venerdì 24 gennaio 2020

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 1ª


ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI  parte 1ª

Mi è stato chiesto da una cara amica della quale per questioni di riservatezza mi limito ad indicare le sole iniziali delle generalità D.P., mi è stato chiesto – dicevo – di spender qualche parola sull’argomento in epigrafe. L’accontento súbito augurandomi di interessare anche qualche altro dei miei ventiquattro lettori e comincio con il dire del  rammariello.

Tra i numerosi bassi mestieri che un tempo furono esercitati dai napoletani e che oggi sono completamente desueti: ‘mpagliasegge (impagliatori di sedie), ‘mmolafuorfece (arrotini), conciambrelle, conciatiane (riparatori di ombrelli, di stoviglie) stagnaro (che non è l’odierno idraulico, sebbene quest’ultimo in napoletano sia conosciuto con il nome di stagnaro, ma quell’artiere che provvedeva a ricoprire di stagno le pareti interne(quelle che sarebbero dovuto andare a contatto con i cibi cotti) delle pentole di rame ) un posto di rispetto merita ‘o rammariello che fu - si può dire –  il primo ideatore delle cosiddette  vendite rateali a domicilio; costui girava di casa in casa vendendo principalmente biancheria personale e da casa (ma anche altre piccole merci di cui fosse richiesto: filati, trine etc.) e tutto ciò che occorresse per mettere insieme un adeguato corredo da sposa; il corredo è l'insieme degli abiti, della biancheria e degli altri effetti personali di cui si dispone; si dice soprattutto di ciò che la sposa porta con sé per farne uso nella vita matrimoniale: corredo nuziale. La particolarità e precipuità della vendita fatta dal  rammariello erano date dal fatto che, consegnata tutta la merce pattuita e/o richiesta, il venditore passava a riscuotere di mese in mese le contenute rate in cui veniva suddiviso il prezzo stabilito, permettendo in tal modo anche ai meno abbienti, con piccoli esborsi mensili, di assicurarsi buona merce ( mai il rammariello avrebbe ceduto merce scadente: correva il rischio di perder la clientela e perciò il lavoro ed un sia pure modesto guadagno!). E veniamo all’origine della parola rammariello; come si intuisce si tratta del diminutivo di rammaro che fu il ramaio, cioè il venditore di utensili da cucina che furono di rame (ramma) etimologicamente da ramma (a sua volta da un basso latino (ae)ràmen da aes/aeris=rame,bronzo, con procope d’avvio di ae, raddoppiamento espressivo della m, e cambio di genere) + il suffisso di pertinenza arius→aro. Originariamente ‘o rammaro fu il venditore porta a porta delle stoviglie di rame; quando poi – con l’avvento dell’alluminio -  non si vendettero piú pentole e stoviglie (mestoli, schiumarole, cucchiaie e forchettoni) il ramaio fu costretto a cambiar merce e si adattò a vendere biancheria personale ( camicie da notte, sottovesti etc.) e da casa (coperte, lenzuola, asciugamani etc) inventandosi per attirare la clientela (…la nuova mercanzia era piú costosa del pregresso pentolame in rame) la vendita rateale, ed il popolino gli confezionò ipso facto il nome di rammariello che ricordasse l’antico mestiere di ramaio ed il nome di rammariello fu usato da tutti coloro che vendevano biancheria a domicilio, anche da quelli che presero a fare tale mestiere pur senza essere stati dapprima ramai.
A completamento rammentiamo anche gli etimi di:
‘mpagliasegge (impagliatori di sedie): ‘mpaglia voce verbale 3
ª p. sing. ind. pres. di ‘mpaglià= impagliare dal latino attraverso un in illativo + palea(m) + segge = plur. di seggia che è da sedja con dj→gg; a sua volta: sedja= sedia è lettura  metatetica di sieda cong. esortativo da un latino sedíre;
 - ‘mmolafuorfece (arrotini) = ammola + fuorfece: ammola voce verb. 3ª p. sing. ind. pres. di ammulà = arrotare dal latino ad + mola(m) = passare alla mola; fuorfece plurale metafonetico  di forfece da un acc. latino forfice(m)= forbici
- conciambrelle (chi aggiusta gli ombrelli) da concia o acconcia voce verbale 3ª p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + ‘mbrelle plurale adattato (normalmente dovrebbe esser ‘mbrielle) di ‘mbrello = ombrello da un basso latino umbrella maschilizzato.
- conciatiane (chi ripare le pentole) da un concia o acconcia vedi sopra + tiane plurale di tiana da un basso latino tejana femminile di un tejano che fu dal greco tégano collaterale di tàghenon= pentola, padella.

