FERNÍ DINT’Ê CHIAVETTE
Il caro amico
V.C. (di cui per i soliti motivi di riservatezza indico le sole iniziali di
nome e cognome)mi à chiesto – per le vie brevi – di illustrare significato ed
origine dell’espressione partenopea usata quasi sempre nella piú estesa frase: Cca jammo a fferní dint’ê chiavette! Provvedo immantinente alla bisogna dicendo
che ad litteram la frase vale: Qui
finiamo nelle piccole chiavi! id
est: Qui andiamo nel difficile, nel
complicato, nel complesso,nell’
articolato! ed è espressione usata
ad amaro commento di situazioni, ragionamenti o spiegazioni che presentino
grosse difficoltà per essere risolte, portati a termine o date. Tanto premesso
e ricordato che l’espressione ferní
dint’ê chiavette è ancóra
usatissima pur essendo espressione nata a Napoli negli anni cinquanta del 1900
nell’immediato dopoguerra con l’adozione, soprattutto tra i suonatoriambulanti(musicisti
dilettanti) di particolari strumenti a
fiato, d’importazione americana, d’uso giazzistico
come sassofoni e legni (oboe e clarinetto).L’espressione nacque appunto tra
quei musicisti dilettanti alle prese con quei particolari strumenti a fiato dotati per
produrre il suono non solo di fori, come era in origine con gli strumenti a fiato
semplici o primordiali quali zufoli, flauti dolci o ocarine, ma anche di chiavi
(détte piú comunemente chiavette);
tali chiavi sono delle
leve che negli strumenti a fiato, e nei legni in particolare, servono a
chiudere o aprire un foro al di fuori della portata delle dita per posizione
e/o dimensioni. Nei primi strumenti a
fiato, come ò anticipato, c’erano
solamente dei fori destinati ad essere chiusi con i polpastrelli, quindi in
numero limitato e posizionati piú secondo esigenze ergonomiche
o estetiche che non secondo i principi dell'acustica.
Successivamente per migliorare la resa del suono si provvide all'introduzione
sistematica delle chiavi cosa che
permise di:aumentare l'estensione verso il grave (allungando gli strumenti ed
aggiungendo nuovi fori verso la campana, controllati da chiavi aperte),aumentare l'estensione verso l'acuto (aggiungendo nuovi
fori vicino all'imboccatura, controllati da chiavi chiuse, e migliorando il
funzionamento del portavoce),migliorare l'intonazione (piazzando
i fori secondo calcoli acustici e non ergonomici),migliorare la resa acustica
ed il volume (realizzando fori più grandi del polpastrello, realizzando fori
di risonanza controllati automaticamente),ottenere tutti i suoni
cromatici (con nuovi fori controllati da chiavi chiuse o aperte),semplificare
la tecnica esecutiva nelle tonalità "lontane" (grazie anche ad
automatismi). Tutto ciò se comportò numerosi miglioramenti, portò a
grosse difficoltà esecutive e ad una resa acustica non omogenea: le posizioni a
forchetta danno un suono piú soffocato, i mezzi fori inoltre sono difficili da
intonare e quasi impossibili da suonare in velocità soprattutto per musicisti
non professionisti, ma dilettanti che non avevano alle spalle uno studio
sistematico, ma solo la pratica della passione e dell’esperienza quotidiana.Di
talché prima tra gli esecutori dilettanti, ma poi anche tra quelli
professionisti entrò in auge l’espressione finire
nelle chiavette cioè andar nel
complicato, allorché nell’esecuzione di un pezzo si fosse costretti, per tener
fede ad una particolare tonalità, a servirsi oltre che dei fori anche delle
chiavi e spesso si eseguivano trasporti di tonalità per evitare appunto di finire
nelle chiavette cioè di andar nel complicato. Col tempo dal
linguaggio iniziatico dei musicisti l’espressione in epigrafe divenne d’uso
comune ogni volta che – come ò détto -
situazioni, ragionamenti o spiegazioni
presentino grosse difficoltà per essere risolte, portati a termine o
date. Spero d’essere stato esauriente e
chiaro e d’aver accontentato l’amico V.C. ed interessato qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
Nessun commento:
Posta un commento