martedì 3 marzo 2020

IL VERBO FÁ E LA SUA FRASEOLOGIA


IL VERBO FÁ E LA SUA FRASEOLOGIA

Anche questa volta raccolgo una richiesta del mio caro amico N.C.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che,abituale lettore delle mie cosucce , mi à sollecitato a parlare del verbo in epigrafe e delle sue accezioni e/o fraseologia  nel napoletano.
Comincerò con il precisare che il verbo fare  il cui infinito nel napoletano è fá/ffá  che io contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano  la grafia apocopata fa’) preferisco rendere con la Á accentata (fá/ffá  ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate)  siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnàcammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé -  murire→murí- dicere→dí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto  ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai, , come ancóra si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato di’ di dicere che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: di’= dici,   A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose  letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni  autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!)  indicarne  graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti, ma poi presuntuosamente da asini e supponenti, spocchiosi, tronfi, saccenti,quali mostran d’ essere!..., osano accusare di ignoranza e faciloneria  chi non si adegua al loro inesatto modo di scrivere!     In effetti nella grafia della parlata  napoletana non v’à ragione (checché ne dica ad es. A. Altamura) accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:l'accento, inglobando la doppia funzione,  è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine  mantenendone però il primitivo accento tonico.
 Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere  va reso con la grafia cadé  e non  cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti  risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere  che in napoletano è reso con vedé  ed in romanesco vede’ (che va letto: véde  e non vedé.)È pur vero che, in  napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato:  sta’  in luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fá, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto  per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà  e in luogo dei pur corretti sta’  e fa’  che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’  esso potrebbe essere inteso, ripeto,  come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare  il cui imperativo nel napoletano  non è sta’, ma statte. A questo punto torniamo all’assunto dell’epigrafe per rammentare che in napoletano il verbo fare (fá/ffá ) che è dal lat. fa(ce)re à le medesime accezioni del corrispondente fare dell’italiano e cioè:   1 compiere un'azione; porre in essere, eseguire, operare: fá ‘nu passo, ‘o bbene, ‘nu discorzo,’nu suonno;che ffaje stasera?(fare un passo, il bene, un discorso, un sogno; che fai stasera?) | tené assaje che ffá(avere molto da fare), essere occupatissimo | sapé fá uno ‘e tutto(saper fare (di) tutto), essere versato in ogni campo | fá e sfá a ccapa soja( fare e disfare a suo piacimento), agire secondo il proprio comodo, senza render conto a nessuno | fa’ tu!(fai/fa’ tu!), decidi tu | avé a cche ffá cu quaccheduno(avere a che fare con qualcuno), trattare, avere rapporti con lui, ma anche entrare in contrasto con qualcuno | nun tené niente a cche ffá cu coccosa(non avere nulla a che fare con qualcosa), non entrarci, non avere relazione con essa | darse ‘a fa(darsi da fare), adoperarsi, brigare per ottenere qualcosa | lassà fá a quaccheduno(lasciar farequalcuno), non disturbarlo, lasciarlo libero di agire |  fá ‘e tutto o ll’impussibbile(fare di tutto o l'impossibile), tentare ogni mezzo pur di raggiungere uno scopo | saperce fa(saperci fare), (fam.) essere in gamba, sapere il fatto proprio | fá ampressa, tarde(fare presto, tardi), agire con rapidità o con lentezza; anche, rientrare presto o tardi, spec. la sera | fá ‘e cunto(far di conto), (antiq.) conteggiare, computare secondo le regole dell'aritmetica | festa(fare festa), festeggiare, divertirsi | ‘a festa(o ‘a pelle) a quaccuno(fare la festa (o la pelle) a qualcuno, ucciderlo | fora a quaccuno(far fuori qualcuno), eliminarlo da una competizione; anche, ucciderlo; fora coccosa( fare fuori qualcosa), consumarla, distruggerla rapidamente | ‘a bbella vita(fare la bella vita), godersela, spassarsela | ‘na bbella, ‘na bbrutta vita(fare una bella, una brutta vita), vivere in buone, in cattive condizioni materiali o morali | fá fijura (far figura), dare una buona impressione | ‘na bbella, ‘na bbrutta fijura(fare una bella, una brutta figura), dare, lasciare una buona, una cattiva impressione | córpo(fare colpo), colpire, impressionare |fá caso a coccosa( fare caso a qualcosa), badarci | farse ‘e capille(farsi i capelli), tagliarli | farse’a varva( farsi la barba), raderla | fá fuoco( fare fuoco), sparare | fa furtuna( fare fortuna), crearsi una posizione | fa ‘e ccarte (fare le carte), al gioco, distribuirle; in cartomanzia, ricavarne predizioni; nell'uso fam., preparare i documenti necessari al disbrigo di una pratica, ma in questo caso s’usa l’espressione caccià ‘e ccarte  | fá ‘o juoco ‘e quaccheduno (fare il gioco di qualcuno), assecondarlo, favorirlo | fá rotta o vela  (far rotta o vela), dirigersi | fá scalo( fare scalo), sostare | farla a quaccheduno(farla a qualcuno), giocarlo, raggirarlo | farla sporca(farla sporca), commettere un'azione spregevole | farla grossa (farla grossa), commettere uno sproposito | farla corta,  (farla corta, breve), affrettare la conclusione | farla fernuta (farla finita), tagliar corto, smettere; anche, uccidersi | farla franca (farla franca), cavarsela, sottrarsi alle conseguenze di una colpa o di un errore | farla longa (farla lunga), dilungarsi in un discorso, in una discussione |fá a ppiezze (fare a pezzi), rompere; spezzettare; sbranare; (fig.) battere clamorosamente, umiliare | fá ‘a famma (fare la fame), soffrirla; (fig.) essere in miseria | fá paura (fare paura), spaventare |   curaggio(fare coraggio), incoraggiare | fá piacere a uno (far piaceri a qualcuno), render lieto, contento/favorirlo | strata(fare strada), aprire un passaggio; precedere indicando il cammino, la direzione | farsi strada, aprirsi un passaggio; (fig.) raggiungere una buona posizione | farsela ‘ncuollo, sotto, dint’ê cazune(farsela addosso, sotto, nei calzoni), imbrattarsi di feci o di orina; (fig.) spaventarsi |farne d’ògne culor, ‘e crude o ‘e cotte( farne di tutti i colori, di crude e di cotte), commettere ogni sorta di bricconerie | fá specie (far specie), far meraviglia | fá silenzio(fare silenzio), tacere | fá tesoro ‘e coccosa(fare tesoro di qualcosa), tenerla in gran pregio/ trarne esperienza | fá ‘a vocca, ‘o callo a coccosa(fare la bocca, il callo a qualcosa), abituarvisi | nun fá niente (non fare nulla), oziare | nun fa niente! (non fa nulla!), non importa | nun ffá nè ccaudo nè ffriddo (non fare né caldo né freddo), lasciare indifferenti |fá fronte ê spese (fare fronte alle spese), riuscire a pagarle | fá fronte ô nemico  (far fronte al nemico), resistergli | farcela(farcela)riuscire in qualcosa: ce ll’aggiu fatta! (ce l'ò fatta!) | prov. : chi fa ‘a sé fa pe ttre (chi fa da sé fa per tre), è meglio fare da sé le proprie cose che affidarle ad altri; chi ‘a fa ca se ll’aspettasse(chi la fa l'aspetti), chi nuoce agli altri non può che aspettarsi il contraccambio; cosa fatta se ne vène a ccapo(cosa fatta se ne viene a capo), bisogna accettare il fatto compiuto;
2 unito a particelle pronominali, spec. nell'uso familiare, assume valore enfatico, esprimendo una partecipazione affettiva del soggetto all'azione: farse ‘na magnata, ‘na bbella passïata(farsi una mangiata, una bella passeggiata); facimmoce ddoje resate!(facciamoci due risate!);me ne faccio ‘nu bbaffo( me ne fo  un baffo), infischiarsene;
3 con valore causativo, mettere in condizione di, permettere: fá fá ‘e primme passe ô criaturo(far fare i primi passi al bambino); fá vevere ê cavalle( far bere i cavalli);
4 creare, produrre, fabbricare: Ddio facette ‘o munno ‘a zzero(Dio fece il mondo dal nulla) 'fá figlie (fare figli), generarli | fá frutte( fare frutti), produrli | fá ‘nu libbro(fare un libro), scriverlo | fá ‘na casa( fare una casa), costruirla | fá ‘na menesta (fare una minestra), prepararla | fá ‘nu cuntratto (fare un contratto), stipularlo | fá luce( fare luce), rischiarare, illuminare; (fig.) svelare un mistero, scoprire la verità
5 dire, parlare (per lo piú introducendo il discorso diretto):me facette: «Viene cu mme!»  (mi fece: «Vieni con me!»)
