martedì 25 febbraio 2020

FERNÍ DINT’Ê CHIAVETTE


FERNÍ DINT’Ê CHIAVETTE
Il caro amico V.C. (di cui per i soliti motivi di riservatezza indico le sole iniziali di nome e cognome)mi à chiesto – per le vie brevi – di illustrare significato ed origine  dell’espressione partenopea  usata quasi sempre nella piú estesa frase: Cca jammo a fferní dint’ê chiavette!  Provvedo immantinente alla bisogna dicendo che ad litteram la frase vale: Qui finiamo nelle piccole chiavi!  id est: Qui andiamo nel difficile, nel complicato, nel complesso,nell’ articolato! ed è espressione usata ad amaro commento di situazioni, ragionamenti o spiegazioni che presentino grosse difficoltà per essere risolte, portati a termine o date. Tanto premesso e ricordato che l’espressione  ferní dint’ê chiavette   è ancóra usatissima pur essendo espressione nata a Napoli negli anni cinquanta del 1900 nell’immediato dopoguerra con l’adozione, soprattutto tra i suonatoriambulanti(musicisti dilettanti)  di particolari strumenti a fiato, d’importazione americana, d’uso giazzistico come sassofoni e legni (oboe e clarinetto).L’espressione nacque appunto tra quei musicisti dilettanti alle prese con quei  particolari strumenti a fiato dotati per produrre il suono non solo di fori, come era in origine con gli strumenti a fiato semplici o primordiali quali zufoli, flauti dolci o ocarine, ma anche di chiavi (détte piú comunemente chiavette); tali chiavi   sono delle  leve che negli strumenti a fiato, e nei legni in particolare, servono a chiudere o aprire un foro al di fuori della portata delle dita per posizione e/o dimensioni. Nei  primi strumenti a fiato, come ò anticipato,  c’erano solamente dei fori destinati ad essere chiusi con i polpastrelli, quindi in numero limitato e posizionati piú secondo esigenze ergonomiche o estetiche che non secondo i principi dell'acustica. Successivamente per migliorare la resa del suono si provvide all'introduzione sistematica delle chiavi  cosa che permise di:aumentare l'estensione verso il grave (allungando gli strumenti ed aggiungendo nuovi fori verso la campana, controllati da chiavi aperte),aumentare l'estensione verso l'acuto (aggiungendo nuovi fori vicino all'imboccatura, controllati da chiavi chiuse, e migliorando il funzionamento del portavoce),migliorare l'intonazione (piazzando i fori secondo calcoli acustici e non ergonomici),migliorare la resa acustica ed il volume (realizzando fori più grandi del polpastrello, realizzando fori di  risonanza controllati  automaticamente),ottenere tutti i suoni cromatici (con nuovi fori controllati da chiavi chiuse o aperte),semplificare la tecnica esecutiva nelle tonalità "lontane" (grazie anche ad automatismi). Tutto ciò se comportò numerosi miglioramenti, portò a grosse difficoltà esecutive e ad una resa acustica non omogenea: le posizioni a forchetta danno un suono piú soffocato, i mezzi fori inoltre sono difficili da intonare e quasi impossibili da suonare in velocità soprattutto per musicisti non professionisti, ma dilettanti che non avevano alle spalle uno studio sistematico, ma solo la pratica della passione e dell’esperienza quotidiana.Di talché prima tra gli esecutori dilettanti, ma poi anche tra quelli professionisti entrò in auge l’espressione finire nelle chiavette  cioè andar nel complicato, allorché nell’esecuzione di un pezzo si fosse costretti, per tener fede ad una particolare tonalità, a servirsi oltre che dei fori anche delle chiavi e spesso si eseguivano trasporti di tonalità per evitare appunto di  finire nelle chiavette  cioè  di andar nel complicato. Col tempo dal linguaggio iniziatico dei musicisti l’espressione in epigrafe divenne d’uso comune ogni volta che  – come ò détto - situazioni, ragionamenti o spiegazioni  presentino grosse difficoltà per essere risolte, portati a termine o date.   Spero d’essere stato esauriente e chiaro e d’aver accontentato l’amico V.C. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale

Nessun commento: