SPICCECÀ ‘E CAPILLE A SSANTA CATARINA
Questa volta è stato il caro amico A. M. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi via e-mail di chiarirgli significato e portata della desueta, ma icastica e – per certi versi – lo riconosco!, ermetica espressione partenopea in epigrafe. L’accontento súbito tentando di far chiarezza e svelare l’arcano.Ad litteram l’espressione vale: Pettinare, ravviare (districandoli) i capelli di santa Caterina ma – ovviamento – presa ad litteram l’espressione non avrebbe, né potrebbe avere significato veruno atteso che sarebbe del tutto impossibile oltre che inconferente ravviare, acconciare, aggiustare, la chioma di una santa scomparsa da secoli. Occorre perciò lasciar perdere la lettera e pensare ad altro.Cosa che faccio chiarendo che l’espressione in effetti non à nulla a che spartire con santa Caterina e la sua chioma ed è solo un impertinente modo di dire usato a dileggio di quelle giovanette che all’età di venticinque anni siano ancóra nubili e lungocrinite cosí come tutte le illibate vergini che avanti le nozze non potevano recidersi i capelli. A costoro che, piú che ventenni, non abbiano ancóra trovato partito si consiglia per beffa, burla, canzonatura, motteggio o irrisione di continuare a sistemare, assettare, accomodare, riordinare la propria chioma nel tentativo di migliorarsi nell’aspetto ed attirare in tal modo qualche corteggiatore. Che c’entra dunque santa Caterina? Assolutamente nulla, se si esclude (ah, la grande fantasia dei napoletani!)il riferimento al numero venticinque, atteso che la ricorrenza della santa cade proprio ai venticinque di novembre!
spiccecà verbo tr.
in primis 1spiccicare, dividere, separare;
per ampliamento semantico 2 sciogliere nodi di capelli o matasse e quindi pettinare, ravviare;
per traslato dell’ ampliamento 3 staccare ciò che è appiccicato e (détto delle parole) pronunciare distintamente.
Etimologicamente rappresenta il contrario (attraverso il cambio di prefisso ad→s) di appiccicare←ad+piccicare = unire con la pece, intensivo di appiccià (dal lat. volg. *adpicjare denominale da un ad + piceus).
capille s.vo m.le pl. di capillo = capelli, chioma;
voce dal lat. capillu(m).
santa Catarina = santa Caterina d’ Alessandria d'Egitto (III sec.) è ricordata come una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili, dimorante in Alessandria d'Egitto; ivi , nel 305,giunse Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria. Per l'occasione si celebrarono feste grandiose, che inclusero (atto obbligatorio per tutti i sudditi) anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Caterina però coraggiosamente si rifiutò di compiere il sacrificio ed anzi invitò Massimino a riconoscere in Gesú Cristo il Redentore dell'umanità; non riuscendo a convincere la giovane a venerare gli dèi, Massimino propose a Caterina il matrimonio. Al rifiuto della giovane il governatore la condannò ad una morte orribile: una grande ruota dentata avrebbe dovuto fare strazio del suo corpo. In un primo momento un miracolo fece salva la giovane che però di lí a poco venne decapitata. Secondo una leggenda degli angeli portarono miracolosamente il suo corpo da Alessandria fin sul Sinai, dove ancora oggi l'altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo episodio sarebbe avvenuto nel novembre del 305 e precisamente ai 25 del mese, giorno in cui la santa viene festeggiata.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A.M. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
sabato 31 marzo 2012
VARIE 1699
1.COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí mai il ladruncolo.
2. COMME PAGAZZIO, ACCUSSÍ PITTAZZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.A.S. GRUE: Francesco Antonio Saverio (1686-†1746), figlio di Carlantonio, che preferí la pittura di figure, famosissimo artista appartenente alla famiglia Grue, famiglia di ceramisti di Castelli (Teramo). Il caposcuola fu Carlantonio (1655-†1723), figlio di Francesco Antonio, che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea. Francesco Antonio Saverio fu noto per i suoi vasi di maiolica, e come détto riportò la frase in epigrafe su di un’antica albarella détta di san Brunone.
3. CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
4. CÀNTERO SPETENATO - CESSO A VVIENTO.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case ,ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero = grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis si meritò lo scrittore nolano Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6. COPPOLA Ê DENOCCHIE!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
7. CURNUTO E MAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto) etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato fu adoperata per addolcire quasi la più cruda curnuto e scannato.
8. COMME ‘A VIDE ACCUSSÍ ‘A SCRIVE
Ad litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che apparisse ad un primo esame.
R.Bracale
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí mai il ladruncolo.
2. COMME PAGAZZIO, ACCUSSÍ PITTAZZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.A.S. GRUE: Francesco Antonio Saverio (1686-†1746), figlio di Carlantonio, che preferí la pittura di figure, famosissimo artista appartenente alla famiglia Grue, famiglia di ceramisti di Castelli (Teramo). Il caposcuola fu Carlantonio (1655-†1723), figlio di Francesco Antonio, che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea. Francesco Antonio Saverio fu noto per i suoi vasi di maiolica, e come détto riportò la frase in epigrafe su di un’antica albarella détta di san Brunone.
3. CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
4. CÀNTERO SPETENATO - CESSO A VVIENTO.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case ,ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero = grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis si meritò lo scrittore nolano Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6. COPPOLA Ê DENOCCHIE!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
7. CURNUTO E MAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto) etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato fu adoperata per addolcire quasi la più cruda curnuto e scannato.
8. COMME ‘A VIDE ACCUSSÍ ‘A SCRIVE
Ad litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che apparisse ad un primo esame.
R.Bracale
LE PREPOSIZIONI ARTICOLATE NEL NAPOLETANO
LE PREPOSIZIONI ARTICOLATE NEL NAPOLETANO
Anche nell’idioma napoletano c’è l’uso, sia nel parlato che nello scritto, delle preposizioni articolate ovverossia di quelle preposizioni formate dall’unione degli articoli determinativi sg. e pl. con le preposizioni semplici (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra) o dall’unione dei medesimi articoli con quelle improprie (sotto, sopra, prima, dopo,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano, come etc.). Comincio súbito con il dire che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le locuzioni articolate formate con avverbi o preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a,ma esistono nel napoletano due distinte morfologie delle preposizioni articolate formate con la preposizione semplice a e gli articoli determinativi; la prima morfologia è quella che fa ricorso alla crasi /unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) da usarsi davanti a parole comincianti per consonanti, mentre davanti a parole comincianti per vocali si fa ricorso ad una morfologia rigorosamente scissa e si usano a ll’ (= alla/allo/al/alle/a gli) ess.: â casa = alla casa, ô puorto = al porto, ê scieme, ê sceme= a gli scemi/ alle sceme, ma a ll’ommo = all’ uomo, a ll’anema = all’ anima a ll’uommene = a gli uomini, a ll’ alimentari = alle (scuole) elementari;
con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata (quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque proposto e qui propongo d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma da usarsi ovviamente davanti a parole principianti per consonanti (ess.: dâ scola = dalla scuola. dô treno = dal treno, dê scarpe = dalle scarpe), forma che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione usata per le preposizioni articolate formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui accennavo precedentemente. Ovviamente non sarà possibile usare questa forma davanti a parole principianti per vocali e sarà giocoforza usare da ‘o, da ‘a, da ‘e evitando di apostrofarle per evitare possibili confusioni. Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; rammento tuttavia di non confondere
a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette ed indirette.
Proseguiamo.
Con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – indal lat. d(e) int(r)o→dinto); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,néi/negli/nelle.
Con la preposizione con in italiano si ànno col = con+il, collo/a= con+lo/la colle = con+ le, cogli = con+ gli, ma a mio avviso son tutte bruttissime, a parte che prestano il fianco alla confusione con taluni sostantivi e non le uso mai preferendo sempre e non da ora la forma disagglutinata ; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione cu (=con), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata, forma che però sconsiglio: cu ‘o→c’’o, cu ‘a→c’’a, cu ‘e che non ammette apostrofo, quantunque qualcuno si ostini a scrivere un bruttissimo ch’’e .
Con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e.
Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) vicino al/allo (vicino a ‘o→vicino ô) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la.
E qui penso d’avere esaurito l’argomento e poter porre un punto fermo. Satis est.
Raffaele Bracale
Anche nell’idioma napoletano c’è l’uso, sia nel parlato che nello scritto, delle preposizioni articolate ovverossia di quelle preposizioni formate dall’unione degli articoli determinativi sg. e pl. con le preposizioni semplici (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra) o dall’unione dei medesimi articoli con quelle improprie (sotto, sopra, prima, dopo,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano, come etc.). Comincio súbito con il dire che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le locuzioni articolate formate con avverbi o preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a,ma esistono nel napoletano due distinte morfologie delle preposizioni articolate formate con la preposizione semplice a e gli articoli determinativi; la prima morfologia è quella che fa ricorso alla crasi /unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) da usarsi davanti a parole comincianti per consonanti, mentre davanti a parole comincianti per vocali si fa ricorso ad una morfologia rigorosamente scissa e si usano a ll’ (= alla/allo/al/alle/a gli) ess.: â casa = alla casa, ô puorto = al porto, ê scieme, ê sceme= a gli scemi/ alle sceme, ma a ll’ommo = all’ uomo, a ll’anema = all’ anima a ll’uommene = a gli uomini, a ll’ alimentari = alle (scuole) elementari;
con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata (quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque proposto e qui propongo d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma da usarsi ovviamente davanti a parole principianti per consonanti (ess.: dâ scola = dalla scuola. dô treno = dal treno, dê scarpe = dalle scarpe), forma che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione usata per le preposizioni articolate formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui accennavo precedentemente. Ovviamente non sarà possibile usare questa forma davanti a parole principianti per vocali e sarà giocoforza usare da ‘o, da ‘a, da ‘e evitando di apostrofarle per evitare possibili confusioni. Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; rammento tuttavia di non confondere
a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette ed indirette.
Proseguiamo.
Con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – indal lat. d(e) int(r)o→dinto); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,néi/negli/nelle.
Con la preposizione con in italiano si ànno col = con+il, collo/a= con+lo/la colle = con+ le, cogli = con+ gli, ma a mio avviso son tutte bruttissime, a parte che prestano il fianco alla confusione con taluni sostantivi e non le uso mai preferendo sempre e non da ora la forma disagglutinata ; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione cu (=con), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata, forma che però sconsiglio: cu ‘o→c’’o, cu ‘a→c’’a, cu ‘e che non ammette apostrofo, quantunque qualcuno si ostini a scrivere un bruttissimo ch’’e .
Con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e.
Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) vicino al/allo (vicino a ‘o→vicino ô) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la.
E qui penso d’avere esaurito l’argomento e poter porre un punto fermo. Satis est.
Raffaele Bracale
VARIE 1698
1. Ll' avimmo fatto 'e stramacchio.
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione ‘e stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
2. Chisto è cchillo ca tagliaje 'a recchia a Mmarco.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare ogni attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione d’uso ; segnatamente per es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
recchia= orecchio; la voce napoletana deriva da un lat. volg. *aricla con normale passaggio di cl intervocalico a cchj→cchi e con deglutinazione della a d’avvio intesa articolo.
