sabato 2 settembre 2017

VARIE 17/888



1.GENNARINO NUN DICE BUSCIE; DICE ‘NU CUOFANO ‘E FESSARIE. 

Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice  un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata   si suole prender giuoco  di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe piú giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) che era solito  magnificare la propria merce in modo esagerato  sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí  buona come magnificato dal venditore, gli scugnizzi napoletani  presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice  un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna   ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola  derivante dal provenzale bauzía  che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città  algerina Bugiaya  dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuofano = cesto, corbello  e per traslato gran quantità, abbondanza;  dal latino  cophinu(m)= cesta,  normale il passaggio della i  atona  ad  a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente  da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco)  p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro +  la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene  in quest’ultima l’originaria ed etimologica a  ovviamente aperta, la si sia sostituita con una  pretestuosa  e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta  a  alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria  una non migliore fesseria.
  2.‘ONNA PÉRETA FORA Ô BARCONE 
Letteralmente  donna Pereta fuori (affacciata) al balcone; ci troviamo dinnanzi ad una locuzione usata con divertente immagine per mettere alla berlina una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare,  sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto  péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi  e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili  laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata  per dileggio quasi come nome proprio di persona) è il femminile ricostruito[per indicare un peto piú duraturo e  piú rumoroso]  di pireto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia, manifestazione viscerale rumorosa rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Altrove quella donna becera, sguaiata, volgare e sfrontata  è detta, volta volta:locena  che nel suo precipuo significato di vile, scadente  è forgiato come il toscano ocio  ed il successivo locio (dove è  evidente  l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia  e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locena; lumera = esattamente lume a gas   e lume a ggiorno =lume a petrolio atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume  l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresí maleolenti tali  quale una pereta.
A margine ed aggiunta alla espressione in epigrafe fin qui esaminata, ne rammento altre tre che articolate sui termini  loffe e pérete  fanno parte del patrimonio popolare nell’icastico linguaggio partenopeo. E sono:
1) ‘E lloffe d’ ‘e mmonache addorano ‘e ‘ncienzo!
2) ‘E ppérete d’ ‘a sié Rosa so’ tutte sceruppate!
3) ‘E ppérete d’ ‘a sié Badessa so’ tutte limungelle fresche!
Mi pèrito di darne la traduzione letterale chiarendo súbito che si tratta solo di un esercizio letterale atteso che le espressioni non vanno lette ad litteram, ma nei sensi figurati che chiarirò. Ecco le traduzioni:
1) Le scorregge delle  monache odorano d’incenso!
2) I péti  della signora  Rosa sono  tutti sciroppati!
3) I péti  della signora  Badessa son tutti limoncini  freschi!
E passiamo ai significati figurati che son quelli con cui vanno intese le espressioni in esame:
1)La locuzione ‘E lloffe d’ ‘e monache addorano ‘e ‘ncienzo  che è da intendersi come “le mancanze, anche gravi, delle persone consacrate vanno in ogni caso  perdonate” è usata ad ammonimento ed avvertenza  di quelle persone che, subíto un danno fisico o morale o un’offesa  da soggetti consacrati, vorrebbero reagire vendicandosi ed invece devono cristianamente offrire l’altra guancia atteso che le offese o mancanze  delle persone consacrate iperbolicamente odorano d’incenso, cioè di solito non son dovute a cattiveria ma a mero errore.
2)La locuzione ‘E ppérete d’ ‘a sié Rosa so’ tutte sceruppate!” è usata ironicamente in riferimento ai comportamenti vanaglioriosi dei vanitosi, superbi, immodesti, boriosi che pur tenendo atteggiamenti non consoni, irriguardosi o immodesti fan le viste opposte al segno di voler fare apparire dolci, graditi, gradevoli, piacevoli, soavi manifestazioni che al contrario son palesemente brutte, sgradevoli, spiacevoli quando non addirittura  disgustose come sono i peti.
3) Ed infine la locuzione”‘E ppérete d’ ‘a sié Badessa so’ tutte limungelle fresche!” analoga a quella sub 1)
