sabato 28 febbraio 2015
VARIE 15/131
1.BBUONO PE SCERIÀ ‘A RAMMA
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià tutti con il significato di soffregare.
2. ACCUNCIARSE QUATT' OVE DINTO A 'NU PIATTO.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle che eccedono sono state sottratte ad altri).
3. BBUONO P’APARÀ ‘O MASTRILLO
Ad litteram: buono per armare la trappolina id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia palesemente piccolo e/o modesto.
Mastrillo s.m. = trappolina per topi dal lat. mustriculu(m).
4. BENE IN SALUTE E SCARZO A DDENARE
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno condizioni economiche precarie.
5. CACCIÀ ‘E CCARTE
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata dai promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi presso uffici pubblici e/o luoghi di culto le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici necessitano di ineludibili carte da procacciare e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
6. CHISTO È N'ATO D''A PASTA FINA.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuta da un tal Pastafina. Lètta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di grande offesa.
7. CADÉ ‘A COPP’Ô PÈRE ‘E PUTRUSINO.
Ad litteram: cadere dalla pianta di prezzemolo; id est ammalarsi , anche se di affezioni non importanti, ma reiterate; la locuzione è usata soprattutto per commentare lo stato di malferma salute delle persone anziane che son solite ammalarsi di piccole affezioni che, se per la loro non eccessiva virulenza e/o importanza, non destano particolari preoccupazioni, pur tuttavia son di gran fastidio per gli anziani che subiscono tali affezioni paragonate nella locuzione in epigrafe alle cadute da una pianta di prezzemolo, cadute che poiché avvengono da una pianta molto bassa non son pericolose, anche se - altrove si consiglia di evitare cadute vasce (cadute basse) in quanto pericolose.
8. CAMPÀ ANNASCUSO DA ‘O PATATERNO.
Ad litteram: Vivere nascondendosi all’ Eterno Padre; id est: vivere non dando contezza di sè nemmeno al Cielo, quasi di soppiatto, clandestinamente se non addirittura a dispetto ed in barba di tutti gli altri.A Napoli la locuzione è usata quando si voglia dare ad intendere che sia impossibile conoscere da cosa o chi taluno tragga i propri mezzi di sostentamento, posto che il suo tenore di vita eccede le di lui conclamate possibilità economiche.
9. CCA NISCIUNO È FFESSO!
Ad litteram: Qui nessuno è sciocco! Affermazione perentoria fatta nei confronti di chi era aduso a ritenere che gli abitanti del Sud dello stivale fossero degli sciocchi, per significare che, invece era ed è in errore chi ritenesse o ancóra ritenga vera una cosa simile .La locuzione, divenuta una sorta di monito, è passata poi a significare:bada che non ci casco, attento ché non riuscirai a prenderti gioco di me,bada bene che son pronto a render pan per focaccia giacché sono tutt’altro che fesso, come chiunque altro viva in questi luoghi.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico erroneo segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
10. CCA SSOTTO NUN CE CHIOVE
Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione (che viene pronunciata usando il dito indice della mano destra tenendolo ben teso puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra) viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso, nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti a restituire pan per focaccia; l’espressione talora è usata nelle medesime accezioni della precedente.
11. CE MANCANO DICIANNOVE SORDE P’APPARÀ ‘A LIRA.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava che ci si trovava in gran carenza di mezzi e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe potuto portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
12. CE MANCANO QUATTO LASTE E ‘O LAMPARULO.
Ad litteram: mancano quattro vetri ed il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna che è stata costruita in maniera raffazzonata di talché non è adatta allo scopo per cui è stata costruita e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne costituiscono le pareti e manca addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
13. NÈ FFEMMENA, NÈ TTELA A LUME DE CANNELA.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
14. MEGLIO 'NU CANTÀRO 'NCAPA CA N'ONZA 'NCULO!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
La voce cantàro (dall’arabo quintar) significa quintale; qualche sprovveduto ritraendo l’accento la legge càntaro (che è dal lat. cantharu(m) a sua volta dal greco kàntharos)e significa pitale) rovinando il significato dell’espressione nella quale in origine si pongono giustamente a paragone due pesi: cantàro (quintale) ed onza (oncia), mentre nella lettura stravolta si porrebbero a paragone due entità incongruenti: un peso(oncia) ed un pitale
15. CHI TÈNE BBELLI DENARE SEMPE CONTA, CHI TÈNE 'NA BBELLA MUGLIERA SEMPE CANTA.
Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per molto che ne sia non ti dà la felicità, che si può ottenere invece avendo una bella moglie.
16. DICETTE 'O PUORCO 'NFACCI' Ô CIUCCIO: MANTENIMMOCE PULITE!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. E' l'icastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme 'o puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
17. DICETTE PULICENELLA: NCE SO' CCHIÚ GGHIUORNE CA SACICCE.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. È l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
18. CHI 'A FA CCHIÚ SPORCA È PPRIORE.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti e che spesso, per poter primeggiare occorre agire disonestamente
19. DICETTE PULICENELLA: I' NUN SO' FESSO,
MA AGGI' 'A FÀ 'O FESSO, PECCHÉ FACENNO 'O FESSO, VE POZZO FÀ FESSE!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido!