3.’O cummannà è mmeglio d''o ffottere.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è più soddisfazione nel comandare che nel coire. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
‘o cummannà = il comandare voce verbale infinito sostantivata neutra; cumnannà deriva da un lat. volg. *commandare (lat. class. commendare), comp. di cum 'con' e mandare 'affidare, raccomandare di cui mantiene (contrariamente all’italiano comandare) il raddoppiamento della m, con consueta assimilazione progressiva nd→nn ;
meglio avverbio o altrove aggettivo sostantivato neutro ‘o mmeglio= meglio, il meglio; faccio notare che in epigrafe è scritto mmeglio con la geminazione della consonante d’avvio, dipesa dal fatto che la voce a margine segue la vocale e della voce verbale è di essere; l’etimo di meglio è dal latino melius con tipico passaggio di l→gl;
‘o ffottere = il fottere, il coire voce verbale sostantivata neutra dell’infinito fottere scritto ffottere con la geminazione della consonante d’avvio, dipesa dal fatto che la voce a margine segue la vocale o dell’art. ‘o; fottere= possedere sessualmente; avere rapporti sessuali ma anche figuratamente: imbrogliare, raggirare deriva dal latino volg. *futtere, per il class. futuere.
coire, con i medesimi significati è dal latino coire da cum + ire ‘andare con;
4. Essere sempe cazza e cucchiara cu quacchuno
Letteralmente: essere sempre cazza e cucchiaia con qualcuno; id est: aver rapporti cosí indissolubili con qualcuno fino a formar quasi un tutt’uno con lui alla stregua della cazza (contenitore della malta) che i muratori usano sempre in uno con la cucchiara (cazzuola), ed essa cazzuola è conservata a sera, al termine del lavoro nella cazza, per modo che sia facilmente reperita al mattino successivo quando si riprende il lavoro; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutti coloro che sceltosi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo.
La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancora indica. quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. ky/athos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'.
Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto più grande del corrispondente maschile (es.: tammurro più piccolo – tammorra più grande, tino più piccolo – tina più grande etc.);ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè) al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola).
sempe= sempre, senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo): con etimo dal lat. semper con atipico troncamento della consonante finale r in luogo dell’atteso raddoppiamento rr e paragoge di una vocale semimuta finale (e/o) come altrove tramme←tram, bisse←bis, barre←bar, autobbusse←autobus.
quaccuno = qualcuno, pronome indefinito forma sincopata di quaccheduno che è derivato da un qual(is) qui(=che) con assimilazione regressiva quacche + et unus ( = ed uno) donde quacc(hed)uno→quaccuno.
5.Miéttele nomme penna!
Letteralmente: Chiamala penna!
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che si ‘o priestito fosse bbuono ogneduno ‘mprestasse ‘a mugliera! (se il prestito fosse una cosa buona,ognuno impresterebbe la propria moglie...Rammenterò altresì che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia (rovescio) v’era raffigurata l’annunciazione a Maria Ss. effigiata sul lato dritto, mentre sul manco v’era l’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miettele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. Lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labionasale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Raffaele Bracale
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione ‘e stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
2. Chisto è cchillo ca tagliaje 'a recchia a Mmarco.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare ogni attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione d’uso ; segnatamente per es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
recchia= orecchio; la voce napoletana deriva da un lat. volg. *aricla con normale passaggio di cl intervocalico a cchj→cchi e con deglutinazione della a d’avvio intesa articolo.
3.’O cummannà è mmeglio d''o ffottere.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è più soddisfazione nel comandare che nel coire. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
‘o cummannà = il comandare voce verbale infinito sostantivata neutra; cumnannà deriva da un lat. volg. *commandare (lat. class. commendare), comp. di cum 'con' e mandare 'affidare, raccomandare di cui mantiene (contrariamente all’italiano comandare) il raddoppiamento della m, con consueta assimilazione progressiva nd→nn ;
meglio avverbio o altrove aggettivo sostantivato neutro ‘o mmeglio= meglio, il meglio; faccio notare che in epigrafe è scritto mmeglio con la geminazione della consonante d’avvio, dipesa dal fatto che la voce a margine segue la vocale e della voce verbale è di essere; l’etimo di meglio è dal latino melius con tipico passaggio di l→gl;
‘o ffottere = il fottere, il coire voce verbale sostantivata neutra dell’infinito fottere scritto ffottere con la geminazione della consonante d’avvio, dipesa dal fatto che la voce a margine segue la vocale o dell’art. ‘o; fottere= possedere sessualmente; avere rapporti sessuali ma anche figuratamente: imbrogliare, raggirare deriva dal latino volg. *futtere, per il class. futuere.
coire, con i medesimi significati è dal latino coire da cum + ire ‘andare con;
4. Essere sempe cazza e cucchiara cu quacchuno
Letteralmente: essere sempre cazza e cucchiaia con qualcuno; id est: aver rapporti cosí indissolubili con qualcuno fino a formar quasi un tutt’uno con lui alla stregua della cazza (contenitore della malta) che i muratori usano sempre in uno con la cucchiara (cazzuola), ed essa cazzuola è conservata a sera, al termine del lavoro nella cazza, per modo che sia facilmente reperita al mattino successivo quando si riprende il lavoro; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutti coloro che sceltosi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo.
La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancora indica. quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. ky/athos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'.
Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto più grande del corrispondente maschile (es.: tammurro più piccolo – tammorra più grande, tino più piccolo – tina più grande etc.);ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè) al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola).
sempe= sempre, senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo): con etimo dal lat. semper con atipico troncamento della consonante finale r in luogo dell’atteso raddoppiamento rr e paragoge di una vocale semimuta finale (e/o) come altrove tramme←tram, bisse←bis, barre←bar, autobbusse←autobus.
quaccuno = qualcuno, pronome indefinito forma sincopata di quaccheduno che è derivato da un qual(is) qui(=che) con assimilazione regressiva quacche + et unus ( = ed uno) donde quacc(hed)uno→quaccuno.
5.Miéttele nomme penna!
Letteralmente: Chiamala penna!
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che si ‘o priestito fosse bbuono ogneduno ‘mprestasse ‘a mugliera! (se il prestito fosse una cosa buona,ognuno impresterebbe la propria moglie...Rammenterò altresì che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia (rovescio) v’era raffigurata l’annunciazione a Maria Ss. effigiata sul lato dritto, mentre sul manco v’era l’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miettele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. Lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labionasale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Raffaele Bracale
VARIE 1697
1. CCA SOTTO NUN CE CHIOVE!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto quelli di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
2. 'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con sarcasmo e/o dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere pretestuose che non portano a nulla di concreto.
3.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorché l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, almeno fino a che la scienza con i suoi marchingegni sòliti non provi il contrario, una sola cosa impossibile: la gravidanza maschile.
4.ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che partissero per primi coloro che andavano alla pesca del corallo.
5.AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
6. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.Altrove con identico significato si dice: Vulé fottere e sbattere ‘e mmane. Td est: voler coire sbattendo le mani cosa impossibile soprattutto per l’uomo nella posizione détta del missionario.
Piscià = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
gghí = andare; forma collaterale di jí che è dal lat. ire. fottere/ffottere = 1coire, congiungersi carnalmente possedere sessualmente; (assol.) avere rapporti sessuali | va' a farti fottere!, lo stesso che 'va' all'inferno, al diavolo'
2 (fig.) imbrogliare, raggirare, rubare:m’ànnu futtuto!( mi ànno fottuto) sono stato derubato ||| fotterse v. intr. pron. (volg.) infischiarsi di qualcuno o di qualcosa (usato per lo piú nella forma fottersene): se ne fotte ‘e chello ca fa (se ne infischia di ciò che fa.) il verbo napoletano è dritto per dritto dal lat. volg. *fottere, per il class. futuere
7. VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e si avverte allora l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
buscía (al pl. buscíe ) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia/menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
8. FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto piú di una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
9.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
10.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
11.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono... Una curiosità: Un tempo vi fu chi usava dire e forse piú acconciamente, come chiarirò: Attacca ‘o ciuccio addó va ‘o varrone id est: Lega l’asino sul lato del carro dove la stanga principale tende ad inclinare (affinché faccia acconciamente da bilancino e secondi la fatica del cavallo o mulo che sopportano il peso principale); successivamente visto che l’espressione non era intesa pienamente se non da gli addetti ai lavori di trasporto, essa fu mutata in quella assonante in esame che comunque ne stravolse alquanto il significato originario che connotava un esatto consiglio pratico ed efficiente.
12.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura) e (poi che il participio è reiterato vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano) significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente e ciò perché qualunque cosa sia détta verde vale immatura perciò non ammorbidita, ancóra duretta, quasi acerba.
13.A ‘NU PASSO DÔ CULO MIO, FOTTE CHI VO’!
Letteralmente: Ad un passo dal mio sedere, coisca chi vuole! Significativa locuzione esclamativa da intendersi: Faccia chiunque ciò che vuole, prendendosi il divertimento che piú gli aggrada purché agisca ad una distanza di sicurezza dal mio fondoschiena e non mi coinvolga (soprattutto come parte soccombente) in ciò che fa; id est: assicuro a chi voglia la sua libertà di azione,sino alla sodomia, alla truffa ed all’imbroglio purché mi tenga fuori dai suoi comportamenti e non mi danneggi!
passo s.vo m.le passo: 1 ciascuno dei movimenti alterni che si compiono camminando; 2 la distanza che si può coprire con un passo, assunta anticamente come unità di misura di lunghezza; per estens.come nel caso che ci occupa, breve distanza:
Voce dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'stendere, aprire';
dô = preposizione articolata corrispondente alla preposizione dal dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni; morfologicamente è formata dall’agglutinazione di da +l’articolo ‘o analogamente alla prep. art. ô formata dall’agglutinazione di a +l’articolo ‘o;
vo’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano, cosa che non è! Il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
fotte voce verbale (3ª p. sg. ind. pr., ma anche – come qui - congiuntivo pr. dell’ infinito fottere = coire, sodomizzare, possedere sessualmente; avere rapporti sessuali ma anche figuratamente: imbrogliare, raggirare deriva dal latino volg. *futtere, per il class. futuere.
brak
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto quelli di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
2. 'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con sarcasmo e/o dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere pretestuose che non portano a nulla di concreto.
3.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorché l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, almeno fino a che la scienza con i suoi marchingegni sòliti non provi il contrario, una sola cosa impossibile: la gravidanza maschile.
4.ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che partissero per primi coloro che andavano alla pesca del corallo.
5.AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
6. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.Altrove con identico significato si dice: Vulé fottere e sbattere ‘e mmane. Td est: voler coire sbattendo le mani cosa impossibile soprattutto per l’uomo nella posizione détta del missionario.
Piscià = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
gghí = andare; forma collaterale di jí che è dal lat. ire. fottere/ffottere = 1coire, congiungersi carnalmente possedere sessualmente; (assol.) avere rapporti sessuali | va' a farti fottere!, lo stesso che 'va' all'inferno, al diavolo'
2 (fig.) imbrogliare, raggirare, rubare:m’ànnu futtuto!( mi ànno fottuto) sono stato derubato ||| fotterse v. intr. pron. (volg.) infischiarsi di qualcuno o di qualcosa (usato per lo piú nella forma fottersene): se ne fotte ‘e chello ca fa (se ne infischia di ciò che fa.) il verbo napoletano è dritto per dritto dal lat. volg. *fottere, per il class. futuere
7. VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e si avverte allora l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
buscía (al pl. buscíe ) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia/menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
8. FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto piú di una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
9.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
10.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
11.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono... Una curiosità: Un tempo vi fu chi usava dire e forse piú acconciamente, come chiarirò: Attacca ‘o ciuccio addó va ‘o varrone id est: Lega l’asino sul lato del carro dove la stanga principale tende ad inclinare (affinché faccia acconciamente da bilancino e secondi la fatica del cavallo o mulo che sopportano il peso principale); successivamente visto che l’espressione non era intesa pienamente se non da gli addetti ai lavori di trasporto, essa fu mutata in quella assonante in esame che comunque ne stravolse alquanto il significato originario che connotava un esatto consiglio pratico ed efficiente.
12.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura) e (poi che il participio è reiterato vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano) significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente e ciò perché qualunque cosa sia détta verde vale immatura perciò non ammorbidita, ancóra duretta, quasi acerba.
13.A ‘NU PASSO DÔ CULO MIO, FOTTE CHI VO’!