 ‘E lloffe d’ ‘e monache addorano ‘e ‘ncienzo   è da intendersi come “le mancanze delle persone importanti e/o dei capi  vanno in ogni caso accettate come ineludibili quali fatti cui non ci si possa opporre ”. La locuzione è usata perciò ad ammonimento ed avvertenza  di quelle persone che subíto un danno fisico o morale dai superiori  o siano  vessati da soggetti consacrati vorrebbero reagire vendicandosi ed invece devono obtorto collo sopportare in silenzio  atteso che è del tutto inutile contrastare avversare, osteggiare, contrariare, contestare, contraddire i capi o i superiori destinati in ogni caso ad aver la meglio sui sottoposti che devono rassegnarsi alla figurata iperbole che i peti dei superiori odorino di limoncini freschi! A margine di tutto faccio notare che nella locuzione sub 1 si fa riferimento a loffe  laddove in quella sub 3 si parla di pérete e ciò accade perché, con ogni probabilità, nella coniazione delle due locuzioni si è intesi essere piú duri in quella sub 1 atteso che si parla di loffe che, come ò precisato, sono molto piú tremende delle pérete
Alcune notazioni linguistiche.
Di loffa e péreta ò già détto antea.
 addorano voce verbale (3ª pers. pl. ind. pr.) dell’infinito addurà = odorare, profumare, olezzare; etimologicamente addurà  è un denominale del tardo lat. *adore(m)  per il cl. odore(m); la a intesa come un residuo di ad favorí il raddoppiamento espressivo della occlusiva dentale sonora (d) per cui *adore(m) fu*addore(m)  donde addurà.
‘ncienzo s.vo neutro  = incenso: gommoresina che si ottiene praticando profonde incisioni nel tronco di varie specie di piante originarie dell'India, Arabia e Somalia, e che, bruciata, emana un intenso aroma; fin dall'antichità è stata usata durante le cerimonie religiose.
2 (estens.) il fumo e l'odore di quella gommaresina. etimologicamente è voce aferizzata  dal lat. tardo, eccl. incĕnsu(m), propr. part. pass. neutro sost. di incendere 'accendere, infiammare'; da incĕnsu(m)→(i)ncĕnsu(m)→’ncienzo con il consueto passaggio ns→nz e dittongazione della ĕ.
sceruppato = sciroppato voce verbale (part.pass.m.le agg.to)dell’infinito sceruppà = (come nel caso che ci occupa)sciroppare,conservare la frutta nello sciroppo: sciroppare le pesche | sciropparsi qualcuno, qualcosa, (fig.) sopportarli, sorbirseli pazientemente; etimologicamente il verbo sceruppà è un denominale di sceruppo =sciroppo dal lat. medievale sirupu(m)  che fu dall’arabo sharûb= bevanda dolce; a margine di questa voce rammenterò, come ò già accennato, che il verbo denominale di sceruppo, e cioè sceruppare/sceruppà à come primo significato quello di conservare frutta o altro nello sciroppo o pure indulcare o migliorare con zucchero e/o aromi varie preparazioni, mentre nel significato figurato ed estensivo (soprattutto nella forma riflessiva scerupparse) vale sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno , sorbirseli pazientemente: scerupparse a uno (sopportare  la vicinanza o la presenza di uno(non gradito); scerupparse ‘nu trascurzo (sorbirsi con pazienza  un discorso (noioso) ). Rammenterò che tale accezione figurata ed estesa del napoletano scerupparse è pervenuta anche nella lingua nazionale dove il verbo sciroppare corrispondente del napoletano sceruppà è usato anche figuratamente nel medesimo senso di sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno del napoletano riflessivo scerupparse.
Ed ora, quasi al termine mi piace illustrare un’ icastica frase  in uso a Napoli forgiata col verbo sceruppà; essa recita sceruppà ‘nu strunzo  e vale ad litteram: sciroppare uno stronzo, ma va da sé che non la si può intendere in senso letterare atteso che, per quanto sodo possa essere lo stronzo in esame, nessuno mai potrebbe o riuscirebbe a vestirlo di congrua glassa zuccherina, e che perciò l’espressione sceruppà ‘nu strunzo  debba esser letta nel senso figurato di:elevare ad immeritati onori un uomo dappoco  e ciò sia che lo si faccia di  propria sponte, sia che avvenga  su sollecitazione del diretto interessato e la cosa  vale soprattutto nei confronti di chi supponente e saccente, ciuccio e presuntuoso,  pretende arrogantemente di porsi o d’esser posto una spanna al di sopra degli altri  facendo le viste d’essere in possesso di scienza e conoscenza conclamate  ed invece in  realtà è persona che poggia sul niente la sua pretesa e spesso sbandierata falsa  valentía in virtú della quale s’aspetta  ed addirittura esige d’essere elavato ad alti onori in campo socio-economico cosa che gli consentirebbe di muoversi con iattanza,  boria e presunzione, guardando l’umanità dall’alto in basso…; tale soggetto con icastica espressività, coniugando al part. passato l’infinito sceruppà, è detto strunzo sceruppato= stronzo sciroppato, quell’escremento cioè che quand’anche (se fosse possibile, e non lo è) fosse ricoperto di uno congruo strato di giulebbe, sotto la glassa zuccherina, sarebbe pur sempre quel pezzo di fetida merda che è.
Altrove tale soggetto è detto (restando pur sempre  in àmbito scatologico): pireto annasprato=peto coperto di glassa zuccherina. Ed anche in tal caso, come per il precedente stronzo sciroppato, ci troviamo difronte ad un iperbolico modo di dire con il quale si vuol significare che il soggetto di cui si parla, è veramente un’infima cosa e  quand’anche si riuscisse a coprirlo di glassa zuccherina (cosa che risulta tuttavia  impossibile da  farsi) mostrerebbe sempre, sotto la copertura zuccherina, la sua intima natura di evanescente, ma rumoroso gas intestinale!         
sié è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse→sié(gneuse)→sié.
badessa e cioè: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
E qui mi fermo. Satis est.


3-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta provenienza.
fà scennere = far discendere voci verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re  l’infinito troncato fa  è scritto fà preferito all’apocopato fa’  per evitare una possibile confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú  derivato dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve...  sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione  che produsse *cosa(m)  ed il verbo *cosare usato in luogo di causare;
coglie= testicoli  sostantivo femm. plur. del sing. coglia  che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della borsa che li conteneva
4 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera  e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
tre agg. num. card. invar.  numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto del fico, frutto  che invece in  italiano è maschile:  fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa) anche vulva, vagina  con riferimento alla boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal  maschile latino ficus  reso femminile; ficus  è da collegarsi al greco phýo= produco  a sua volta dall’ebraico phag il tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che  la vulva;
nove agg. num. card. numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale metafonetico  di ruotolo= rotolo di cui ò già detto.
5 - FÀ  FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili  al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine.
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta  di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia  è un acc.  lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m).

6 – FETTIARE O FITTIARE
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse)  sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti  che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non  chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino,  un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti  una certa disponibilità economica  e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano  conserva anche il vocabolo fettíglie  con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi  la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un infastidire di lontano.


7- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE O NUN S’APPURA
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè verificato;
chello = quello, ciò che  pron. dimostrativo neutro che indica cosa lontana da chi parla e da chi ascolta,  o cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa  voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio',
appura=,  viene a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in chiaro  (e nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar= depurare→verificare.
8 -'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô  PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella  se combattuta apertamente  da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce,  animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto debole o di scarsa valenza  economica- sociale   (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi  à  dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante  agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o  prevede la geminazione della gutturale d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non avviene ;
magna = mangia  voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
 a margine faccio notare come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata  napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato  esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere)  una  a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa valenza socio-economica;  l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm.  renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello, piccerenèlla(piccino/a);
9 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi chiunque faccia  del bene ad un altro, in realtà  mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente benefica  gliene deriverà o potrà derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí  del bene; infatti  in realtà e  fuor di vane illusioni,   il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed affini  che dalla macellazione del maiale si posson ricavare)
puorco  sost. masch. = maiale, porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco  masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa  voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso  con etimo denominale  da un  lat.tardo  in (illativo) + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce  sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante  da un  tardo lat.  salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
10 –TE PIENZE CA VACO   METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE?
Letteralmente:  Pensi forse che io vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta  sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione interrogativa la si usa   anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro che chi parla  non si può certamente  equiparare  a quei masnadieri d’antan  che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati  e/o figlioli incontentabili.
te pienze = pensi tu?  voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre  etc.con etimo  dal tardo  lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno  come tema vac= vad  sono derivate  dal lat volgare  vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo  voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc.
 con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre, mettere';
funa= fune, corda, cavo  sost. femm.  dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m);
‘e notte= di notte  loc. avv. temporale  dove ‘e= di  sta per durante  e notte  è il sostantivo femminile  indicante la  parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.



