giovedì 31 marzo 2016
TANT’ANNE DINT’Ê SAITTELLE…ETC.
TANT’ANNE DINT’Ê SAITTELLE…
E QUANNO ADDIVIENTE ZOCCOLA!?
Ad litteram: Tanti anni (trascorsi ) nelle fogne… e quando diventerai un ratto?
Icastica domanda retorica che ironicamente si suole rivolgere, per bollarlo di inettitudine e/o incapacità, a chi da lunga pezza frequenti luoghi (scuola o bottega) e faccia esperienza,ma mai si decida ad apprendere e/o a mettere in pratica l’appreso, dimostrando cosí di non occupare proficuamente il tempo dell’apprendimento e di vanificare l’opera degli insegnanti.
La saittella è quella sorta di feritoia che si trova alla base dei marciapiedi, feritoia il cui compito è quello di favorire il deflusso delle acque piovane ed incanalarle nei condotti fognarii che si trovano appena sotto il piano stradale; normalmente i ratti che stazionano nelle fogne usano queste feritoie, che non sono assolutamente protette, ma aperte e libere per sortire ed invadere l’abitato.
Etimologicamente la parola saittella è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente).
Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta o lòcena.
Zoccola s.f. = ratto, grosso topo di fogna e per traslato, battona, meretrice (che come i ratti si aggira per le strade nottetempo); etimologicamente dal lat. sorcula
Raffaele Bracale
ESSERE ‘E DINTO, ESSERE ‘E ‘MIEZO, ESSERE ‘E FORA.
ESSERE ‘E DINTO, ESSERE ‘E ‘MIEZO, ESSERE ‘E FORA.
Ad litteram: Essere di dentro, essere di mezzo, esser di fuori. Tipiche espressioni cittadine partenopee usate volta a volta con riferimento a soggetto proveniente da un ben determinato luogo della città; con esser di dentro ci si riferisce a persona proveniente da un rione interno , quasi sempre del centro storico della città inteso quasi come un enclave circoscritto da altri rioni/quartieri ed è la ragione che induce a connaturare quell’enclave con l’uso dell’avverbio dinto (dentro); nel caso invece ci si riferisca a persona proveniente non da un rione interno, ma da un luogo aperto, come una piazza ,oppure una strada ampia e spaziosa ecco che s’usa l’espressione essere ‘e ‘miezo (di mezzo); quando infine ci si riferisca a persona proveniente rione/quartiere esterno della città, quasi limitrofo del mare cittadino, si usa l’espressione essere ‘e fora (di fuori).Per cui, esemplificando,avremo: essere ‘e dint’â Sanità,essere ‘e ‘miezo Furia, ‘e miezo Carlo Terzo, essere ‘e fora â Marina. Rammento a margine che oggidí riferendosi a persone provenienti dal Vomero o dai Quartieri spagnoli a monte di Toledo, si usa l’espressione: essere rrobba ‘e copp’ê Quartiere, ‘e copp’ô Vommero, mentre un tempo fu espressione usata solo in riferimento a persona originaria dei Quartieri, mentre per chi provenisse dal Vomero s’usò dire essere rrobba ‘e ‘mez’ê vruoccole nell’inteso che il Vomero era tutta aperta campagna coltivata a broccoli ed affini e non ancóra il quartiere residenziale che poi sarebbe diventato.
Per certo, concludendo, si tratta di espressioni usate in ambito cittadino, ma non è dato sapere, o almeno non ne ò contezza, se anche in ambito provinciale siano usate.
