figura estensiva di un fondoschiena gonfio tal quale un pagliericcio imbottito; va da sé che una pratica sodomitica comporterebbe un’infiammazione del fondoschiena tale da lasciarlo quasi ardente, quasi come per una ustione. )
abbruscià = bruciare, ardere, incendiare,consumare, distruggere, rovinare con l'azione del fuoco o del calore.
l’etimo è da un lat. volg. ad+brusiare→abbrusiare→abbrusciare/à
paglione s. m. = pagliericcio, saccone pieno di paglia o foglie secche usato come materasso; quanto all’etimo paglione è un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) di paglia che è dal lat. palea
8. Â CASA D’’O FERRARO, ‘O SPITO ‘E LIGNAMMO.
ad litteram: in casa del fabbro, lo spiedo è di legno; locuzione usata ad ironico commento di tutte quelle situazioni nelle quali, per accidia o insipienza dei protagonisti vengono a mancare elementi che invece si presupponeva non potessero mancare e ci si deve accontentare di succedanei spesso non confacenti.
9. ‘A CARNA TOSTA E ‘O CURTIELLO SCUGNATO.
ad litteram: la carne dura ed il coltello senza taglio. Icastica locuzione che si usa a dolente commento di situazioni dove concorrano due o piú elementi negativi tali da prospettare un sicuro insuccesso delle operazioni intraprese. Altrove per significare la medesima cosa s’usa l’espressione illustrata al numero successivo.
10. AIZÀRSE ‘NU CUMMÒ
ad litteram: caricarsi addosso un canterano; detto di chi abbia impalmato una donna anziana, non avvenente e, a maggior disdoro, priva di congrua dote. Si ritiene che chi abbia fatto un simile matrimonio, abbia compiuto uno sforzo simile a quello di quei facchini addetti a trasporti, facchini che sollevavano e si ponevano sulle spalle pesanti cassettoni di legno massello, sormontati da pesanti lastre di marmo.
aizar(se) = sollevar(si), alzar(si), caricar(si) di qualcosa; voce verbale infinito derivato dal lat. altiare→auziare→aizare;
cummò s.m. = canterano, cassettone voce derivata dal francese commo(de).
11. CH’HÊ VISTO? GIAMBATTISTA ‘INT’Ô CANISTO?
Ad litteram: Cosa ài veduto? (la testa) di Giambattista nel canestro? Domanda ironica rivolta per dileggio a chi senza un acclarato, evidente, cogente motivo si mostri con il volto segnato dal raccapriccio, dal terrore, dalla paura, dallo spavento, nonché dal ribrezzo quasi che sia reduce dalla agghiacciante, orribile, orrenda, spaventosa, ripugnante visione di una testa mozzata. Nella fattispecie si suppone che la testa mozzata sia quella d’ un tal Giambattista che piú precisamente è il cugino precursore di Nostro Signore Gesú Cristo cioè Giovanni il Battista che [come riportato nella sacra scrittura (Vangelo di Marco 6,14-29)] fu decapitato per ordine di Erode e gliene fu recata la testa su di un vassoio. È di tutta evidenza che nell’espressione in esame, per non perdere l’espressività d’ una rima la testa, in luogo d’esser mostrata su di un vassoio, è mostrata in un canestro (in napoletano canisto che rima acconciamente con Giambattista). Va da sé che o vassoio o canestro non cambia la sostanza dell’orripilante visione, tale da generare pauroso sgomento, terrore, panico. Altrove con analoga valenza chi senza un acclarato, evidente, cogente motivo si mostri con il volto segnato dal raccapriccio, dal terrore viene considerato sarcasticamente
alla medesima stregua di un
12. PULICENELLA SPAVENTATO DÊ MMARUZZE. id est: Pulcinella spaventato dalla visione di un secchio colmo di innocue lumache, cosí come in una divertente farsa di Antonio Petito.
13. LEVARSE ‘E PÀCCARE ‘A FACCIA.
Ad litteram: togliersi gli schiaffi da faccia; poiché è impossibile fare materialmente ciò che è affermato nella locuzione,è chiaro ch’essa deve intendersi nel senso figurato di riscattarsi da un’onta subíta, lavarsene, in una parola: vendicarsi , fieramente ricambiando il male ricevuto.
14. LEVARSE ‘O SFIZZIO.
Ad litteram: togliersi il gusto, nel senso di raggiungere, conquistandeselo, l’appagamento di una intensa voglia di un desiderio a lungo covato e finalmente raggiunto. il termine sfizzio (correttamente scritto in napoletano con due zeta) deriva con qualche probabilità dal latino satis -facio e ne conserva il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza.
Non manca però coloro (ed io mi ci accodo) che propendono non a torto per un’etimologia greca da un fuxis(evasione) con tipica prostesi della S intensiva partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità. 15. METTERE LL’ASSISE Ê CETRÓLE nell’espressione VA METTENNO LL’ASSISE Ê CETRÓLE
Ad litteram: mettere il calmiere ai cetrioli nell’espressione va ponendo il calmiere sui cetrioli. Icastica espressione con la quale si stigmatizza il comportamento sciocco di chi dedica il proprio tempo ad attività inutili, pretestuose ed inconferenti quale quella di calmierare il prezzo dei cetrioli, ortaggio che sebbene sia di largo consumo, per solito è a buon mercato e non v’è bisogno che se ne calmieri il prezzo; per traslato, l’espressione in esame viene riferita ad ogni attività che si riveli inutile e per ciò stesso sciocca.
16. MIÉTTELE NOMME PENNA!
Letteralmente vale : Chiamala penna!; Cosí suole, a mo’ di sfottò, consigliare chi vede qualcuno prestare un oggetto a persona che si ritiene non restituirà mai il prestito, volendo significare: “Ài prestato l’oggetto a quella tale persona? Ebbene, rasségnati a perderlo; non rivedrai mai piú il tuo oggetto che, come una piuma d’uccello è volato via!”