6 credere, pensare:te facevo a Pparigge e ‘mmece staje cca!( ti facevo a Parigi e invece sei qui! )
7 emettere, versare: fá sanco dô naso (fare sangue, sanguinare dal naso)
8 raccogliere, mettere insieme: fá legna,denaro,ccravone, acqua, benzina (fare legna,danaro, carbone, acqua, benzina), rifornirsene; chesta città fa trecientomila perzone(questa città fa trecentomila abitanti), ne conta trecentomila |fá acqua (fare acqua), detto di natante, imbarcarla da una falla; (fig.) essere in condizioni di dissesto, (volg.) mingere;
9 (fam.) comprare, regalare: ‘a mamma ll’à fatto ‘nu paro ‘e scarpe nove(la mamma gli à fatto un paio di scarpe nuove) | con la particella pronominale, comprare per sé, procurarsi: farse ‘a machina, ‘a casa(farsi l’automobile, la casa);
10 esercitare un'arte, una professione, un mestiere: fá ‘o pittore, ‘o salumiere(fare il pittore, il salumiere) | praticare: fá ‘o sporto,fá ‘e tuffe(fare sport, fare dei tuffi)
11 comportarsi da: fá ‘o spallettone, ‘o cretino(fare il superuomo, il cretino) | agire come: ll’à fatto ‘a mamma, da ‘nfermera( gli à fatto  da mamma, da infermiera)
12 detto di cose, avere una determinata funzione: ‘e capille lle facevano curnice â faccia (i capelli le facevano da cornice intorno al viso); ‘na preta faceva ‘a scannetiello (una pietra faceva da sedile/sgabello)
13 rendere, mettere in una determinata condizione: fá bbella ‘a casa soja( far bella la propria casa)
14 eleggere, nominare: fove fatto generale(fu fatto generale)
15 dare come risultato (nelle operazioni aritmetiche): tre pe ttre fa nove; ddiece meno doje fa otto(tre per tre fa nove; dieci meno due fa otto)
16 (gerg.) rubare: se so’ ffatto ‘o muturino (si sono fatto il motorino)
17 farse n’ommo, ‘na femmena (farsi un uomo, una donna,) (volg.) averci un rapporto sessuale |||
 Come v. intr. [aus. avere]
1 convenire, adattarsi, essere utile: chella casa nun fa pe nnuje; ‘a fatica nun fa pe tte(quella casa non fa per noi; il lavoro  non fa per te )
2 divenire, essere (con uso impers. quando è riferito alla temperatura, al clima, all'avvicendarsi del giorno e della notte):fa cavero; fa malu tiempo;( fa caldo; fa brutto tempo;) ‘e vierno fa scuro ambressa(d'inverno fa buio presto);
3 compiersi (di un determinato tempo):fa n’anno,fanno dduje anne ca ce sapimmo (fa un anno, fanno due anni da che ci conosciamo);
4 in altre locuzioni: fá a ccazzotte, a mmazzate, a curtellate(fare a pugni, a botte, a coltellate); fá a ttiempo o ‘ntiempo (fare a (o in) tempo), riuscire a fare qualcosa entro una scadenza prefissata; fá a mmeno ‘e coccosa(fare a meno di qualcosa), ||| farse/farese v. rifl. o intr. pron.
1 trasformarsi, diventare: farse ggiudio(farsi ebreo);farse russo russo ‘nfaccia( farsi rosso in viso); ‘stu cacciuttiello s’è ffatto gruosso!(questo cucciolo s'è fatto grosso!) | farse ‘nquatto(farsi in quattro, (fig.) moltiplicare i propri sforzi, il proprio impegno a favore di qualcuno o di qualcosa || Anche in costruzioni impersonali:s’è ffatto scuro; se sta facenno tarde( s'è fatto scuro; si sta facendo tardi);
2 (gerg.) drogarsi:farse ‘e cucaina (farsi di cocaina).
Giunti a questo punto passiamo all’elencazione ed illustrazione della numerosa fraseologia costruita nel napoletano con il verbo fare nelle numerose accezioni fino qui esaminate, cominciando però con un’accezione di fare che è solo del napoletano e non trova riscontro nell’italiano: considerare, giudicare  che si ritrova nell’icastica espressione:
I’ TE FACCIO SCEMO,O PAZZO (ti fo scemo,o pazzo) ti considero sciocco oppure pazzo e ciò deriva dall’osservazione del tuo comportamento o del  tuo modo di  proporti od agire in determinate circostanze che richiederebbero, in una persona normale, reazioni o atteggiamenti ben diversi da quelli da te tenuti che derivano con ogni probabilità ed evidenza  dalla tua scempiaggine o follia, per cui ben posso giudicarti scemo o pazzo.
Continuiamo, senza ordine o sistematicità, con altre espressioni:
FÁ CARNE 'E PUORCO...
Ad litteram: far carne di porco; id est:trarre il massimo del profitto, lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale, è noto, non si butta via nulla...
FÁ 'O PARO E 'O SPARO....
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer responsabilità, all'alea della sorte.
FÁ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
FÁ ASCÍ ‘E SSÒVERE ‘A CULO.
FÁ ASCÍ ‘E SSOVERE ‘A CULO.