20. DICETTE A PULLICENELLA: ‘O PIZZO CCHIÚ SCURO È ‘O FUCULARE.
Letteralmente: Disse (il padrone) a Pulcinella: Il posto piú oscuro è il focolare... Id est la miseria è tanta ed incombente al segno di non potersi permettere né di illuminare adeguatamente, né di accendere un fuoco per approntare il desinare. L’espressione in origine (con riferimento alla situazione di una farsa di A. Petito donde era tratta la battuta rivolta a Pulcinella dal suo padrone Pancrazio) era inerente al semplice fatto che il servitore stesse perdendo tempo e non procedesse con sollecitudine al lavoro cui era stato adibito (preparare il cibo). Successivamente l’espressione fu usata, per traslato ed in modo figurato nel senso suddetto significante che la miseria sia tanta ed incombente.
pizzo s.vo m.le interessantissima voce che non solo nel napoletano, ma anche nell’italiano che dal napoletano li à mutuati, à molti significati; e sono: 1. 1. (con accezione generica), estremità appuntita di qualche cosa, cocca, lembo, orlo, trina, merletto: il p. del fazzoletto, della camicia; un cappello a due, a tre p., a due, a tre punte;
2. punto estremo : sedere in pizzo (alla sedia, a una panca, al letto, ecc., o sulla sedia, ecc.), sull’orlo, sull’estremità. etimologicamente nei significati riportati si tratta di voce di origine espressiva
3. (come nel caso che ci occupa) posto, luogo generico. etimologicamente in tale significato è voce mutuata dal siciliano quale forma accorciata di capizzu→(ca)pizzu→pizzo «capezzale», passato a indicare il posto dove si colloca il letto, dove ci si corica, inteso come luogo dove si trova tranquillità e sicurezza e poi genericamente luogo.
4. (gerg) somma estorta da un'organizzazione mafiosa a commercianti e imprenditori. In tal senso la voce etimologicamente è da pizzo 'estremità, lembo', quindi 'parte marginale, parte, quota'.
fuculare s. m.
1 (come nel caso che ci occupa)parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco
2 (fig.) la casa, la famiglia:
3 (tecn.) negli impianti a combustione, la parte in cui brucia il combustibile; (voce dal tardo neutro latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ).
21. MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO ÒGNE MMUMENTO.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile.Nella locuzione si ipotizza che tutte le monache tengano comportamenti licenziosi e per estrema irriverenza si sostiene che a tenere i comportamenti piú dissoluti siano proprio le donne consacrate. Le monache di casa erano a Napoli quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è da pensare che la locuzione faccia riferimento non a tutte le monache consacrate, ma a quelle del convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da molte suore ivi ospitate.
22.FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
23. MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
24.CU CHESTU LIGNAMMO SE FANNO 'E STROMMOLE.
Letteralmente: con questo legno si fanno le trottoline. Id est: Non attendetevi risultati migliori, perché con quel materiale che ci conferite non possiamo che fornirvi cose senza importanza e non altro! In una seconda valenza la locuzione sta a significare: badate che ciò che ci avete richiesto si fa con questo (scadente) materiale, non con altro piú pregiato...
25.NAPULE FA 'E PECCATE E 'A TORRE 'E SCONTA.
Letteralmente: Napoli pecca e Torre del Greco è punita. La locuzione è usata a significare l'incresciosa situazione di chi paga il fio delle colpe altrui. Nel merito della locuzione: per mera posizione geografica e a causa dei venti e delle correnti marine, i liquami che Napoli scaricava nel proprio mare finivano, inopinatamente, sulla costa di Torre del Greco, ridente località confinante col capolugo campano. Locuzione usata con risentimento da chi debbha ingiustamente sopportare le conseguenze di colpe non sue.
26.A - COMME PAVAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO. B - POCU PPANE, POCU SANT'ANTONIO.
Letteralmente: A - Come pagherai, cosí dipingerò. B - Poco pane, poco sant'Antonio. Ambedue le locuzioni adombrano il principio di reciprocità insito nel sinallagma contrattuale, per il quale il do è commisurato al des; id est: non si può pretendere un corrispettivo superiore alla retribuzione. La locuzione sub A ricorda l'iscrizione posta da tale F. A. S. GRUE dietro il celebre albarello di san Brunone; mentre quella sub B ripropone la risposta data da un pittore a certi frati che gli avevano commissionato un quadro raffigurante sant'Antonio. Alle rimostranze dei frati che si dolevano della lentezza del pittore nel portare innanzi l'opera commissionata, il pittore rispose con la frase in epigrafe (sub B)dolendosi a sua volta dell'esiguità della remunerazione.
albarello o alberello o anche albarella è un vaso cilindrico, per lo piú di maiolica,variamente decorato usato nelle vecchie farmacie ed il nome gli deriva dal fatto
27. S' È FFATTA NOTTE Ô PAGLIARO.
Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è mmale servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
28.QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
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