La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Rammento che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta (dal valore irrisorio di mezzo e poi un ventesimo di grano. corrispondente a circa 2,1825→02,18 lire italiane) , moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi. Brak
VARIE 2476
1.È 'na bbella jurnata e nisciuno se 'mpenne.
Ad litteram: È una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
2. 'E meglio affare so' cchille ca nun se fanno.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è piú conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
3. Quanno 'e figlie fòttono, 'e pate so' futtute.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fòttono (voce verbale 3° p. pl. ind. pres. dell’infinito fóttere dal lat. futúere)non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma piú chiaramente quello compiuto a pagamento per divertimento o vizio; il medesimo atto compiuto nell’àmbito del rapporto coniugale esula da quanto affermato in epigrafe.
4. Primma t'aggi''a 'mparà e ppo t'aggi''a perdere....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Cosí son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
5.'Na mela vermenosa ne 'nfraceta 'nu muntone
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale, di indole malvagia o peggiore, per rovinare tutti gli altri.
6. Chella ca ll'aíza 'na vota, ll'aíza sempe.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che, per darsi, tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; piú estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere, o a comportarsi male altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
7. Chella cammisa ca nun vo' stà cu tte, pigliala e stracciala!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.
8. Â sera so' bastimienti, â matina so' varchetelle.
Ad litteram: a sera sono grosse navi, di mattina piccole barche.Con il mutare delle ore del giorno, mutano le prospettive o le proporzioni delle cose; cosí quegli accadimenti che di sera sembrano insormontabili problemi, passata la notte, alla luce del giorno, si rivelano per piccoli insignificanti intoppi.
9. O chesto, o cheste!
Ad litteram: o questo, o queste.La locuzione viene profferita, a Napoli quando si voglia schernire qualcuno con riferimento alla sua ottima posizione economica-finanziaria; alle parole devono essere accompagnati però precisi gesti: e cioè: pronunciando la parola chesto bisogna far sfarfallare le dita tese delle mano destra con moto rotatorio principiando dal dito mignolo e terminando col pollice nel gesto significante il rubare; pronunciando la parola cheste bisogna agitare la mano destra atteggiandola a mo' di corna,(tenendo cioè tesi e distesi indice e mignolo e serrate contro il palmo le altre dita) per significare complessivamente che le fortune di chi è preso in giro sono state procurate o con il furto o con le disonorevoli azioni della di lui moglie, figlia, o sorella, inclini a farsi possedere per danaro.
10.Cu 'o furastiero, 'a frusta e cu 'o paisano 'arrusto.
Ad litteram: con il forestiero occorre usare la frusta (per scacciarlo)mentre con il compaesano bisogna servirlo di adeguato sostentamento, proverbio che viene di lontano ed è attualissimo, quantunque proverbio un po’ strano per la filosofia comportamentale del popolo napoletano,abituato da sempre ad accogliere chicchessia e per solito ligio ai precetti divini del soccorso e dell’aiuto fraterno anche verso gli stranieri.
Furastiero s.vo ed agg.vo m.le= che, chi proviene da un altro paese; voce che è dal fr. ant. forestier, deriv. del lat. foris 'fuori';
paisano s.vo ed agg.vo m.le =1 abitante di paese (talora con sfumatura spreg.)
2 e qui compaesano; voce derivata del sost. paese (che a sua volta è dal lat. *pagensis agg.vo, der. di pagus «villaggio») con l’aggiunta del suff. di appartenenza aneus→ano.
11. A lume 'e cannela spedocchiame 'o pettenale.
Ad litteram: a lume di candela, spidocchiami il pettinale (id est: monte di Venere). Il proverbio è usato per prendersi giuoco o sarcasticamente redarguire chi, per ignavia, rimanda alle ore notturne ciò che potrebbe fare piú agevolmente e proficuamente alla luce diurna.
pettenale s.m. = monte di Venere, pube, pettignone dal lat. pectinale(m).
12.Chi tène mali ccerevelle, à da tené bboni ccosce.
Ad litteram: chi à cattiva testa, deve avere buone gambe. Id est: chi è incline a delinquere, deve avere buone gambe per potersi sottrarre con la fuga al castigo che dovesse seguire al delitto.Inteso in senso meno grave il proverbio significa che chi dimentica di operare alcunché deve sopperirvi con buone gambe per recarsi a pigliare o a fare ciò che si è dimenticato di fare o prendere.
13.Quanno 'e mulinare fanno a ponie, strigne 'e sacche.
Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio.
14.Meglio magnà poco e spisso ca fà unu muorzo.
Ad litteram: meglio mangiar poco e spesso che consumar tutto in un solo boccone. Contrariamente a quel che si possa pensare, il proverbio non è una norma statuita da qualche scuola medica che consigli di alimentarsi parcamente senza dar fondo alle vettovaglie; è invece un consiglio epicureo che spinge a piluccare, (per estendere al massimo - nel tempo -il piacere della tavola), piuttosto che esaurirlo in pochissimo spazio di tempo.
15.Tre songo 'e ccose ca strudono 'na casa: zeppole, pane caudo e maccarune.
Ad litteram:Tre sono le cose che mandano alla rovina una casa: focaccine dolci, pane caldo, maccheroni. Da sempre a Napoli, le spese per l'alimentazione ànno costituito un grosso problema; il proverbio in epigrafe elenca quali furono una volta gli alimenti molto cari, che producevano grossi problemi alle vuote tasche dei napoletani; essi alimenti erano: le focaccine dolci, molto appetite dai golosi, il pane caldo cioè fresco che veniva consumato in quantità maggiore di quello raffermo, ed i famosi maccheroni che all'epoca costavano molto piú della verdura; oggi tutto costa di piú, per cui è difficile fare un elenco delle cose che posson mandare in malora l'economia di una casa.