Letteralmente: Ad un passo dal mio sedere, coisca chi vuole! Significativa locuzione esclamativa da intendersi: Faccia chiunque ciò che vuole, prendendosi il divertimento che piú gli aggrada purché agisca ad una distanza di sicurezza dal mio fondoschiena e non mi coinvolga (soprattutto come parte soccombente) in ciò che fa; id est: assicuro a chi voglia la sua libertà di azione,sino alla sodomia, alla truffa ed all’imbroglio purché mi tenga fuori dai suoi comportamenti e non mi danneggi!
passo s.vo m.le passo: 1 ciascuno dei movimenti alterni che si compiono camminando; 2 la distanza che si può coprire con un passo, assunta anticamente come unità di misura di lunghezza; per estens.come nel caso che ci occupa, breve distanza:
Voce dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'stendere, aprire';
dô = preposizione articolata corrispondente alla preposizione dal dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni; morfologicamente è formata dall’agglutinazione di da +l’articolo ‘o analogamente alla prep. art. ô formata dall’agglutinazione di a +l’articolo ‘o;
vo’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano, cosa che non è! Il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
fotte voce verbale (3ª p. sg. ind. pr., ma anche – come qui - congiuntivo pr. dell’ infinito fottere = coire, sodomizzare, possedere sessualmente; avere rapporti sessuali ma anche figuratamente: imbrogliare, raggirare deriva dal latino volg. *futtere, per il class. futuere.
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venerdì 30 marzo 2012
VARIE 1696
1.QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.
2. QUANNO SÎ 'NCUNIA STATTE E CQUANNO SÎ MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
3.MIÉTTELE NOMME PENNA!
Letteralmente: Chiamala penna! La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi piuma d'uccello. La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, come sparisce un oggetto prestato a qualcuno che per solito non restituisce ciò che à ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che se il prestito fosse una cosa buona, si impresterebbe la moglie...
4. FÀ 'O FARENELLA.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli(Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782),ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era più tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre più che alla costosa cipria, alla più economica farina.
5.À FATTO 'O PIRETO 'O CARDILLO.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienza non può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
6.PIGLIARSE 'O PPUSILLECO.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: 1)Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.2) Prendersi giuoco di qualcuno, molestarlo 3)In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue. La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopea Posillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi.
7.NUN LASSÀ 'A VIA VECCHIA P''A VIA NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se così si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
8.PETRUSINO, ÒGNE MENESTA.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Così è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee.
9.ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FFÈTE.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
10.'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato.Espressione marcata su analoga operazione fatta ai tempi dell’antica Roma allorché a fini eponimi veniva ogni anno infisso un chiodo in una parete del tempio di Giove. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
11.ASTIPATE 'O MILO PE CQUANNO TE VÈNE SETE.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
12. PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE 'NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subìta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
13.AJE VOGLIA 'E METTERE RUMMA, 'NU STRUNZO NUN ADDIVENTA MAJE BABBÀ.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...
14.NUN CAGNÀ MAJE À VIA VECCHIA P'’A NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE.
Non cambiare mai la strada vecchia per la nuova perché conosci ciò che lasci, mna non quello che troverai.. Id est: Continua ad utilizzare i vecchi metodi già validi e sperimentati invece che quelli nuovi dubbi ed incerti.
15. SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è più innanzi, ossia è più vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
16. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Così vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
17. 'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
18.'A GATTA, PE GGHÍ 'E PRESSA, FACETTE 'E FIGLIE CECATE.
La gatta, per andar di fretta, partorì figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
19.FÀ 'E CCOSE A CAPA 'E 'MBRELLO.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
20. CHI NUN SENTE A MMAMMA E PPATE, VA A MMURÍ ADDÓ NUN È NNATO...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
21.È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
22.CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sì ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
Brak
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.
2. QUANNO SÎ 'NCUNIA STATTE E CQUANNO SÎ MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
3.MIÉTTELE NOMME PENNA!
Letteralmente: Chiamala penna! La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi piuma d'uccello. La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, come sparisce un oggetto prestato a qualcuno che per solito non restituisce ciò che à ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che se il prestito fosse una cosa buona, si impresterebbe la moglie...
4. FÀ 'O FARENELLA.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli(Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782),ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era più tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre più che alla costosa cipria, alla più economica farina.
5.À FATTO 'O PIRETO 'O CARDILLO.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienza non può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
6.PIGLIARSE 'O PPUSILLECO.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: 1)Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.2) Prendersi giuoco di qualcuno, molestarlo 3)In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue. La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopea Posillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi.
7.NUN LASSÀ 'A VIA VECCHIA P''A VIA NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se così si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
8.PETRUSINO, ÒGNE MENESTA.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Così è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee.
9.ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FFÈTE.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
10.'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato.Espressione marcata su analoga operazione fatta ai tempi dell’antica Roma allorché a fini eponimi veniva ogni anno infisso un chiodo in una parete del tempio di Giove. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
11.ASTIPATE 'O MILO PE CQUANNO TE VÈNE SETE.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
12. PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE 'NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subìta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
13.AJE VOGLIA 'E METTERE RUMMA, 'NU STRUNZO NUN ADDIVENTA MAJE BABBÀ.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...
14.NUN CAGNÀ MAJE À VIA VECCHIA P'’A NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE.
Non cambiare mai la strada vecchia per la nuova perché conosci ciò che lasci, mna non quello che troverai.. Id est: Continua ad utilizzare i vecchi metodi già validi e sperimentati invece che quelli nuovi dubbi ed incerti.
15. SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è più innanzi, ossia è più vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
16. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Così vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
17. 'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
18.'A GATTA, PE GGHÍ 'E PRESSA, FACETTE 'E FIGLIE CECATE.
La gatta, per andar di fretta, partorì figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
19.FÀ 'E CCOSE A CAPA 'E 'MBRELLO.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
20. CHI NUN SENTE A MMAMMA E PPATE, VA A MMURÍ ADDÓ NUN È NNATO...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
21.È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
22.CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sì ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
Brak
VARIE 1695
1.DALLE E DDALLE 'O CUCUZZIELLO ADDEVENTA TALLO.
Letteralmente: dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere sempre sulla medesima questione si finisce male, come a cogliere zucchini continuamente non ne restano che le foglie. Il tallo (dal lat. tàllu(m), dal gr. tàllós 'germoglio', deriv. di thállein 'fiorire')è la foglia commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata o gustosa della zucchina che già di suo non è molto saporita.
2. QUANN'È PE VIZZIO, NUN È PECCATO!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto,errore si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
3. PASSASSE LL'ANGELO E DICESSE: AMMENNE!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
4. VA TRUVANNO: 'MBRUOGLIO, AIUTAME.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
5. PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembra Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.Il nome Pasquale usato nell’espressione è mutuato da un tal Pasquale Barilotto personaggio del teatro pulcinellesco di A. Petito, personaggio comicamente perseguitato continuamente da malasorte ed affanni, spesso solo paventati ma in realtà inesistenti.
6. PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
7.MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP' Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporrti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco,nei pressi di porta Capuana a Napoli, in quello che era stato il convento francescano dei cosiddetti monaci di sant’Anna e sino a non molto tempo fa ospitavano gli uffici della pretura, erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
8. FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: far di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
9. FÀ TRENTA E UNA TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò, senza che ce ne fosse necessità o urgenza, un trentunesimo.
10.ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
11. ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
12. 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LLE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Beerta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
13. 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche.
14. AMICIZIA STRETTA, SE SPEZZA CU 'NA MAZZA.
Letteralmente: un'amicizia stretta si spezza (solo) con un bastone; id est: bisogna ricorrere alla violenza per sciogliere un'amicizia di vecchia data, ben rinsaldata; occorrono gravi ed importanti ragioni per troncare un’autentica amicizia, che non viene meno per futili motivi.
15. TANNO SE CHIAMMA GRANO, QUANNO STA 'INT' Â VOTTA.
Letteralmente: allora si chiama grano, quando sarà nella botte. Id est: per potersi vantare di taluni risultati, occorre prima conseguirli; non ci si deve vestire della pelle dell'orso prima d'aver ammazzato il suddetto animale. La locuzione in epigrafe ripete le parole che un tal contadino disse al figliuolo che si vantava di un gran raccolto prima della mietitura.
16.TRE CCALLE E MMESCAMMÉCE.
Letteralmente: tre cavalli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che, con pochissima spesa, ama intromettersi nelle faccende altrui, per dire la sua. Il tre ccalle era una moneta di infimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo rampante, poi simbolo della città di Napoli, da cui per contrazione ca(va)llo prese il nome di callo, ed al plurale calle La locuzione significa: con poca spesa ci si interessa delle faccende altrui.
17. CHI SE FA MASTO, CADE DINT' Ô MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per farte la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
masto = maestro, mastro (dal lat. magistru(m)→ma(gi)st(r)u(m)→masto, deriv. di magis 'di piú, molto'
mastrillo = trappola per topi ( dal lat. mustriculu(m).
18. TUTTO A GGIESÚ E NIENTE A MMARIA.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente.
19. CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA ‘O MMAGNATO.
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri!
20. PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce, pagliaccio inglese d’un circo venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
21. FÀ COMME A SANTA CHIARA CA DOPP' ARRUBBATA CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti in danno della antica chiesa partenopea.
22. 'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. E' il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
23. NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
24. MENARSE DINT' Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (imbracature) proprio perché imbracano la bestia.
25. CHI POCO TÈNE, CARO TÈNE.
Letteralmente: Chi à poco, lo tiene da conto. Id est: il povero non può essere generoso
26. LASSA CA VA A FFUNNO 'O BASTIMENTO, ABBASTA CA MÒRONO 'E ZZOCCOLE.
Letteralmente: lascia che affondi la nave, purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo precipuo, improcrastinabile scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi.
27. NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti che per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
Vatecare s.m. pl. di vatecaro= vetturale, carrettiere che trasporta merci, che guida bestie da soma; quanto all’etimo è un denominale dell’agg.vo lat. viaticus=relativo al viaggio
28. SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
29. MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: (Solo) le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
30. FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze.
31.SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
Vrenna s.f. = crusca, residuo della macinazione dei cereali costituito dagli involucri dei semi; è usato soprattutto come alimento per il bestiame | (pop.) lentiggini. La voce napoletana vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska.
32. 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
33. 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna (bettola, osteria dal lat. taberna(m)) del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco (oggi 16), all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte
34. 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DÊ MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca, bestia notoriamente inadatta al lavoro, escluso quello di lasciarsi mungere, bestia accidiosa che assalita dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lascia che le mosche le pizzichino il fondo schiena! E che la vacca sia bestia inadatta al lavoro è confermato nel detto che segue.
35. ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
36. TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefíci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
brak
Letteralmente: dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere sempre sulla medesima questione si finisce male, come a cogliere zucchini continuamente non ne restano che le foglie. Il tallo (dal lat. tàllu(m), dal gr. tàllós 'germoglio', deriv. di thállein 'fiorire')è la foglia commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata o gustosa della zucchina che già di suo non è molto saporita.
2. QUANN'È PE VIZZIO, NUN È PECCATO!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto,errore si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
3. PASSASSE LL'ANGELO E DICESSE: AMMENNE!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
4. VA TRUVANNO: 'MBRUOGLIO, AIUTAME.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
5. PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembra Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.Il nome Pasquale usato nell’espressione è mutuato da un tal Pasquale Barilotto personaggio del teatro pulcinellesco di A. Petito, personaggio comicamente perseguitato continuamente da malasorte ed affanni, spesso solo paventati ma in realtà inesistenti.
6. PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
7.MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP' Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporrti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco,nei pressi di porta Capuana a Napoli, in quello che era stato il convento francescano dei cosiddetti monaci di sant’Anna e sino a non molto tempo fa ospitavano gli uffici della pretura, erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
8. FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: far di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
9. FÀ TRENTA E UNA TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò, senza che ce ne fosse necessità o urgenza, un trentunesimo.
10.ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
11. ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
12. 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LLE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Beerta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
13. 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche.
14. AMICIZIA STRETTA, SE SPEZZA CU 'NA MAZZA.
Letteralmente: un'amicizia stretta si spezza (solo) con un bastone; id est: bisogna ricorrere alla violenza per sciogliere un'amicizia di vecchia data, ben rinsaldata; occorrono gravi ed importanti ragioni per troncare un’autentica amicizia, che non viene meno per futili motivi.
