venerdì 24 gennaio 2020

ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI parte 2ª


ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI  parte 2ª


Ecco ora un altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de
‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere,  robivecchi; tale venditore girovago aduso a comprare e rivendere, per poche lire,   roba vecchia, usata,  di scarso valore tra cui pentolame, cenci,  ed abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat.    sapone(m), e che indicò in origine  una  'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. ( sapp)  solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari  nei loro scambi, non erano le saponette industriali  che conosciamo, ma un tipo di sapone artigianale  molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e  non per la pulizia personale),   che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, a mo’ di fétte,  staccandole con una lama da un  congruo parallelepipedo  compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone della piazza, forse perché venduto non in una qualche specifica  bottega (come è invece per altre merci) , ma   esclusivamente per istrada /piazza dai venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi  (saponari  ) che ne erano anche  i produttori artigianali secondo antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff. di competenza arius→aro.
Parliamo ora  di alcuni  mestieri, due femminili gli altri  maschili, irrimediabilmente spariti con il progresso ed il consumismo dilagante. Il primo  mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne di cui dico fu   quello di
capera  cioè pettinatrice girovaga che pettinava, con particolare  attenzione e capacità ,giovani o mature popolane  che (assise su di una sedia di paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera era un lavoro lungo e  faticoso tenendo presente l’abbondanza  della capigliatura di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima  in trecce  e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in crocchie che in napoletano si dicono tuppi. Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma amava riportare sussurrando ai loro  orecchi tutti i fatti soprattutto  se piccanti  appresi in altre case, per cui la capera era a tutta ragione  considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé che le  notizie, apprese in gran segreto, circolavano súbito, diventando di dominio comune. 
capera s.vo f.le = in primis 1 pettinatrice, parrucchiera, acconciatrice.
2 per traslato = pettegola,  persona che à l’abitudine di fare e scambiare chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti maliziosi.
voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere, cantenera ma  canteniere etc. ).
tuppe s.vo m.le pl. del sg tuppo = tupè/tuppè, crocchia, chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la nuca; voce adattamento del fr. toupet .
 L’altro mestiere tipicamente femminile fu quello della lavannara (lavandaia), mestiere che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia  apparvero le prime lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche   provviste dapprima di vasca per il lavaggio e  di rulli per la strizzatura, rulli  poi sostituiti  con un piú funzionale  cestello centrifuga.
La lavannara (lavandaia) fu colei che con  cadenza settimanale o bisettimanale nel caso di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare  che poi provvedeva a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o  dell’alta borghesia e spesso nelle eleganti  case di costoro non esisteva ‘o lavaturo (il lavatoio) in pietra, aggeggio  essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale  lavaturo ( lavatoio) esisteva invece  in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente  o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti. Nella nostra casa di via Foria in un passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male -  rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi  polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (di cui ò détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò già ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria lavata  era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni.
bucato s.vo m.le
1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato
| lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime
2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato.
Deriv. del francone *bukon 'immergere'
Culata  s. f. 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi;
2 la biancheria  già lavata.
Deverbale di colare  che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro)
cennerale s. m. grosso telo (usato durante il bucato)  a trama larga su cui  venivano sistemati pezzi di   arbusti odorosi  ed un congruo strato di cenere (prelevata dal focolare domestico o acquista da un rivenditore girovago); sulla cenere ed i pezzi d’arbusto si lasciava colare  dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del  lat. cinere(m) (affine al gr. kónis 'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti.
E mi occupo adesso di quattro mestieri esercitati, sino a tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con il progresso ed il consumismo dilagante.  , da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine
‘o cenneraro s.vo m.le  = ceneraio  commerciante girovago che ,alla voce  “Oj ne' 'o cenneraro!”,un tempo, comprava e rivendeva alle massaie  cenere da usarsi per il bucato  sistemata su di ungrosso telo a trama larga ch’era il già détto cennerale  venduto a chi ne fósse sprovvisto  dal medesimo cenneraro;  sul telo, come ricordato,  venivano sistemati  arbusti odorosi  ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate, quando tutta l’acqua era passata  e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole augurandosi che questo non fósse  mancato  e anzi, fósse stabilmente presente facendo capolino tra le nuvole.
‘o cenneraro s.vo m.le  è etimologicamente voce denominale di cennere ( dal lat. cinere(m),con raddoppiamento espressivo della nasale dentale (n) cinere(m) è affine al gr. kónis 'polvere')addizionato del suffisso di competenza arius→aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali.
E veniamo al
  conciambrielle  s.vo m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza    riparava ombrelli illico et immediate,  seduto sul marciapiedi all’imboccatura di bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso di  un ombrello elegante e funzionante forniva ai giovanotti  l'occasione per contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo artiere girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di  conciatiane s.vo m.le = era colui che riparava  stoviglie rotte di terracotta o ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e  precisione   consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione, far combaciare con precisione i pezzi  e ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano provvisto di  punta sottile) dei minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per torsione; il lavoro veniva completato   spalmando ad abundantiam con mastice le connessure.
la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico  del sg. ‘mbrello ( adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello, rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella 'parasole').
La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana s.vo f.le = pentola, tegame a bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le  tiano  utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue  dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon;  rammento che in questo caso si fa eccezione  alla regola che vuole che in napoletano si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo -  tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno eccezione appunto  tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola.  )ed  il maschile tiano indica una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile;
Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de