16.Addó hê fatto 'o palummaro? Dinto â vasca d''e capitune?!
Ad litteram: dove ài imparato a fare il sommozzatore? Nella tinozza dei capitoni?!La frase è usata sarcasticamente quando ci si voglia prender giuoco di qualcuno che si atteggia a baldanzoso esperto di qualcosa di cui in realtà non à esperienza, come di un operaio subacqueo che, in luogo delle profondità marine, manichette o pompe idrovore abbia avuto rapporti con la sola acqua contenuta nelle tinozze dove vengono messi le anguille o i piú grossi capitoni.
Palummaro s.vo m.le = Chi fa il mestiere di scendere sott’acqua, completamente immerso, per compiere una determinata operazione; voce napoletana, voce poi pervenuta nell’italiano come palombaro, usata come ò detto per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palumbariu(m) 'sparviero', perché chi fa tale mestiere, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cali sulla preda.
17. 'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
18. E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
19.Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
20.Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce e il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
21.A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
22.Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
23.Zitto chi sape 'o juoco! ZITTO CHI SAPE 'O JUOCO!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.La locuzione fu in origine sulla bocca dei saltimbanchi che si esibivano a nelle strade adiacenti la piazza Mercato e/o Ferrovia, nel bel mezzo di una cerchia di monelli e/o adulti perdigiorno che non potendosi permettere il pur esiguo costo di un biglietto per accedere ai teatrini zonali ed assistervi a gli spettacoli, si accontentavano di quelli fatti in istrada da girovaghi saltimbanchi che si esibivano su palcoscenici di fortuna ottenuti poggiando delle assi di legno su quattro o piú botti vuote. Spesso tali spettatori abituali, per il fatto stesso di aver visto e rivisto i giochi fatti da quei saltimbanchi/ prestigitatori di strada avevano capito o carpito il trucco che sottostava ai giochi ed allora i saltimbanchi/ prestigitatori che si esibivano con la locuzione zitto chi sape 'o juoco! invitavano ad una sorta di omertà gli astanti affinché non svelassero ciò che sapevano o avevano carpito facendo perdere l’interesse per il gioco in esecuzione, vanificando la rappresentazione e compromettendo la chétta, la raccolta di monete operata tra gli spettatori, raccolta che costituiva la magra ricompensa per lo spettacolo dato. Per traslato cosí, con la medesima espressione son soliti raccomandarsi tutti coloro che temendo che qualcuno possa svelare imprudentemente taciti accordi, quando non occultati trucchi, chiedono a tutti un generale, complice silenzio.Rammento infine a completamento dell’illustrazione della locuzione un’altra espressione che accompagnava quella in esame: ‘a fora ‘o singo! e cioè: Fuori dal segno! Che era quello che tracciato con un pezzo di gesso rappresentava il limite invalicabile che gli spettatori non dovevano oltrepassare accostandosi troppo al palcoscenico, cosa che se fosse avvenuta poteva consentire ai contravventori di osservare piú da presso le manovre dei saltimbanchi/ prestigitatori, scoprendo trucchi e manovre sottesi ai giochi, con tutte le conseguenze già détte.
24.Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato. Il proverbio in epigrafe, in fondo rende l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo!
25.Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che le soddisfi le voglie sessuali.
26.Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche ccazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te). Amaro, pessimistico proverbio con il quale si significa che, nella vita, non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono forse - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano soltanto per carpirti qualcosa.
27.Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
28. Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
29.'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere veramente buoni) devono essere di antica data.
30.'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
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VARIE 2475
1. PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembra Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinellesche del teatro di A. Petito.
2. PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffigurati in pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
3. MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP'Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato, ma vivo, che morto impiccato.
4.FUTTATENNE!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si sta adontando o si sta preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNA' FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
5. FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
6. FÀ TRENTA E UNO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno non v'è che un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X( che nato Giovanni di Lorenzo de' Medici (Firenze, 11 dicembre 1475 – †Roma, 1º dicembre 1521), fu il 217º papa della Chiesa cattolica dal 1513 alla sua morte e fu sensibile a sollecitazioni nepotistiche e non solo.,nonché proclive alla concessione della porpora cardinalizia) che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò ex abrupto un trentunesimo non previsto.
7.ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
8. ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
9.'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Berta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata ironicamente per sottolineare l'inconsistenza di un quid ricevuto o come dono,o come dovuto specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
10.ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE
Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procurare, a colui cui è rivolta, un grave, gravissimo anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli francesi che nell’abbondonare l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata con due significati, uno meno grave, l’altro piú duro; nel significato meno duro l’espressione significa mancare a un impegno, a un appuntamento; nel significato piú minaccioso l’espressione è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; infatti con l’espressione T’aggi’ ‘abbruscià ‘o paglione! si vuol significare: Devo arrecarti tutto il danno possibile, bruciandoti persino il pagliericcio su cui dormi, per non darti piú modo neppure di riposare!
Anticamente l’espressione in epigrafe valeva (ma non si comprende per quale percorso semantico!) come minaccia di sodomizzazione.
abbruscià = bruciare, ardere, incendiare,consumare, distruggere, rovinare con l'azione del fuoco o del calore.
l’etimo è da un lat. volg. ad+brusiare→abbrusiare→abbrusciare/à
paglione s. m. = pagliericcio, saccone pieno di paglia o foglie secche usato come materasso; quanto all’etimo paglione è un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) di paglia che è dal lat. palea
11. Â CASA D’’O FERRARO, ‘O SPITO ‘E LIGNAMMO.
ad litteram: in casa del fabbro, lo spiedo è di legno; locuzione usata ad ironico commento di tutte quelle situazioni nelle quali, per accidia o insipienza dei protagonisti vengono a mancare elementi che invece si presupponeva non potessero mancare e ci si deve accontentare di succedanei spesso non confacenti.