15. TANNO SE CHIAMMA GRANO, QUANNO STA 'INT' Â VOTTA.
Letteralmente: allora si chiama grano, quando sarà nella botte. Id est: per potersi vantare di taluni risultati, occorre prima conseguirli; non ci si deve vestire della pelle dell'orso prima d'aver ammazzato il suddetto animale. La locuzione in epigrafe ripete le parole che un tal contadino disse al figliuolo che si vantava di un gran raccolto prima della mietitura.
16.TRE CCALLE E MMESCAMMÉCE.
Letteralmente: tre cavalli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che, con pochissima spesa, ama intromettersi nelle faccende altrui, per dire la sua. Il tre ccalle era una moneta di infimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo rampante, poi simbolo della città di Napoli, da cui per contrazione ca(va)llo prese il nome di callo, ed al plurale calle La locuzione significa: con poca spesa ci si interessa delle faccende altrui.
17. CHI SE FA MASTO, CADE DINT' Ô MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per farte la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
masto = maestro, mastro (dal lat. magistru(m)→ma(gi)st(r)u(m)→masto, deriv. di magis 'di piú, molto'
mastrillo = trappola per topi ( dal lat. mustriculu(m).
18. TUTTO A GGIESÚ E NIENTE A MMARIA.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente.
19. CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA ‘O MMAGNATO.
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri!
20. PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce, pagliaccio inglese d’un circo venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
21. FÀ COMME A SANTA CHIARA CA DOPP' ARRUBBATA CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti in danno della antica chiesa partenopea.
22. 'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. E' il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
23. NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
24. MENARSE DINT' Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (imbracature) proprio perché imbracano la bestia.
25. CHI POCO TÈNE, CARO TÈNE.
Letteralmente: Chi à poco, lo tiene da conto. Id est: il povero non può essere generoso
26. LASSA CA VA A FFUNNO 'O BASTIMENTO, ABBASTA CA MÒRONO 'E ZZOCCOLE.
Letteralmente: lascia che affondi la nave, purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo precipuo, improcrastinabile scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi.
27. NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti che per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
Vatecare s.m. pl. di vatecaro= vetturale, carrettiere che trasporta merci, che guida bestie da soma; quanto all’etimo è un denominale dell’agg.vo lat. viaticus=relativo al viaggio
28. SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
29. MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: (Solo) le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
30. FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze.
31.SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
Vrenna s.f. = crusca, residuo della macinazione dei cereali costituito dagli involucri dei semi; è usato soprattutto come alimento per il bestiame | (pop.) lentiggini. La voce napoletana vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska.
32. 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
33. 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna (bettola, osteria dal lat. taberna(m)) del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco (oggi 16), all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte
34. 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DÊ MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca, bestia notoriamente inadatta al lavoro, escluso quello di lasciarsi mungere, bestia accidiosa che assalita dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lascia che le mosche le pizzichino il fondo schiena! E che la vacca sia bestia inadatta al lavoro è confermato nel detto che segue.
35. ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
36. TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefíci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
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VARIE 1694
1 -VENÍ A MMENTE
Ad litteram: venire in mente; id est: rammentarsi di qualcosa, richiamarlo alla mente; da notare che nel modo di dire napoletano si usa il verbo di moto: venire, quasi che ciò che torna alla memoria debba spostarsi da un ipotetico mondo delle idee per riportarsi nella mente di qualcuno, mente che aveva precedentemente abbandonato.
2 -VENIMMO A NNUJE
Ad litteram: veniamo a noi; locuzione usata per significare: riprendiamo il discorso, o ancóra - in un discorso già avviato: stringiamo i tempi, non ci perdiamo in chiacchiere, miriamo a concludere!
3 -VÉNNERE 'A SCAFAREA PE SICCHIETIELLO
Ad litteram: cedere in vendita una grossa scodella in luogo di un piccolo secchio Icastica locuzione usata quando si voglia sarcasticamente commentare l'incomoda posizione di chi cerchi di far passare come inviolata una donna che, invece abbia biblicamente conosciuto molti uomini.
Scafarea s.vo f. = ampio vaso, vasto catino di creta (dal greco skàphe=barchetta, vaso)
Sicchietiello s.vo m. dim. di sicchio = secchio (dal lat.volg. situlu(m)→sitlu(m)→siclu(m)→sicchio)
4 - VOCA FORA CA 'O MARE È MARETTA
Ad litteram:prendi il largo, ché il mare è agitato Cosí, al di là del significato letterale si usa dire quando si voglia consigliare un importuno, fastidioso individuo di allontanarsi da noi, atteso che siamo nervosi ed insofferenti della sua presenza e dei suoi modi fastidiosi cui, con ogni probabilità, risponderemmo - nel caso non seguisse il nostro consiglio ad allontanarsi - con durezza se non con violenza.
Locuzione mutuata dal linguaggio dei marinai, i quali sanno che in caso di mare mosso è piú salutare puntare al largo, anziché bordeggiare la costa contro la quale si può correre il rischio di infrangersi.
maretta s. f.le
1 il movimento del mare quando il vento lo frange in onde piccole e brevi
2 (fig.) situazione di nervosismo, di tensione, di malcontento; voce derivata dal lat. mare addizionato del suffisso f.le etta suffisso che al m.le è etto e che altera in senso diminutivo, e spesso vezzeggiativo, sostantivi o aggettivi;si tratta d’un suffisso di origine gallica.
5 -VIDE ADDO hê ‘A Jí
Ad litteram: Vedi dove devi andare; id est: allontanati , trova un'altra strada, va' via, vattene ed impegnati a trovare qualcun altro da infastidire.
6- VA' FELICITA QUACCUN'ATO
Ad litteram: va' a render felice qualcun altro Locuzione di valenza molto simile alla precedente; questa in epigrafe è venata di maggior ironia, se non sarcasmo, atteso che se uno infastidisce qualcuno, certamente non lo rende felice ; ed in effetti qui il render felice sta ironicamente a significare: romper le scatole, tediare, pesantemente infastidire.
7 -VOLLE 'A CAURARA!
Ad litteram: bolle la caldaia Sorridente e malizioso riferimento ai primi bollori erotici delle giovani ragazze appena sbocciate alla vita di relazione.
È inutile precisare quale sia la caldaia in bollore.
8 - VÉNNERLO PE DINT' Â SENGA D''A PORTA
Ad litteram:Venderlo attraverso lo spiraglio della porta; id est : vivere centellinando la propria azione, quasi pavidamente e tentando di far credere che ciò che si fa sia di grande importanza e se lo si conferisce liberalmente ciò avviene per grande magnanimità e quasi a rischio, quel rischio che esisteva realmente quando, temporibus illis si praticava il contrabbando e taluni generi venivano venduti letteralmente attroverso uno spiraglio di porta appena semiaperta.
9 -VIDE 'O CIELO CHE TE MENA!
Ad litteram: guarda il cielo che ti concede! Icastica locuzione che potrebbe avere una valenza sia positiva che negativa, ma che viene usata solo con riferimento a quella negativa quale sofferto, amaro commento a ciò che di sgradevole, quando non deleterio, inattesamente ci caschi in testa piovendoci dall' Alto, senza lasciarci modo di evitarlo.
10 -VRENNA E SCIUSCELLE nell'espressione: FERNÍ A VVRENNA E SCIUSCELLE
Ad litteram:crusca e carrube nell'espressione finire a crusca e carrube
La crusca e le carrube sono due gustosi alimenti di cui son golosi i cavalli, alimenti che un tempo erano poco costosi e di facile reperibilità; per cui l'espressione finire a crusca e carrube era usata per indicare una situazione che si risolveva positivamente, con gratificazione di tutti e soprattutto con poco impegno di moneta; quando invece la situazione, pur risolvendosi positivamente comportava un maggior dispendio di danaro si diceva e si dice: FERNÍ A TARALLUCCE E VVINO
(finire a biscottini rustici e vino ) biscottini e vino costavano e costano molto piú di crusca e carrube.
11-ESSERE RICCO ‘E VOCCA.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
12- 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco oggi 16, all’insegna : TAVERNA DEL TRENTA E TRENTUNO che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B - V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse la voce puteca.
trentuno = agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a trenta unità piú uno; nella numerazione araba è rappresentato da 31, in quella romana da XXXI; l’etimo è dal lat. triginta + unum.
raffaele bracale
Ad litteram: venire in mente; id est: rammentarsi di qualcosa, richiamarlo alla mente; da notare che nel modo di dire napoletano si usa il verbo di moto: venire, quasi che ciò che torna alla memoria debba spostarsi da un ipotetico mondo delle idee per riportarsi nella mente di qualcuno, mente che aveva precedentemente abbandonato.
2 -VENIMMO A NNUJE
Ad litteram: veniamo a noi; locuzione usata per significare: riprendiamo il discorso, o ancóra - in un discorso già avviato: stringiamo i tempi, non ci perdiamo in chiacchiere, miriamo a concludere!
3 -VÉNNERE 'A SCAFAREA PE SICCHIETIELLO
Ad litteram: cedere in vendita una grossa scodella in luogo di un piccolo secchio Icastica locuzione usata quando si voglia sarcasticamente commentare l'incomoda posizione di chi cerchi di far passare come inviolata una donna che, invece abbia biblicamente conosciuto molti uomini.
Scafarea s.vo f. = ampio vaso, vasto catino di creta (dal greco skàphe=barchetta, vaso)
Sicchietiello s.vo m. dim. di sicchio = secchio (dal lat.volg. situlu(m)→sitlu(m)→siclu(m)→sicchio)
4 - VOCA FORA CA 'O MARE È MARETTA
Ad litteram:prendi il largo, ché il mare è agitato Cosí, al di là del significato letterale si usa dire quando si voglia consigliare un importuno, fastidioso individuo di allontanarsi da noi, atteso che siamo nervosi ed insofferenti della sua presenza e dei suoi modi fastidiosi cui, con ogni probabilità, risponderemmo - nel caso non seguisse il nostro consiglio ad allontanarsi - con durezza se non con violenza.
Locuzione mutuata dal linguaggio dei marinai, i quali sanno che in caso di mare mosso è piú salutare puntare al largo, anziché bordeggiare la costa contro la quale si può correre il rischio di infrangersi.
maretta s. f.le
1 il movimento del mare quando il vento lo frange in onde piccole e brevi
2 (fig.) situazione di nervosismo, di tensione, di malcontento; voce derivata dal lat. mare addizionato del suffisso f.le etta suffisso che al m.le è etto e che altera in senso diminutivo, e spesso vezzeggiativo, sostantivi o aggettivi;si tratta d’un suffisso di origine gallica.
5 -VIDE ADDO hê ‘A Jí
Ad litteram: Vedi dove devi andare; id est: allontanati , trova un'altra strada, va' via, vattene ed impegnati a trovare qualcun altro da infastidire.
6- VA' FELICITA QUACCUN'ATO
Ad litteram: va' a render felice qualcun altro Locuzione di valenza molto simile alla precedente; questa in epigrafe è venata di maggior ironia, se non sarcasmo, atteso che se uno infastidisce qualcuno, certamente non lo rende felice ; ed in effetti qui il render felice sta ironicamente a significare: romper le scatole, tediare, pesantemente infastidire.
7 -VOLLE 'A CAURARA!
Ad litteram: bolle la caldaia Sorridente e malizioso riferimento ai primi bollori erotici delle giovani ragazze appena sbocciate alla vita di relazione.
È inutile precisare quale sia la caldaia in bollore.
8 - VÉNNERLO PE DINT' Â SENGA D''A PORTA
Ad litteram:Venderlo attraverso lo spiraglio della porta; id est : vivere centellinando la propria azione, quasi pavidamente e tentando di far credere che ciò che si fa sia di grande importanza e se lo si conferisce liberalmente ciò avviene per grande magnanimità e quasi a rischio, quel rischio che esisteva realmente quando, temporibus illis si praticava il contrabbando e taluni generi venivano venduti letteralmente attroverso uno spiraglio di porta appena semiaperta.
9 -VIDE 'O CIELO CHE TE MENA!
Ad litteram: guarda il cielo che ti concede! Icastica locuzione che potrebbe avere una valenza sia positiva che negativa, ma che viene usata solo con riferimento a quella negativa quale sofferto, amaro commento a ciò che di sgradevole, quando non deleterio, inattesamente ci caschi in testa piovendoci dall' Alto, senza lasciarci modo di evitarlo.