Letteralmente: fare uscire le sorbe dal culo; id est: percuotere qualcuno, torchiandolo fino allo spasimo, quasi strizzandolo fino a che non dica o confessi ciò che sa o abbia fatto, costringendolo iperbolicamente ad emettere le emorroidi (eufemisticamente dette sòvere che sono in realtà i frutti del sorbo, dal lat.: sorbere→sobere→sòvere in quanto frutti succosi e maturi, quasi da suggere);come le sorbe, frutto piccolo e sferico, son ricche se mature di succhi, cosí le emorroidi (sacche sferiche) son  piú ricche, se irritate, di sangue.
 FÁ TREMMÀ ‘O STRUNZO ‘NCULO.
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso.
FÁ ALIZZE E CRUCELLE.
Ad litteram: fare sbadigli e crocette. Id est: consigliare di segnare con una crocetta la bocca mentre si sbadiglia. È risaputo che per norma di galateo, se si sbadiglia occorre coprirsi la bocca con la mano, ma tale norma viene di lontano allorché - come ricordato dall’espressione in esame - in caso di sbadiglio occorreva segnare ripetutamente la bocca con segni di croci usate a mo’ di protezione acciocché gli spiriti maligni non entrassero nella bocca spalancata; la faccenda è diventata poi una norma di galateo ma la sostanza protettiva o scaramantica del gesto è rimasta anche se ammantata di buona creanza.
alizze = sbadigli; deverbale dal basso latino halare = sbadigliare
crucelle = crocette; diminutivo attraverso il suffisso femm. plurale élle di cruce = croce da un acc. latino cruce(m) da crux – crucis.
  CACÀ L’UVA, LL’ACENE E ‘O STREPPONE.
Ad litteram: far defecare il grappolo d’uva, (i singoli) acini ed il raspo relativi.Locuzione, spesso usata sotto forma di minaccia: te faccio cacà ll’uva, ll’aceno e ‘o streppone (ti faccio defecare la pigna d’uva, (i singoli) acini ed il raspo) con la quale si significa  l’azione violenta di chi costringa    o intenda costringere un ladro o anche solo un profittatore  a restituire tutto il mal tolto, e cioè   pretenda di farsi restituire, sia pure sotto forma di feci, non solo la pigna d’uva che gli sia stata sottratta, ma addirittura i singoli acini  e persino ad abundantiam il vuoto raspo che non viene mangiato, ma che si intende far restituire da digerito.La minaccia estensivamente poi viene usata nei confronti di chiunque (adulti e/o bambini) siano messi in condizione di dover esser severamente puniti per eventuali malefatte trascorse.
cacà= cacare, defecare  voce verbale infinito derivata dal lat. cacare= andar di corpo;
uva = uva, il frutto della vite, costituito da un grappolo composto di acini: dal lat. uva(m) nell’espressione in epigrafe  vale grappolo di uva   che a Napoli più spesso è detto pigna d’uva per la forma a cono rovesciato  vagamente simile al  frutto conico delle conifere, costituito da squame legnose che nascondono i semi (pinoli);
acene  pl. di aceno= acino, chicco dell’uva o di frutta similare  dal latino acinu(m); in napoletano con il termine a margine non si intende però solo il vero e proprio acino/chicco d’uva, ma anche talora anche  il vinacciuolo e cioè  ciascuno dei semini che si trovano in un acino d'uva, semino che però piú acconciamente è detto rallo←(g)rallo[dal lat. granulu-m→granlu-m→grallu-m→grallo]; il  fiocine che molti, mangiando un grappolo d’uva, evitano di ingoiare e sputano via, per cui sarebbe poi difficilissimo renderlo digerito, atteso che non viene mangiato; rammento che talora questo rallo  è impropriamente  sostuito con il s.vo arillo che di per sé [con derivazione dal lat. *(il)la-m grillu-m →l’agrillu-m→ l’a(g)rillu-m→l’arillo e semplificazione gr→(g)r→r] indica il grillo  e ciò forse avviene per confusione atteso che il termine arillo pare quasi un diminutivo di rallo la medesima cosa, cioé il fatto che non venga mangiato,  avviene anche con lo
streppone= raspo, grappolo di uva privo dei chicchi, gambo, fusto di fiori recisi; la voce etimologicamente è un derivato metatetico  del lat. stirpe(m) attraverso un accrescitivo *sterpone(m)streppone con metatesi e raddoppiamente espressivo della p→pp.
VA’ FÁ LL’OSSE Ô PONTE
Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese.Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato.
Un tempo  a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello
dove il popolo si recava ad acquistare le carni  delle bestie macellate. I  meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa usate per preparar economici brodi, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa  augurargli grande miseria. La medesima accezione  vale per la locuzione MANNÀ Ô PONTE (mandare al ponte); tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara giacché la si rivolge a chi  - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire fino in fondo  gli strali dell’avversa fortuna.

 VA'  A FFÁ 'NCULO!  ma meglio VALLO  A PIGLIÀ 'NCULO!
Superfluo tradurre  questi conosciutissimi modi di rendere l'italiano: va' a quel paese!La variante è sí piú becera, ma quanto piú corposa, esplicita   e dura,  atteso che colui cui è rivolta la locuzione è  invitato a tenere nell'ipotetico rapporto sodomitico  la posizione soccombente, non quella attiva prevista dalla prima locuzione; ambedue però, come quella del num. precedente, si rivolgono ad un importuno, fastidioso soggetto, invitato qui a dedicare il suo tempo ad altre attività che non quella di infastidirci.
Rammento che nel fiorito linguaggio espressivo popolare talora la prima espressione in esame, (nello sciocco intento di evitar di pronunciare la parola culo ingiustamente intesa volgare o becera) viene imbarocchita in VA’ A FFÁ DINTO A ‘NA CHIEJA ‘E MAZZO  che ad litteram è: vai a fare (coire) in una piega di sedere dove con il termine piega di sedere si intende il solco anatomico di separazione delle natiche solco che icasticamente rappresenta una piegatura di quelle. Nel pronunciare tuttavia quest’ultima espressione accade che in luogo di pronunciare il termine culo becero e volgare se ne pronuncia uno analogo: mazzo di talché per ovviare a tutto ciò qualcuno trasforma eufemisticamente l’espressione in un’altra di analogo significato, ma  che suona VA’ A FFÁ DINTO A ‘NA CHIEJA ‘E VESTA! che ad litteram è: vai a fare (coire) in una piega di veste e con essa espressione    si dà luogo ad una precisazione utilissima , con cui si  chiarisce  che la piega di sedere da prendere in considerazione è esattamente una piega femminile, cosa che si evince dal fatto che la veste è un indumento femminile!


FÁ ACQUA ‘A PIPPA Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze.Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi  sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro subito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe  la pipa, strumento atto  a contenere il tabacco per fumarlo, non ha nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso  e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare  compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece  che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cos í povero, da non poter  conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è  che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo  e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro  maschile  che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o altri malanni, non fosse piú in grado di  sparger seme si dovrebbe contentare di  emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
FÁ COMME A SSANTA CHIARA: DOPP’ ARRUBBATO, ‘E PPORTE ‘E FIERRO.
