1 -Canta
ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sarcasticamente sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta l’abitudine dei canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli. |
2 -Armammoce
e gghiate.
Letteralmente: armiamoci ed... andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fare troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati. |
3 - A
- Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuóvere e cuóvere nun se cecano
ll'uocchie.
Letteralmente:
A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO
B-
CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di
corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire
anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non
son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno
dei terzi.
|
4 -Cca
'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare.
Il
sapone da bucato offerto da quei rigattieri era un sapone molto morbido, di
colore ambra ed era un sapone di produzione artigianale che non si trovava in
vendita nelle botteghe, ma era reperibile quasi esclusivamente presso quei
rigattieri girovaghi che svolgevano all’aperto (in piazza) la loro opera e
perciò fu detto sapone ‘e piazza ,
ma come tutti i manufatti artigianali d’antan era un ottimo prodotto che
serviva egregiamente allo scopo.
|
5 - Tené
'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna. |
6 -T'aggi''a
fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco (dal greco óstrakon= coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio la cui copertura anticamente era formata con coccio residuo della lavorazione delle anfore e con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana. |
7 -Ogne
anno Ddio 'o ccumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime. |
8 -
Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, infilare le dita nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta raggia. |
9 -Sciorta
e mole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone |
10 -Ll'arte
'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però càpita che taluni inetti ed incapaci si vedano immeritatamente spianata la strada ed invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico. |
|
11 -
Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele. |
12 -
Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re. |
13 -
'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie, ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie. |
14 -Rompere
'o nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare ànno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda.
La
parola nciarmo= magia, fascino,
incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen
ma da un francese n + charme
|
15 -'Ngrifarse
comme a 'nu gallerinio.
Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato.
‘ngrifato=rizzato, irsuto etc. è il
part. pass. dell’infinito ‘ngrifà/arse=rizzare/adirarsi
etc. dallo spagnolo engrifar
|
16 -Fà
zite e murticielle e battesime bunarielle.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco. |
17 - Vieste
Ciccone, ca pare barone.
Letteralmente:vesti Ceccone e sembrerà un barone. La locuzione napoletana stravolge completamente quella toscana che afferma: l'abito non fa il monaco. Il detto partenopeo, al contrario, afferma che basta vestire accuratamente un qualsiasi Ceccone (villano) per farlo apparire un barone... |
18 -Pigliarse
'e penziere d''o Russo.
Letteralmente: Prendersi i pensieri del Rosso. Id est: preoccuparsi di faccende senza importanza, trascurandone altre ben piú importanti.Il Rosso della locuzione fu un famoso ladro, che condannato al capestro, invece di preoccuparsi della propria sorte, si chiedeva chi sarebbe stato incaricato di portare la scala necessaria all'esecuzione. |
|
19 - Vestirse
'a fesso.
Letteralmente: indossare l'abito dello stupido. Id est: comportarsi in maniera volutamente sciocca, fare lo gnorri, tenere un comportamento da stupido nella speranza che cosí facendo si possa indurre una ipotetica controparte a non calcar la mano con pretese e richieste e raggiungere cosí il fine sperato con poca fatica e minimo impegno.E' l'atteggiamento che temporibus illis tenevano taluni chiamati alle armi per evitare la partenza per il fronte.Il fatto era compendiato nella frase: fà 'o fesso pe nun gghí â guerra(fare lo sciocco per non andare in battaglia; spesso si raggiungeva lo scopo, giacché non erano graditi soldati stupidi. |
20 - Fà 'nu sizia-sizia.
Letteralmente: fare un sitio- sitio Id est: richiedere ripetutamente e lamentosamente qualcosa con ossessiva petulanza. La locuzione nasce prendendo spunto dal Sitio! pronunciato da Cristo sulla croce. Alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli dell'aceto che misto ad acqua è la bevanda piú adatta a spegnere l'arsura. |
21 - Essere
'na pimmice 'e canapé.
