ALTRI ANTICHI
MESTIERI NAPOLETANI.
Sollecitato dalla richiesta dell’amico A.L. (del quale per i
consueti problemi di riservatezza indico le sole iniziali delle generalità) che
mi si disse molto soddisfatto ed interessato di ciò che alibi scrissi sull’antico
mestiere del rammariello, qui di sèguito illustro alcuni altri vecchi e desueti
mestieri napoletani, sperando di interessare lui e qualcun altro dei miei consueti
ventiquattro lettori. Principio perciò con
il parlare del VRENNAJUOLO o (secondo
un’antica terminologia del D’Ambra SCIUSCELLARO.
Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il
mezzo di trasporto piú usato non era
certo l'automobile, ma il cavallo. Questo
sciuscellaro o vrennajuolo era
un venditore che alienava ai suoi numerosi
clienti(vatecare provvisti di
carretto e cavallo per il trasporto delle merci,titolari di imprese di pompe
funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze
trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con
carrozza padronale) orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna),e carrube(in napoletano sciuscelle),
tutti elementi necessari nella gestione dei cavalli. Ò parlato di tardo
ottocento,ma rammento bene che,negli
anni ’50 del 1900 quand'ero ragazzo, c'era ancóra forse l’ultimo negozio di
vrennajuolo alla fine di Via Foria,proprio all’angolo con la chiesa di
S.Antonio Abate dove oggi, se non erro, mi pare che ci sia (in quel medesimo locale) un venditore di ferramenta cioè di
assortimento di minuterie ed oggetti metallici per uso domestico ed artigianale;rammento che lí in quella bottega
di vrennajuolo, benché mia madre mi
vietasse di farlo, compravo (prelevate
da sacchi polverosi e – devo riconoscere – poco igienici) delle carrube o sciuscelle che mangiavo voracemente.Prima di soffermarci sulle
parole incontrate ricordo che il piú
importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta camorrista don Ciccio Cappuccio, successore del
famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo;
costui era nato nel 1816, appartenente
ad una famiglia di saltimbanchi molto conosciuta ed apprezzata nella
zona di Porta Capuana. Ma, la vita del circo, non gli si confaceva; ad appena
14 anni infatti entrò a far parte della
Bella Società Riformata ed a soli 33 divenne capo indiscusso della stessa,
gridando: “Ò trentatré anni, l'età di Cristo. E se a trentatré anni Cristo salí
al cielo, "Tore 'e Criscienzo" può ben diventare un capintesta “;fu
per lungo tempo la massima autorità cittadina in fatto di camorra contrastato
da un altro celebre guappo quel Totonno ‘e Porta Massa che finí i suoi giorni
assassinato per ordine della Gran Mamma il 3 ottobre del 1862,ed alla sua morte
Tore 'e Criscienzo, vecchio e stanco si ritirò dando campo libero a don Ciccio Cappuccio che soprannominato ‘o signurino per i suoi
modi eleganti ed educati, aveva avuto come scuola
l’Imbrecciata ‘e san Francisco, violenta
e malfamata zona nel cuore della
Vicaria, dove il padre aveva una bettola. Ciccio Cappuccio conobbe presto il
carcere della Vicaria ed ivi nacque la
leggenda intorno al suo personaggio, quando, circondato (come era in uso) - dai
camorristi che gli chiedevano l’ “olio per la lampada”, ovvero che lo
sottoponevano ad estorsione, Ciccio si rifiutò di pagare e da solo lottò contro
dodici carcerati. In seguito fu mandato
a Ventotene. Al ritorno lasciò la zona della Vicaria per trasferirsi in Piazza S.
Ferdinando, e lí come copertura della sua attività camorristica aprí, [nei
locali dove oggi c'è un negozio di oggetti in pelle], un negozio di crusca e
carrube, mercato strategico che gli permetteva di avere il controllo della
compravendita dei cavalli e dell’attività dei cocchieri, gruppo, quest’ultimo,
sul quale 'o signurino aveva un
ascendente fortissimo e sul quale aveva il monopolio delle tangenti.