Ad litteram: fare come in santa Chiara : dopo aver subíto il furto, apposero le porte di ferro. Id est: correre ai ripari  quando sia troppo tardi e si sia già sub íto un danno;  cos í si regolarono i monaci dell’antica basilica di santa Chiara  che sostituirono l’inconsistente uscio in legno della chiesa con pi ú corpose e resistenti porte in ferro, ma lo fecero  tardi, solo dopo che i ladri avevano perpetrato un ingente furto sacrilego.
FÁ ‘A PRIMMA FESCENA PAMPANOSA
Ad litteram: riempire il primo cesto  di pampini; id est: cominciar male un’attività, partir col piede sbagliato; locuzione di chiara matrice contadina; la féscena nominata in epigrafe  è il cestino di vimini in cui le vendemmiatrici erano solite depositare i grappoli  raccolti; poteva accadere talvolta che,  nella foga del primo raccolto, le vendemmiatrici, magari meno esperte, in luogo dei grappoli d’uva, riponessero nella cesta  un gran numero di pampini  fino a riempirla  e renderla perciò pampinosa.La locuzione  è usata oggi  per indicare che si è cominciato male una qualsiasi attività  e se  ne paventa perciò una cattiva evoluzione.
fescena s.vo f.le cestino di vimini a tronco di cono con fonfo aguzzo usato durante la vendemmia; voce dal lat. fiscina (da fiscus=cesto).

FÁ 'O PARO E 'O SPARO
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer responsabilità, all'alea della sorte.
PAVÀ O FÁ PAVÀ ‘E PERACOTTE

Letteralmente: pagare o far pagare le pere cotte.
Presa nel suo significato letterale, l’espressione a margine significa ben poco e va da sé che occorre, per intenderla, andare alla ricerca di un qualche nascosto significato.
Comincio col sottolineare che il verbo pavà = pagare dell’epigrafe – cosí come letteralmente tradotta - non può essere inteso nel comune senso di corrispondere una somma di denaro per beni acquistati, servizi ricevuti, obbligazioni contratte e sim. cosí come normalmente è inteso il verbo pavà = pagare che dal lat. pacare 'pacificare'e cioè porre in pace cioè mettere in   parità prestazione e controprestazione (da notare che  la consonante etimologica c, occlusiva velare sorda,come la corrispondente occlusiva velare sonora g,  nel napoletano divengono spesso  (sia pure non sempre)  v (come in fravula che è da fragula(m) con consueta alternanza partenopea   della  c o della  g con la v  o altrove al contrario della v con la  g come ad es in guappo  che è dal latino vappa; cfr.anche  volpe/golpe, vunnella/gunnella,vulio/gulio, vongola←concula etc. ;) quella v  che è invece la consonante fricativa labiodentale sonora  che nel napoletano di solito si alterna con la b consonante occlusiva bilabiale sonora) dicevo che il verbo pagare   deve essere qui  inteso nel senso estensivo e figurato di temere, scontare, espiare; l’espressione in effetti vale, nel suo significato recondito: temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui. Proprio in ragione di tale interpretazione, la scuola di pensiero piú comune interpreta sbrigativamente, ma – a mio avviso – poco convincentemente il termine peracotte= pere cotte nel non meglio chiarito senso di percosse , atteso che non vedo (se si eccettua un tenue ed inconferente bisticcio fonetico…) cosa possa mettere in rapporto  squisitezze gastronomiche quali sono le pere in giulebbe, con l’amarezza delle percosse .A mio avviso, pur non mutandosi il significato nascosto dell’espressione in esame che sta per temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui, il termine peracotte non deve intendersi come agglutinazione di pere cotte, quanto come corruzione della voce peraconne  = ippericon pianta medicinale, nota anche con il nome di erba di san Giovanni con proprietà astringenti e/o  decongestionanti  .
Mi sembra che accogliendo tale mia originale  proposta si possa innanzi tutto restituire il significato primo al verbo pavà=pagare nel senso che l’espressione a margine sostanzierebbe piú chiaramente la situazione incresciosa o di chi si trovasse, per problemi di salute, costretto a far ricorso all’acquisto di medicinali derivati dalla pianta di ippericon (che,come chiarisco qui di sèguito  dà l’etimo a peraconne) o la ancóra piú incresciosa situazione di colui cui siano stati indotti  problemi di salute da parte di chi lo metta nella condizione di ricorrere all’acquisto di medicamenti, facendogli pagare ‘e peracotte= peraconne (medicine derivate dall’ippericon.); dal punto di vista etimologico rammento che in napoletano le parole derivate da voci straniere terminanti per consonante di solito comportano il raddoppiamento espressivo della consonante  e la paragoge di una vocale finale  semimuta;non esistono quasi eccezioni a questa regola: rammento appena le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn = alla carlona, voci   che sono corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di   terminare per consonante in luogo di una  consueta vocale evanescente  paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar  o tramme  per e da tram  e come è successo qui che da ippericon si è pervenuti a (ip)peraconne.
FÁ PALLA CORTA
Ad litteram: fare la palla corta  Id est: mancare il fine prefissato, non giungere al risultato  per avere errato  nel conferire la forza necessaria  affinché  si potesse raggiungere lo scopo; con altra valenza riferito ad uno che infastidisca, vale: con le tue richieste e/o parole non otterrai nulla di ciò che vuoi: non sei  convincente, né induci a prestarti fede e/o aiuto!    La   locuzione è  mutuata dal giuoco delle bocce o del bigliardo, giochi  nei quali la biglia (palla) messa in giuoco può  mancare di raggiungere il punto voluto  e risultare corta   se, per conclamata imperizia,  nel lanciarla il giocatore non vi à impresso la necessaria e giusta spinta.
Palla s.vo f.le 1 corpo di forma sferica: una palla di ferro, di marmo, di vetro, di neve ' le palle degli occhi, (fam.) i globi oculari | palla di lardo, di grasso, (fig.) persona molto grassa.
2 sfera di gomma, cuoio, legno o altro materiale, con cui si gioca: palla di biliardo, da tennis; giocare a palla | battere la palla, nel tennis e in altri giochi, iniziare a giocare | palla-goal, nel calcio, palla che può essere con facilità inviata in rete ' prendere, cogliere la palla al balzo, (fig.) sfruttare al volo un'occasione propizia ' essere, sentirsi in palla, (fig.) in forma, in giornata buona
Voce dal long. *palla con medesima radice di balla
Corta  agg.vo f.le1 di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale: la via più corta per arrivare; capelli (tagliati) corti; armi a canna corta; calzoni, pantaloni corti, al di sopra del ginocchio; maniche corte, sopra il gomito; mi va, mi sta corto, si dice di indumento che non raggiunge la misura giusta, soprattutto delle gambe e delle braccia | palla (tirata) corta, che non arriva a destinazione | andare per le corte, sbrigarsi, venire al dunque | venire alle corte, concludere qualcosa in fretta; alle corte!, veniamo al sodo! | l'ultimo a comparir fu gamba corta, (scherz.) si dice a chi arriva per ultimo.
2 che non dura a lungo; breve, conciso: una visita corta, una risposta corta | settimana corta, settimana lavorativa di cinque giorni, da lunedì a venerdì
3 (estens.) insufficiente, scarso, poco dotato
Voce da un lat. *curta(m) marcata sul m.le curtu(m).