10 -VRENNA E SCIUSCELLE nell'espressione: FERNÍ A VVRENNA E SCIUSCELLE
Ad litteram:crusca e carrube nell'espressione finire a crusca e carrube
La crusca e le carrube sono due gustosi alimenti di cui son golosi i cavalli, alimenti che un tempo erano poco costosi e di facile reperibilità; per cui l'espressione finire a crusca e carrube era usata per indicare una situazione che si risolveva positivamente, con gratificazione di tutti e soprattutto con poco impegno di moneta; quando invece la situazione, pur risolvendosi positivamente comportava un maggior dispendio di danaro si diceva e si dice: FERNÍ A TARALLUCCE E VVINO
(finire a biscottini rustici e vino ) biscottini e vino costavano e costano molto piú di crusca e carrube.
11-ESSERE RICCO ‘E VOCCA.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
12- 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco oggi 16, all’insegna : TAVERNA DEL TRENTA E TRENTUNO che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B - V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse la voce puteca.
trentuno = agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a trenta unità piú uno; nella numerazione araba è rappresentato da 31, in quella romana da XXXI; l’etimo è dal lat. triginta + unum.
raffaele bracale
VARIE 1693
1 -TENÉ 'A BBOTTA DINT' Â SCELLA
Ad litteram: avere un colpo nell'ala Locuzione usata per sarcasticamente commentare il comportamento di chi tenti disperatamente di dissimulare o tener nascosta una colpa o magagna a lui attribuibili; di costui, costretto ad arrangiarsi per non far scoprire quanto tenga noscosto, si dice che tene 'a bbotta dint' â scella (à un colpo nell'ala) si comporti cioè quasi come un uccello che, ferito ad un ala, è costretto alle piú strane posizioni e circonvoluzioni per continuare a volare.
2 -TENÉ 'A CAPA A PPAZZÍA
Ad litteram: tenere la testa al giuoco. Detto di chi, contrariamente a quanto ipotizzabile dati la sua congrua età ed il suo status sociale, si mostri eccessivamente incline al giuoco, prendendo tutto a scherzo, non dimostrando serietà alcuna né nel lavoro, né nei rapporti interpersonali.
3 -TENÉ 'A CAPA A TTRE ASSE
Ad litteram: tenere la testa a tre assi id est: essere nervoso e preoccupato; locuzione mutuata dal giuoco del tressette dove un giocatore in possesso di tre assi,che valgono ciascuno un punto intero, sebbene ipoteticamente possa conquistare i relativi tre punti, in realtà si preoccupa, non essendo certo che potrà raggiungere lo scopo atteso che gli assi possono venir catturati dall'avversario che sia in possesso del due o del tre del medesimo seme degli assi; il due ed il tre infatti, sebbene valgano un terzo di punto ciascuno, sono nella scala gerarchica delle prese superiori all'asso e possono catturarlo.
4 -TENÉ 'A CAPA A VVIENTO
Ad litteram: tenere la testa nel vento id est: essere una banderuola, un essere poco affidabile e/o raccomandabile.
5 - TENÉ 'A CAPA FRESCA
Ad litteram: tenere la testa fresca id est: non coltivare pensieri serii, anzi - al contrario - essere occupato solo da fandonie, quisquilie, scherzi e futilità cose tutte che, lasciando la mente sgombra di preoccupazioni, tengono la testa fresca, al contrario dei pensieri serii che, altrove, si dice fanno cocere 'o fronte (fanno scottar la fronte).
6 -TENÉ 'A CAPA 'E PROVOLA
Ad litteram: tenere la testa di provola Detto di chi abbia la testa bernoccoluta, con la tipica protuberanza della provola gustoso formaggio fresco, dalla caratteristica forma; al di là però del riferimento alla forma del latticino, la locuzione è usata anche per significare che colui che à la testa di provola non è particolarmente intelligente e manca perciò di sale cosí come la suddetta provola, che non essendo un formaggio stagionato, è piuttosto sciapito.
7 -TENÉ 'A CAPA GLURIOSA
Ad litteram: tenere la testa gloriosa Si dice cosí di chi sia incline ad improvvisazioni assurde, astruse trovate, soluzioni ardite quando non pericolose, espedienti improvvisati.
8 - TENÉ 'A CAPA SCIACQUA.
Ad litteram: tenere la testa annacquata. Si dice cosí, offensivamente , ma anche solo causticamente di chi si ritenga non abbia la testa a posto, e sia dotato di minime qualità intellettive quasi che nella testa abbia non il cervello, ma dell' acqua .
9 -TENÉ 'A CAPA PE SPARTERE 'E RRECCHIE
Ad litteram: tenere la testa per dividere le orecchie Locuzione di valenza molto simile alla precedente riservata a coloro che sono inveteratamente sciocchi, stupidi ed incapaci; di costoro si ritiene iperbolicamente e furbescamente che abbiano la testa (priva di cervello e dunque di raziocinio) solo come elemento necessario alla separazione delle orecchie.
10 -TENÉ 'A CAPA TOSTA
Ad litteram: tenere la testa dura id est: esser caparbio, cocciuto, ma anche: ben fermo nelle proprie opinioni; estensivamente, poi: esser duro di comprendonio, tardo all'apprendimento.
brak
Ad litteram: avere un colpo nell'ala Locuzione usata per sarcasticamente commentare il comportamento di chi tenti disperatamente di dissimulare o tener nascosta una colpa o magagna a lui attribuibili; di costui, costretto ad arrangiarsi per non far scoprire quanto tenga noscosto, si dice che tene 'a bbotta dint' â scella (à un colpo nell'ala) si comporti cioè quasi come un uccello che, ferito ad un ala, è costretto alle piú strane posizioni e circonvoluzioni per continuare a volare.
2 -TENÉ 'A CAPA A PPAZZÍA
Ad litteram: tenere la testa al giuoco. Detto di chi, contrariamente a quanto ipotizzabile dati la sua congrua età ed il suo status sociale, si mostri eccessivamente incline al giuoco, prendendo tutto a scherzo, non dimostrando serietà alcuna né nel lavoro, né nei rapporti interpersonali.
3 -TENÉ 'A CAPA A TTRE ASSE
Ad litteram: tenere la testa a tre assi id est: essere nervoso e preoccupato; locuzione mutuata dal giuoco del tressette dove un giocatore in possesso di tre assi,che valgono ciascuno un punto intero, sebbene ipoteticamente possa conquistare i relativi tre punti, in realtà si preoccupa, non essendo certo che potrà raggiungere lo scopo atteso che gli assi possono venir catturati dall'avversario che sia in possesso del due o del tre del medesimo seme degli assi; il due ed il tre infatti, sebbene valgano un terzo di punto ciascuno, sono nella scala gerarchica delle prese superiori all'asso e possono catturarlo.
4 -TENÉ 'A CAPA A VVIENTO
Ad litteram: tenere la testa nel vento id est: essere una banderuola, un essere poco affidabile e/o raccomandabile.
5 - TENÉ 'A CAPA FRESCA
Ad litteram: tenere la testa fresca id est: non coltivare pensieri serii, anzi - al contrario - essere occupato solo da fandonie, quisquilie, scherzi e futilità cose tutte che, lasciando la mente sgombra di preoccupazioni, tengono la testa fresca, al contrario dei pensieri serii che, altrove, si dice fanno cocere 'o fronte (fanno scottar la fronte).
6 -TENÉ 'A CAPA 'E PROVOLA
Ad litteram: tenere la testa di provola Detto di chi abbia la testa bernoccoluta, con la tipica protuberanza della provola gustoso formaggio fresco, dalla caratteristica forma; al di là però del riferimento alla forma del latticino, la locuzione è usata anche per significare che colui che à la testa di provola non è particolarmente intelligente e manca perciò di sale cosí come la suddetta provola, che non essendo un formaggio stagionato, è piuttosto sciapito.
7 -TENÉ 'A CAPA GLURIOSA
Ad litteram: tenere la testa gloriosa Si dice cosí di chi sia incline ad improvvisazioni assurde, astruse trovate, soluzioni ardite quando non pericolose, espedienti improvvisati.
8 - TENÉ 'A CAPA SCIACQUA.
Ad litteram: tenere la testa annacquata. Si dice cosí, offensivamente , ma anche solo causticamente di chi si ritenga non abbia la testa a posto, e sia dotato di minime qualità intellettive quasi che nella testa abbia non il cervello, ma dell' acqua .
9 -TENÉ 'A CAPA PE SPARTERE 'E RRECCHIE
Ad litteram: tenere la testa per dividere le orecchie Locuzione di valenza molto simile alla precedente riservata a coloro che sono inveteratamente sciocchi, stupidi ed incapaci; di costoro si ritiene iperbolicamente e furbescamente che abbiano la testa (priva di cervello e dunque di raziocinio) solo come elemento necessario alla separazione delle orecchie.
10 -TENÉ 'A CAPA TOSTA
Ad litteram: tenere la testa dura id est: esser caparbio, cocciuto, ma anche: ben fermo nelle proprie opinioni; estensivamente, poi: esser duro di comprendonio, tardo all'apprendimento.
brak
CULO & DINTORNI (aggiornato)
CULO & DINTORNI
L’amico G.J. O. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi à chiesto di occuparmi della voce italiana/napoletana in epigrafe, di indicargli altri eventuali sinonimi nel napoletano, ed eventuali espressioni verbali collegate. L’accontento illico et immediate cominciando a parlare della voce culo cui farò seguire i tanti sinonimi che mi son noti dicendo sia di quelli vivi e vegeti che di quelli antichi e desueti. Cominciamo dunque con
culo s.vo m.le = in origine l’orifizio anale delle bestie poi per sineddoche il culo, il posteriore, il didietro, il sedere, il complesso delle natiche degli esseri umani ; etimologicamente è voce dal lat. culum che è dal greco koîlos ; questa voce napoletana a margine fu accolta temporibus illis anche nella lingua nazionale e viene tuttora usata ancorché catalogata, ma non se ne comprende il motivo, come voce volgare o popolare. Un tempo da qualcuno si ipotizzò che etimologicamente la voce potesse essere un adattamento del lat. caelu(m)(cielo) pigliando a riferimento semantico la concavità e dell’uno e dell’altro. Idea balzana stante la presenza diretta come ò détto della voce lat. culum marcata sul greco koîlos (vuoto, concavo) donde anche kolon= intestino; tuttavia rammento che la voce caelu(m)(Cielo) fu usata, quale nome proprio, al posto di Ciullo ( che della voce culo era stato un adattamento di comodo attraverso l’epentesi eufonica di una (I) ed il raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (L) ed infatti quel poeta di Alcamo nato nella prima metà del XIII secolo, e che fu uno dei piú significativi rappresentanti della poesia popolare giullaresca della scuola siciliana s’ ebbe in origine il nome di Ciullo d’Alcamo ( e cioè Culo di Alcamo)per essere il piú famoso pederasta passivo della sua città e successivamente al tempo del bigotto perbenismo didattico vide il suo nome mutato in Cielo d'Alcamo per non turbar la mente dei/delle giovani discenti.
Manco a dirlo la voce culo entra in numerosissime locuzioni alcune delle quali icastiche, ma dignitose, altre incisive sí, ma dure e becere; tra le prime ricordo
SCIORTA E CAUCE 'NCULO, VIATO A CCHI NNE TÈNE!
Beato chi à buona fortuna e calci in culo cioè spintarelle e/o raccomandazioni.
STÀ CULO E CCAMMISA Ad litteram: stare culo e camicia; id est: Stare sempre insieme, andare molto d'accordo; e lo si dice di amici,compagni adusi ad una frequentazione assidua.