12. ‘A CARNA TOSTA E ‘O CURTIELLO SCUGNATO.
ad litteram: la carne dura ed il coltello senza taglio. Icastica locuzione che si usa a dolente commento di situazioni dove concorrano due o piú elementi negativi tali da prospettare un sicuro insuccesso delle operazioni intraprese. Altrove per significare la medesima cosa s’usa l’espressione di cui al successivo numero.
13. S’È AUNITO ‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO TIRITEPPE ad litteram: si è sommata ad una fune corta, una trottolina ballonzolante; tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come ad esempio nel caso di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Brak
CÀLMATE LIBBÒ, CA ‘O CARCERE FÈTE ‘E PIMMECE!
CÀLMATE LIBBÒ, CA ‘O CARCERE FÈTE ‘E PIMMECE!
Anche questa volta faccio sèguito ad un quesito rivoltomi dall’amico N.C. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) occupandomi dell’espressione in epigrafe,per chiarirgliene uso e genesi.
Entro súbito in medias res traducendo la locuzione che ad litteram vale: Mantieniti calmo Liborio giacché il carcere maleodora di cimici. L’icastica espressione [da completare con un sottinteso E tu potresti finirci dentro] è una sorta di ammonimento fatta ad un soggetto privo di scrupoli ed incline a comportamenti aggressivi, violenti, pericolosamente lesivi della incolumità altrui. A costui si consiglia di recedere da ógni violento e/o impetuoso, malvagio e deleterio modo di condursi rispetto a decisioni da prendere, a soluzioni da dare a questioni specifiche e piú in generale di recedere dal suo consueto modo di di agire nei rapporti interpersonali evitando di tenere ad un dipresso gli atteggiamenti funesti del famigerato don Liborio Romano,al quale viene rapportato il soggetto a cui viene rivolto l’ammonimento; rammento infatti che il viscido ed infido don Liborio Romano fu un uomo politico (Patú, Lecce, 1793-†ivi 1867), docente di diritto nell’Univ. di Napoli, fu allontanato dall’insegnamento per aver preso parte alla rivoluzione del 1820-21. Imprigionato, fu confinato a Lecce e nel 1826 fu di nuovo arrestato con l’accusa di appartenere alla società segreta degli Ellenisti; liberato (1827), si trasferì a Napoli dove esercitò l’avvocatura. Nel 1848 fu tra i firmatari della petizione indirizzata a Ferdinando II per ottenere la Costituzione. Nuovamente imprigionato (1850-1852), fu costretto all’esilio in Francia, da cui rientrò nel 1854. Quando nel 1860 la monarchia borbonica, minacciata da G. Garibaldi, concesse riforme costituzionali, fu nominato prefetto di polizia e in seguito ministro dell’Interno ed in questa veste tenne un comportamento davvero poco commendevole, anzi riprovevole prendendo accordi con la camorra e segnatamente con tal Salvatore De Crescenzo detto “Tore ‘e Criscienzo” capo indiscusso della camorra di allora;il Romano, nonostante il suo ruolo, assegnò a quel “Tore ‘e Criscienzo” ed ai suoi affiliati, il compito del mantenimento dell'ordine pubblico nella capitale, nonché quello di favorire l'ingresso in città di Garibaldi, invitandoli ad entrare nella "Guardia cittadina", in cambio dell'amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e un "ruolo" pubblicamente riconosciuto. Eventi che portarono il De Crescenzo ad essere considerato come "il piú potente dei camorristi".Va da sé che il comportamento del Romano fu a dir poco disdicevole avendo dato egli mano libera a camorristi, baldracche e gente di malaffare che per mantenere l’ordine usarono sistemi tutt’altro che lodevoli, fatti di angherie e soprusi per i quali chiunque altro avrebbe meritato la galera; per non parlare poi della parte avuta dalla camorra nell’invasione di Garibaldi allorché, come scriveva nel 1868 lo storico Giacinto De Sivo: «La rivoltura del '60 si dirà de' Camorristi, perché da questi goduta. [...] Il Comitato d'Ordine comandò s'abbattessero i Commissariati di polizia; e die' anzi prescritte le ore da durare il disordine. Camorristi e baldracche con coltelli, stochi, pistole e fucili correan le vie gridando Italia, Vittorio e Garibaldi […]. Seguitavan li monelli e paltonieri, per buscar qualcosa, gridando: Mora la polizia! Assalgono i Commissariati»; in divisa, armati e con coccarda rossa, il De Crescenzo e i suoi uomini ebbero anche l'incarico di supervisionare il plebiscito di annessione, vigilando le urne a voto palese (21 ottobre 1860). Secondo la testimonianza di Giuseppe Buttà, cappellano militare dell'esercito borbonico, «Dopo il Plebiscito, le violenze de' camorristi e dei garibaldini non ebbero piú limiti: la gente onesta e pacifica non era piú sicura né delle sue sostanze, né della vita, né dell'ordine […].I camorristi padroni di ogni cosa viaggiavano gratis sulle ferrovie allora dello Stato, recando la corruzione e lo spavento nei paesi vicini.».Scriveva, a tal proposito, lo stesso Romano nelle sue Memorie: «Fra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata per la gravezza del caso, un solo parsemi, se non di certa, almeno probabile riuscita; e lo tentai. Pensai prevenire le tristi opere dei camorristi, offrendo ai piú influenti loro capi un mezzo di riabilitarsi; e cosí parsemi toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze»[10]. Fu creata, cosí, una «specie di guardia di pubblica sicurezza», tra i suoi membri c'erano i camorristi organizzati in compagnie e pattuglie, per controllare tutti i quartieri della capitale. Insomma: le pecore affidate ai lupi! Da tutto quanto détto se ne ricava che un soggetto che agisse alla maniera sconsiderata di don Liborio Romano poteva correre l’alea di essere incarcerato e finire tra le pareti puzzolenti di cimici cosí come nell’espressione in esame.