FÁ ZITE E MURTICIELLE E BATTESIME BUNARIELLE.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco di cui ovviamente profittavano anche chi aveva partecipato alla cerimonia funebre.
FÁ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCÓGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al richiedente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stantene la augusta (che  in realtà è falsa)  provenienza.
coglie  s.vo fem.le pl. di coglia = testicolo derivato dal lat. volg. *colea(m); la voce coglia con il suo plurale coglie è attestata nel parlato popolare della città bassa come alternativo di coglione e del pl. metafonetico  cugliune usati piú spesso come voci offensive  
AbramoAvraham, "Padre di molti popoli";è il primo patriarca dell'Ebraismo, del Cristianesimo e dell'Islam. La sua storia è narrata nel Libro della Genesi ed è ripresa nel Corano. Secondo Gen17,5 il suo nome originale Avram, poi cambiato da Dio in Avraham; è considerato dall’Islam antenato del popolo arabo, attraverso Ismaele. L'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam  (détte religioni abramitiche) proclamano tutte una  loro presunta discendenza comune da Abramo.
Non esistono tuttavia  altre  testimonianze storiche  della sua esistenza indipendenti dalla Genesi, quindi non è possibile sapere se fu una reale figura storica. Se lo fu, visse tra il ventesimo ed il XIX secolo a.C. L’episodio piú significativo riguardante la vita di Abramo si riferisce alla richiesta fattagli da Dio di sacrificargli l’unico figlio Isacco generato ad Abramo in vecchiaia da sua moglie Sara. Abramo, seppur a malincuore, accettò. Mentre legava Isacco per il sacrificio, però, apparve un angelo che gli disse di non far male a suo figlio e che Dio aveva apprezzato la sua ubbidienza, benedicendolo "con ogni benedizione".
FÁ ‘E SSETTE CHIESIELLE.
Letteralmente: visitare le sette chiesine ovvero per traslato : andarsene in giro per le case altrui senza uno specifico motivo, ma solo per il gusto di intrattenersi  negli altrui domicili, nella speranza - magari  - di scroccare un pranzo, o quanto meno un caffé che a Napoli non si rifiuta a chicchessia. Detto anche di chi, prima di decidersi a fare un acquisto visita innumerevoli negozi per informarsi sui prezzi dell’articolo cercato, per confrontarli e metterli a paragone.
 Originariamente le sette chiese  della locuzione  sono sette bene identificati luoghi di culto e cioè nell’ordine: Spirito santo, san Nicola alla Carità, san Liborio alla Pignasecca, Madonna delle Grazie, santa Brigida, san Ferdinando di Palazzo e san Francesco di Paola, quelle chiese cioè che tutti i napoletani  andando dalla odierna piazza Dante (anticamente Largo del Mercatello) a piazza del Plebiscito (l’antico Largo di Palazzo) percorrendo la centralissima strada di Toledo,  sono soliti visitare  durante il cosiddetto struscio  la rituale passeggiata  che si compie il giovedì santo , durante la quale  si “visitano” i cosiddetti sepolcri  ovvero le solenni esposizioni dell’Eucarestia che si tengono in ogni chiesa di culto cattolico.Dal fatto che le chiese incontrate nel rituale tratto dello struscio fossero sette  si instaurò  la consetudine pseudo-religiosa che i cosiddetti sepolcri da visitare dovessero essere in numero dispari e qualche devoto poco propenso a camminare per ottemperare a tale pseudo-precetto  si recava nella chiesa piú vicina alla propria abitazione e vi entrava ed usciva  sette volte di fila per biascicare orazioni, ritenendo in tal modo di aver fatte le rituali dispari visite previste.
FÁ LL’AMICO E ‘MPRENÀ ‘A VAJASSA.
Ad litteram: fare l’amico ed ingravidare la serva  id est: comportarsi da “doppiogiochista”, da falso amico come chi , atteggiandosi ad amico,  frequenti una casa ed in luogo di ricordi amicali lasci la fantesca di casa ingravidata,  profittando della libertà che si usa concedere agli amici.
amico = amico,animato da amicizia, benevolo agg.vo e s.vo m.le dallat. amicu(m), deriv. di amare 
‘mprenà= ingravidare, render pregna voce verbale infinito dal lat. tardo impraegnare 'rendere gravida', comp. di in illativo  e un deriv. del lat. volg. *praegnu(m), che diede il napoletano prena= ingravidata;
vajassa = serva, fantesca Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba baassa pervenutaci attraverso il francese bajasse: fantesca, donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana;   dalla medesima voce bajasse il toscano trasse bagascia = meretrice.
FÁ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa  quale, ingiustamente, si riteneva ed ancóra si ritiene che fosse e   sia  quella svolta dai sacerdoti  al segno che, altrove si dice che si ‘a fatica fosse bbona ‘a faccesro ‘e prievete (se il lavoro  fosse  una cosa buona, lo farebbero  i preti).
Fatica s. f.  sinonimo di lavoro, impegno quantunque di per sé il termine fatica connoti il semplice lavoro, ma uno  sforzo fisico o intellettuale che genera stanchezza, quella  che nasce da un'attività fisica o psichica troppo intensa o prolungata; l’etimo è dal  lat. volg. *fatiga(m), deriv. di fatigare 'prostrare, stancare';
prievete s. m. plurale metafonetico  di prevete: prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete  da cui poi per sincope della sillaba implicata ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
 la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;

FÁ TRE FFICHE NOVE ROTELE
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera  e si ammanti di meriti che non possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
  FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili  al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che giunto a maturazione esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresì lo scppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e più in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta  di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino.
FÁ QUATTO CIAPPETTE.
Letteralmente: fare quattro ciappette. Id est: compiere un lavoro  in maniera rabberciata  e disimpegnata ; detto soprattutto di lavori  che impegnano poco le braccia e molto la mente, lavori  che però  siano fatti con poca attenzione e dedizione  e se ad es. si tratta  di vergare uno scritto, lo si fa servendosi di  concetti triti, ripetitivi  e striminziti, vergati alla meno peggio,  , messi in fila in maniera abborracciata,   quasi automaticamente conseguenziali, non supportati da idee nuove, ma farciti di ovvietà noiose e monotone. Con altra valenza leggermente differente, ma corposamente sarcastica il concetto  in epigrafe viene riferito, con una tipica espressione che è: Sape fá quatte ciappette!, a chi saccente e supponente, faccia le viste, al contrario,  di essere molto colto,  di conoscere tutte le evenienze del vivere vantandosi di possedere conoscenze in vasti campi dello scibile umano, laddove in realtà  tutta la sua cultura e  tutte le sue conoscenze si riducono a pochissime nozioni trite e ritrite, ovvie, non originali,  noiose e monotone spesso non accompagnate da autentica e conclamata scienza e/o esperienza, ma fondate esclusivamente  sul sentito dire. o sui manualetti di pronto impiego di talune professioni e non le specifico per non incorrere nelle ire di amici e/o parenti...