Altra interessante locuzione è
PIGLIÀ P’ ‘O CULO
La lucuzione in epigrafe nella sua esposizione completa è: Piglià p’ ‘o culo a quaccheduno. L’espressione ad litteram vale pigliare/prendere (in giro qualcuno ) a causa del (nudo) culo e fuor del velame sta per
prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, prenderlo per i fondelli, farlo oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione.È interessante rammentarsi da quale situazione storico-ambientale tragga origine la locuzione in esame. Essa si riallaccia alla ignominosa cerimonia detta in napoletano zitabona che comportava, per il debitore insolvente dopo di averla compiuta la necessità di andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era infatti quello il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove pronunciando l’espressione Cedo bona spesso corrotta in Cedo bonis dichiarava fallimento manifestando la sua insolvibilità; la cerimonia che adattando il Cedo bona latino diventava – in napoletano - zitabona prevedeva oltre la pronunzia della formula, il dover poggiare le nude natiche su di una colonnina posta a Napoli innanzi al tribunale della Vicaria a dimostrazione di non aver piú niente. Altrove, ad es. a Firenze la cerimonia era la medesima, ma in luogo della colonnina occorreva sedersi, a nude natiche, su di un cuscino di pietra. La cerimonia diede vita a Napoli anche all’espressione Jirsene cu ‘na mano annante e n’ata arreto che si usò e si usa a dileggio di chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.Va da sé che l’esser costretti a mostrarsi a natiche nude in pubblico, comportasse il diventare oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione da parte degli astanti, situazione che diede vita all’espressione in esame piglià p’ ‘o culo che – come ò détto – vale prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, deriderlo, beffare, burlare, canzonare, irridere, dileggiare, prendere in giro.
Un’ altra interessantissima locuzione proverbiale è :
CU LL’EVERA MOLLA OGNEDUNO S’ANNETTA ‘O CULO!
che nel suo significato letterale vale: Con l’erba tenera ognuno si netta il sedere, cosa che è vera e reale quando trovandosi ad espletare d’urgenza necessità fisiologiche in aperta campagna ci si serve di ciuffi d’erba morbida e (forse) umida di rugiada per ripulirsi il sedere; ma il significato piú acconcio di tale locuzione proverbiale è quello sotteso e rammenta che chi dimostri di avere un un’indole, una natura eccessivamente mite, debole, fiacca, moscia, imbelle,condiscendente, accomodante, docile, conciliante, acquiescente, e non abbia carattere e/o personalità è indefettibilmente destinato ad essere vessato da chiunque e da chiunque lasciarsi opprimere, angariare, tormentare, affliggere, maltrattare.
Andiamo oltre ricordando che tra le locuzioni dure e becere abbiamo:
VA’ A FFÀ ‘NCULO e VALLO A PPIGLIÀ ‘NCULO
Ci troviamo a che fare con due icastiche, sebbene grevi, triviali espressioni che si colgono sulle labbra di chi abbia perso la pazienza per essere troppo irritato ed infastidito da un importuno, un seccatore,un scocciatore,un rompiscatole e lo apostrofa con decisione se non fermezza ed energia nel tentativo di liberarsene.La prima locuzione ad litteram vale : Vai a fare (id est: a coire) nel culo! Cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e va’ ad occupare diversamente il tuo tempo dedicandoti a pratiche sodomitiche piuttosto che infastidire me.
Piú acconciamente della prima locuzione, la seconda (pur restando nel medesimo àmbito) ad litteram vale : Vai a prenderlo (e quale sia il quid da prendere è intuibile) nel culo cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e, piuttosto che infastidirmi, va’ ad occupare il tuo tempo in pratiche sodomitiche, tenendo però non la parte attiva, ma quella passiva che è la soccombente, meno gradevole e piú dolorosa!
Ò parlato di piú acconciamente perché ritengo che una persona spazientita piú che invitare il suo seccatore a prendersi un divertimento intenda invitarlo ad assoggettarsi ad una sordida sofferenza...
Altre espressioni icasticamente scurrili sono:
FÀ TREMMÀ ‘O STRUNZO ‘NCULO
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso. CHILLO SE ‘MPIZZA 'E DDETE 'NCULO E CACCIA 'ANIELLE.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
NUN FÀ PÉRETE A CHI TÈNE CULO ed alibi
NUN DÀ PONIE A CHI TÈNE MANE.
Ad litteram: Non far peti a chi sia provvisto di culo ed alibi Non dar pugni a chi abbia le mani
I due proverbi in esame, con parole diverse mirano in fondo allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere (secondo un noto principio fisico) in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
A questo punto vale la pena rammentare che furbescamente nell’inteso comune popolare esistono vari tipi di culo:
CULO A BUTTIGLIONE, CULO A MMAPPATA, CULO A PPURTERA, CULO A TTAMMURRO, CULO A MMANDULINO,
Ad litteram: culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni di un fondoschiena e segnatamente di un fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino. Il fondoschiena a buttiglione (accrescitivo di butteglia) è invece quello vasto, massiccio ed inelegante (tal quale una grossa bottiglia) di una donna tozza e grassa il cui fondoschiena faccia da pendant con la rotondità della pancia. Il fondoschiena a mappata (quantità di roba che si contiene in un tovagliolo, fagotto,fardello) è quello vasto ed inelegante come che inviluppato in troppi panni che ne nascondano la forma. Il fondoschiena a purtèra ( adattamento al femminile di purtiére= portinaio, guardaportone) è quello informe, schiacciato ed inelegante come nell’inteso comune si pensa sia il fondoschiena di una portinaia adusa a stare seduta tutto il giorno in guardiola sino ad averne il fondoschiena schiacciato. Infine il fondoschiena che ci occupa è quello a tammurro cioè quello scostumato e risuonante di una popolana adusa a rumorosamente scorreggiare.
Ciò détto passo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
mazzo s.vo m.le di per sé in primis è l’ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano complesso che è tipico degli esseri umani e degli animali quadrupedi di grossa taglia; gli uccelli come il gallo (cfr. ultra) non son forniti di natiche, ma del solo ano; ciononpertanto nella locuzione che esaminerò si preferisce mantenere la voce mazzo riferito al gallo, voce piú rapida e forse meno volgare di ‘o buco d’’o culo con cui in napoletano, accanto ad altre voci come fetillo,feticchio, taficchio, màfaro etc. si indica l’ano;etimologicamente la voce mazzo è dall’acc. lat. matia(m)=intestino e la voce femminile matiam è stata poi maschilizzata ed in luogo di dare mazza à dato mazzo;la maschilizzazione si rese necessaria per scongiurare la confusione tra un’eventuale mazza (ano) la e la mazza (bastone) e si addivenne al maschile anche tenendo presente che nel napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie l’ano, per vasto che possa essere, è certamente piú piccolo d’ un bastone e dunque mazzo l’ano/il sedere e mazza il bastone.
A margine di questa voce rammento che nel napoletano esiste un omofono ed omografo mazzo che vale però fascio (di fiori, ortaggi o carte da giuoco) ed à un diverso etimo derivando non dall’acc. lat. matia(m)=intestino , ma da un nom. lat. med. macĭus. La voce mazzo(ano/sedere) concorre alla formazione di
smazzato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le voce furbesca a carattere gergale o popolaresco; letteralmente 1.fortunato/a,sodomizzato/a e
(per traslato) malizioso/a,furbo/a;
(per ampl. sem.) cattivo, malevolo,
etimologicamente si tratta del part. pass. del verbo smazzà = rompere il sedere, che deriva dal sostantivo mazzo (culo, fondoschiena) dal lat. matea= intestino; nel parlato popolare della città bassa sono in uso ancóra i diminutivi che seguono
smazzatiéllo/smazzatèlla s.vo ed agg.vo m.le o f.le monello/a,vivace,vispo/a,furbo/a,lazzaroncello/a,sbarazzino/a; etimologicamente si tratta come ò détto d’un furbesco diminutivo (cfr. i suff. i +éllo - ella) dell’ agg.vo smazzato (=fortunato, sodomizzato);
smallazzo s.vo neutro che di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere); il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce
sciuliamazzo s.vo neutro = scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare.
Tra le locuzioni che usano la voce a margine rammento:
'A GALLINA FA LL'UOVO E Ô VALLO LL'ABBRUSCIA 'O MAZZO.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora o sopporta pesi e disagi ed un altro si lamenta della fatica che non à fatto, o fa le viste di avere sulle proprie spalle il peso di disagi altrui. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o quando si voglia esortar qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non abbia compiute, e di cui invece faccia le viste di portare il peso.
TENÉ 'E FRUVOLE DINT' Ô MAZZO.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole (dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle, nonché alternanza metaplasmatica g→v o v→g come in gallo→vallo, gallina→vallina,vorpa→gorpa, vulio→gulio) sono i fulmini, le folgori.
Continuiamo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
chiuotto/chiotto s.vo m.le di doppia morfologia una volta con la dittongazione della o breve, una volta senza; voce antica e desueta che valse come il pregresso mazzo ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano; la voce etimologicamente è attestata nel Du Cange come lat. med. clŏt = buco donde sortiscono i fetidi materiali del ventre; normale nel napoletano il metaplasmo cl→ch seguito da vocale (cfr.clausum→(n)chiuso, clavu(m)→chiuovo, ecclesia→(ec)clesia→chiesa, clurima→chiorma).
proso s.vo m.le d’uso gergale (parlesia dei suonatori ambulanti) è la parola che indica esattamente il culo,il deretano; la voce si ritrova a fondamento dei verbi ‘mprusà/ ‘mpruzà che è precisamente l’andare in culo, il sodomizzare e poi per traslato l’ingannare, l’imbrogliare, il raggirare etc; sulla medesima parola proso è forgiato il termine ‘mprusatura o ‘mpruzatura e con alternanza p b anche ‘mbrusatura o ‘mbruzatura che sono esattamente il raggiro, l’imbroglio, l’inganno;trattandosi per la voce a margine di un termine gergale è pressoché impossibile risalire a l’etimo, né vale azzardare ipotesi che si fonderebbero sul vuoto. Andiamo oltre e troviamo
pitoffio s.vo m.le voce d’uso nel parlato popolare per identificare l’ano dell’essere umano e, raramente, per sineddoche il culo, il deretano.È voce infatti usata quasi esclusivente nell’espressione mettere a pitoffio che vale sodomizzare ed in senso esteso danneggiare, ledere qualcuno sia in senso materiale che, piú spesso, in senso morale; per quanto riguarda l’origine della voce pitoffio si tratta d’ un adattamento della voce pataffio = persona grossa e rozza, uomo grosso e paffuto donde per metinomia il suo vasto deretano e segnatamente l’ano; la voce pataffio poi corrotta in pitoffio è un’alterazione popolare di epitaffio→(e)pitaffio→pataffio =iscrizioni su lastre marmoree o di pietra semanticamente riconducibili alla grossezza e rozzezza dell’uomo grosso e paffuto accreditato d’avere un gran deretano.
funnamiento s.vo m.le antica e desueta voce d’uso nel parlato popolare nel significato di posteriore, quale parte posta al fondo del busto umano; la voce in effetti non vale fondamento/fondazione come qualcuno equivocando potrebbe pensare..., bensí posto al fondo ed è dal lat. fundamentu(m), deriv. di fundare = mettere al fondo; sempre nel parlato popolare la voce a margine la si ritrova come sfunnamiento con la protesi di una S intensiva nel significato traslato di grande fortuna
sedicino s.vo m.le antica, ma non desueta voce che vale di suo e senza alcuna metinomia deretano, didietro, sedere, culo; si tratta etimologicamente di voce denominale dell’ agg.vo num.le card.le invar.le sedici numero naturale corrispondente a una decina piú sei unità che nella smorfia napoletana indica appunto il culo. Con il numero sedici rammento che si indicò un tempo altresí l’artista che dipinge o scolpisce ed il tamburo; è possibile, benché non sia semplice cogliere l’accostamento del culo conl’artista che dipinge o scolpisce e con il tamburo; tuttavia li chiarirò: il primo accostamento lo si coglie pensando che tra il tardo ‘600 ed il ‘700 vi furono moltissimi pittori e scultori che produssero gran copia di dipinti o statue molti dei quali raffiguranti nudi femminili o maschili con prorompenti anatomie tali da farle accostare all’artista che le aveva dipinte (o scolpite);per l’altro accostamento rimando a ciò che ò détto antea. Proseguiamo.