Càlmate = calma te,mantieniti cheto voce verbale (imperativo 2ª per. sg.) dell’inf. riflessivo calmarse denominale di calma s.vo f.le [da un lat. reg. calama→cal(a)ma→calma che è dal gr. kαlamē]
carcere = carcere, prigione s. m. e f. [lat. carcer -ĕris, in origine «recinto» e piú propr., al plur., le sbarre del circo dalle quali erompevano i carri partecipanti alle corse; poi «prigione»].
fète puzza, emana cattivo odore voce verbale (3ª per. sg.) dell’infinito fètere/fetí = puzzare,esser fetido, che è dal lat. foetére con cambio di coniugazione e ritrazione dell’accento.
pímmece = cimice, pulce ed alibi anche ragazza bassa e di carnagione scura; s.vo f.le dall’incrocio del lat. cícimice-m + pulice-m e raddoppiamento espressivo della (M) favorito dal tipo sdrucciolo del lemma [cfr. càmmera←lat. camera-m, càmmese←gr. kamasos] .
Non mi pare ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico N.C. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
lunedì 29 luglio 2013
PATATE AL FORNO
PATATE AL FORNO
ingredienti e dosi per 6 persone
2 kg. di patate vecchie mondate e tagliate a dadini d 1 cm. di spigolo,
3 spicchi d’aglio mondati ed affettati finemente,
due cucchiai di strutto,
1 bicchiere di latte caldo intero,
1 rametto di rosmarino fresco,
sale fino e di pepe decorticato q.s.
noce moscata una grattugiata,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.
procedimento
Sbucciare le patate in modo da eliminare la buccia sottile. Quindi lavarle, asciugarle e tagliarle a dadini d 1 cm. di spigolo. Sbucciare anche gli spicchi d'aglio ed affettarli sottilmente. Mettere le patate e l'aglio in una pirofila, unirvi i due cucchiai di strutto, incoperchiare con un foglio d’alluminio e lasciare cuocere per 5 minuti nel forno a massima potenza, mescolando un paio di volte. Trascorso il tempo previsto, aggiungere alle patate il latte caldo ed un rametto di rosmarino fresco, regolare di sale e di pepe e spolverare con una grattugiata di noce moscata. Coprire nuovamente il tutto e proseguire la cottura per altri 5 minuti, quindi mescolare nuovamente le patate e continuare così fino a quando non saranno pronte. Al termine della cottura, dare un ultima mescolata e cospargere le patate con il prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente; servire in tavola ancora calde. Si accompagnano benissimo sia a c arni che a pesci.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
Raffaele Bracale
Perciatielle e Murzelle d’’o chianchiere
Perciatielle e Murzelle d’’o chianchiere
La ricetta che qui di sèguito vi propongo nasce dall’osservazione che spesso coloro che si recano dal proprio macellaio, (sia pure di fiducia) lo fanno quasi sempre non per farsi consigliare su quale sia il pezzo migliore di carne da usare per una determinata preparazione, ma, entrano in macelleria decisissimi ad imporre la propria presuntuosa idea anche quando questa dovesse risultare sciocca ed erronea, convinti come sono (da saccenti e supponenti) di essere in possesso di tutte le conoscenza fatte di verità sacrosante e di non aver bisogno del consiglio dell’esperto di turno (in questo caso del macellaio) e si finisce per pretendere dei tagli di carne quasi sempre ricavati dal quarto posteriore della bestia, quel quarto che in realtà è il meno saporito (essendo molto magro e privo quasi del tutto di grasso) ed è il piú costoso, laddove per moltissime preparazioni (se con umiltà ci si lasciasse consigliare dal macellaio)si potrebbero usare i gustosissimi tagli del quarto anteriore (locena, spalla (pettola o polpa) piú saporito e meno costoso, ottenendo risultati migliori ad un prezzo piú contenuto; ma come si sa l’umiltà è una virtú poco frequentata e, per converso saccenza e supponenza allignano nel comportamento della stragrande maggioranza del genere umano (soprattutto degli asini calzati e vestiti) , di talché in macelleria si perdura ad acquistare (spessissimo impropriamente) fettine di noce, rosa e girello cioè a dire, per dirlo alla maniera napoletana: pezza a cannella, lacerto e retocoscia lasciando al bottegaio invenduto il quarto anteriore che è invece quello che egli, furbescamente si porta a casa per il proprio asciolvere.
Questa ricetta si avvale dei consigli d’’o chianchiere (chianchiére s. maschile che al femm. è chianchèra = macellaio/a, chi macella le bestie e chi ne vende al minuto le carni in una macelleria; la voce macellaio/a è dal Lat. *macellariu(m)/aria(m) 'mercante di generi alimentari', deriv. di macellum; la voce partenopea chianchiére/èra sono un derivato del latino planca + iére/èra suff. di pertinenza: la voce planca→chianca indicava un piano di legno (tavolo) su cui in origine venivano esposti, tagliati ed offerti al pubblico i pezzi di carne macellati). La nostra ricetta prevede l’uso di tagli (locena, spalla) del quarto anteriore del manzo adulto o del vitello.
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 6 etti di perciatelli spezzettati in pezzi di 4 cm.,
- un litro di passata di pomidoro fresca o in bottiglia,
- 1,500 kg. di spalla di manzo o vitello in fettine di cm. 5 x 7 x 1 ridotte in bastoncini della grandezza d’un indice;
- 1 cipolla dorata mondata e tritata finemente,
- 1/2 bicchiere di vino bianco secco,
- 1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.,
- 4 uova,
- 1 cucchiaio di origano
- sale doppio – un pugno,
- sale fino e pepe bianco q.s.,
- farina q.s.