R.Bracale Brak
PICCOLI QUESITI
PICCOLI QUESITI
Rispondo qui di sèguito ad alcuni piccoli quesiti pervenutimi via e-mail da un amico che si trincera sotto uno pseudonimo che tralascio. Ecco i quesiti:
1)Sgummato/scummato ‘e sanco letteramente schiumato di sangue cioè con il sangue privato della schiuma, cioè percosso tanto duramente da provocare copiosa epistassi (emorragia dal naso) quasi che il sangue (a sèguito delle percosse avesse perso la sua schiuma o la sua gomma e risultasse cosí liquido da scorrere copiosamente. Sgummato/scummato è il part. pass. dell’infinito sgummà/scummà denominale di gomma che è dal lat. tardo gumma(m), per il class. cummi e poi gummi, dal gr. kómmi, di orig. egiziana;
2) La voce vulva è resa in napoletano con svariati termini;
eccoli qui elencati; Tra i piú usati sinonimi, rammento: fessa, fresella, purchiacca/pucchiacca,quatturana, carcioffola, ficusecca,mulignana, patana,pummarola, vòngola, còzzeca, scarola, ‘ntacca, bbuatta, cestúnia,senga, sesca, pesecchia/pesocchia, pettenessa, furnacella, tabbacchera, sciúscia etc. e qui di sèguito li illustrerò uno alla volta. Procediamo ordunque ordinatamente:
féssa= fessura, apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano;
fresella di per sé, letteralmente la fresella è un tipico biscotto (pane biscottato) usato in un po’ tutto il meridione, variamente condito con diversi ingredienti(in massima parte vegetali) per un gustoso asciolvere; la voce fresella è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il significato traslato di fresella usata per indicare la vulva non nasce dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma; infatti la fresella-biscotto può avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva;
purchiacca o pucchiacca = letteralmente, fodero di fuoco, faretra infuocata e genericamente vulva, vagina;
premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti io stesso penso di poterne proporre per lo meno un paio dei quali opterei comunque per il primo;
1 -la prima ipotesi è che la voce a margine potrebbe risultar derivata dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca,secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca porta a cljaca→chiaca e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→ puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto proposto da altri quali l’Altamura, il D’Ascoli, e tutti coloro che vi attingono, che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→ pucchiacca (erba porcellana); l’idea non m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto,corretto napoletano la voce usata per indicare l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee sempre in unione con un’altra erba/insalata detta arucola (rughetta), la voce dicevo è purchiacchiello (diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la porcacchia/porcellana è pianta erbacea commestibile, con fusto ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o da prodotti ittici), cosa possa avere in comune con l’ organo femminile esterno della riproduzione;
2 - l’altra mia ipotesi circa l’etimo di pucchiacca fa riferimento ad una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre infatti partire da una radice porc ( del latino porca=maiale/scrofa; tale voce (sostituendo il classico sus, nel latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa, anche la sua vulva ) radice addizionata del suffisso diminutivo- spregiativo (cfr. Rohlfs) acchia: da porcacchia→purcacchia e pucchiacca con il medesimo significato di porca=vulva della scrofa ed estensivamente vulva in genere;
- quatturana letteralmente quattro grani; il grano fu vilissima moneta in uso nel Napoletano (Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13° sec.). Al proposito rammenterò, per incidens, che l'unità del Regno delle due Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi e Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
Torniamo al grano che, dicevo,fu vilissima moneta corrispondente all’incirca al valore di 60 centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a 2,40 euro, cioè a quasi 5000 delle vecchie lire. e questa somma, secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto, le meretrici di infimo ordine che prestavano la loro opera lungo la cosiddetta ‘mbricciata ‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san Francesco)malfamata strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta Capuana, nei pressi dell’attuale Pretura ; secondo altra teoria, che reputo piú esatta, la somma di quattro grani fu quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si pretese dalle meretrici a mo’ di tassa sulle singole prestazioni; ora sia che fosse una tassa, sia che si trattasse del prezzo da pagare alla meretrice, la voce quatturana (quattro grani)finí per indicare lo strumento di lavoro della prostituta, e con estensione volgare, l’organo riproduttivo esterno di ogni altra donna soprattutto di basso ceto;
- ‘ntacca = fessura, apertura, scanalatura, contrassegno con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka 'segno';
- bbuatta= letteralmente la parola a margine vale barattolo, contenitore cilindrico in banda stagnata usato per commercializzare generi alimentari dalla frutta sciroppata ai pomidoro, alle melanzane, ai peperoni, al caffè; il traslato semantico è di facile comprensione; l’etimo è dal francese boite;
- senga propriamente si tratta di una fessura, una screpolatura una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in legno (porte, antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta fenditura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga si fa concordemente risalire al lat. signum quale lettura metatetica poi femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il femminile metafonetico senga;
- sesca propriamente si tratta di una ferita,il piú delle volte da taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la femminilizzazione metafonetica del maschile sisco= fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio.