Letteralmente: essere una cimice annidata in un divano. Id est: essere inaffidabile, subdolo e perfido come una cimice che - secondo la credenza popolare - è pronta a tradire il proprio simile o colui che abbia la sventura di tenerla nascosta nel proprio divano; il primo ad essere morsicato sarà proprio il padrone del divano. |
22 -Ma tenisse 'e gghiorde?
Letteralmente: fossi affetto da giarda? Domanda retorica che con aria insolente, viene rivolta a Napoli, a qualcuno che appaia pigro, indolente, scansafatiche, che non si muove, nè fa alcunché, quasi fosse affetto da giarda la malattia che colpisce le giunture ed in ispecie il collo del piede dei cavalli producendo eccessiva enfiagione delle zampe delle bestie, impossibilitate, per ciò a procedere speditamente. |
23 -Jí
cercanno 'mbruoglio, aiutame!
Letteralmente: andare alla ricerca di un imbroglio che possa aiutare. Id est: quando ci si trovi in situazioni o circostanze tali che non lascino intravedere vie d’uscita, l’unico mezzo di trarsi d’impaccio è quello di rifugiarsi in un non meglio identificato ‘mbroglio (imbroglio,astuzia, inganno, moto di destrezza) che in un modo o in un altro consenta di risolver la faccenda. La locuzione a Napoli è usata a salace commento delle azioni di chi, per abitudine, non è avvezzo ad agire con rettitudine o chiarezza e per habitus mentale si rifugia nell’imbroglio, pescando nel torbido. |
24 -
Appíla ca jesce feccia!
Letteralmente: tura ché esce feccia. È questo il comando imperioso dato dall'oste al garzone che stia aiutandolo a travasare il vino affinché ponga lo stoppaccio o zipolo alla botte quando, oramai vuotata, questa comincia a metter fuori la feccia o (in gergo) la mamma del vino; per traslato è il caustico ed imperioso comando che a Napoli si suole dare a chi - colloquiando - cominci a metter fuori sciocchezze o, peggio ancora, offese gratuite. |
25 -
 pprimma entratura, guardateve 'e ssacche!
Letteralmente: entrando per la prima volta, in qualche sito sconosciuto, badate alle tasche; id est: state attenti alle nuove frequentazioni specie di sconosciuti che possono derubarvi o procurare altri danni.
brak
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giovedì 31 agosto 2017
VARIE 17/886
CAPUZZIELLO
CAPUZZIELLO
Anche questa volta raccolgo una richiesta del mio caro amico
N.C.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali
di nome e cognome) che mi à sollecitato a parlare della voce in epigrafe udita
dalla bocca di alcuni ragazzi ed indirizzata ad uno di essi che teneva un
atteggiamento prepotente,
arrogante,sgarbato, tracotante, protervo, insolente, impudente, sfrontato;
l’amico m’à chiesto di analizzarla
compiutamente chiarendone significato e portata, atteso che l’amico mi à
riferito d’ averla invano cercata su alcuni calepini del napoletano che ànno il gravissimo torto
d’esser compilati attingendo soltanto negli scritti dei classici e non anche
nel vivo parlato.