- pecorino grattugiato 1 etto
procedimento
Sbucciate la cipolla e tritatela finemente; poi fatela appassire a fuoco sostenuto in una padella antiaderente con mezzo bicchiere d'olio caldo. Unitevi la carne, lasciatela insaporire per dieci minuti e bagnatela con il vino. Aggiungete la passata di pomidoro,insaporite con sale, pepe, coprite e cuocete per 40 min. a fuoco moderato; alla fine aggiungete il cucchiaio di origano e fate sobbollire per circa 10 minuti. Nel frattempo sbattete a spuma le uova addizionate di sale e pepe; Approntate la pentola con abbondante acqua (8 litri) salata (pugno sale grosso) e lessatevi al dente i perciatelli spezzettati; appena lessati prelevateli con una schiumarola e poneteli in una zuppiera e conditeli con la metà del sugo di pomidoro (scartando le morzelle di carne) e spolverizzateli con metà del pecorino e pepe ad libitum.Teneteli in caldo e nel frattempo sgrondate con l’apposita pinza dal sugo i pezzi di carne, rollateli nella farina addizionata con l’altra metà del pecorino, intingeteli nelle uova sbattute e friggeteli rapidamente nell’olio residuo mandato a temperatura; appena fritti immergete i pezzi di carne dorati nel sugo di pomidoro residuo tenuto a lento bollore.
Servite in tavola la pasta ed a seguire le morzelle irrorate di sugo, accompagnate da un contorno o di patate fritte o di verdure (scarola liscia, cime di broccoli baresi) lessate o cotte al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, limone e sale.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
SALSA DI LIMONE
SALSA DI LIMONE
Ingredienti e dosi per 6 persone:
il succo filtrato di 6 limoni non trattati,
la scorza gialla dei limoni, tagliata a julienne,
6 cucchiai di farina,
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
sale fino e pepe decorticato q.b.
procedimento
Prelevare la scorza gialla dei limoni, tagliarla a julienne e scottarla brevemente in acqua salata bollente; scolarla ed asciugarla.
Diluire lentamente la farina nel latte freddo , versare il composto in una casseruola antiaderente e portare sul fuoco medio mescolando in senso orario finché la salsa non si sarà addensata al punto giusto.
Togliere dal fuoco ed aggiungere la scorza scottata tagliata a julienne ed il succo filtrato dei limoni; aggiustare di sale ed aromatizzare col pepe decorticato macinato a ffresco.
Brak
CREMA DI FAVE E CARCIOFI
CREMA DI FAVE E CARCIOFI
ingredienti e dosi per 6 persone:
8 etti (al netto degli scarti) di fave fresche mondate e lavate,
12 carciofi giovani e teneri,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 etto di pancetta affumicata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
6 fascetti di rucola,
il succo filtrato di un limone non trattato,
sale fino alle erbette q.s.,
sale doppio un pugno,
pepe decorticato macinato a fresco q.s.
3 etti(al netto degli scarti) di noci secche sgusciate e tritate.
procedimento
Scottare per cinque minuti in acqua bollente salata (pugno di sale doppio) otto etti (al netto degli scarti) di fave fresche mondate e lavate, sgrondarli e tenerli in caldo.
Mondare i carciofi delle brattee esterne piú dure, spuntarli ed aprirli longitudinalmente in due parti eliminando il fieno centrale, indi sempre longitudinalmente affettarli allo spessore di ½ cm.; lavarli velocemente in acqua acidulata con il succo d’un limone e sgrondarli. Nel frattempo in un ampio tegame provvisto di coperchio, a fuoco vivace fare imbiondire nell’olio lo spicchio d’aglio schiacciato ed il trito di cipolla;eliminare lo spicchio d’aglio aggiungere la pancetta e farla rosolare per cinque minuti, indi aggiungere i carciofi e le fave sgrondati, bagnare con il bicchiere di vino bianco secco, farlo evaporare ed aggiungete una mezza ramaiolata d’acqua calda, incoperchiare, abbassare i fuochi e far cuocere per circa 30’ fino ad ottenere quasi una purea; solo a fine cottura salare e pepare ad libitum e trasferire il tutto assieme al fondo di cottura in un mixer con lame da umido;unire i mazzetti di rucola lavati ed asciugati ed a bassa velocità ottenere una crema spumosa e sottile a cui vanno aggiunte le noci tritate. Ottima spalmata a specchio con uova in camicia, o servita come contorno di carni in umido o formaggi stagionati .
Brak
PASTECRISCIUTE
PASTECRISCIUTE
(zeppole rustiche)
dosi per 4 - 6 persone
500 g di farina,
400 g di acqua meglio se gasata,
sale fino q. s. ,
2 cubetti lievito di birra.
abbondante olio per friggere
ingredienti facoltativi
4 – 6 fiori gialli di zucchine lavati, asciugati e tagliati a pezzetti;
oppure 8- 10 filetti di acciughe sott’olio tagliati a pezzetti.
procedimento
Sciogliere il lievito nell'acqua tiepida(mai bollente).In un’ampia ciotola mettere la farina e aggiungervi l'acqua e il sale lavorando l'impasto a lungo.( l'impasto è abbastanza liquido)
Se vi piace potete aggiungervi pezzettini di fiori di zucchine oppure le acciughe tagliate a pezzettini, ma sono ottime anche senza alcuna aggiunta, purché adeguatamente salate.