ll’arganattore s.vo m.le che indicava  un tintore di panni che usava una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta  détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne= alcanna);  da arganetta  si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal lat. mediev. alchanna(m), che è dall'ar. alhinna,  cfr. henna)
  è un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam. Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella confezione di cosmetici e medicinali.
E termino accennando al mestiere che non è piú errabondo   dell’arrotino di forbici, di coltelli per usi domestici,ed artigianali (macellai, sellai etc.), di rasoi da barbiere, mestiere che perdura in qualche sparuta bottega: nella città bassa non v’è che una sola caotica botteguccia confinata in un angolo di piazza san Francesco. Sto dicendo de

l'ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino girovago  che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un suo caratteristico carrettino sormontato  dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire  l’affilatura delle lame; sul finire degli anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino   all’angolo di piazza san Francesco.
ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino La voce  è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito ammulà = arrotare, molare, affilare  ( dal lat. *ad-molare, derivato del
lat. mola(m), dalla stessa radice di molere 'macinare'= mola, utensile rotante costituito da un disco di materiale abrasivo, usato in diverse macchine utensili (molatrici, affilatrici, levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. frobbice = forbici; la voce napoletana è una lettura metatetica del lat. volg. *forbice(m)→ *frobice(m)→ *frobbice(m)  per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo della occlusiva bilabiale sonora  (b)
E chiudo queste paginette soffermandomi ora su di un mestiere da venditore girovagoche esistette un tempo ed oggi ancóra esiste solo nelle zone piú popolari della città bassa; si tratta di mestiere  che dirò stagionale atteso che chi lo esercitava (uomo o donna) cambiava con rotazione stagionale la merce da vendere: in primavera ed in  estate questa/o venditrice/tore girovaga/o offriva pannocchie di mais (‘e spogne) una volta bollite, altra volta abbrustolite, mentre in autunno ed inverno  offriva castagne che se lessate con la buccia dura  erano chiamate vallene/vallane o bballuotte, se lessate senza  buccia dura erano détte allesse; quando poi invece  erano  abbrustolite prendevano il nome di veróle. Tale venditrice/tore girovaga/o cambiava con la merce anche il nome ed era semplicente chella o chillo d’ ‘e spogne quando vendeva pannocchie di mais, ed  era chella o chillo d’ ‘e vvallane o d’allesse se vendeva castagne lessate, mentre finalmente era ‘a castagnara oppure ‘o castagnaro se vendeva castagne arrostite/bruciate.  Scendiamo un po’ nei particolari. Questa/o venditrice/tore girovaga/o si serviva di un rabberciato, ampio carruociolo/carruocciolo, trainato con una cordicella, carruociolo/carruocciolo  su cui era montato un gran braciere alimentato a carbone sul quale  insisteva  un paiolo nel quale erano lessate o le pannocchie di mais (‘e spogne) oppure le castagne chiamate vallene/vallane  o quelle détte allesse; quando poi la merce non andava lessata, ma abbrustolita, braciere e paiolo erano sostituiti da un alto fucone anch’esso  alimentato a carbone sormontato da una griglia per abbrustolire le pannocchie  (spogne) o da un padellone forato (verularo) per abbrustolire/bruciare le castagne  (veróle).
Qui giunti esaminiamo le significative  voci incontrate:
spogna s.vo f.le
1.in primis spugna
2 per traslato ingegno della chiave
3. per traslato come nel caso che ci occupapannocchia di mais