La parola     ciappetta  di per sé non è che il diminutivo di ciappa  s f  fibbia, fermaglio, borchia  voce pervenuta nel napoletano attraverso lo spagnolo chapa derivato del lat. capulum  attraverso un plurale metatetico, inteso poi femminile,   regionale *clapa→chiapa→chapa.
Va da sé che semanticamente è quasi impossibile collegare il concetto di un piccolo fermaglio, una piccola fibbia o  una borchietta con l’idea di nozioni trite e ritrite, ovvie noiose e monotone. Ma la cosa si può risolvere seguendo quella che fu  l’originaria formulazione dell’espressione in epigrafe, espressione che purtroppo,  nessuno mai degli addetti ai lavori si è peritato di prendere in considerazione od esame. Lo faccio qui di sèguito,pur non essendo un paludato o patentato addetto, augurandomi di fare cosa gradita a chi mi leggerà.
In origine infatti nelle isole al largo di Napoli (dove l’espressione  nacque) non si usò l’espressione Sapé fá quatte ciappette  ma s’usò dire Sapé fá quatte scippe sciappe  con riferimento a chi avesse imparato a fare appena pochi tratti di penna (scippi) e si vantasse, chiaramente a torto,  di essere molto istruito; quando poi l’espressione  Sapé fá quatte scippe sciappe  approdò a Napoli  fu trasformata in Sapé fá quatte cippe ciappe  e ciò perché probabilmente le  voci scippe sciappe (di cui la seconda non corrispondeva né ad un oggetto, né ad una idea, ma era stata ricavata da scippe (plurale di scippo (deverbale del lat. ex-cippare) nel senso però  di tratto di penna e non di graffio) per bisticcio ed allitterazione espressivi )   furono intese come  originarie cippe e ciappe addizionate della solita esse protetica intensiva napoletana, ma poiché i concetti che gli originarii scippe sciappe dovevano rappresentare erano concetti riduttivi e negativi, si pensò – a ragione forse – che non avevano senso le esse intensive e scippe sciappe divennero cippe ciappe; allorché poi ci si rese conto che al derivato cippe non si poteva collegare alcun oggetto reale o concetto comprensibile si preferí eleminar tout court quel  cippe  e mantenere solo  quelle residuali ciappe (in origine sciappe) divenute quasi per magia corrispondenti ad un oggetto reale (fibbie, fermagli, borchie) e dovendo esse ciappe esprimere concetti negativi e riduttivi, se ne fece il diminutivo ciappette  e l’espressione diventò Sape fá quatte ciappette che vale saper fare quattro insignificanti cosucce  e menarne vanto quasi si trattasse di cose pregnanti e/o importanti, che è poi  l’atteggiamento tipico d’ogni saccente e supponente.
FÁ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE.
Che vale: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id  est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che  quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... Sempre con protagonista le fucetole (beccafichi) è la successiva espressione:
FÁ A PASSÀ CU ‘E FFUCETOLE.
che ad litteram è fare a sorpassar(si) con i beccafichi  ossia entrare in un’ipotetica gara (di magrezza) con i beccafichi e sortirne vincitore; icastica espressione usata nei confronti di chi (soprattutto donne)siano tanto magre da addirittura aver ipoteticamente la meglio sulle fucetole (beccafichi) uccelletti magrissimi; fucetole è il pl. di fucetola s.vo f.le dal lat. ficédula(m) con tipico passaggio di sonora a sorda (d→t) in parola sdrucciola.
FÁ LL‘ALLICCAPETTULE.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi  davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore  della camicia  nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui  detta falda  insiste.
FÁ ‘O SPALLETTONE  oppure al femminile  FÁ ‘A CCIACCESSA
Espressione  intraducibile ad litteram in quanto in italiano  manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione  per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò  che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo  che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe  che si dura fatica a spiegare  tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso  vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero  colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non  aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione.
Piú chiaramente dirò,  per considerare le sfumature che  delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi  fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone  sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via  non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza  dispensando  ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé  finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo  fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco  e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento all’idioma  parlato, ma esclusivamente  a quello scritto  nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene reputo   che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià  (ciarlare)con la classica prostesi della S non distrattiva, ma  intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso  accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e  che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine:  parlettiere.
Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste però   un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C:  cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare.
FÁ ‘AMMORE CU ‘E MMONACHE.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come  sarebbe il coire  godendo dei favori di una suora.
FÁ LL’ARTA LEGGIA.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività  occorre aver leggerezza di mano  ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte  quasi che   occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria  in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia  e sperare di conseguire risultati adeguati  alla stregua di un vero artista.
FÁ LL’ARTE D’’O SOLE.
Ad litteram: fare l’arte del sole.  È un’espressione usata per indicare in genere il comportamento scioperato d’ un individuo e piú esattamente di colui/colei che spensieratamente  si dia alla vita beata, ai facili amori godendosi la vita senza remore e/o preoccupazioni comportandosi ad un dipresso come l’astro che ci illumina ed intorno a cui giriamo, astro la cui massima occupazione è quella di levarsi e presiedere stabilmente il firmamento sino a quando tramonti senza impegnarsi in alcuna fatica.
 E sempre a proposito di arte rammenterò l’espressione
FÁ LL’ARTE D’’O DIAVULO oppure D’ ‘O DEMMONIO.
Che letteralmente è: fare l’arte del diavolo/demonio; id est: tenere il medesimo comportamento del demonio o diavolo, cioè, calunniare qualcuno,  istigare, sobillare qualcuno, aizzarlo contro altri, inducendolo al male, tentandolo subdolamente il tutto in linea con il significato etimologico della voce  diavulo  (teol.) Spirito del male (chiamato anche demonio), nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare, tentare.
FÁ LL’ARTE ‘E MICHELASSO: MAGNÀ, VEVERE E GGHÍ A SPASSO che letteralmente è: fare l’arte di Michelaccio: mangiare, bere ed andare in giro (bighellonando) id est: tenere un comportamento da fannullone, ( che è propriamente la persona oziosa che non vuole e vorrebbe fare nulla, etimologicamente comp. di fa ( 3ª p. sing.ind. pres. del verbo fare) e nulla, col suff. accrescitivo –one);  o da   bighellone(che è chi perde il suo tempo, andando in giro senza addivenire a nulla, etimologicamente accrescitivo (per il tramite del suffisso one di un antico bigollo o pigollo = trottola);in napoletano questo tipo di soggetto è détto alternativamente Michelasso (come nell’espressione in esame) o Francalasso; Francalasso  è propriamente il bighellone, colui che ozia andandosene in giro senza meta e/o scopo; etimologicamente formato, come il suo omologo Michelasso (fannullone,scioperato) dall’addizione di un nome proprio (qui Michele, altrove   Franco) e dell’aggettivo lasso che è dal lat. lassu(m); cfr. lassare = 'stancare'da intendersi in senso ironico ed antifrastico, atteso che chi non lavora, non può stancarsi; il perché di quei due nomi e non altri è ignoto,ma forse non gli è estraneo il fatto che in napoletano franco sta per libero, senza costrizioni e dunque senza impegni, mentre michele è usato nel senso duro, ma affettuoso di sciocco, inetto, una persona tale cui non si affiderebbe un lavoro o impegno, nel timore che lo mancasse.