Devotissimo alla Madonna di Montevergine, Ciccio morí di malattia il 6 dicembre
del 1892.
vrennajuolo s.vo m.le = venditore
di crusca,biada ed affini voce denominale di vrenna (da un lat. med. brinna,)con l’aggiunta del suffisso aiolo/aiuolo/ajuolo suffisso
costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente
in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo,
vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che
stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo).
sciuscellaro s.vo m.le = venditore
di carrube, crusca,biada ed affini; voce denominale di sciuscella (e mi dilungo a seguire)con l’aggiunta del
suffisso aro variante di -aio,
comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso
che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o
formati in italiano, che indicano mestiere;
sciuscella= carruba La voce femminile sciuscella
(plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con
derivazione dall’arabo harruba ) carruba
cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in
grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di
sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam.
Leguminose) ed un tempo vennero usati
come passatempo goloso per bambini ; mentre come termine gergale la
voce carruba vale carabiniere (per il colore nero della
divisa, che richiama appunto quello
bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però non solo come foraggio per cavalli e buoi, o
– un tempo - come passatempo dolcissimo
per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze
zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da
usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali.
Nell’idioma napoletano la voce femminile sciuscella conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare
qualsiasi oggetto che sia di poca
consistenza e/o resistenza con riferimento semantico alla cedevolezza del frutto del carrubo,
frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile
da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad
esempio di un mobile che non sia di
stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di
compensato assemblati a caldo con
collanti chimici s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente! Alla medesima maniera ci si esprime nei riguardi di ogni altro
oggetto privo di consistenza e/o resistenza.
Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che
nell’idioma napoletano vi fu un tempo una voce maschile (o neutra) ora del tutto
desueta che suonò sciusciello voce
che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu, il salentino sciuscille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono, nelle rammentate parlate regionali, l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc.
E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe.
Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la
voce sciuscella , a ciò che nel suo
conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano
dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed accoglie solo sciuscella in ordine alla
quale però sceglie pilatescamente di
trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né
– stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive!
Mi pare invece che sia correttamente
perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali, per la
voce sciusciello, rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto. Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che per sciuscella
si possa correttemente pensare
ad un derivato neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi; quel neutro plurale fu poi
inteso femminile.
Semanticamente forse
la faccenda si spiega (a mio avviso)
con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e
bevande medicinali che posson far
forse pensare a dei brodini.
E passiamo al/alla PATERNUSTRARO/A mestiere antico ma
protrattosi fino a tutto il 1950 quando ancóra lo esercitava in via Martiri
d’Otranto adiacenze Benedetto Cairoli una portiera détta ‘a sié Curdella;
Curdella non era il suo cognome, ma un soprannome probabilmente in relazione ai cordini che
usava per fabbricare corone del santo Rosario; in effetti il/la paternustraro/a era colui o piú spesso colei che,con pazienza certosina, fabbricava corone
del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi
delle carrubbe (sciuscelle), bucati
all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei
forellini il filo ed i semi venivano poi
fermati in posizione con successivi minuscoli nodi. La voce paternustraro/a deriva dall’agglutinazione delle voci latine pater noster→paternustr addizionate del consueto suffisso aro
variante di -aio, comune soprattutto
nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso
che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o
formati in italiano, che indicano mestiere; e vianiamo alla voce
sié monosillabo che è usato per indicare il
termine signora;per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico
dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere
síe
piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine
etimologicamente deriva in effetti non da signora, ma da una
voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→
sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita
spesso che sulla
bocca del popolino, meno conscio o attento
della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma –
inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni
pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti
e/o studiosi della parlata napoletana la
voce a margine è resa con la
trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’=
zia;
mi è infatto occorso di lèggere, a mo’ d’esempio, recentemente
in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome
del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano
messe..." invece che
correttamemente Dicette 'o si' moneco,â
sié Badessa: "Senza denare, nun se
cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste
soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto nell’ avere usato
impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
E passo ora a dire
de
‘O ZARELLARO (molto più
spesso, 'a zarellara), mestiere antico, ma ancóra in uso quantunque
ridimensionato per ciò che riguarda numero e tipo di mercanzia smerciata. Un
tempo fino a tutto il 1950 ‘o/’a zarellaro/a
aveva una bottega dove si
poteva trovava di tutto, una sorta di emporio ante litteram dove si smerciava ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni
e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni, spugne marine, spugnette metalliche ,sapone
per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in
legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze
pe lavà 'nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di competenza dei cartolai o dei supermarket: quaderni,
blocchi di fogli per il disegno, matite e penne comuni con relativi pennini,boccette d’inchiostro, gomme per
cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne,
nettapenne, pastelli e portapastelli;
non mancavano piccoli giocattoli come cavallucci in legno o di cartapesta, bilancine e bamboline o bambolotti,nonché scopini (scupilli)
per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da
balia (spingule 'e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe,
lucido per pulirle (‘a crumatina) e relative spazzole, siringhe ed aghi per
iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della
Festa di piedigrotta sciosciamosche,
mazzarielle, cuppulune, cappielle ‘e
carta e carta crespata, carta velina, carta oleata e cartoncino per la fabbricazione
dei vestitini di carta, ed infine finanche "pappagalli" e "pale"
per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro, ovviamente senza averne la
licenza, vendeva anche paparelle 'e
zuccaro, caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.Dopo
il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria
e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per
cucire, spago,nastri e trine, bottoni,
spilli di ferro o di acciaio,spille da balia, bottoni automatici e chiusure zip e per tutto il resto fu
giocoforza servirsi dei magazzini STANDA ed UPIM.