màfero/màfaro s.vo m.le di doppia morfologia
con il termine màfero/màfaro in primis esattamente si intende il cocchiume, cioè il foro situato sul diametro massimo della botte e per estensione si intende anche il tappo di legno o sughero che serve a chiuderlo; poi per traslato il termine màfero/màfaro indica pure l'ano e per metinomia il culo tutto, donde poi con evidente traslato semantico si indica anche la fortuna (cfr. l'espressione "Vi' che mmàfaro" per dire "Che fortuna!"Etimologicamente la voce màfero/màfaro è d'origine osca: mamphar attraverso un tardo latino "mamphur".
fetillo/feticchio s.vi m.li voci che (con contenuta differenza morfologica) in primis esattamente indicano l’ano e poi come abbiamo piú volte visto, per metinomia il culo tutto, il deretano etc. Si tratta etimologicamente di voci ricavate quali furbeschi deverbali dal lat. foetíre= puzzare atteso che l’ano è la parte del posteriore esattamente deputata all’emissione delle maleolenti feci e/o dei puzzolenti gas intestinali.
culippo s.vo m.le antica voce talvolta ancóra in uso con la quale in primis esattamente e furbescamente si intende un fondoschiena femminile tanto estroflesso e pronunciato da potersi quasi appaiare a quello d’ una cavalla da tiro. Si tratta infatti etimologicamente di voce ricavata dall’agglutinazione del lat. cul(um)= culo adizionato del greco ippo(s)= cavallo;
suatto s.vo m.le antica e desueta voce che nel suo preciso significato identificò un contenuto, benformato elegante fondoschiena d’una giovane donna; voce etimologicamente marcata sul s.vo francese séant che genericamente vale sedere; questo il percorso morfologico: séant→súant→súatt(o);
Anche le successive tre voci sono termini antichi e desueti:
tafanario s.vo m.le voce che in primis vale ano e poi per sineddoche vasto ed ingombrante sedere di uomo o donna , ampio fondoschiena, deretano di grosse proporzioni; etimologicamente la voce è dall’omofono ed omografo spagnolo tafanario d’uguale significato;
tàfaro s.vo m.le voce che vale ampio,grosso fondoschiena sia delle bestie di grossa taglia,che – maliziosamente – degli essere umani grossi ed ingombranti voce marcata sull’arabo tafar = sottocoda;
taficchio s.vo m.le voce che in primis vale ano, buco e poi per sineddoche minuto sedere di uomo o donna , ridotto fondoschiena, snello deretano di piccole proporzioni etimologicamente per alcuni (D’Ascoli e quelli che vi attingono) la voce è da collegarsi al pregresso tafanario ma non è spiegato quale sia il percorso morfologico; a mio avviso la voce è invece un adattamento metatetico del precedente feticchio→teficchio→taficchio.
E qui potrei diredi avere esaurito l’argomento, ma mi resta ancóra da parlare delle ultime tre voci seguenti che di proposito ò relegato in fondo a queste paginette trattandosi di voci non d’uso generale, ma circoscritto e particolare.
Abbiamo dunque, per concludere:
campo 'e fave ad litteram campo di fave locuzione letterario/poetico (cfr. Raffaele Viviani, Castellammare di Stabia 10 /1/1888 †Napoli22/3/ 1950 ne La Rumba degli scugnizzi: Pacchiané chi s’ ‘o ppenzava, tiene chistu campo ‘e fave?) con cui si indica un formoso fondoschiena d’una giovane donna/contadinella accreditato furbescamente d’essere un campo per coltivarci le fave e sotto il termine fava maliziosamente si adombra (come anche nell’italiano) il membro maschile, il pene;
cufenaturo s.vo m.le 1 in primis conca, grosso vaso di terracotta o metallico usato per convogliarvi i panni da bucato; 2 (per traslato e come nel caso che ci occupa) giocoso riferimento ad un greve, ingombrante fondoschiena slombato, tipico delle anziane donne addette alla lavatura a mano dei panni
culo ‘e reto Ad litteram: culo di dietro locuzione espressiva tautologica tipica del napoletano (cfr. alibi vista ‘e ll’uocchie, palazzo ‘e case,puorto ‘e mare,troppo assaje, pacca ‘e culo,strunzo ‘e mmerda etc.) che manco a dirlo indica esattamente il culo, il sedere, il deretano, posto ovviamente dietro cioè nella parte posteriore del corpo.
reto/areto/arreto avv. di luogo = dietro; la voce è sempre la medesima: dal lat. ad + retro→arretro donde arreto con dissimilazione totale della (R) di tro; questo il percorso per giungere da arreto alla semplificazione reto: arreto→a(r)reto→areto→(ar)reto.
Ora veramente mi pare che non ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico G.J. O. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
L’amico G.J. O. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi à chiesto di occuparmi della voce italiana/napoletana in epigrafe, di indicargli altri eventuali sinonimi nel napoletano, ed eventuali espressioni verbali collegate. L’accontento illico et immediate cominciando a parlare della voce culo cui farò seguire i tanti sinonimi che mi son noti dicendo sia di quelli vivi e vegeti che di quelli antichi e desueti. Cominciamo dunque con
culo s.vo m.le = in origine l’orifizio anale delle bestie poi per sineddoche il culo, il posteriore, il didietro, il sedere, il complesso delle natiche degli esseri umani ; etimologicamente è voce dal lat. culum che è dal greco koîlos ; questa voce napoletana a margine fu accolta temporibus illis anche nella lingua nazionale e viene tuttora usata ancorché catalogata, ma non se ne comprende il motivo, come voce volgare o popolare. Un tempo da qualcuno si ipotizzò che etimologicamente la voce potesse essere un adattamento del lat. caelu(m)(cielo) pigliando a riferimento semantico la concavità e dell’uno e dell’altro. Idea balzana stante la presenza diretta come ò détto della voce lat. culum marcata sul greco koîlos (vuoto, concavo) donde anche kolon= intestino; tuttavia rammento che la voce caelu(m)(Cielo) fu usata, quale nome proprio, al posto di Ciullo ( che della voce culo era stato un adattamento di comodo attraverso l’epentesi eufonica di una (I) ed il raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (L) ed infatti quel poeta di Alcamo nato nella prima metà del XIII secolo, e che fu uno dei piú significativi rappresentanti della poesia popolare giullaresca della scuola siciliana s’ ebbe in origine il nome di Ciullo d’Alcamo ( e cioè Culo di Alcamo)per essere il piú famoso pederasta passivo della sua città e successivamente al tempo del bigotto perbenismo didattico vide il suo nome mutato in Cielo d'Alcamo per non turbar la mente dei/delle giovani discenti.
Manco a dirlo la voce culo entra in numerosissime locuzioni alcune delle quali icastiche, ma dignitose, altre incisive sí, ma dure e becere; tra le prime ricordo
SCIORTA E CAUCE 'NCULO, VIATO A CCHI NNE TÈNE!
Beato chi à buona fortuna e calci in culo cioè spintarelle e/o raccomandazioni.
STÀ CULO E CCAMMISA Ad litteram: stare culo e camicia; id est: Stare sempre insieme, andare molto d'accordo; e lo si dice di amici,compagni adusi ad una frequentazione assidua.
Altra interessante locuzione è
PIGLIÀ P’ ‘O CULO
La lucuzione in epigrafe nella sua esposizione completa è: Piglià p’ ‘o culo a quaccheduno. L’espressione ad litteram vale pigliare/prendere (in giro qualcuno ) a causa del (nudo) culo e fuor del velame sta per
prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, prenderlo per i fondelli, farlo oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione.È interessante rammentarsi da quale situazione storico-ambientale tragga origine la locuzione in esame. Essa si riallaccia alla ignominosa cerimonia detta in napoletano zitabona che comportava, per il debitore insolvente dopo di averla compiuta la necessità di andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era infatti quello il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove pronunciando l’espressione Cedo bona spesso corrotta in Cedo bonis dichiarava fallimento manifestando la sua insolvibilità; la cerimonia che adattando il Cedo bona latino diventava – in napoletano - zitabona prevedeva oltre la pronunzia della formula, il dover poggiare le nude natiche su di una colonnina posta a Napoli innanzi al tribunale della Vicaria a dimostrazione di non aver piú niente. Altrove, ad es. a Firenze la cerimonia era la medesima, ma in luogo della colonnina occorreva sedersi, a nude natiche, su di un cuscino di pietra. La cerimonia diede vita a Napoli anche all’espressione Jirsene cu ‘na mano annante e n’ata arreto che si usò e si usa a dileggio di chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.Va da sé che l’esser costretti a mostrarsi a natiche nude in pubblico, comportasse il diventare oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione da parte degli astanti, situazione che diede vita all’espressione in esame piglià p’ ‘o culo che – come ò détto – vale prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, deriderlo, beffare, burlare, canzonare, irridere, dileggiare, prendere in giro.
Un’ altra interessantissima locuzione proverbiale è :
CU LL’EVERA MOLLA OGNEDUNO S’ANNETTA ‘O CULO!
che nel suo significato letterale vale: Con l’erba tenera ognuno si netta il sedere, cosa che è vera e reale quando trovandosi ad espletare d’urgenza necessità fisiologiche in aperta campagna ci si serve di ciuffi d’erba morbida e (forse) umida di rugiada per ripulirsi il sedere; ma il significato piú acconcio di tale locuzione proverbiale è quello sotteso e rammenta che chi dimostri di avere un un’indole, una natura eccessivamente mite, debole, fiacca, moscia, imbelle,condiscendente, accomodante, docile, conciliante, acquiescente, e non abbia carattere e/o personalità è indefettibilmente destinato ad essere vessato da chiunque e da chiunque lasciarsi opprimere, angariare, tormentare, affliggere, maltrattare.
Andiamo oltre ricordando che tra le locuzioni dure e becere abbiamo:
VA’ A FFÀ ‘NCULO e VALLO A PPIGLIÀ ‘NCULO
Ci troviamo a che fare con due icastiche, sebbene grevi, triviali espressioni che si colgono sulle labbra di chi abbia perso la pazienza per essere troppo irritato ed infastidito da un importuno, un seccatore,un scocciatore,un rompiscatole e lo apostrofa con decisione se non fermezza ed energia nel tentativo di liberarsene.La prima locuzione ad litteram vale : Vai a fare (id est: a coire) nel culo! Cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e va’ ad occupare diversamente il tuo tempo dedicandoti a pratiche sodomitiche piuttosto che infastidire me.
Piú acconciamente della prima locuzione, la seconda (pur restando nel medesimo àmbito) ad litteram vale : Vai a prenderlo (e quale sia il quid da prendere è intuibile) nel culo cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e, piuttosto che infastidirmi, va’ ad occupare il tuo tempo in pratiche sodomitiche, tenendo però non la parte attiva, ma quella passiva che è la soccombente, meno gradevole e piú dolorosa!
Ò parlato di piú acconciamente perché ritengo che una persona spazientita piú che invitare il suo seccatore a prendersi un divertimento intenda invitarlo ad assoggettarsi ad una sordida sofferenza...
Altre espressioni icasticamente scurrili sono:
FÀ TREMMÀ ‘O STRUNZO ‘NCULO
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso. CHILLO SE ‘MPIZZA 'E DDETE 'NCULO E CACCIA 'ANIELLE.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
NUN FÀ PÉRETE A CHI TÈNE CULO ed alibi
NUN DÀ PONIE A CHI TÈNE MANE.