Esaurito l’argomento  rammariello, qui di sèguito illustro alcuni altri vecchi e desueti mestieri napoletani, principio  perciò con il parlare del   vrennajuolo o (secondo un’antica terminologia del D’Ambra sciuscellaro. Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il mezzo di trasporto piú  usato non era certo l'automobile, ma il cavallo. Questo sciuscellaro o vrennajuolo era un venditore che alienava ai suoi numerosi   clienti(vatecare provvisti di carretto e cavallo per il trasporto delle merci,titolari di imprese di pompe funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con carrozza padronale) orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna),e carrube(in napoletano sciuscelle), tutti elementi necessari nella gestione dei cavalli. Ò parlato di tardo ottocento,ma rammento bene  che,negli anni ’50 del 1900 quand'ero ragazzo, c'era ancóra forse l’ultimo   negozio di  vrennajuolo alla fine di Via Foria,proprio all’angolo con la chiesa di S.Antonio Abate dove oggi, se non erro,  mi pare che ci sia  (in quel medesimo  locale) un venditore di ferramenta cioè di assortimento di minuterie ed oggetti metallici per uso domestico ed  artigianale;rammento che lí in quella bottega di  vrennajuolo, benché mia madre mi vietasse di farlo, con qualche soldarello avuto in dono e  che potevo gestire  compravo (prelevate da sacchi polverosi e – devo riconoscere – poco igienici)  delle carrube o sciuscelle che mangiavo voracemente.Prima di soffermarci sulle parole incontrate ricordo  che il piú importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta  camorrista  don Ciccio Cappuccio, successore del famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo; costui era nato nel 1816, appartenente  ad una famiglia di saltimbanchi molto conosciuta ed apprezzata nella zona di Porta Capuana. Ma, la vita del circo, non gli si confaceva; ad appena 14 anni infatti  entrò a far parte della Bella Società Riformata ed a soli 33 divenne capo indiscusso della stessa, gridando: “Ò trentatré anni, l'età di Cristo. E se a trentatré anni Cristo salí al cielo, "Tore 'e Criscienzo" può ben diventare un capintesta “;fu per lungo tempo la massima autorità cittadina in fatto di camorra contrastato da un altro celebre guappo quel Totonno ‘e Porta Massa che finí i suoi giorni assassinato per ordine della Gran Mamma il 3 ottobre del 1862,ed alla sua morte Tore 'e Criscienzo, vecchio e stanco si ritirò dando campo libero a  don Ciccio Cappuccio che  soprannominato ‘o signurino per i suoi modi eleganti ed educati, aveva avuto  come scuola  l’Imbrecciata ‘e san Francisco, violenta zona nel cuore della Vicaria, dove il padre aveva una bettola. Ciccio Cappuccio conobbe presto il carcere della Vicaria ed ivi   nacque la leggenda intorno al suo personaggio, quando, circondato (come era in uso) - dai camorristi che gli chiedevano l’ “olio per la lampada”, ovvero che lo sottoponevano ad estorsione, Ciccio si rifiutò di pagare e da solo lottò contro dodici carcerati. In seguito fu  mandato a Ventotene. Al ritorno lasciò la zona della  Vicaria per trasferirsi in Piazza S. Ferdinando, e lí come copertura della sua attività camorristica aprí, nei locali dove oggi c'è un negozio di oggetti in pelle, un negozio di crusca e carrube, mercato strategico che gli permetteva di avere il controllo della compravendita dei cavalli e dell’attività dei cocchieri, gruppo, quest’ultimo, sul quale 'o signurino aveva un ascendente fortissimo e sul quale aveva il monopolio delle tangenti. Devotissimo alla Madonna di Montevergine, Ciccio morí di malattia il 6 dicembre del 1892.
vrennajuolo s.vo m.le = venditore di crusca,biada ed affini voce denominale di vrenna (da un lat. med. brinna,)con l’aggiunta del suffisso aiolo/aiuolo/ajuolo suffisso costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo, vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo).
sciuscellaro s.vo m.le = venditore di carrube,  crusca,biada ed affini;  voce denominale di sciuscella  (e mi dilungo a seguire)con l’aggiunta del suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che  compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere;