FÁ LL’OPERA D’’E PUPE
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura  per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari  costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette  che vengono manovrate dal basso tenendole infilate  sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è  propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente  può accadere che  quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà  possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione  con il dire: “Nun facimmo ll’opera  ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
FÁ MMIRIA Ô TRE BASTONE
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni, destare l’invidia del tre di bastoni.  Detto ironicamente  di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore  al segno di destar l’invidia del tre di bastoni  la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone  , provvisto di  suo di consistenti baffoni a manubrio.
FÁ MARENNA A SARACHIELLE
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia,  esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione  di piccole aringhe salate ed affumicate  che oltre ad essere  parva res, prospettano una successiva  necessità di bere  copiosamente per attutire gli effetti della  congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che  agiscano  con parsimonia di mezzi e di applicazione  al segno che i risultati  che posson derivare dalle loro azioni  sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato: ad es.: Eh, sî arrivato, hê fatto marenna a sarachielle!
sarachielle s.vo m.le pl. di sarachiello che è il diminutivo maschilizzato (per significare la contenutezza dell’oggetto di riferimento: in napoletano infatti   un oggetto che sia femminile diventa maschile se diminuisce  di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavola (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccola)), dicevo che sarachiello è il diminutivo (vedi i suff. i+ ello maschilizzato di saràca= salacca, aringa affumicata; la voce saràca  etimologicamente è da collegarsi con cambio d’accento  ad un tardo greco sàrax (all’acc.vo sàraka) che trova riscontri anche nel calabrese sàrica e nel salentino zàrica.
FÁ ‘A TREZZA D’’E VIERME.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim  a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti,   se fossero stati  còlti da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi  organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva  a sostanziose somministrazioni di aglio  da ingerire crudo;  ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
FÁ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca  La locuzione  richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni  in cui  alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter  allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto  la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna  desiderabile ed appetibile al pari di una  succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson  far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far  fare sputazzèlle.
oppure ESSERE CARTA ‘E TRE  (o meglio) ‘E TRESSETTE
Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio)   di tressette;  id est: essere o comportarsi  da persona  di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma  o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente  nel gergo malavitoso  e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette  è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia  riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette  giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante  e poi dal sette fino al quattro  secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e  a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però  l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi  non avendo né carisma, né capacità intellettuali,  tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fá ‘a carta ‘e tre  ossia evita di assumere inutili e pretestuosi atteggiamenti  da carta di tre (quella vincente al giuoco del tressette.)
FÁ PIGGLIÀ ‘E PPETECCHIE
Letteralmente: Far prendere le petecchie; détto con riferimento alla fastidiosa azione di chi prenda, tocchi, sposti reiteratamente e senza una valida ragione  un oggetto fino a procurargli figuratamente per stropicciatura   emorragie cutanee con rosse macchie  puntiformi  quelle che in realtà  caratterizzano determinate malattie, come il tifo esantematico ed altre malattie affini; la voce petecchia è  dal lat. volg. *(im)peticula(m)→(im)peticla(m)→petecchia, dim. del lat. impetigo -giªnis 'impetigine'.
FÁ COMM’Ê FUNARE Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti, ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari.
la voce funare s.vo m.le pl. di funaro  etimologicamente –parte dal sost. funa (= fune,canapo dal lat. volg. *funa(m)) con l’aggiunta del consueto suff. di competenza arius→ar(i)o→aro.

FÁ COMM’Ê TURRUNARE Ad litteram: Far come i venditori di torroni, id est agire come i venditori ambulanti di torroni, zucchero filato, mandorle attorrate, bruscolini,bomboloni e franfellicche ed altre leccornie artigianali, venditori girovagni  che son soliti presidiare con i loro banchetti vie e piazze durante le feste rionali, alle quali accorrono tra i primi  e che abbandonano tra gli ultimi quando non ci sia piú concorso di pubblico rionale, possibile acquirente delle loro mercanzie. Per traslato con détta locuzione si fa riferimento a tutti quegli inguaribili presenzialisti, importuni visitatori che spesso senza essere invitati accorrono a festicciole familiari per scroccare dolciumi o bevute offerte dai festeggiati ai presenti.Spessissimo poi tali importuni visitatori sono anche i meno solleciti ad abbandonar le festicciole. franfellicche  s.vo. m.le p.le di franfellicco =  duro bastoncino  di zucchero filato a forma di J  che è l’iniziale del nome Jesus e nella tradizione popolare napoletana  il franfellicco dolce, in origine natalizio,  destinato ai bambini fu ritenuto figurazione del Bambino Gesú, roccia su cui fonda la salvezza dell’uomo.
La voce franfellicco etimologicamente è un adattamento locale del fr. franfeluque.
la voce turrunare s.vo m.le pl. di turrunaro etimologicamente parte dal sost. turrone  (= torrone, dolce duro o morbido a base di zucchero, miele, mandorle tostate, pistacchi o nocciole, confezionato per lo più a stecche, che è  dallo spagnolo turrón, deriv. di turrar 'arrostire', che è dal lat. torríre  con l’aggiunta del consueto suff. di competenza arius→ar(i)o→aro.
FÁ CORRERE PE BECENZONE.
Ad litteram:far correre a causa di Besançon,   esser costretto ad affrettarsi per estinguere un debito.; id est: preoccuparsi ed attivarsi per  risolvere i propri impegni il meno traumaticamente possibile. A prima vista il termine Becenzone  dell’epigrafe parrebbe un accrescitivo del nome maschile: Vincenzo, ma se lo  si intendesse in tal modo, la locuzione non avrebbe significato; esso invece non è che la corruzione del nome Besançon, nome di una cittadina  francese  dove furono emesse le prime cambiali  firmate dai mercanti napoletani che si recavano colà per i propri affari; alla scadenza di dette cambiali i mercanti dovevano  preoccuparsi di pagare i corrispondenti debiti  ed erano dunque costretti a correre pe Becenzone, dove il pe (per) sta   ad indicare: a causa di.
FÁ CHIAGNERE ASTECHE E LAVATORE. variante FÁ N’ASTECO ARETO Ê RINE
Ad litteram: far piangere  terrazzi e lavatoi; id est: rubacchiare qua e là, infierire contro amici e parenti e conoscenti fino a farli piangere, fare del male a tutti non curandosi del male fatto o del dolore causato.Un tempo quando le tecniche di costruzione erano diverse da quelle attuali ed i materiali usati  molto meno sofisticati, per rendere impermeabili  i terrazzi ed i lavatoi  si spargevano sugli impiantiti  grossi quantitativi di bianco  lapillo  vesuviano, lo si bagnava a dovere e poi lo si percuoteva   pesantemente con  appositi attrezzi detti mazzocche  fino a che il lapillo cosí compresso non divenisse un blocco compatto ed impermeabile  tale da competere con le piogge o con le acque  usate per lavare i panni. Se si pensa alla forza se non alla violenza necessaria a compiere l’operazione descritta, si comprende perché con divertente traslato  i solai o i lavatoi dovessero quasi gemere  delle percosse subite. La variante  dell’espressione in epigrafe   si traduce come violenta minaccia di compiere  l’operazione  di compattazione sulle spalle di qualcuno, ossia lo si minaccia  di percuoterlo a dovere  sulle spalle.