Comincio súbito con il confermare che questa significativa voce
napoletana è difficilmente riscontrabile
sui
vocabolari in uso, poi che questi in genere sono colpevolmente compilati attingendo non anche al parlar popolare, ma soltanto a gli scritti soprattutto classici e, nella fattispecie nussun classico à mai usato il termine capuzziello in alcuna delle sue accezioni; mi arrogo perciò (contendando l’amico N.C. ed interessando, spero!, qualcuno dei miei ventiquattro lettori) il merito di parlarne io per il primo dicendo che la voce a margine significa quale s.vo m.le 1piccola gugliata es: 'nu capuzziello 'e cuttone, ‘nu capuzziello ‘e spavo(una piccola gugliata di filo, di spago); in tale accezione etimologicamente è voce formata addizionando al termine capo/a il doppio suffisso diminutivo uzzo ed iello: uzzo è un collaterale di uccio suffisso che continua il lat. -uceu(m) e serve a formare diminutivi di sostantivi e aggettivi, con valore sia dispregiativo sia vezzeggiativo; mentre iello←ĕllo è un suffisso alterativo di sostantivi e aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo (mariunciello, sciummetiello) il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pure usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
vocabolari in uso, poi che questi in genere sono colpevolmente compilati attingendo non anche al parlar popolare, ma soltanto a gli scritti soprattutto classici e, nella fattispecie nussun classico à mai usato il termine capuzziello in alcuna delle sue accezioni; mi arrogo perciò (contendando l’amico N.C. ed interessando, spero!, qualcuno dei miei ventiquattro lettori) il merito di parlarne io per il primo dicendo che la voce a margine significa quale s.vo m.le 1piccola gugliata es: 'nu capuzziello 'e cuttone, ‘nu capuzziello ‘e spavo(una piccola gugliata di filo, di spago); in tale accezione etimologicamente è voce formata addizionando al termine capo/a il doppio suffisso diminutivo uzzo ed iello: uzzo è un collaterale di uccio suffisso che continua il lat. -uceu(m) e serve a formare diminutivi di sostantivi e aggettivi, con valore sia dispregiativo sia vezzeggiativo; mentre iello←ĕllo è un suffisso alterativo di sostantivi e aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo (mariunciello, sciummetiello) il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pure usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
la
voce in esame significa altresí come nel
caso che ci occupa quale agg.vo o sost.vo
persona arrogante e prepotente dall'aria e modi
guappeschi ma in tale accezione è voce derivata dal s.vo capoccio/a (s.vo m.le 1 capo di una famiglia di contadini;
2 sorvegliante di una squadra di lavoranti, di pastori o di vaccari;3 ( furbescamente) chi fa da capo, da guida anche in azioni delittuose o criminase;4 (scherzosamente) il capo di casa; voce derivata da capo); la morfologia seguíta per giungere a capuzziello, partendo da capoccio è stata: capoccio→capozzo→capuzzo addizionato del solito suffisso diminutivo masch.: iello.
guappeschi ma in tale accezione è voce derivata dal s.vo capoccio/a (s.vo m.le 1 capo di una famiglia di contadini;
2 sorvegliante di una squadra di lavoranti, di pastori o di vaccari;3 ( furbescamente) chi fa da capo, da guida anche in azioni delittuose o criminase;4 (scherzosamente) il capo di casa; voce derivata da capo); la morfologia seguíta per giungere a capuzziello, partendo da capoccio è stata: capoccio→capozzo→capuzzo addizionato del solito suffisso diminutivo masch.: iello.
E
cosí penso d’avere esaurito l’argomento, contentato l’amico N.C. ed interessato
qualcuno dei miei soliti ventiquattro lettori. Faccio perciò punto fermo; satis
est.
Raffaele
Bracale
CCA
CCA
CCA ( e non ca)avv
= qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (e)cc(um) (h)a(c)→cca;
da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua
corrispettivo) l’avverbio a margine va
scritto senza alcun segno diacritico
trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri;
nel napoletano esistono , per vero, una
congiunzione ed un pronome ca = (che), pronome e
congiunzione (ambedue dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca
che però
si rendono con la c iniziale scempia, laddove
l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due
monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo
capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori
partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna
sillaba!) e talora addirittura ccà’
addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che,
ripeto, non v’è alcuna sillaba finale
che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin
qui détto, mi occorre però aggiungere
un’ultima osservazione: è vero che gli
antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a
margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e
congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto
che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei
vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né
informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il
caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che,
diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò
sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca)
ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal
cà
registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi,
R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la
linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi
sento di perdonare a Raffaele
D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri
talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni
spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei
quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di
regole linguistiche, (quando non sai una
cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni
grafiche!
