sabato 7 marzo 2020

L’ACQUAJUOLO


L’ACQUAJUOLO
Mi è giunta richiesta da parte dell’amico A.L. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome)di illustrare acconciamente un antico mestiere partenopeo (quello in epigrafe)  che è pressoché sparito. Mi accingo alla bisogna prendendo le mosse da un’ icastica espressione che suona:
Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta 
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro  della festa di Piedigrotta  Si tratta  di una locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti  atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi un bancone dell'acquaiolo non può mai  o meglio, non poteva mai  raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta.
Ciò détto, entriamo in medias res.
In origine il mestiere di venditore di acqua al minuto fu esercitato da girovaghi che percorrevano le vie della città muniti della merce contenuta  o in bottiglie o in particolari recipienti di cui dirò,  soddisfacendo le richieste di assetati clienti; successivamente, a far tempo dal 1830 ca all’epoca  cioè del re Ferdinando II di Borbone (Palermo 1810 - †Caserta 1859)  come si evince dalla lucuzione citata,  il mestiere di venditore di acqua al minuto divenne stanziale e venne  svolto in   posti fissi quelli che (ubicati quasi sempre in una piazzetta o alla confluenza di due strade) quasi   ogni   venditore girovago s’era procurato chiedendo ed ottenendone il permesso dalle autorità preposte e s’era  attrezzato alla bisogna; tali posti fissi  presero il nome di  banca ‘e ll’acqua; si trattò in genere di piú o meno grandi banconi  di legno con montanti laterali e tettuccio spiovente laccati di bianco, corredati di elementi ornativi in istucco modellato  e quasi sempre decorati con ingenui disegni  multicolori o, in mancanza di tettuccio, forniti di un grosso ombrellone  , muniti di un piano d’appoggio in marmo, piano nel quale era ricavato un congruo foro nel quale era posto un secchio (di latta/banda stagnata o di legno) in funzione di lavabo, secchio in cui venivano sciacquati i bicchieri, le giare ed i gotti usati per servire le bevande; il risciacquo avveniva servendosi di acqua di pozzo conservata in una capace botte, nascosta alla vista dei clienti e  collocata sotto il bancone   sul quale insistevano bottiglie,bicchieri,giare,gotti nonché recipienti lignei o di terracotta e  contenitori per l’acqua e le bevande in vendita e tra di essi troneggiava il grosso trummone basculante  dell’acqua ferrata e la mmummera dell’acqua suffregna (sulfurea);tutt’intorno al bancone pendevano grosse reste di limoni e di arance, rigorosamente sorrentine, né   mancavano altresí adagiati intorno a grosse verghe di ghiaccio,  numerosi freschissimi limoni per pletoriche limonate o contenute piccule cu ‘o limone, servite le une in alti bicchieri di vetro dal bordo doppio, le altre in minuscoli bicchierini (giarretelle), mentre l’acqua ferrata, quella di Serino  o quella sulfurea era versata in bicchieri o  giarre da piú di due decilitri. La pulizia di bicchieri, giarre e giarretelle usate avveniva, come ò detto, servendosi dell’acqua di pozzo e delle bucce di limone usate a mo’ di disinfettante degli orli del vasellame usato. Oltre bicchieri, giarre e giarretelle dall’acquaiuolo erano usate anche per l’asporto di acqua sulfurea piccole mmummarelle Preciso alcune cose: ò parlato di trummone e di mmummara e mmummarelle; orbene il trummone fu  una grossa botticella cilindrica lignea, ma  bordata di metallo,dotata di zipolo ed intercapedine nella quale era sistemata della neve in funzione di refrigerante dell’acqua contenuta;tale botticella era    incerneriata su i due lati opposti della circonferenza centrale, per poter comodamente ondeggiare basculando; in tale contenitore di grande capacità veniva conservata  la caretteristica, giovevolissima (cosí in un’iscrizione del settembre 1781) acqua ferrata che proveniva da una sorgente del Beverello; il trummone era agganciato per solito  sul ripiano laterale di dritta  e la sua  capacità  era ben maggiore   della dirimpettaia   mmúmmara  in cui  si conservava l’acqua  zuffregna/zurfegna= acqua sulfurea proveniente da una sorgente sita al Chiatamone; la terza acqua che si vendeva era la leggera e dissetante acqua del Serino che per anni alimentò l’acquedotto cittadino.
 Mentre  la voce mmúmmara  s.vo f.le = grande vaso di creta per acqua o vino viene dal neutro pl. greco bombýlia poi fem.le sg. con cambio di suffisso e dissimilazione: bombýlia →*bommara→mmómmera→mmúmmera/ mmúmmara;
va da sé   che    mmúmmarella  è il diminutivo di mmúmmara;