Ora rammento che anche in lingua italiana, per furbesco traslato, con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con la corrispondente voce di fischio e cioè sisco soprattutto nel linguaggio colloquiale, si intende il membro maschile; e dunque non meraviglia se per analogia con il femm. di sisco e cioè con sesca si è finito per indicare il corrispondente organo femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo taglio, una contenuta lesione prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano per la tipica forma della lesione (contenuta apertura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio.
- pesecchia/pesocchia propriamente fessurina, piccola apertura
atteso che con le voci a margine si indicano alternativamente la vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute; l’etimo è da una voce onomatopeica ps→pes (dello zampillo) addizionata di suffissi ecchia (diminutivo) o occhia (accrescitivo).
- cestunia s.vo f.le= in primis tartaruga; per traslato come nel caso che ci occupa, vulva vecchia e rattrappita di una donna ben matura. Etimologicamente voce adattamento fono-morfologico per incrocio greco-latino di khelòne e testudine-m.
E passiamo ora a tutte le voci mutuate dall’ambito orticolo o ittico; abbiamo:
- carcioffola = carciofo con riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto piú vero se si pensa che di una donna che non sia piú giovane e che per tanto si pensa abbia già avuto piú o meno numerosi rapporti coniugali, s’usa dire ironicamente che tene ‘a carcioffola sfrunnata=à il carciofo sfrondato id est:la vulva deflorata; l’etimo della voce carcioffola risulta derivato dall’arabo harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus); sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione progressiva nd→nn;
- ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.
- patana,= patata; il noto tubero edule è preso semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento dallo sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana);
- pummarola = pomodoro il frutto rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come l’altrove usato fica, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi ultimi à il suo interno rosso ; l’etimo di pummarola è, come per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro con il passaggio in sillaba d’avvio di ō ad u (cfr. notte→nuttata), raddoppiamento espressivo popolare della labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do), alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l e cambio di genere per cui pummororo→pummarola;
- vongola,= noto mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano, ripete quello a margine, voce di origine napoletana trasmigrata come molte altre (guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri ) nel lessico nazione; la voce vongola, come la successiva còzzeca è presa a modello per indicar la vulva, in quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo di vongola (voce che indica oltre che il mollusco e la vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove è detta anche fesseria con evidente riferimento alla prima voce di questa elencazione) l’etimo dicevo di vongola è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m) da cui vongula→vongola con normale passaggio di g→v (vedi gulío/vulío – golpe/volpe etc.);
- cozzeca,= cozza, mitilo bivalve che aperto, come la precedente vongola ricorda quasi la forma dell’organo femminile; in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista di bisso, ben si presta a rappresentare il fronzuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di cozzeca è, quasi certamente, da una forma ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;
e veniamo ai riferimenti orticoli cominciando da
- scarola = scarola letteralmente scariola, varietà di indivia; anche, in alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola e segnatamente la specialità detta riccia per essere in cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di scarola è dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca;
- mulignana letteralmente melanzana; siamo sempre nell’ambito orticolo ed essendo la mulignana = melanzana una pianta erbacea largamente coltivata per i frutti commestibili di forma oblunga o ovoidale, con buccia violacea lucente e polpa amarognola (fam. Solanacee), proprio per questa sua buccia liscia e lucente, viola scuro, quasi nera si presta a rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma liscia vulva d’una giovane donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian, di orig. persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la melanzana fosse frutto che inducesse alla pazzia.
- pettenessa ultima(anni ‘950) voce entrata nel lessico popolare partenopeo per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga, a denti lunghi e sottili, disadorno o ornato di piccoli orpelli spesso semipreziosi, grosso pettine usato dalle donne per sorreggere la crocchia dei capelli; atteso che in lingua napoletana, per indicare il pube ( in ispecie)femminile si à la voce pettenale (derivato da un acc.vo lat. pectinale(m) da pecten= pettine), come del resto in lingua nazionale si à, per indicare la medesima cosa, la voce pettignone (derivato da un acc.vo lat. volg. *pectinione(m), dim. del class. pecten -tinis 'pettine'con riferimento (sia per l’italiano che per il napoletano) alla lunghezza dei peli del pube che ricordano i denti dei pettini,sia la forma a mo’ di conchiglia di ambedue: del pube e del grosso pettine, ecco che in senso traslato la voce pettenessa= grosso pettine (dal class. lat. pecten con suff. femminilizzante essa secondo il criterio che una voce femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del corrispondente maschile (cfr. pennellessa piú grande di penniello, tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro, tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto, etc., ma per eccezione caccavo piú grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben si prestò ad indicar la vulva ubicata all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine.
