16 ICONICHE LOCUZIONI [25.2.21]
1.'O dulore è dde chi 'o sente, no 'e chi passa
e ttène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di
coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta
contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a
chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso
gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per
solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! -
affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
2.'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il
raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità
e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una
situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro
sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, cosí
dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti
a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il
terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il
quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per
cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
3.A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu
caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id
est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato,
consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e
ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non
abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo
consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera
o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora
sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere,
addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile
ormai.
4.Chi va pe cchisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo
questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione
difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può
attendersi risultati diversi o migliori.
5.Ammore, tosse e reogna nun se ponno
annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le
manifestazioni di queste tre situazioni sono cosí eclatanti che nessuno può
nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia
saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a
situazioni non celabili.
6.'Mparate a pparlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare.
Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la
disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da
vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo
dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di
sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA); in fondo la vita è
dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non
lavorare mai, vivendo ugualmente
benissimo.
7.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a gatta e sse
lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e
lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un
anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché
spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore
che disperde o consuma tutto il messo da parte; tale terzo profittatore è
spesso rappresentato dal/dagli erede/i che gode/godono fino allo scialacquamento
del patrimonio del de cuius.
8.'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione
usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po'
piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto
dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti
alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali
di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano
olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a
Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando
Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi
appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav.
Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il
Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali
Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ) la voce chiancarella (panconcello)
deriva quale diminutivo (cfr. suff. r+ ella) dal lat. planca (asse di legno);
normale il passaggio di pl a chi (cfr. plus→cchiú – plumbeum→ chiummo –
plaga→chiaja etc.).
9.A 'stu nunno sulo 'o càntero/càntaro è nnicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo
è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii
alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è la salute e per
essa il nutrirsi bene e il digerire meglio. In effetti con la parola càntero/càntaro
- oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio
adombrare proprio la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto
avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la
parola càntero/càntaro (dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal
greco kàntharos) non à l'esatto corrispettivo in
italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato
ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il ccàntero/càntaro era
destinato ad accogliere quelli solidi.
A margine rammenterò ora di non confondere le voci càntero/càntaro con un’altra voce partenopea : cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
10.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a
Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o
parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo
sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il
Signore.
11.Essere aúrio 'e chiazza e ttríbbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e
lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in
piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto e simpatico,
mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche
immotivato.
12.Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando Strana
locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a
tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un
debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la
soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il
potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio
della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito;
ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
13.Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura
preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani
errori; renditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai
misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue
azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento
ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri
ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti
alle bocche da fuoco in azione.
14.A -Appennere 'a giacchetta. B - Appennere 'o
cazone.
A- Appendere la giacca B- Appendere il pantalone. Si
tratta in fondo di due indumenti - per solito indossati dall'uomo, ma quanto
diverso tra loro il significato sottinteso dalle due locuzioni. Quello sub A -
fa riferimento alla giacca e sta a significare che si è smesso di lavorare e ci
si è pensionati, rammentando che - normalmente - specie per lavori manuali
l'uomo è solito liberarsi della giacca e lavorare in maniche di camicia; per
cui disfarsi del tutto della giacca significa che non si è intenzionati a
rimettersi al lavoro. Diverso e di significato piú grave la locuzione sub
B;essa adombra il significato di decedere, lasciando una vedova, tenendo
presente che della giacca ci si libera per lavore, mentre del calzone lo si fa
per coricarsi anche definitivamente.
15. bbona 'e Ddio!
Letteralmente: Con il benvolere di Dio. Id est: ci
assista Dio. E' l'augurio che ci si autorivolge nel principiar qualsiasi cosa
affinché la si possa portare a compimento senza noie o pericoli. Traduce ad
litteram l'augurio A la buena de Dios che i naviganti spagnoli solevano
rivolgersi scambievolmente al levar delle àncore.
16.Scuntà a ffierre 'e puteca.
Letteralmente: scontar con utensili di bottega. Id
est: saldare un debito conferendo non il dovuto danaro, ma una prestazione di
lavoro confacente al proprio mestiere, con l'uso dei ferri da lavoro usati
nella propria bottega.
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