Raffaele
Bracale
VARIE 17/885
1 JÍ CASCIA E TURNÀ BAUGLIO
oppure
JÍ STOCCO E TURNÀ BACCALÀ
Per ambedue: Attivarsi a
qualcosa, ma non addivenire a nulla!Ad litteram: Jí cascia e turnà bauglio: Andar cassa e tornare baúle oppure jí stocco e turnà baccalà: andare
stoccafisso e tornar baccalà id est:
non approdare a nulla di concretamente apprezzabile; nel primo caso detto di
chi partito quale cassa (mero
contenitore) ne ritornasse, senza veri risultati, ma con il solo nome mutato; il bauglio è comunque nulla di piú che un semplice contenitore
ad un dipresso simile, se non uguale ad una cassa! Idem dicasi, nel caso della
seconda espressione jí stocco e turnà
baccalà per lo stoccafisso ed il baccalà i quali o che sia seccato ed affumicato (stoccafisso) o eviscerato, salato e
conservato in barile (baccalà) è pur
sempre un semplice, povero merluzzo!
Cascia: etimologicamente dal latino capsa (da capio) attraverso uno spagnolo
caja
Baúglio: etimologicamente
deverbale metatetico del latino bajulare=portare
s.m. = baúle, contenitore usato per
portare merci o altro;altrove estensivamente gobba che insiste sul petto.
Stocco: etimologicamente dallo spagnolo/portoghese estoque =bastone
Baccalà: etimologicamente dallo sp. bacalao, e
questo dal fiammingo kabeljauw
2 JÍ CU ‘O
CHIUMMO E CU ‘O CUMPASSO.
Ad litteram: andare con il
piombo ed il compasso id est: agire in ogni occasione con estrema
attenzione, tal quale gli artieri che innalzano fabbricati che usano il filo a
piombo per tener sotto controllo la esatta verticalità delle mura, o il compasso
per non perder di vista le proporzioni progettuali;
chiummo: etimologicamente dal latino plumbeum con la tipica mutazione del gruppo pl che approda al napoletano chi come altrove ad es. plaga
che diede chiaia o anche plus diventato cchiú;
cumpasso :
etimologicamente dal latino cumpassu(m)=
che à il medesimo passo.
3.AIZÀ ‘A
MANO
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione, che viene
usata quando si voglia fare intendere
che si è proclivi al perdono
soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto
del sacerdote che al momento di
assolvere i peccati , alza la mano per
benedire e mandar perdonato il peccatore pentito.
4. Ô TIEMPO ‘E PAPPACONE.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda
Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando
risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto
sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da
riprodurre o riproporre; La parola Pappacone
è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima
e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di
Napoli.E ciò valga a smentire l’inesatta affermazione di taluni sprovveduti di
storia patria che ritengono (chiaramente a torto) che il Pappacone
dell’espressione sia un adattamento
del nome Pappagone, maschera
teatrale, piuttosto recente (1966), creazione del famosissimo Peppino De
Filippo(Napoli, 24 agosto 1903 –† Roma, 26 gennaio 1980). Essendo l’espressione
in esame molto piú datata rispetto alla creazione del De Filippo se ne evince che non vi sia alcun
collegamento se non una semplice assonanza tra Pappagone e Pappacone.
5. Ô TIEMPO D’’E CAZUNE A TERÒCCIOLE.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione
analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si
sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le
braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole
carrucole metalliche.
6.
ARRICURDARSE ‘O CIPPO A FFURCELLA, ‘A LAVA D’’E VIRGENE, ‘O CATAFARCO Ô
PENNINO, ‘O MARE Ô CERRIGLIO, ‘O PERE ‘E LATTERE A FFURIA.
Ad litteram: Rammentarsi del pioppo a Forcella, della lava dei
Vergini, del catafalco al Pendino, del mare al Cerriglio e del palmizio
piantato a dimora nei giardini di piazza Cavour al tempo che il luogo era détto
‘o Llario d’’e ppigne in quanto vi si trovavano numerosissimi e frondosi pini
mediterranei.