Ad litteram: Non far peti a chi sia provvisto di culo ed alibi Non dar pugni a chi abbia le mani
I due proverbi in esame, con parole diverse mirano in fondo allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere (secondo un noto principio fisico) in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
A questo punto vale la pena rammentare che furbescamente nell’inteso comune popolare esistono vari tipi di culo:
CULO A BUTTIGLIONE, CULO A MMAPPATA, CULO A PPURTERA, CULO A TTAMMURRO, CULO A MMANDULINO,
Ad litteram: culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni di un fondoschiena e segnatamente di un fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino. Il fondoschiena a buttiglione (accrescitivo di butteglia) è invece quello vasto, massiccio ed inelegante (tal quale una grossa bottiglia) di una donna tozza e grassa il cui fondoschiena faccia da pendant con la rotondità della pancia. Il fondoschiena a mappata (quantità di roba che si contiene in un tovagliolo, fagotto,fardello) è quello vasto ed inelegante come che inviluppato in troppi panni che ne nascondano la forma. Il fondoschiena a purtèra ( adattamento al femminile di purtiére= portinaio, guardaportone) è quello informe, schiacciato ed inelegante come nell’inteso comune si pensa sia il fondoschiena di una portinaia adusa a stare seduta tutto il giorno in guardiola sino ad averne il fondoschiena schiacciato. Infine il fondoschiena che ci occupa è quello a tammurro cioè quello scostumato e risuonante di una popolana adusa a rumorosamente scorreggiare.
Ciò détto passo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
mazzo s.vo m.le di per sé in primis è l’ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano complesso che è tipico degli esseri umani e degli animali quadrupedi di grossa taglia; gli uccelli come il gallo (cfr. ultra) non son forniti di natiche, ma del solo ano; ciononpertanto nella locuzione che esaminerò si preferisce mantenere la voce mazzo riferito al gallo, voce piú rapida e forse meno volgare di ‘o buco d’’o culo con cui in napoletano, accanto ad altre voci come fetillo,feticchio, taficchio, màfaro etc. si indica l’ano;etimologicamente la voce mazzo è dall’acc. lat. matia(m)=intestino e la voce femminile matiam è stata poi maschilizzata ed in luogo di dare mazza à dato mazzo;la maschilizzazione si rese necessaria per scongiurare la confusione tra un’eventuale mazza (ano) la e la mazza (bastone) e si addivenne al maschile anche tenendo presente che nel napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie l’ano, per vasto che possa essere, è certamente piú piccolo d’ un bastone e dunque mazzo l’ano/il sedere e mazza il bastone.
A margine di questa voce rammento che nel napoletano esiste un omofono ed omografo mazzo che vale però fascio (di fiori, ortaggi o carte da giuoco) ed à un diverso etimo derivando non dall’acc. lat. matia(m)=intestino , ma da un nom. lat. med. macĭus. La voce mazzo(ano/sedere) concorre alla formazione di
smazzato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le voce furbesca a carattere gergale o popolaresco; letteralmente 1.fortunato/a,sodomizzato/a e
(per traslato) malizioso/a,furbo/a;
(per ampl. sem.) cattivo, malevolo,
etimologicamente si tratta del part. pass. del verbo smazzà = rompere il sedere, che deriva dal sostantivo mazzo (culo, fondoschiena) dal lat. matea= intestino; nel parlato popolare della città bassa sono in uso ancóra i diminutivi che seguono
smazzatiéllo/smazzatèlla s.vo ed agg.vo m.le o f.le monello/a,vivace,vispo/a,furbo/a,lazzaroncello/a,sbarazzino/a; etimologicamente si tratta come ò détto d’un furbesco diminutivo (cfr. i suff. i +éllo - ella) dell’ agg.vo smazzato (=fortunato, sodomizzato);
smallazzo s.vo neutro che di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere); il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce
sciuliamazzo s.vo neutro = scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare.
Tra le locuzioni che usano la voce a margine rammento:
'A GALLINA FA LL'UOVO E Ô VALLO LL'ABBRUSCIA 'O MAZZO.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora o sopporta pesi e disagi ed un altro si lamenta della fatica che non à fatto, o fa le viste di avere sulle proprie spalle il peso di disagi altrui. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o quando si voglia esortar qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non abbia compiute, e di cui invece faccia le viste di portare il peso.
TENÉ 'E FRUVOLE DINT' Ô MAZZO.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole (dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle, nonché alternanza metaplasmatica g→v o v→g come in gallo→vallo, gallina→vallina,vorpa→gorpa, vulio→gulio) sono i fulmini, le folgori.
Continuiamo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
chiuotto/chiotto s.vo m.le di doppia morfologia una volta con la dittongazione della o breve, una volta senza; voce antica e desueta che valse come il pregresso mazzo ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano; la voce etimologicamente è attestata nel Du Cange come lat. med. clŏt = buco donde sortiscono i fetidi materiali del ventre; normale nel napoletano il metaplasmo cl→ch seguito da vocale (cfr.clausum→(n)chiuso, clavu(m)→chiuovo, ecclesia→(ec)clesia→chiesa, clurima→chiorma).
proso s.vo m.le d’uso gergale (parlesia dei suonatori ambulanti) è la parola che indica esattamente il culo,il deretano; la voce si ritrova a fondamento dei verbi ‘mprusà/ ‘mpruzà che è precisamente l’andare in culo, il sodomizzare e poi per traslato l’ingannare, l’imbrogliare, il raggirare etc; sulla medesima parola proso è forgiato il termine ‘mprusatura o ‘mpruzatura e con alternanza p b anche ‘mbrusatura o ‘mbruzatura che sono esattamente il raggiro, l’imbroglio, l’inganno;trattandosi per la voce a margine di un termine gergale è pressoché impossibile risalire a l’etimo, né vale azzardare ipotesi che si fonderebbero sul vuoto. Andiamo oltre e troviamo
pitoffio s.vo m.le voce d’uso nel parlato popolare per identificare l’ano dell’essere umano e, raramente, per sineddoche il culo, il deretano.È voce infatti usata quasi esclusivente nell’espressione mettere a pitoffio che vale sodomizzare ed in senso esteso danneggiare, ledere qualcuno sia in senso materiale che, piú spesso, in senso morale; per quanto riguarda l’origine della voce pitoffio si tratta d’ un adattamento della voce pataffio = persona grossa e rozza, uomo grosso e paffuto donde per metinomia il suo vasto deretano e segnatamente l’ano; la voce pataffio poi corrotta in pitoffio è un’alterazione popolare di epitaffio→(e)pitaffio→pataffio =iscrizioni su lastre marmoree o di pietra semanticamente riconducibili alla grossezza e rozzezza dell’uomo grosso e paffuto accreditato d’avere un gran deretano.
funnamiento s.vo m.le antica e desueta voce d’uso nel parlato popolare nel significato di posteriore, quale parte posta al fondo del busto umano; la voce in effetti non vale fondamento/fondazione come qualcuno equivocando potrebbe pensare..., bensí posto al fondo ed è dal lat. fundamentu(m), deriv. di fundare = mettere al fondo; sempre nel parlato popolare la voce a margine la si ritrova come sfunnamiento con la protesi di una S intensiva nel significato traslato di grande fortuna
sedicino s.vo m.le antica, ma non desueta voce che vale di suo e senza alcuna metinomia deretano, didietro, sedere, culo; si tratta etimologicamente di voce denominale dell’ agg.vo num.le card.le invar.le sedici numero naturale corrispondente a una decina piú sei unità che nella smorfia napoletana indica appunto il culo. Con il numero sedici rammento che si indicò un tempo altresí l’artista che dipinge o scolpisce ed il tamburo; è possibile, benché non sia semplice cogliere l’accostamento del culo conl’artista che dipinge o scolpisce e con il tamburo; tuttavia li chiarirò: il primo accostamento lo si coglie pensando che tra il tardo ‘600 ed il ‘700 vi furono moltissimi pittori e scultori che produssero gran copia di dipinti o statue molti dei quali raffiguranti nudi femminili o maschili con prorompenti anatomie tali da farle accostare all’artista che le aveva dipinte (o scolpite);per l’altro accostamento rimando a ciò che ò détto antea. Proseguiamo.
màfero/màfaro s.vo m.le di doppia morfologia
con il termine màfero/màfaro in primis esattamente si intende il cocchiume, cioè il foro situato sul diametro massimo della botte e per estensione si intende anche il tappo di legno o sughero che serve a chiuderlo; poi per traslato il termine màfero/màfaro indica pure l'ano e per metinomia il culo tutto, donde poi con evidente traslato semantico si indica anche la fortuna (cfr. l'espressione "Vi' che mmàfaro" per dire "Che fortuna!"Etimologicamente la voce màfero/màfaro è d'origine osca: mamphar attraverso un tardo latino "mamphur".
fetillo/feticchio s.vi m.li voci che (con contenuta differenza morfologica) in primis esattamente indicano l’ano e poi come abbiamo piú volte visto, per metinomia il culo tutto, il deretano etc. Si tratta etimologicamente di voci ricavate quali furbeschi deverbali dal lat. foetíre= puzzare atteso che l’ano è la parte del posteriore esattamente deputata all’emissione delle maleolenti feci e/o dei puzzolenti gas intestinali.
culippo s.vo m.le antica voce talvolta ancóra in uso con la quale in primis esattamente e furbescamente si intende un fondoschiena femminile tanto estroflesso e pronunciato da potersi quasi appaiare a quello d’ una cavalla da tiro. Si tratta infatti etimologicamente di voce ricavata dall’agglutinazione del lat. cul(um)= culo adizionato del greco ippo(s)= cavallo;
suatto s.vo m.le antica e desueta voce che nel suo preciso significato identificò un contenuto, benformato elegante fondoschiena d’una giovane donna; voce etimologicamente marcata sul s.vo francese séant che genericamente vale sedere; questo il percorso morfologico: séant→súant→súatt(o);
Anche le successive tre voci sono termini antichi e desueti:
tafanario s.vo m.le voce che in primis vale ano e poi per sineddoche vasto ed ingombrante sedere di uomo o donna , ampio fondoschiena, deretano di grosse proporzioni; etimologicamente la voce è dall’omofono ed omografo spagnolo tafanario d’uguale significato;
tàfaro s.vo m.le voce che vale ampio,grosso fondoschiena sia delle bestie di grossa taglia,che – maliziosamente – degli essere umani grossi ed ingombranti voce marcata sull’arabo tafar = sottocoda;
taficchio s.vo m.le voce che in primis vale ano, buco e poi per sineddoche minuto sedere di uomo o donna , ridotto fondoschiena, snello deretano di piccole proporzioni etimologicamente per alcuni (D’Ascoli e quelli che vi attingono) la voce è da collegarsi al pregresso tafanario ma non è spiegato quale sia il percorso morfologico; a mio avviso la voce è invece un adattamento metatetico del precedente feticchio→teficchio→taficchio.
E qui potrei diredi avere esaurito l’argomento, ma mi resta ancóra da parlare delle ultime tre voci seguenti che di proposito ò relegato in fondo a queste paginette trattandosi di voci non d’uso generale, ma circoscritto e particolare.
Abbiamo dunque, per concludere:
campo 'e fave ad litteram campo di fave locuzione letterario/poetico (cfr. Raffaele Viviani, Castellammare di Stabia 10 /1/1888 †Napoli22/3/ 1950 ne La Rumba degli scugnizzi: Pacchiané chi s’ ‘o ppenzava, tiene chistu campo ‘e fave?) con cui si indica un formoso fondoschiena d’una giovane donna/contadinella accreditato furbescamente d’essere un campo per coltivarci le fave e sotto il termine fava maliziosamente si adombra (come anche nell’italiano) il membro maschile, il pene;
cufenaturo s.vo m.le 1 in primis conca, grosso vaso di terracotta o metallico usato per convogliarvi i panni da bucato; 2 (per traslato e come nel caso che ci occupa) giocoso riferimento ad un greve, ingombrante fondoschiena slombato, tipico delle anziane donne addette alla lavatura a mano dei panni
culo ‘e reto Ad litteram: culo di dietro locuzione espressiva tautologica tipica del napoletano (cfr. alibi vista ‘e ll’uocchie, palazzo ‘e case,puorto ‘e mare,troppo assaje, pacca ‘e culo,strunzo ‘e mmerda etc.) che manco a dirlo indica esattamente il culo, il sedere, il deretano, posto ovviamente dietro cioè nella parte posteriore del corpo.
reto/areto/arreto avv. di luogo = dietro; la voce è sempre la medesima: dal lat. ad + retro→arretro donde arreto con dissimilazione totale della (R) di tro; questo il percorso per giungere da arreto alla semplificazione reto: arreto→a(r)reto→areto→(ar)reto.
Ora veramente mi pare che non ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico G.J. O. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
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