11 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio  che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e   diretti al Camposanto, per cui augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce verbale  (2° pers. sing. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;

passà= passare, transitare  voce verbale infinito passare/passà  con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo';
loggia = loggia  di per sé edificio o parte di edificio aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui  come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa  città di provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano  i loro traffici e commerci  autoamministrandosi;attualmente la Loggia di Genova,  ubicata un tempo a Napoli  tra il c.d. Rettifilo  e quello che poi sarebbe diventato il Borgo degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo  (la loggia napoletana  come elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato,  quasi mai  con calpestio piastrellato ed è  circondata su tre lati da un parapetto in muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato  può essere anche coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in muratura)  loggia etimologicamente è dal  fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova  è la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed  aprendo botteghe per i loro traffici e commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal vicereame napoletano;
12 – CHI NUN TENE DENARE, T’’E ‘MPRESTA, CHI NUN TENE FIGLIE T’’E ‘MPESTA E CCHI NUN TENE MARITO NN’ ‘O CACCIA.
Letteralmente: Chi non à denari, te li impresta, chi non à figli, te li appesta e chi non à marito, lo scaccia.
Icastica locuzione che, sulle prime,almeno nella prima e terza delle sue proposizioni, parrebbe incomprensibile,ma ad un attento esame è pregna di significato nella scetticità della sua filosofia esistenziale per la quale nessuno è disposto a concedertiun prestito in denaro, se non colui che ne è privo, solo una donna  che non conosca quanto sia importante e vantaggiosamente profittevole l’avere un consorte, può liberarsene, scacciandolo e, nella convinzione che chi non abbia figli proprî non possa essere buon maestro di quelli  d’altri,chi è privo di figli non puó che  corrompere, guastare, depravare, pervertire quegli altrui.
13 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo partenopeo  suole apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi  propensa com’è , anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio  dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi;  il medesimo appellativo se lo  meritò uno scrittore nolano tale  Michele Somma  che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta  amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi appunto  della Loggia de’ Genovesi  dove stazionava  la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú  e si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non  è riuscita neppure ad affiancare il famosissimo pesto alla genovese. Ora  qui di sèguito, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana  genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg  cipolle dorate
1 Kg di Spezzato  di manzo adulto (preferibilmente ricavato  dalla pancia o dalla corazza)
o in alternativa  1 kg. di fette
 di locena (soggolo) di manzo da cui ricavare  involti (brasciole) imbottiti di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale,  pepe nero  e legati con spago da cucina
una   carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo  di olio extravergine di oliva

Un pomodoro pelato  (facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato q.s.
 600 gr. di rigatoni
1 etto di  pecorino possibilmente laticauda  grattugiato

Procedimento
Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido;  solo quando la cipolle saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.

Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo  condite i rigatoni lessati al dente e mandateli in tavola  spolverizzati  di formaggio grattugiato  e di abbondante pepe nero.
La carne la servirete come pietanza accompagnata  da un’insalata verde o patate fritte.
Mangia Napoli, bbona salute!!!! e ringraziatemi.
14. PUOZZE SCULÀ!
Letteralmente: Possa scolare!Icastica malevola  invettiva/maledizione napoletana rivolta verso un/a inveterato/a nemico/a, o un/a fastidioso/a interlocutore/trice cui si augura addirittura di decedere per esser posto/a poi, secondo un’antica usanza,ad accomodarsi (da cadavere) su approntate vaschette di pietra(détte:cantarelle) dove la salma cedesse, per gravità,  attraverso un sistema di canaletti le proprie secrezioni umorali,fino a che  una volta essiccata,non fósse  pronta per l’inumazione o l’imbalsamazione.
Rammento a precisazione che la locuzione, cosí come riportata in epigrafe, fu la corruzione/contaminazione della piú immediata e popolare locuzione usata originariamente  nella città bassa, dove suonò: VA’ SCOLA! Si coglie infatti d’acchito che il puozze [  che, come détto antea,  vale: possa tu  è voce verbale  (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;] è di marcatamente libresco ed è frutto del filtro di chi è aduso a studiare, laddove l’espressione originaria popolare,piú bella è quella    coniugata all’imperativo VA’ SCOLA!  Risultando   di immediata fruibilità ed immediatezza espressiva.
15. TE SCHIFO PE MMANO ‘E LEGGE
Ad litteram: Ti ò a schifo, ti detesto,ti disprezzo per mano (id est: attraverso) la legge. Espressione di fastidio che si può cogliere sulle labbra di chi voglia lasciare intendere a qualcuno verso cui provi repulsione, disprezzo, abominio, biasimo, disdegno, disgusto, disistima che o  tali sentimenti sono  così tanto  grandi da  esser disposto ad esser chiamato in giudizio per giustificarsi di eventuali offese arrecate allo schifato, oppure e meglio  che il dispregio,la  noncuranza,lo spregio,lo sprezzo provati nei suoi confronti gli siano  dovuti in quanto, addirittura! stabiliti per legge.
                                         Raffaele Bracale































































 

                                                            Raffaele Bracale

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