L’espressione viene pronunciata a caustico commento delle parole
di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai
remotissimi quali, nella fattispecie, i pioppi esistenti alla fine di via
Forcella; per il vero la parola originaria dell’espressione era chiuppo ( id
est: pioppo; chiuppo etimologicamente è da un lat. volg. *ploppu(m), per il class.
populus; tipico il passaggio in napoletano PL→CHI) parola poi corrotta in cippo
e cosí mantenuta nella tradizione orale della locuzione;in essa poi sono
ricordati vari altri accadimenti , quali 1- ‘a lava d’’e Virgene(la lava in
lingua napoletana, etimologicamente dal dal lat. labe(m) 'caduta, rovina',
deriv. di labi 'scivolare' non indica solamente la massa fluida e incandescente
costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di
lava., ma anche un a copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua; ed è a
quest’ultima che qui si fa riferimento (con l’espressione ‘a lava d’’e Virgene
si intende infatti quel tumultuoso torrente di acqua piovana che a Napoli fino
agli inizi degli anni ’60 del 1900, quando furono finalmente adeguatamente
sistemate le fogne cittadine, si precipitava dalla collina di Capodimonte sulla
sottostante via dei Vergini (cosí chiamata perché nella zona esisteva un
monastero di Verginisti antica congregazione religiosa di predicatori) e
percorrendo di gran carriera la via Foria si adagiava, placandosi, in piazza
Carlo III, trasportando seco masserizie,ceste di frutta e verdura e tutto ciò
che capitasse lungo il suo precipitoso percorso),2 - ‘o catafarco al Pendino
(id est: il grosso altare che veniva eretto nella centrale zona del Pendino,
altare eretto per le celebrazioni della festa, ormai desueta, del Corpus
Domini; in primis la parola catafarco (di etimo incerto, ma con molta
probabilità derivata da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra –arabo
falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí in napoletano, con derivazione da un antico castellame, si indica il
catafalco su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara
durante i funerali solenni; qui è usato per traslato ad indicare un altare
molto imponente),o ancóra 3-‘o pere ‘e lattere a Ffuria cioè, ripeto,allorché
in piazza Cavour cioé in quella zona al principio di via Foria, che sino a
tutto il 1860 era chiamata Largo delle Pigne e che gli usurpatori del Reame maldestramente
intitolarono al massimo mestatore del cosiddetto risorgimento, il conte di
Cavour Camillo Benso, cosí come mutarono la toponomastica di tante strade vie e
piazze napoletane a cominciare da quel Largo di PALAZZO [che il Re Ferdinando I
delle Due Sicilie, come voto nei confronti di san Francesco da Paola, che aveva
intercesso per lui affinché ritornasse sul trono del Regno, decise la
costruzione di una chiesa che fu portata a termine tra 1816 ed il 1846 al
centro del costruendo porticato], trasformato in piazza del Plebiscito [ in
memoria di quella truffa storica che il
21 ottobre 1860 aveva decretato l’annessione del Regno delle Due Sicilie allo
staterello savoiardo Regno di Sardegna],
da Largo di Mercatello trasformato in piazza Dante, Corso Maria Teresa [strada
panoramica, una delle arterie principali della città di Napoli, di cui può
essere considerata come la prima "tangenziale" in ordine di tempo
anch’essa voluta nel 1852 dal Re Ferdinando II]degradata a Corso Vittorio
Emanuele, in omaggio al monarca usurpatore ed altre vie;orbene originariamente
l’odierna piazza Cavour s’ebbe il nome di Largo delle Pigne [ed in napoletano
Llario d’’e ppigne (id est Largo dei Pini, détte in napoletano PIGNE con
riferimento a gli strobili di détti alberi sempreverdi della famiglia delle
Pinaceae che trovano il loro ambiente
ideale vicino alle coste del mare
)] ed infine: 4 - ‘o mare al
Cerriglio (cioè quando il mare lambiva la zona del Cerriglio, zona prossima al
porto, nella quale era ubicato il Sedile di Porto, uno dei tanti comprensorî
amministrativi in cui, in periodo viceregnale, era divisa la città di Napoli;
nella medesima zona del Cerriglio esistette (1600 circa) una antica bettola o
osteria , peraltro frequentata da ogni tipo di avventori dai nobili (che vi
venivano a provare l’ebrezza dell’ incontro con il popolino), ai plebei (che
per pochi soldi vi si sfamavano), agli artisti (in cerca di ispirazione) alle
prostitute (in cerca di clienti); abituale frequentatore di questa bettola pare
fosse, durante il suo soggiorno partenopeo, il Caravaggio(Michelangelo Merisi,
detto il Caravaggio Caravaggio o Milano, 1571 † Porto Ercole (Monte
Argentario), 18 luglio 1610) . sulla porta di detta bettola erano riportati i
seguenti popolareschi versi epicurei se non edonistici:
Magnammo, amice mieje, e po' vevimmo
nfino ca stace ll'uoglio a la lucerna:
Chi sa’ si all'auto munno nce vedimmo!