sciuscella= carruba La voce femminile  sciuscella  (plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con derivazione dall’arabo harruba ) carruba  cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam. Leguminose) ed un tempo vennero usati  come passatempo  goloso  per bambini ; mentre come termine gergale la voce carruba vale  carabiniere (per il colore nero della divisa, che richiama appunto  quello bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però  non solo come foraggio per cavalli e buoi, o – un tempo - come passatempo dolcissimo   per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali.
Nell’idioma napoletano la voce femminile sciuscella  conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare qualsiasi oggetto che sia di  poca consistenza e/o resistenza con riferimento semantico  alla cedevolezza del frutto del carrubo, frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad esempio  di un mobile che non sia di stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di compensato assemblati a caldo  con collanti chimici  s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente!  Alla medesima maniera  ci si esprime nei riguardi di ogni altro oggetto privo di consistenza e/o resistenza.
Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che nell’idioma  napoletano vi fu un tempo  una voce maschile (o neutra) ora del tutto desueta che suonò sciusciello voce che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu,    il salentino sciuscille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono,  nelle rammentate parlate regionali,  l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc.
E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe.
Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la voce sciuscella , a ciò che nel suo conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed  accoglie solo sciuscella  in ordine alla quale però  sceglie pilatescamente di trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né – stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive!
Mi pare invece che sia correttamente perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali, per la voce sciusciello,   rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto.  Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che  per sciuscella     si possa correttemente pensare ad  un derivato  neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi;  quel neutro plurale fu    poi inteso femminile.
Semanticamente forse  la faccenda si spiega (a mio avviso)   con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e bevande medicinali che posson far  forse  pensare  a dei  brodini.
E passiamo ora  al/alla paternustraro/a mestiere antico ma protrattosi fino a tutto il 1950 quando ancóra lo esercitava in via Martiri d’Otranto adiacenze Benedetto Cairoli una portiera détta ‘a sié Curdella; Curdella non era il suo cognome, ma un soprannome  probabilmente in relazione ai cordini che usava per fabbricare corone del santo Rosario; in effetti il/la paternustraro/a  era colui o piú spesso colei  che,con pazienza certosina, fabbricava corone del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi delle carrubbe (sciuscelle), bucati all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei forellini il filo ed i semi venivano poi  fermati in posizione con successivi minuscoli nodi. La voce paternustraro/a  deriva dall’agglutinazione  delle voci latine pater noster→paternustr addizionate del consueto suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che  compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere;
Il monosillabo sié   è usato per indicare la voce signora;per il vero non si tratta   dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita   spesso che   sulla bocca  del popolino, meno conscio  o attento  della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna  di taluni  pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana  la voce a margine  è resa con la trasformazione del corretto sié= signora  con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente  in una pubblicazione sui proverbi napoletani  (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’  Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." invece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié  Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto  nell’avere usato a’  al posto di â  per dire alla, quanto per avere usato impropriamente  zi' moneco, e zi’  Badessa al posto di si' moneco, e sié  Badessa.
E passo ora a dire de