Lasciar lievitare per circa 1 ora,
Con un cucchiaio bagnato in acqua calda prendete l'impasto e friggetelo in olio bollente, oppure strappate a mano bagnata piccoli quantitativi di pasta e trasferiteli nell’olio bollente ... a fine cottura, quando le pastecresciute avranno preso un bel colore dorato, prelevatele con una schiumarola, trasferitele su di piatto di portata coperto con carta assorbente e salate ad libitum.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente
Mangia Napule, facitene salute!
raffaele bracale
iNSALATA DI TONNO E FAGIOLI
iNSALATA DI TONNO E FAGIOLI
ingredienti e dosi per 4 persone
2 confezioni in vetro, per complessivi 4 etti, di fagioli cannellini lessati,
3 etti di tonno sottolio sgocciolato,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
1 bicchiere d’olio d’olivo exctravergine,
il succo filtrato d’ un limone non trattato,
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.
procedimento
Versare i fagioli in un setaccio grande, risciacquare sotto acqua corrente. Scolare bene e metterli in un’ampia zuppiera. Sbriciolare il tonno a pezzi piuttosto grossi e sistemarlo sui fagioli scolati. Preparare il condimento in una ciotola, mescolando l'olio ed il succo di limone. Insaporire con sale e pepe ed unire il prezzemolo tritato finemente. Mescolare bene. Versare sull'insalata di tonno e fagioli. Cospargere con la cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente, mescolare bene e far transitare un’ora in frigo prima di servire. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, buona salute!
Raffaele Bracale
domenica 28 luglio 2013
CEFALO SAPORITO AL FORNO
CEFALO SAPORITO AL FORNO
Eccovi una ricetta afrodisiaca, molto gustosa con cui preparare del cefalo, che alla fine risulterà appetibile anche per i palati che non amano il pesce. Questa ricetta può essere utilizzata in alternativa alla spigola all’acqua pazza nel cenone della vigilia del santo Natale.
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 cefali abbastanza grossi del peso di circa 5 etti cadauno,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
2 etti di olive nere di Gaeta denocciolate,
½ etto di capperi di Pantelleria dissalati, lavati ed asciugati,
1 rametto di timo/piperna lavato, asciugato e sgranato finemente,
pepe nero q.s.
3 foglie d’alloro fresco,
3 pomidoro tipo Roma o San Marzano lavati, sbollentati, pelati e tagliati a cubetti,
origano secco - due pizzichi,
1 spicchio d’aglio mondato finemente tritato,
sale doppio alle erbette – tre prese.
procedimento
Lavare ed eviscerare i cefali, senza squamarli, sciacquarli in acqua fredda corrente ed aprirli a libro sistemando all’interno di ogni pesce olive denocciolate e tritate, capperi, trito di aglio, piperna,origano, pepe, una cucchiaiata di cubetti di pomidoro ed una foglia d’alloro spezzettata a mano; richiudere i cefali e sistemarli a pancia all’aria uno accanto all’altro in una capace pirofila da forno; irrorali a filo con tutto l’olio e mandare in forno preriscaldato (180°) per 20 – 25 minuti; a fine cottura fare leggermente intiepidire, eliminare testa, coda e la pelle, spinare accuratamente e porzionare (mezzo cefalo a testa) nei singoli piatti; salare ogni porzione con una presa di sale grosso alle erbette ed irrorare con il fondo di cottura.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
CALAMARETTI IN UMIDO
CALAMARETTI IN UMIDO
Ingredienti e dosi per 6 persone
1 kg. di calamaretti freschi e piccoli, puliti lavati e tagliati a rondelle (il corpo) ed a pezzetti (i tentacoli),
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v. p.s. a f.,
3 cucchiai di spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
2 peperoncini piccanti privati di picciolo e corona, lavati, asciugati e tritati,
1 cipolla dorata mondata e tritata finemente,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 tazzina di aceto bianco,
sale grosso q. s.
volendo
2 bicchieri di passata fresca o in bottiglia di pomidoro
procedimento
Pulire i calamaretti eliminando bocca, occhi,eventuale sacca del nero ed ossicino centrale, lavare accuratamente e prepararli tagliandoli a rondelle (come per la frittura) e tritando a parte i tentacoli;
In una casseruola versare tutto l’olio, mandarlo a temperatura e farvi soffriggere due cucchiai d'agli tritati finemente ed i peperoncini spezzettati;
Unire i calamaretti dapprima le rondelle ed a seguire i tentacoli ed a fiamma viva iniziate la cottura;
quando i calamaretti saranno ben imbianchiti (5 min. circa) aggiungere la cipolla tritata finemente e súbito dopo il vino bianco;
Fare evaporare sempre con fiamma viva, salare e lasciare consumare la salsa su fiamma bassa (10-15 min.)
Aggiungere una tazzina d'aceto bianco , ancora 1 minuto ed il giuoco è fatto!
Rammento di non esagerare con l'aceto ed è inutile dire che migliori sono gli ingredienti (calamaretti piccoli e freschi, olio d’oliva e.v.p.s.a f.) migliore risulterà la preparazione. Rammento ancóra che se si preferisse un sugo al pomidoro , si procederà come ò détto sino al momento di fare evaporare il vino; a quel punto occorre unire 2 bicchieri di passata + 1 bicchiere d'acqua, salare e lasciare consumare la salsa su fiamma bassa (10-15 min.) senza aggiungere una tazzina d'aceto bianco. Alla fine, a fuochi spenti (sia che il sugo sia bianco, sia che sia al pomidoro) si cospargeranno i calamaretti con un abbondante trito di prezzemolo ed aglio crudo mondato e si impiatterà.
sabato 27 luglio 2013
RICCI DI FORETANA CON CIME DI RAPA
RICCI DI FORETANA CON CIME DI RAPA
ingredienti e dosi pr 4 persone
4 etti di fusilli lunghi (ricci di foretana),
4 etti (peso netto) di cime di rapa mondate,
1 bicchiere d’olio d’oliva extravergine,
5 spicchi d’aglio mondati e schiacchiati,
½ etto di filetti d’acciuga sott’olio,
½ etto di pangrattato,
sale grosso un pugno,
pepe decorticato macinato a fresco q.s.
procedimento
Lavare le cime di rapa mondate e scottarle per 5 minuti in una pentola colma (8 litri) d'acqua salata[pugno di sale grosso]. Scolarle (conservando l'acqua di cottura) e saltarle in padella con metà dell'olio d'oliva e due spicchi d'aglio schiacciati. In un’altra proporzionata padella unire il pangrattato alle acciughe dissalate con l’olio residuo e tre spicchi d'aglio schiacciati e cuocere fino a sciogliere le acciughe e fino a che il pangrattato non apparirà dorato; aggiungere le cime di rapa con il loro fondo e far saltare per qualche minuto. Nel frattempo cuocere i ricci di foretana nell'acqua di cottura delle cime di rapa, scolarli al dente: passarli nella seconda padella e saltarli con le cime di rapa a fuoco vivo; impiattare spolverando di pepe decorticato macinato al momento. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, buona salute!