Chi sa’ si all'auto munno nc'è taverna!
stace = ci sta; il ce dal lat. volg. *hicce, per il class. hic
'qui'in posizione enclitica corrisponde, svolgendone le medesime funzioni,
all’italiano ci che è pron. pers. di prima pers. pl. atono; in presenza delle
particelle pron. atone lo, la, li, le e della particella ne, viene sostituito
da ce: ce lo disse, mandatecelo; che ce ne importa?; in gruppo con altri pron.
pers., si prepone a si e se: ci si ragiona bene; non ci se ne accorge (pop. la
posposizione: si ci mette); si pospone a mi, ti, gli, le, vi: ti ci affidiamo
(piú com.: ci affidiamo a te)]; vale pure noi ( e si usa come compl. ogg., in
posizione sia proclitica sia enclitica);
lucerna = lampada portatile ad olio o petrolio e qui, per traslato
vita etimologicamente derivata da un tardo latino lucerna(m), forse deriv. di
lux lucis 'luce', o piú probabilmente deverbale di luceo con il suffisso di
appartenenza ernus/a;
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal
latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo
significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B/V,
nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere,
come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse puteca.
7. ACRUS EST E TE LL’HÊ ‘A VEVERE
Ad litteram : È acre, ma devi berlo
La locuzione è tipico
esempio di frammistione tra un tardo latino improbabile ed un vernacolo pieno.
Cosí a Napoli si suole
ripetere a chi non si voglia convincere della ineluttabilità di talune
situazioni cui bisogna soggiacere, stante una forza maggiore. Narro qui di
seguito la storiella donde prese vita la locuzione in epigrafe. Un
anziano curato era in urto col proprio dispettoso sacrestano che sostituí il
vino per la celebrazione della Messa con un acre aceto. Allorché il curato portò alle labbra il calice contenente
l’aceto, se ne dolse con il sacrista dicendo: “Acrus est!” ed il dispettoso
sacrestano di rimando : “te ll’hê ‘a vevere!” (Devi berlo Non puoi esimerti.)
il curato, minacciandolo:” Dopo la messa t’aspetto in
sacrestia...”
il sacrista, concluse:” Hê ‘a vedé si me truove!” (Probabilmente
non mi troverai...)
Oggi la locuzione non à bisogno di due interlocutori; viene
pronunciata anche da uno solo, da chi tenti di convincere qualcun altro che debba soggiacere agli eventi e non se ne
possa esimere.
8. AMMACCA
E SSALA, AULIVE ‘E GAETA!
Ad litteram: Comprimi e
sala, ulive di Gaeta Locuzione che nel richiamare il modo sbrigativo di
conservare in apposite botticelle le ulive coltivate in quel di Gaeta,viene
usata per redarguire e salacemente commentare tutte quelle azioni compiute in
modo eccessivamente sbrigativo e perciò raffazzonato, senza porvi soverchia
attenzione.
9. “ A
LLU FRIJERE SIENTE LL’ADDORE” - “A LLU CAGNO, SIENTE ‘O CHIANTO”
Ad litteram: “Al momento di friggere, avvertirai il (vero)
odore” - “Al momento di cambiarli,
piangerai.”
Locuzione che riproponendo
un veloce scambio di battute intercorse
tra un venditore ed un compratore, viene usata quando si voglia far
comprendere a qualcuno di non tentare di fare il furbo in una contrattazione
usando metodi truffaldini,perché correrebbe il rischio d’esser ripagato allo
stesso modo.