‘o zarellaro (molto più spesso però , 'a zarellara), mestiere antico, ma ancóra in uso quantunque ridimensionato per ciò che riguarda numero e tipo di mercanzia smerciata. Un tempo fino a tutto il 1950 ‘o/’a zarellaro/a   aveva una bottega dove si poteva  trovava di tutto, una sorta  di emporio ante litteram dove si smerciava  ago e filo per cucire, spago,nastri e trine,  bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni,  spugne marine, spugnette metalliche ,sapone per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze pe lavà 'nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di  competenza dei cartolai o dei supermarkets: quaderni, blocchi di fogli per il disegno, matite e  penne comuni  con relativi  pennini,boccette d’inchiostro, gomme per cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne, nettapenne, pastelli e  portapastelli; non mancavano  piccoli  giocattoli come cavallucci in legno  o di cartapesta, bilancine e bamboline  o bambolotti,nonché scopini  (scupilli) per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia (spingule 'e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe, lucido per pulirle (‘a crumatina)  e relative spazzole, siringhe ed aghi per iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della Festa di piedigrotta sciosciamosche, mazzarielle, cuppulune,  cappielle ‘e carta e carta crespata, carta velina,  carta oleata e cartoncino per la fabbricazione dei vestitini di carta,  ed infine finanche "pappagalli" e "pale" per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro, ovviamente senza averne la licenza, vendeva anche paparelle 'e zuccaro,  caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.Dopo il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per cucire, spago,nastri e trine,  bottoni, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia,  bottoni automatici e  chiusure zip e per tutto il resto fu giocoforza servirsi dei magazzini STANDA ed UPIM.
zarellaro/a, zagrellaro/a, zagarellaro/a = merciaio/a son voci derivate da zagarella/ zarella/ziarella  che etimologicamente  nella triplice morfologia (la seconda e terza voce son solo delle semplificazioni d’uso popolare della prima voce)sono adattamenti collaterali di zaganella diminutivo di zàgana s.vo f.le  che è voce region., di area umbro-laziale, dove indica una sottile treccia di lana o di seta per rifinitura di abiti femminili;quanto all’etimo di questa zàgana da cui àn preso derivazione zaganella nonché le voci in esame che – ripeto – ne son collaterali, atteso che zàgana è voce affine a sagola di cui pare addirittura un metaplasmo regionale, si può sospettare un adattamento della voce portoghese soga (fune, corda) secondo il percorso soga→sogana  sagana→zagana sempre che la voce zàgana non sia un adattamento  dell’arabo zahara ( chiaro,splendente) poi che in origine la zàgana (nastro, fettuccia) fu   esclusivamente bianco usato per agghindare il capo delle fanciulle in abito bianco da prima comunione).
E veniamo a parlare de 
‘o sanzaro  s.vo m.le e solo m.le è rarissimo l’ uso di un  adattato al femminile ‘a sanzara;  indicò in primis il mediatore, l’intermediario per la compravendita di prodotti agricoli e di bestiame; in seguito la mediazione si estese ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare  (intermediario marittimo, mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel campo dei traffici marittimi. sanzaro ‘e terra  (intermediario per la compravendita o affitto di case e/o terreni). Da ultimo con significato. ancora piú ampio: sanzaro ‘e matremmonie  (procacciatore di matrimonî.) poteva essere il mediatore per fittare case o anche quello che procurava matrimoni.Costui s’ebbe il nomignolo di cauzette rosse in quanto per una sorta di identificazione alla strega dei cosidetti paglietti (cfr. ultra)che indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per  farsi distinguere, indossava calze di color rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.Ancóra  oggi,nella città bassa,  quando qualcuno cerca di procurare occasioni d'incontro affiché due ragazzi si fidanzino per giungere al matrimonio s’usa accreditarlo di aver indossato cauzette rosse.
 etimologicamente la voce sanzaro  è dall'ar. simsar, che è dal persiano sapsar.
E passiamo ora a dire del mestiere dei
pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta  che di per sé è femminile ed al plurale  va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia  tesa  rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro; ancóra oggi il mestiere del paglietta resiste ed è esercitato da quei giovani e quindi inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati  nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere.
(segue)
R.Bracale

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