zarellaro/a, zagrellaro/a, zagarellaro/a = merciaioa son voci
derivate da zagarella/ zarella/ziarella che etimologicamente nella triplice morfologia (la seconda e terza
voce son solo delle semplificazioni d’uso popolare della prima voce)sono
adattamenti collaterali di zaganella
diminutivo di zàgana
s.vo f.le che è voce region., di area umbro-laziale,
dove indica una sottile treccia di lana o di seta per rifinitura di abiti
femminili;quanto all’etimo di questa zàgana
da cui àn preso derivazione zaganella
nonché le voci in esame che – ripeto – ne son collaterali, atteso che zàgana è voce affine a sagola di cui pare addirittura un
metaplasmo regionale, si può sospettare un adattamento della voce portoghese soga (fune, corda) secondo il percorso soga→sogana →sagana→zagana
sempre che la voce zàgana non sia
un adattamento dell’arabo zahara ( chiaro,splendente) poi che in
origine la zàgana (nastro, fettuccia)
fu esclusivamente bianco usato per
agghindare il capo delle fanciulle in abito bianco da prima comunione).
Rammento
che alternativamente alla voce zarellaro vennero usate le seguenti due voci che
illustro:
-galantario/galantarario s.vi
m.li di cui il secondo è una forma espansa del primo (mediante l’epentesi
di una sillaba espressiva ra)= venditore di trine, gale,
merletti , pizzi, dentelli,e tutti gli altri manufatti da ornamento purché
eleganti o raffinati; etimologicamente
la voce deriva dal francese galant
part. pres. dell'ant. galer 'divertirsi' seguito dal suffisso ario suffisso corrispondente al lat. -arius,
che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in
italiano, che stabiliscono una relazione, indicano nomi collettivi, nomi di
mestiere ecc.;
capesciulario/capisciulario s.vo
m.le di doppia morfologia, ma di unico significato = venditore di filo,
tessuto ed anche trine, gale, merletti ,
pizzi, dentelli per eleganti, raffinati, di classe, di gusto, distinti, fini,
signorili o addirittura ricercati abiti da donna; etimologicamente la
voce deriva dall’iberico capichola
(=tessuto di tela a cordonetto) addizionato del suff. ario suffisso corrispondente al lat. -arius, che forma
aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano,
che stabiliscono una relazione, indicano nomi collettivi, nomi di mestiere
ecc..
E
veniamo a parlare de
‘O SANZARO s.vo
m.le e solo m.le è rarissimo l’ uso di adattato al femminile ‘a sanzara indicò in primis il mediatore, l’intermediario per la
compravendita di prodotti agricoli e di bestiame; in seguito la mediazione si
estese ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi
svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando
le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare (intermediario marittimo,
mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel
campo dei traffici marittimi. sanzaro ‘e terra (intermediario per la
compravendita o affitto di case e/o terreni). Da ultimo con significato.
ancora piú ampio: sanzaro ‘e matremmonie (procacciatore
di matrimonî.) poteva essere il mediatore per fittare case o anche
quello che procurava matrimoni.Costui s’ebbe il nomignolo di cauzette rosse in quanto per una sorta
di identificazione alla strega dei cosidetti paglietti (cfr. ultra)che
indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per farsi distinguere, indossava calze di color
rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali
spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.Ancóra oggi,nella città bassa, quando qualcuno cerca di procurare occasioni
d'incontro affiché due ragazzi si fidanzino per giungere al matrimonio s’usa
accreditarlo di aver indossato cauzette
rosse.
etimologicamente la voce
sanzaro
è dall'ar. simsar, che è dal persiano sapsar.