Raffaele Bracale
ORECCHIETTE CAMPAGNOLE
ORECCHIETTE CAMPAGNOLE
ingredienti e dosi per 4 persone
4 etti di orecchiette
4 etti di rucola,
5 etti di pomidori pelati,
1 bicchiere d’olio extra vergine,
1 etto di pancetta a dadini da un cm. di spigolo,
1 etto di pecorino grattugiato finemente,
sale grosso due pugni,
sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.
Procedimento.
Mondare la rucola, eliminare le foglie rovinate, spezzettarla e lavarla piú volte in acqua fredda: poi sbollentarla per quattro minuti in acqua salata(un pugno di sale grosso) in ebollizione e scolarla. In una proporzionata padella, a fuoico dolce far rosolare la pancetta tagliata a dadini nell'olio, unire i pomodori pelati schiacciati con la forchetta,aggiustare di sale fino e di pepe nero macinato a fresco, rimescolare e fare restringere il sughetto a calore moderato. Solo alcuni minuti prima di spegnere il fuoco incorporarvi la rucola.Nel frattempo lessare le orecchiette in abbondante acqua salata(un pugno di sale grosso) in ebollizione e scolarle al dente. Versare le orecchiette direttamente nella padella contenente il condimento appena preparato, rimescolare, lasciarle insaporire, quindi spolverizzare con il pecorino grattugiato finemente e servire súbito in tavola. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!Sciàlateve e facíteve ‘a scarpetta!
Raffaele Bracale
CASTAGNACCIO SALATO O DOLCE ALLA MANIERA CAMPANA
CASTAGNACCIO SALATO O DOLCE ALLA MANIERA CAMPANA
Il castagnaccio, è una torta, salata o dolce, di farina di castagne, insaporita a seconda degli usi locali. Si può mangiare caldo o freddo; quello salato si consuma da solo oppure, a preferenza con ricotta o formaggi freschi.
Versione salata
Ingredienti e dosi per 6 – 8 porzioni:
1 kg di farina di castagna,
1 litro e mezzo di acqua,
un cucchiaino di sale fino,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
1 cucchiaio di strutto,
1 etto di pinoli,
1 etto di gherigli di noci,
una cucchiaiata di aghi di rosmarino,
pan grattato q.s.
procedimento
La seguente è la ricetta base più semplice ed antica per ottenere una teglia di castagnaccio di 30x30 cm (36 cm di diametro per una teglia tonda): prendere 1 kg di farina e aggiungere a poco a poco acqua (circa un litro e mezzo) fino ad ottenere una pastella non troppo densa che ancora riesca a colare e ad autolivellarsi. Aggiungere un cucchiaino di sale,mezzo bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., un cucchiaio di strutto, un etto di pinoli, mescolare bene e versare nella teglia preventivamente unta con un po' d'olio e rivestita di pangrattato. Lo spessore della pastella non dovrà superare i 2 cm. Spargere sulla pastella circa due etti di noci a pezzetti (che in gran parte affonderanno), una cucchiaiata di aghi di rosmarino, un filo di olio e poi mettere al forno a circa 200 gradi per 30-60 minuti; il tempo di cottura varia con la densità della pastella e con il suo spessore.
Sarà pronto quando avrà assunto un bel colore marrone scuro e l'impasto, provato con uno stuzzicadenti, risulterà asciutto. La superficie risulterà tutta screpolata.Servire calde o fredde le fette di castagnaccio accompagnate da fette di ricotta o altro formaggio fresco
. Versione dolce
Ingredienti e dosi per 6 – 8 porzioni:
1 kg di farina di castagna,
1 litro e mezzo di acqua,
un cucchiaino di sale fino,
1 etto di zucchero
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
1 cucchiaio di strutto,
1 etto di pinoli,
1 etto di gherigli di noci tritati,
2 etti di uva passita ammollata in acqua tiepida o in del vino dolce (marsala o moscato),
1 etto di cedro candito ridotto a dadini da ½ cm di spigolo,
la scorza grattugiata di un arancio sorrentino,
la scorza grattugiata di un limone amalfitano o sorrentino un cucchiaio di semi di finocchio,
pan grattato q.s.
procedimento
prendere 1 kg di farina e aggiungere a poco a poco acqua (circa un litro e mezzo) fino ad ottenere una pastella non troppo densa che ancora riesca a colare e ad autolivellarsi. Aggiungere un cucchiaino di sale,lo zucchero, mezzo bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f., un cucchiaio di strutto, un etto di pinoli,i gherigli di noce tritati, la scorza grattugiata di arancio e limone, mescolare bene e versare nella teglia preventivamente unta con un po' d'olio e rivestita di pangrattato. Lo spessore della pastella non dovrà superare i 2 cm. Spargere sulla pastella la dadolata di cedro candito ed i semi di finocchio, un filo di olio e poi mettere al forno a circa 200 gradi per 30-60 minuti; il tempo di cottura varia con la densità della pastella e con il suo spessore.
Sarà pronto quando avrà assunto un bel colore marrone scuro e l'impasto, provato con uno stuzzicadenti, risulterà asciutto. La superficie risulterà tutta screpolata.Servire calde o fredde le fette di castagnaccio accompagnate da fette di ricotta.
Sia per la versione salata che per quella dolce servire vini bianchi dolci e profumati o rossi giovani.
Mangia Napoli, facítene salute!
Raffaele Bracale