FÁ ‘E CCOSE A CAPA ‘E ‘MBRELLO oppure A CCAZZO ‘E CANE.
Ad litteram: fare le cose a testa di ombrello  oppure a membro di cane.
Nell’un caso e nell’altro la locuzione significa:  operare alla carlona, con pressappochismo e disimpegno  per modo che i risultati siano scadenti  e non utilizzabili stante la maniera approssimativa e disordinata con cui sono stati conseguiti. Va da sé che la testa di ombrello è usata eufemisticamente per indicare ben altre teste, mentre nella variante dell’espressione non ci si fa scrupolo d’essere piú sanguignamente concreti  chiando in causa i cani e la loro appendice anatomica  atteso che i cani son soliti compiere le loro operazioni sessuali in maniera rapida  e disimpegnata.
  ‘E CCOSE CU ‘E STENTINE ‘MBRACCIA
Ad litteram: operare con gli intestini in braccio; id est: agire controvoglia, disimpegnatamente con noia e fastidio  quasi  si fosse costretti ad operare  con l’àndicap di dover trattenersi il pacco intestinale con le mani. L’espressione è comunemente usata nei confronti  specialmente dei giovani figlioli  che, sollecitati a compiere anche una piccola incombenza, nicchiano, pongono remore  e  quando finalmente si dispongono a portarla a compimento lo fanno malvolentieri, con poco o punto impegno ed entusiamo se non  nella maniera descritta al num. precedente.
FÁ ‘E FUNGE ‘NCUORPO
Ad litteram: fare i funghi  in corpo; id est: attendere lungamente  che si verifichi un evento desiderato, macerarsi  nell’animo nell’attesa che  la faccenda agognata venga alla luce, fino a veder nascere figuratamente,  dei funghi nel corpo.Rammento che a Napoli di una donna che non riesca a trovar rapidamente marito, si dice ca sta facenno ‘e funge ( che  sta facendo i funghi  ossia che, per mancato utilizzo, sta facendo la muffa  in una ben determinata parte del corpo.).
FÁ UNA CADUTA  o anche  UNA CACATA.
Ad litteram: fare una caduta  o anche una evacuazione corporale; ma nessuna delle due parole  di cui in epigrafe debbono esser prese in considerazione in senso letterale se si vuol comprendere a pieno il significato dell’espressione  che si riferisce invece all’improvviso, inatteso decadimento fisico di una persona  che di punto in bianco vede sfiorire la propria salute e ne mostra apertamente le disdicevoli conseguenze apportatrici, per solito, di continui, reiterati nuovi malanni che peggiorano giorno per giorno la faccenda  già di per sé poco piacevole.
FÁ ‘A CIÀULA ‘NCAMPANARO
Letteralmente:  fare la gazza sul campanile; id est: fare il sordo, fare orecchio da mercante, comportarsi come quegli uccelli che,  rifugiatisi su di un campanile  si estraneano dal mondo circostante e non rispondono ad alcun richiamo, perché  ormai non li sentono piú, un po’ per l’altezza e  la lontananza del  ricovero che si sono scelti, un po’ perché risultano insorditi dallo stormire delle campane; tenendo presente tale impossibilità di richiamare gazze  attestate su campanili, si è coniato il detto: alluccà ê ciaule (gridare alle gazze) nel senso di : parlare inutilmente.
FÁ ‘O MASTUGGIORGIO.
Ad litteram: fare il castigamatti  sia in senso reale di infermiere  e controllore dei matti, sia in senso traslato di organizzatore e direttore  di non meglio specificate attività o imprese  dirette con pugno di ferro ed autorevolezza impositiva. il mastuggiorgio in epigrafe  emblema di tutti i castigamatti  fu in vero  un personaggio realmente  esistito  rispondente al nome di Giorgio Cattaneo, maestro dei pazzi che svolse la sua attività nella prima metà del 1600 presso l’ospedale Incurabili di Napoli ed escogitò molti sistemi coercitivi come terapia dei malati di follia; tra détti mezzi ricorderò quello di costringere il folle ad ingurgitare fino a cento uova  in rapida successione o costringerlo a mangiare ingenti quantitativi di carne  e poi girare la pesante ruota di un pozzo, somministrandogli violente frustate se il folle fosse crollato  non portando  a termine il compito assegnatogli. Ancora oggi a Napoli a chi dia segni di squilibri mentali si suole chiedere: Ma t’avisse pigliato ‘e cient’ove? (Per caso  ài preso le cento uova?)
FÁ ‘NA FIJURELLA. oppure ‘NA FIJURA ‘E NIENTE
Ad litteram: fare una magra figura; id est: comportarsi in maniera tanto errata  che il risultato di simile comportamento  è umiliante e mortificante tanto da essere catalogato e considerato un nulla assoluto.
FÁ ‘NA FIJURA ‘E MMERDA.
Ad litteram: fare una figura di sterco.Locuzione simile alla precedente, ma connotata da una maggior durezza di linguaggio in quanto  che la figuraccia  derivante dall’errato comportamento  è  da considerarsi quasi lercia di escrementi  e pertanto piú che umiliante e mortificante.
FÁ N’ACCISO E ‘NU ‘MPISO.
Ad litteram: fare un ucciso ed un impiccato  id est: minacciare una strage con conseguenze gravissime per tutti.Reboante, antica locuzione  con la quale sia pure solo metaforicamente  si minaccia di comportarsi in maniera tanto violenta  e spropositata da lasciare sul terreno per lo meno un morto  e ci si dichiara disponibile a subire le conseguenze di tale omicidio, conseguenze comportanti la  condanna alla pena di morte per impiccagione.
FÁ ‘NA MMESCAFRANCESCA.
Ad litteram: fare una mescolanza id est: fare una gran frammistione di cose le piú disparate, non affini né conferenti   al punto da essere addirittura incompatibili tra di loro; il risultato di tale mescolanza non potrà essere ovviamente positivo e servirà a molto poco. la parola mmescafrancesca è una chiara corruzione  del francese mélange française (ricca zuppa di svariati ortaggi).
FÁ ‘E PPÓZE DÂ FAMMA
Ad litteram: Fare i polsi (esili e rinsecchiti) a causa della fame; id est: dimagrire cosí tanto, a causa della fame, da averne i polsi affinati e fragili; in effetti molti - errando - invece di dire 'e ppóze (polsi) dicono 'e ppòse d' 'a famma (le pose da fame),ma è chiaro che si tratti di una corruzione dell'espressione originale. Linguisticamente c’è da notare  che la normale forma plurale del s.vo m.le puzo (polso) è il m.le ‘e púze, ma nell’espressione se ne è adottato uno f.le ‘e ppóze  ad imitazione del pl. f.le ‘e ddenocchia del sg. m.le ‘o denucchio.
E con ciò penso d’avere, anche questa volta  risposto adeguatamente alla richiesta dell’amico N.C. e d’avere interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale

























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