E passiamo ora a dire del mestiere dei pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta che di per sé è femminile ed al plurale va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro; ancóra oggi il mestiere del paglietta resiste ed è esercitato da quei giovani e quindi inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere.
Ecco ora un altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de
‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente
venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere, robivecchi; tale venditore girovago aduso a
comprare e rivendere, per poche lire,
roba vecchia, usata, di scarso
valore tra cui pentolame, cenci, ed
abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia
pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat. sapone(m),
e che indicò in origine una 'miscela di cenere e sego per tingere i
capelli', voce di orig. germ. ( sapp) solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali
detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette
industriali che conosciamo, ma un tipo
di sapone artigianale molto morbido e di
colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e non per la pulizia personale), che veniva ceduto avvolto in fogli di carta
oleata, a mo’ di fétte, staccandole con
una lama da un parallelepipedo compatto;
tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone della piazza,
forse perché venduto non in una qualche specifica bottega (come è invece per altre merci) ,
ma esclusivamente per istrada /piazza dai
venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi
(saponari ) che ne erano
anche i produttori artigianali secondo
antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff.
di competenza arius→aro.
E chiudo queste paginette parlando di alcuni mestieri, due femminili gli altri maschili, irrimediabilmente spariti con il
progresso ed il consumismo dilagante. Il primo
mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne di cui dico fu quello di
capera cioè pettinatrice
girovaga che pettinava, con particolare attenzione e capacità ,giovani o mature
popolane che (assise su di una sedia di
paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o
abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera
era un lavoro lungo e faticoso tenendo
presente l’abbondanza della capigliatura
di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce
e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in
crocchie che in napoletano si dicono tuppi.
Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per
basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma
amava riportare sussurrando ai loro
orecchi tutti i fatti soprattutto
se piccanti appresi in altre
case, per cui la capera era a tutta ragione
considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé
che le notizie, apprese in gran segreto,
circolavano súbito, diventando di dominio comune.
capera s.vo f.le = in
primis 1 pettinatrice, parrucchiera,
acconciatrice.
2 per traslato = pettegola, persona che à l’abitudine di fare e scambiare
chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza
fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti
maliziosi.
voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di
pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere,
cantenera ma canteniere etc. ).
tuppe s.vo m.le pl. del
sg tuppo = tuppè, crocchia,
chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la
nuca; voce adattamento del fr. toupet L’altro
mestiere tipicamente femminile fu quello della lavannara (lavandaia),
mestiere che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando nelle case
degli operai evoluti e della piccola borghesia
apparvero le prime lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche provviste dapprima di vasca per il lavaggio
e di rulli per la strizzatura,
rulli poi sostituiti con piú funzionale cestello centrifuga.
La lavannara (lavandaia) fu colei che con cadenza settimanale o bisettimanale nel caso
di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da
detergere e sbiancare che poi provvedeva
a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un
paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della
città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle
eleganti case di costoro non esisteva ‘o
lavaturo (il lavatoio) in pietra essenziale per procedere all’operazione di
lavatura dei panni; tale lavaturo (
lavatoio) esisteva in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso
alla sua opera settimanalmente o
bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti. Nella nostra casa
di via Foria in un passetto pensile
attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un
ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso
latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed
attempata donna,che - se non ricordo male -
rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai
grossi polpacci segnati da gonfie vene
varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (di cui ò
détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la
tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò già
ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la
biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco
kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco
óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria
lavata era posta ad asciugarsi,
adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra
delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da
padroni.
bucato s.vo m.le
1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato
1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato
| lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime
2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato.
2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato.
Deriv. del francone *bukon 'immergere'
Culata s. f. 1 lavatura della biancheria
fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi;
2 la biancheria già lavata.
2 la biancheria già lavata.