la voce zuffregna/surfegna/zurfegna  trae da un acc.vo lat. aqua(m)sulphurínea(m)→suphrínja→surphínja→ surfegna→zurfegna/zuffregna  con raddoppiamento espressivo della fricativa labiodentale sorda  e metatesi della liquida;
 per trummone occorre pensare   ad un lemma onomatopeico con riferimento ad un’iniziale tromma + un suff. accrescitivo;  benché la voce a margine non abbia nulla a che spartire   con gli strumenti musicali a fiato tromba e trombone,per la sua forma panciutamente cilindrica ‘o trummone ‘e ll’acqua  è simile al grosso bombardino strumento a fiato di ottone, usato nelle bande; flicorno baritono, impropriamente détto in napoletano  trombone→trommone→trummone, per cui ne puó aver mutuato il nome.Rammento qui che l’acqua da asporto dell’acquaiuolo girovago fu quasi sempre quella sulfurea e solo con l’avvento delle banche ‘e ll’acqua si cominciò a vendere al minuto anche  l’acqua ferrata.  Mi soffermo ora  a ricordare che  mentre la cosiddetta piccula cu ‘o limone (semplice premuta d’un unico limone, senza aggiunta di acqua, servita in minuscole giarretelle( cfr. ultra) veniva richiesta e poi sorbita da chi fosse affetto da problemi digestivi (per aver magari mangiato grevemente od avidamente  cibi pesanti o intesi tali) nella speranza che il succo del limone avesse effetti benefici che tuttavia non sempre aveva in quanto talvolta si aggiungeva, con il limone, acidità ad acidità;e la faccenda addirittura si peggiorava se alla spremuta di limone (acido) veniva aggiunto del bicarbonato (base)in quanto l’addizione di un acido con una base produce come  effetto acqua che se è assunta da chi non abbia digerito, non fa che  peggiorare la situazione; è bene si sappia che  in presenza di problemi digestivi sarebbe piú opportuno assumere solo del bicarbonato che venendo a contatto con gli acidi presenti nello stomaco durante la digestione, li trasforma in acqua.   La limunata era invece una gran bibita risultante dalla spremuta di piú limoni, addizionata a scelta del cliente  di acqua del Serino o di acqua  ferrata o di acqua  sulfurea , bibita   rinfrescante sorbita il piú delle volte durante i mesi estivi, per combattere la calura, e tale bibita talora veniva fatta spumeggiare artificialmente addizionandola rapidamente di pochissimo bicarbonato. Partendo dalla pretesa idea che ‘a piccula cu ‘o limone fosse un rimedio si estese l’espressione a significare ed a sarcasticamente commentare, come ò detto, tutte quelle situazioni fastidiose a cui occorresse porre un rimedio pur che fosse: te ce vo’ ‘na piccula cu ‘o limone!
Qui  faccio notare che la voce piccula usata nell’espressione non è esattamente napoletana, ché nell’idioma napoletano s’usa piccerella/piccerillo= piccina/piccino,ma poiché le voci piccerella/piccerillo a Napoli vengono usate con riferimento ad esseri animati (uomini o bestie) ecco che si adottò l’adattamento della voce italiana piccola→piccula per significare una cosa contenuta e cioè la  bibita de qua.
In coda accenno ai recipienti usati per servire le bibite: bicchiere s.vo m.le [derivazione , probilmente formatasi  in Francia, dal gr. βῖκος «recipiente di terracotta»] =recipiente cilindrico di varie forme e dimensioni, di vetro; tipico quello dell’acquaiuolo che era alto quindici centimetri, era molto capiente (ca due decilitri) con il bordo spesso;rammento qui una graziosa curiosità: un acquaiuolo con banco in piazza san Francesco a ridosso di Porta Capuana si serviva di alcuni grossi bicchieri di vetro sul cui fondo si notavano in rilievo le punteggiate lettere in  istampatello maiuscolo E.I., segno evidente della provenienza truffaldina dei recipienti( perché trafugati da o acquistati illegittimamente in  qualche caserma) atteso che   E.I. era la sigla di Esercito Italiano;
giarra  s.vo f.le  [dall’arabo ğarra passato nello spagnolo e provenzale jarra  e nel francese jarre] indicò dapprima un  grosso recipiente di terracotta per conservare olio, vino, acqua o granaglie e  poi una brocca (con manico) di vetro o talvolta terracotta per bere acqua, birra  ed altre bevande; il  suo diminutivo ggiarretella/e voce d’uso  circoscritto napoletano indicò invece esclusivamente  una minuscola brocca, una chicchera,  una piccolissima giara o un gottino tutti recipienti forniti di manico  in materiali rigorosamente  povero come il vetro usati dall’acquaiolo per servire piccule cu ‘o limone o contenutissime prese d’anice che a volte, per insaporirla,  accompagnavano una giara d’acqua del Serino  al famoso grido: “Acqua e ànnese, fetè vuó vevere?!”
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A.L. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
 Raffaele Bracale

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