4. per traslato gran bevitore; i significati traslati sub 2 e 3 semanticamente si ricollegano al primo per una somiglianza di forma; quello sub 4 si ricollega al primo per somiglianza di funzione: quella di assorbire; voce metatetica  del lat.  spongia(m), dal gr. sponghía;
 vàllene/vàllane s.vo f.le plur. del m.le  vàlleno/vàllano= marrone, varietà di castagna piú grossa e pregiata della normale castagna ; come questa privata del riccio e   della dura scorza esterna e lessata in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dall’acc.vo lat. bàlanu(m), con tipica alternanza partenopea b/v e raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (l), tipico nel tipo di parole sdrucciole (cfr. còllera←cholera(m); quando le castagne siano bollite private del riccio, ma non della buccia dura vengon piú acconciamente détte bballuotte (voce derivata con gran probabilità dall'ar. ballut 'ghianda');a margine della voce in esame rammento una gustosa, antica espressione popolare usata sarcasticamente quando ci si voglia riferire alla pochezza di mezzi economici conferiti per il raggiungimento di uno scopo; quando quei mezzi siano molto esigui s’usa dire: Aeh, ce accatte ‘o ssale p’’e vallane! (Eh,ci copri il sale per le castagne bollite); 
allesse s.vo f.le plur. di allessa= castagna privata del riccio e della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio che riporto elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part. pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa;
veróla s.vo f.le = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) e delle valleni (castagne bollite)) sia nella Campania che nel Lazio che nelle Marche;
verularo s.vo m.le= padellone bucherellato per arrostirvi le castagne;ma è voce quasi esclusivamente campana, denominale della precedente verola addizionata del suffisso aro/a suff. di competenza per sostantivi o aggettivi derivati dal latino o formati in italiano, che indicano oggetti,ma soprattutto  mestieri (putecaro/bottegaio,rilurgiaro/orologiaio) oppure luoghi(lutammaro/letamaio), ambiente pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa suffisso che continua il lat. arius→aro; lo stesso latino a(r)iu(s) à dato l’italiano aio che in napoletano è spesso nei  suffissi composti ajo.
carruociolo/carruocciolo s.vo m.le una tavola di legno di forma rettangolare all’incirca cm.70/80 di lunghezza e cm. 20/25 di larghezza, poggiante su due assi fisse sporgenti inchiodati nel solo punto centrale, portanti ciascuno due rotelle all’estremità.
Come rotelle si utilizzano generalmente cuscinetti meccanici usati, dismessi e donati da qualche meccanico.Veniva usato sia come mezzo per trasporto di merci e/o masserizie (come nel caso che ci occupa),sia come giocattolo per bambini che  dopo una breve rincorsa, salendovi sopra,  affrontavano discese abbastanza ripide riuscendo ad effettuare anche delle curve, grazie alla parte anteriore del carruociolo/carruocciolo sagomata con due tagli ad angoli retti per permettere alle ruote anteriori di sterzare per mezzo di tiranti, collegati a queste ultime e ad un manubrio fissato su un piccolo ceppo, posto sopra la tavola. la voce fu attestata nella doppia morfologia: carruociolo/carruocciolo; la prima fu usata nella città bassa, in luogo piú pianeggiante dove il giocattolo non dovendo affrontare ripide discese,veniva trainato  risultando meno rumoroso cosa che suggeriva l’uso di un nome piú dolce  evitando di raddoppiare l'affricata palatale sorda (c); la morfologia carruocciolo (con raddoppiamento espressivo   dell'affricata palatale sorda (c) fu usata in collina dove la presenza di declivi ripidi favoriva la rumorosità del mezzo e suggeriva l’uso d’ un nome piú duro; in ambedue le morfologie la voce etimologicamente è dal tardo latino, di origine gallica carruculum- dim. di carrus. 