Deverbale di colare che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro)
Cennerale s. m. grosso
telo (usato durante il bucato) a trama
larga su cui venivano sistemati pezzi di
arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere (prelevata dal
focolare domestico); sulla cenere ed i pezzi d’arbusto si lasciava colare dell’acqua bollente addizzionata, magari di
altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del lat. cinere(m) (affine al gr. kónis
'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un
tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti.
E mi occupo infine di quattro mestieri esercitati, sino a
tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con
il progresso ed il consumismo dilagante.
, da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine
‘o cenneraro s.vo m.le = ceneraio
commerciante girovago che ,alla voce “Oj ne''o cenneraro",un tempo, comprava
e rivendeva alle massaie cenere da
usarsi per il bucato sistemata su di ungrosso
telo a trama larga detto cennerale venduto a chi ne fósse sprovvisto dal medesimo cenneraro; sul telo, come ricordato, venivano sistemati arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi
colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze
profumate, quando tutta l’acqua era passata
e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di
sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un
ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole
augurandosi che questo non mancato e
anzi, fosse uscito facendo capolino tra le nuvole.
‘o cenneraro s.vo m.le è etimologicamente voce denominale di cennere
( dal lat. cinere(m),con
raddoppiamento espressivo della nasale dentale (n) cinere(m) è affine
al gr. kónis 'polvere')addizionato
del suffisso di competenza arius→aro variante
di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali.
E veniamo al
conciambrielle s.vo
m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago
che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche
d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza riparava ombrelli illico et immediate, seduto sul marciapiedi all’imboccatura di
bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso
di un ombrello elegante e funzionante
forniva ai giovanotti l'occasione per contattare
ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo artiere
girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di conciatiane
s.vo m.le = era colui che
riparava stoviglie rotte di terracotta o
ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e precisione
consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia
rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione,
far combaciare con precisione i pezzi e
ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano
provvisto di punta sottile) dei
minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per
torsione; il lavoro veniva completato
spalmando ad abundantiam con mastice le connessure.
la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il
risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª
pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià
= aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di
*comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o
atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico del sg. ‘mbrello ( adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello,
rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella
'parasole').
La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il
risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª
pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià
= aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di
*comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o
atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana
s.vo f.le = pentola, tegame a
bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le tiano utilità simili se non uguali
che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per
la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; rammento che in questo caso si fa eccezione alla regola che vuole che in napoletano
si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.:
tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo –
carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno
eccezione appunto tiano piú grande -
tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. )ed il maschile tiano indica una pentola piú grande della
femminile tiana; nella tiana si
potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie
minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal
latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto
minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era
giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile;
Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de
Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de
ll’arganattore s.vo m.le che
indicava un tintore di panni che usava
una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne=
alcanna); da arganetta si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal lat. mediev. alchanna(m), che è dall'ar. alhinna, cfr. henna)
è un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam.
Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella
confezione di cosmetici e medicinali.
E termino accennando al
mestiere che non è piú errabondo
dell’arrotino di forbici, di coltelli per usi domestici,ed artigianali
(macellai, sellai etc.), di rasoi da barbiere, mestiere che perdura in qualche
sparuta bottega: nella città bassa non v’è che una sola caotica botteguccia
confinata in un angolo di piazza san Francesco. Sto dicendo de
l'ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino girovago
che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un
suo caratteristico carrettino sormontato
dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto
ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia
stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire l’affilatura delle lame; sul finire degli
anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo
carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale
era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo
dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti
e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino
azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi
di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino all’angolo
di piazza san Francesco.
ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino La voce è etimologicamente il risultato
dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres.
dell’infinito ammulà = arrotare,
molare, affilare ( dal lat. *ad-molare, derivato del
lat. mola(m), dalla
stessa radice di molere 'macinare'= mola, utensile rotante
costituito da un disco di materiale abrasivo, usato in diverse macchine
utensili (molatrici, affilatrici, levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il passaggio della o atona ad u
) con il s.vo f.le pl. frobbice = forbici; la voce
napoletana è una lettura metatetica del lat.
volg. *forbice(m)→ *frobice(m)→ *frobbice(m) per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo
della occlusiva bilabiale sonora
(b)
E
cosí penso proprio d’avere contentato l’amico A.L. ed interessato
anche qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori e di poter concludere con il consueto
satis est.
R.Bracale
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