- tabbacchèra s.vo f.le letteralmente tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato, provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto;
per traslato furbesco sesso femminile; il traslato semantico è dovuto probabilmente al fatto che come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa, serve a conservare il tabacco da fiuto con tutto il suo aroma, cosí il sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere e conservare la virtú femminile.
La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo spagnolo tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era; normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente al significato traslato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera e fa riferimento ai comportamenti che si auspica tengano tra di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di ridere e giocare,evitando di oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero pesantemente il sesso.
- furnacella soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata quale epiteto rivolto ad una donnaccola; nella fattispecie con la voce fornacella non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la vulva di colei cui è diretto l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una meretrice abbondantemente conosciuta in senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come ò già riferito, tra le piú comuni voci per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr +k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò che l’etimologia è dall’acc. lat. volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in luogo dell’atteso furnacula(m) dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata, rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà = sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano (cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce
sguessa/sguessera, ma non è in alcun modo chiaro quale sia il passaggio semantico che conduca a parlare della vulva come di una sguessa/sguessera; in effetti nelle parlate meridionali il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898 – † Roma, 15 aprile 1967),), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta, impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti sviamento e pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; infine da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad ipotizzare il perché del passaggio semantico da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale errato riferimento protrattosi nell’uso popolare.
Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di brasciola ( che, vedi alibi, di per sé indica un grosso involto di carne imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla ed in quanto tale è un s.f. derivato dal tardo latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.furbescamente, come ò détto, in talune province con tale voce viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli dove sono in uso, come ò indicato, numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Esaurita la spiegazione delle voci elencate a monte, veniamo finalmente a trattare la voce sciuscia.
- sciuscia Come ò già detto è voce generica che vale vulva, vagina, organo riproduttivo esterno della donna il tutto senza particolari specificazioni concernenti l’età o la destinazione d’uso, ed è voce colloquiale privata in uso tra contraenti (sposi, amanti, fidanzati etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto sociale.
Per la verità dico súbito che solo tre vocabolarî della lingua napoletana ( l’antico D’Ambra,ed i piú vicini Altamura e D’Ascoli che vi attingono spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto consultare, prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che tali vocabolaristi àbbiano il merito di considerare la voce, per ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un l’altro optano,ma a mio avviso, maldestramente, per un inconferente generico idiotismo (.s. m. (ling.) locuzione, voce o costrutto caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio!
Personalmente penso di poter proporre altri due etimi di cui il primo, pur essendo perseguibile quanto alla morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio avviso si potrebbe morfologicamente pensare al solito latino ad un part. pass. femm. fluxa dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl evolve sempre nel napoletano sci (vedi alibi flumen→sciummo, flos→sciore etc.) e ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia; ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia termina con il suff. latino/greco di appartenenza ia e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo presente che la sibilante s anche scempia seguíta da vocale evolve, come la precedente doppia ss in napoletano nel gruppo palatale sci, ecco che da un origianario sus addizionato del suffisso d’appartenenza ia si è potuto avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione che il suffisso latino ia comporta la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è il corrispondente ía greco che sposta l’accento sul suffisso come si ricava osservando la voce filosofia che in lat. è philosòphia(m), mentre in greco è philosophía; e posta l’ipotesi in questi termini, possiamo dire che anche la semantica (ramo della linguistica e, piú in generale, della teoria dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti; nel caso delle lingue, studia il significato delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati);
3)'mpizze 'mpizze,locuzione avv.le temporale che vale a tempo a tempo, lí per lí la locuzione è formata con la reiterazione d’un avverbio modale ‘mpizzo (sulla punta, ai margini)derivato da pizzo (punta, becco) voce di origine espressiva con protesi di un in→’n→’m davanti alle esplosive p o b;
4)verrizzo pl. verrizze
Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan) verrizzo, che al plurale fa verrizze, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, starebbero ad indacare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di dizionari, che accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma la proposta paretimologia poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizzo e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a).
Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con cui si indica il capriccio, la bizza, le testarde impuntature, il reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte dei bambini; il vocabolo è ‘nziria che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rommento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidiǽ a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che semanticamente ben mi pare possa rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria.
5)vase e frizze
lett. baci e sfregamenti,pizzicotti,punzecchiature per provocare; di per sé la voce frizze fu anticamente il pl. di frezza = freccia, ma poi si affermò nel tardo ottocento e primi del novecento quale traslato nei significati che ò indicato; etimologicamente fu voce deverbale di frezzare/frizzare = 1 dare la sensazione di lievissime e frequenti punture:’o spirito ‘ncopp’ê fferite frezza (l'alcol, sulle ferite, frizza) | detto di bevande, provocare una sensazione di solletico al palato; essere effervescente:’a sciampagna frezzeca (lo spumante frizza)
2 stridere, detto di ferro rovente immerso in acqua
3 (fig.) essere pungente, caustico.;
frezzare/frizzare è dal lat. volg. *frictiare, intens. di frigere 'friggere'
6)te ce avvizze lett. ti ci appassisci, ne resti vizzo, appassito, consunto; avvizze è voce verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito avvezzí= appassire, sfiorire etimologicamente denominale di vizzo= appassito, sfiorito che à perduto la freschezza, la sodezza; seccato, flaccido ( dal lat. vietius, compar. neutro di viítus 'vizzo', deriv. di viíre 'legare';
7)cchiú t’appizze lett. piú ti accanisci piú vi ,tendi, vi poni attenzione e mente; cchiú= piú dal lat. plu(s) con tipico passaggio di pl→chi (cfr. platea→chiazza – plumbeu(m)→chiummo – pluere→chiovere etc.), appizze è voce verb. (2° ps. sg. ind. pr. dell’infinito appezzà= tendere, appuntire, accanire etimologicamente denominale di pizzo (punta, becco) voce di origine espressiva;
8)è gghiuto ô ffrisco lett. è andato al fresco cioè è stato depositato al monte dei pegni; l’espressione semanticamente è da collegarsi alla medesima usata in riferimento a chi finisce carcerato; come di chi finisce in prigione si dice che è andato al fresco, cosí di un oggetto dato in pegno resta carcerato fino a che non venga riscattato pagando i relativi interessi e la somma ricevuta in prestito depositando l’oggetto al monte di pietà(Il Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu una istituzione finanziaria senza scopo di lucro nata verso la fine del XV secolo in Italia (soprattutto meridionale) su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità (i) in cambio di un pegno.
La funzione del Monte di Pietà o Banco/Monte dei pegni fu quella di finanziare persone in difficoltà fornendo loro la necessaria liquidità. A tal fine per il loro funzionamento i beneficiari fornivano in garanzia del prestito beni reali di valore ( monili ed oggetti di oro, o di argento, ma talora – nel caso di persone indigenti - anche biancheria che si vedevano restituito quando ripianavano il debito). 9)Bbelle ‘e jammere!
10)Mo t’ ‘e ccoglio e mmo t’ ‘e vengo! Letteralmente:Ora li raccolgo e súbito li vendo! Fu la voce degli ortolani girovaghi che vendevano frutta ed ortaggi di stagione e di cui magnificavano la freschezza asserendo di averli raccolti con le proprie mani nei campi di produzione e di venderli al minuto nel giorno stesso della raccolta.
11)‘O quadrillo e ‘a fijurella! Letteralmente: Il quadretto e la figurina! Fu la voce dei venditori girovaghi di oggetti di culto che nei mercati rionali o nelle festività di santi patroni offrivano quadretti, rosarii benedetti e non, medagliette o semplici figurine di santi.
12)Conciatielle! Letteralmente: Aggiustategami!Fu la voce degli operai girovaghi che per pochi soldi provvedevano illico et immediate alla riparazione di stoviglie in rame o piú spesso in coccio; per le stoviglie in rame al grido di Stagnateve ‘a ramma l’artiere provvedeva a ricoprire di stagno le pareti interne(quelle che sarebbero dovuto andare a contatto con i cibi cotti), mentre il conciatielle/conciatiane/conciambrelle fu colui che servendosi di mastici e/o fil di ferro provvedeva alla riparazione di padelle, tegami,pentole in coccio o anche di ombrelli: - conciatielle (chi aggiusta le padelle) da concia o acconcia voce verbale 3° p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + tielle pl. di tiella (dal tardo lat. te(g)ella(m)→tjella(m))- - conciambrelle (chi aggiusta gli ombrelli) da concia o acconcia voce verbale 3° p. sing. ind. pres. di cuncià o accuncià = aggiustare da un basso latino comptiare o ad-comptiare= preparare; + ‘mbrelle plurale adattato (normalmente dovrebbe esser ‘mbrielle) di ‘mbrello = ombrello da un basso latino umbrella maschilizzato.
- conciatiane (chi ripare le pentole) da un concia o acconcia vedi sopra + tiane plurale di tiana da un basso latino tejana femminile di un tejano che fu dal greco tégano collaterale di tàghenon= pentola, padella.
13)Tiene chistu campo ‘e fave!… Espressione furbesca di sapore lubrico e scurrile che letteralmente vale: “Ài questo campo di fave!” irriguardosamente riferito al vasto fondoschiena d’una prosperosa forosetta, fondoschiena ritenuto campo in cui siano seminate delle fave (e si sa che con la voce fava in senso furbesco si intende il membro maschile!); E con questo penso d’aver adeguatamente risposto alla richiesta pervenutami. Satis est.
Raffaele Bracale
ALCUNE ESPRESSIONI TIPICHE
ALCUNE ESPRESSIONI TIPICHE
1)NUN ME FIRO
Letteralmente: non mi fido cioè non mi sento bene, oppure non ò voglia o volontà di fare alcunché; semanticamente l’espressione nel senso di non mi sento bene si spiega sottintendendo delle mie condizioni fisiche cioè non confido, non faccio affidamento sulle mie condizioni fisiche; id est: non sto bene; nel senso di non ò voglia o volontà di fare alcunché si spiega sottintendendo del mio desiderio, della mia volontà cioè non faccio affidamento sulle mia volontà o sul mio desiderio
Etimologicamente il verbo fidà (fidarse) viene dal Lat. volg. *fidare, per il class. fidere 'confidare'.
2)MEGLIO 'NU MINUTO ARRUSSÍ, CA CIENT’ANNE AVVERDÍ
Letteralmente: Meglio arrossire un minuto che diventar verdi (di bile) per cento anni.
Id est: Meglio brevemente vergognarsi (arrossire) (per avere opposto un rifiuto ad una richiesta) che esser costretti a lunghi travasi di bile (per aver acconsentito a qualcosa che ci costerà lungo lavoro, dispendio d’energie, fatica e tormenti morali)
Etimologicamente il verbo arrussí (vergognarsi) viene dall’agg.vo russo (rosso) che è dal lat. parlato *russu(m) per il class. ruber; etimologicamente il verbo avverdí (farsi verde di bile) vienedall’agg.vo vierde= verde che è dal lat. viride(m), deriv. di viríre 'verdeggiare'.
3) CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
sí avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí
1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ;
3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità!
talvolta è usato come s. m. invar.
1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa '
2) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no.
L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore.
Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo
no scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no. A margine rammento che nel napoletano diversi tipi di SI: SI –SI’ - Sĺ E SÎ
Cominciamo con la congiunzione
A)--si corrispondente all’italiano se
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jirce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano. Quanto all’etimo il si a margine è dal lat. tardo sí(d), dall'incrocio del class. si'se' col pron. (qui)d 'che cosa'.
Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo
B --SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della lingua napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
C –sî = corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres. o cong. ) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî forse derivata, piú che dalla scrittura contratta dell’italiano sei (il napoletano non è mai tributario dell’italiano!...) etimologicamente dal lat. si(s) che eccezionalmente esige l’indicazione di un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologico, ma utile per distinguere la voce verbale a margine dagli illustrati altri omofoni si presenti nel napoletano.
D - SÍ avverbio olofrastico affermativo ò già detto.
--NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no Avverbio olofrastico negativo corrispondente al no dell’italiano
1) negazione equivalente a una frase negativa, usata spec. nelle risposte (si contrappone a sí): «Ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane» | accompagnato da rafforzativi: proprio no;; certamente no; ma no! | no e pò no!, proprio no | pare ‘e no, sperammo ‘e no, che non sia cosí | dicere ‘e no, negare, rifiutare: à ditto ‘e no; ‘na perzona ca nun dice maje ‘e no, che è spesso incline ad acconsentire, disponibile | nun dicere ‘e no, acconsentire, ammettere, o almeno non escludere: «È ‘na cosa straurdinaria» «Nun dico ‘e no, ma nun se po’ ffà!» | risponnere ‘e no, dare una risposta negativa | fà ‘e no cu ‘a capa, dare una risposta negativa senza parlare | si no, (fam.) altrimenti: aggi’ ‘a jí â casa ampressa , si no sarranno guaje | meglio ‘e no!, meglio ca no per esprimere un parere negativo: «T’’a siente ‘e ascí?» «Meglio ca no!» | comme no!, altro che, eccome: «Te piaceno ‘e sfugliatelle ?» «Comme no!» | E pecché no, come risposta affermativa a una proposta: «Ce jammo ô cinema stasera?» «E pecché no!» | anze ca no, alquanto, piuttosto: ‘na pellicula scucciante anze ca no | sí e nno, neanche, appena: ce sarranno state sí e nno vinte perzone | cchiú ssí ca no, probabilmente sí; cchiú nno ca sí , probabilmente no | forze sí forze no , può darsi | ‘nu juorno sí e ‘nu juorno no, a giorni alterni
2) nelle proposizioni disgiuntive stabilisce una contrapposizione: dimme si t’è piaciuto o no; chi sturia, e chi no; bella jurnata o no , ce vaco ‘o stesso | sí o no?, per esprimere impazienza: viene sí o no?
3) con valore rafforzativo o enfatico: no, nun ce vengo!; nun ce pozzo credere, no!; aggiu ditto ca nun ce vaco, no!; ma no, nun è ppe cchesto! | ma no!, per esprimere sorpresa, incredulità o una forte emozione: «’A quistione è ggià risolta» «Ma no!»; «Aggio avuto ‘na brutta brunchita» «Ma no!»
4) posposto al termine da negare sta per un non anteposto: «È proprio friddo ‘o ccafè tujo?» «Friddo no, ma appena appena scarfato»; «’O vide spisso?» «Spisso no, quacche vota»; «Mi faje ‘o probblema ?» «Fartelo no, ma pozzo aiutà» |
5) con il valore di non è vero?: ti piacesse si fosse accussí, no?; v’aggiu ggià ditto, no,’e ve stà zitte! L’etimo dell’avv. no è dal lat. non.
‘NU/’NO = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma occorre evitare di porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
5) 'O GUAIO È DE CCHI 'O SENTE, NO ‘E CCHI PASSA E TENE MENTE.
Il guaio è di colui che l’avverte (sulla propria pelle) (non del terzo) che passando guarda ciò che accade, (ma certamente non à diretta contezza o ne subisce gli effetti deleterei).Va da sé cioè che solo chi subisce un danno o una disgrazia è facultato a dolersene, mentre l’occasionale spettatore delle altrui disgrazie potrà solo superficialmente rammaricarsene o far finta di farlo in quanto non è realmente compartecipe dell’accidente, calamità o sciagura;
guaio s.vo m.le 1 disgrazia; situazione difficile: stà dint’ a ‘nu mare ‘e guaje(essere in un mare di guai);jí cercanno guaje cu ‘o lanterino( andare in cerca di guai con la lanterna)
2 impiccio, inconveniente; danno
voce etimologicamente da un antico tedesco wàwa =disgrazia, sventura ed in senso piú limitato: calamità, fastidio, impiccio;
tene mente = lett.: pone mente, cioè osserva, guarda; espressione verbale formata dall’ unione del s,vo mente con la voce verbale tène (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito tènere/tené = avere, porre,possedere etc. dal lat. teníre, corradicale di tendere 'tendere'); il s.vo f.le mente (che è dal lat. mente(m), da una radice *men- indicante in generale l'attività del pensiero) vale appunto
1 l'insieme delle facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la realtà, di pensare e di giudicare
2 la sede in cui l'attività del pensiero ha luogo; testa, capo
3 particolare attitudine, inclinazione mentale
4 intelligenza, capacità intellettiva
5 il pensiero, l'attenzione
6 memoria
7 il complesso delle idee, delle cognizioni di una persona; anche, la persona stessa fornita di determinate qualità;
nella fattispecie però in unione con il verbo tenere serve a dargli il significato di guardare, osservare, porre attenzione, scrutare, esaminare come chi mettesse al servizio della osservazione tutto l'insieme delle proprie facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la realtà, di pensare e di giudicare.