fucone s.vo m.le: fornello, focolare, caldano di grosse dimensioni contenente il fuoco usato in istrada; su di esso    era poggiata la griglia per arrostire le spighe di mais, oppure il padellone forato per le caldarroste oppure  il calderone colmo d'olio per la cottura delle pizze fritte; voce  denominale del  tardo lat. *fōcu(m) per il class. fŏcu(m).
Tratto ora, concludendo, di altro antico (pressoché sparito) mestiere girovago peculiare della città bassa e di pertinenza maschile, ancorché lo potesse fare anche una donna, ma – a mia memoria – mai m’occorse di vederne. Sto dicendo del mestiere del ventrajuolo détto anche  cajunzaro  e piú modernamente carnacuttaro  che fu il venditore girovago, su di un approntato carrettino  del complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine   già nettate e lessate al vapore,  pronte  per essere consumate servite (tranciate  in piccoli pezzi) su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa erano prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che veniva prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale, corno tappato alla base con un congruo sughero e   bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno veniva portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendulo sul davanti del corpo.Dall’osservazione della figura del ventrajuolo/cajunzaro/ carnacottaro e del suo modo di portare il corno per distribuire il sale si coniò un’icastica,furbesca espressione che qui riporto: Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a carnacotta
Letteralmente: Adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Con tale espressione suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla.Come si vede ci si riferisce al corno del ventrajuolo/cajunzaro/ carnacottaro  portato pendulo in vita;   proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche maschili  del corpo, permettono alla locuzione di avere un suo significato furbesco con cui si vuol comunicare che ci si trova nell'impossibilità reale o volontaria  di aderire alle richieste.
 sull’avverbio di tempo  mo = ora, adesso poco fa  che è un’interessantissima voce  occorre ch’io mi dilunghi.
Nel napoletano vuoi  nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in esame usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata  con timbro aperto () mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente  definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta ()  connota il cittadino e  se è pronunciato con la  o chiusa(),  connota il provinciale.
   questo mo  che è possibile trovare, ma erroneamente  anche come  mo' o ancóra à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi  mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo  con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito,immantinente, immediatamente, senza por tempo in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola inesame?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che  non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse  da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi  scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato  dall’apposizione di un segno diacritico ().
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox =  ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice  e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine,  per motivi etimologici, perde una sola o piú  consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale),  non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che  ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum   per  pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia  consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope ( ) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è  là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono   ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là  dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.le. C’è invece un napoletano po’  che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª p. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. pote(st)→pote→po(te)→po’  comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può. Rammento infine che nel napoletano non esiste un po’ apocope di poco ( apocope che invece esiste nell’italiano) poi che nel napoletano poco è sempre usato in forma intera poco (cfr. ‘nu poco ‘e…(un po’ di…) - a ppoco â vota (un po’ alla volta);
nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope ( ): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno () d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno () comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo di chi scrive  (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
 E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)  
cuorno s.vo m.le = corno
 prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏuo nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale  maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne  è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate  dell’uomo o della donna traditi rispettivamente  dalla propria compagna,  o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o  i piccoli o grossi  amuleti di corallo rosso  usati come portafortuna;ugualmente con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini  macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati  e talvolta tinti di rosso   tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a precisi requisiti, dovendo necessariamente  essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità come  porte-bonheur.
russo= rosso  (da non confondere con ruosso  che è grosso)di colore rosso  derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato  del lat. tostu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione  partenopea  della o→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato  derivato  del lat. tortu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una  s intensiva e  tipica dittongazione partenopea  della o→uo;
vacante= cavo, vuoto  ed altrove insulso, insipiente  part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; non bisogna dimenticare l’esistenza  d’un altro tipico cuorno  quello appunto del
 carnacuttaro s.vo m.le = girovago venditore di trippe bovine che nettate,  lavate, e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero voce denominale di carnacotta s.vo f.le = nome generico usato per indicare le trippe bovine o suine già lessate ed atte al consumo; per ottenere la voce a margine: carnacuttaro, al s.vo carnacotta (agglutinazione funzionale di carne + cotta) è aggiunto il suff. aro (cfr. antea) ;carnacotta addizionato di aro per metafonia divenne carnacutta.
cajunzaro s.vo m.le = voce antica e desueta, sinonimo del precedente; denominale di cajonza s.vo f.le = sacco intestinale , trippa, intestini  delle bestie vaccine macellate; voce adattamento dello spagnolo callos→cajons→cajonza; in ispagnolo c’è anche l’espressione callos de tripa  puntualmente  riprodotta nel napoletano callo ‘e trippa per indicare un determinato tipo di carnacotta; anche per la voce a margine si ricorse al suff. aro (cfr. antea) addizionato al s.vo cajonza che per metafonia divenne cajunza e diede cajunzaro.
ventrajuolo  s.vo m.le = voce antica e desueta, sinonimo delle precedenti: 1 trippaio, venditore di trippa, e anche di altre interiora bovine già pulite e  lessate.2 per estensione  operaio macellatore che nei mattatoi lavora nel reparto tripperia....   voce denominale di ventre  [lat. venter-tris] (sinon. di addome e del piú comune  e piú familiare pancia, per indicare sia la cavità dell’addome contenente i visceri sia la regione esterna corrispondente, nell’uomo e negli animali) addizionato del suff. ajulo suffisso costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo, vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo).


 E  cosí penso proprio d’avere contentato l’amico A.L. ed interessato anche  qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Penso perciò   di poter concludere con il consueto satis est.
R.Bracale




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