Un anziano curato, recatosi al mercato ad acquistare del pesce, si
vide servito con merce non fresca, anzi quasi putrescente; accortosi della
faccenda, ripagò il pescivendolo con moneta falsa, ma nell’allontanarsi sentí il pescivendolo che si gloriava di
averlo gabbato e a mo’ di dileggio gli rivolgeva la prima frase della locuzione
in epigrafe; e il curato, prontamente, gli rispose con la seconda frase.
10. ADDÓ ARRIVAMMO, LLÀ METTIMMO ‘O SPRUOCCOLO
Ad litteram: Dove giungiamo là poniamo uno stecco. La locuzione è usata sia a mo’ di divertito
commento di un’azione iniziata e non
compiuta del tutto, sia per rassicurare qualcuno timoroso
dell’intraprendere un quid ritenuto troppo gravoso da conseguirsi in tempi brevi; ebbene in tal caso gli si
potrebbe dire:” Non temere: non dobbiamo fare tutto in un’unica soluzione; Noi
cominciamo l’opera e la proseguiamo fino al momento che le forze ci sorreggono; giunti a quel
punto, vi poniamo un metaforico stecco, segno da cui riprendere l’operazione
per portarla successivamente a
compimento.”
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di
taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio,
assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione
osco mediterranea d→r.
11.
CHIAITARSE QUACCOSA
Ad litteram: Reclamare, richiedere
(con insistenza) qualcosa,piatirla quasi lamentosamente, esigerla,
pretenderla, ridomandarla, rivendicarla con accanimento, con petulanza, con pressione e sollecitazione quasi ricorrendo (per
ottenerla) alla questione o al
litigio.Il verbo chiaità[=rivendicare, richiedere] donde il riflessivo
chiaitarse trova il suo etimo nel lat.
placitàre attraverso un plagitare con
caduta della “g” intervocaliva e sviluppo di una “j” di transito poi assorbita
nella “i” donde plagitare→pla(g)itare→plajitare→plaitare→chiaità; normale nel
napoletano e tipico l’ esito del
digramma pl in chi (cfr. platea→chiazza
- plumbeum→chiummo - pluere→chiovere – plattu-m→chiatto etc.);a sua volta
plagitare è un denominale di plagitu-m←placitu-m= lite, litigio, vertenza che
diede il napoletano chiajeto di pari significato.
12 – E
TTE PAREVA!?
Locuzione esclamativa/interrogativa che non va tradotta
pedissequamente ad litteram: “ E ti sembrava!?”,ma che va addizionata di un
sottinteso che cosí non fósse per darle l’esatto significato che è quello di:
“Siamo alle solite!, Me lo aspettavo!, Ci risiamo!, Non poteva mancare!” e
viene usata con un senso di risentito
rammarico o da chi sia inopinatamente coinvolto in faccende
temute che à cercato invano di evitare; o anche da chi debba, con dispiacere, notare che il comportamento tenuto da qualcuno nei suoi riguardi sia
monotonamente , reiteratamente, prevaricante e deleterio e non si discosti mai
da tale pessima linea di condotta.
13 –
DOPPO PASCA VIÉNEME PESCA E MMIETTE ‘O CULO ‘INT’A LL’EVERA FRESCA!
Ad litteram: Dopo Pasqua vieni a pescarmi [cioé trovami(se ne sei
capace...)] e (per farlo) poggia le natiche nell’erba fresca. Espressione
sarcastica posta sulla bocca di un debitore che intenda procrastinare ad
libitum un pagamento o rimandare ad un tempo migliore l’adempimento d’un
compito gravoso o fastidioso quasi che il moroso voglia
sfidare il creditore a trovarlo e gli significhi che dopo la
Pasqua non lo potrà reperire presso il proprio domicilio, ma altrove e cioé
quasi certamente in giro per freschi prati pramaverili là dove si sarà recato
per la consueta gita del lunedí in
albis.
Brak
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