6) CHE SANGO ‘E CHIAVARDA 'E FIERRO!
Si tratta d’un’espressione esclamativa, piuttosto becera, in uso dapprima tra i reclusi delle carceri di san Francesco nella piazza omonima e successivamente tra il popolino della città bassa,espressione esclamativa, coniata per leggera assonanza, marcandola su altra che si evitava di pronunciare nel timore di incorrere in aggiuntivi rigori di legge per offese ai secondini o forze di polizia.L’espressione originaria fu infatti Mannaggia ô sanco ‘e chi v’afferra con evidente riferimento ai tutori della legge che operavano gli arresti dei delinquenti o a gli addetti alla sorveglianza nelle carceri, addetti che controllavano i detenuti. L’originaria Mannaggia ô sanco ‘e chi v’afferra generò dapprima Mannaggia ô sanco ‘e chiavarda ‘e fierro snellita poi in che sango ‘e chiavarda 'e fierro! portandosi dietro tutto il suo significato di malcelato risentimento, di dolorosa stizza, irritazione, astio, livore, rancore avverso la situazione niente affatto piacevole in cui versavano originariamente i detenuti e poi – nel parlato comune – quelle di chiunque si trovasse a gestire situazioni fastidiose, circostanze sfavorevoli.La chiavarda s.vo f.le che di per sé (ca derivazione dal s.vo chiave (lat. clavu(m)) è 1 (mecc.) grosso bullone che serve per ancorare i basamenti delle macchine fisse o per unire parti di macchine o di strutture
2 tirante a sbarra che serve a contenere una spinta ( di un lettuccio,di un arco, un tetto e sim.)
3 (rar.) grosso chiodo.
Nell’accezione sub 2 la chiavarda era ben nota ai carcerati i cui lettucci ne erano forniti ed il sostantivo suggerí il passaggio da e chi v’afferra a ‘e chiavarda ‘e fierro.
Brak
LA STRINGATEZZA DEL NAPOLETANO
LA STRINGATEZZA DEL NAPOLETANO
Sollecitato dalla pressante richiesta dell’amico A.M. [di cui i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome] esemplifico con tre soli esempi che illustro qui di seguito l’assunto dell’epigrafe inteso come sono a dimostrare che l’idioma napoletano, nella sua icasticità espressiva non necessita di lunghi giri di parole per esprimersi concettuosamente e soddisfacentemente e gli è sufficiente una stringata laconica locuzione per commentare, riassumere o concludere una situazione o un avvenimento. Ed ecco gli esempi:
1) MO NCE VO’ Ad litteram: Adesso ci vuole! Id est: Questo proprio è il caso; tutto ciò si attaglia a quando vengo argomentando. Laconica locuzione usata appunto in luogo del giro di parole riportato per significare che ci si trovi giustappunto nella situazione di cui si stia parlando.
Mi dilungo sulle componenti della lucuzione:
--MO (è possibile trovarlo anche come mo' o ancóra mò) avv. - Ora, adesso; poco fa Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo. Rammento che invece che nella forma reiterata mo, mo con la nasale scempia e separate da una virgola l’avverbio è da intendersi quale esclamazione nel senso di Un momento!, Con calma!, Senza affrettarsi!
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola lettera (consonante)o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba ovviamente vocalica;
ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle,
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
NCE forma eufonica di CE corrispondenti ambedue all’italiano ce o ci; pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’.
VO’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
2) E VVA’ CA NO! Ad litteram:E vai che no ! Id est:Non ritenere che non sia esatto ciò che sto affermando; non pensare ch’io mi stia sbagliando atteso che la disincantata osservazione della realtà ti dimostrerà di quanto siano giuste e corrette le mie azioni e/o considerazioni.
E mi soffermo anche qui sulle voci ricorrenti componenti nella lucuzione:
VVA’ = vai,va’ voce verbale seconda pers. sg. apocopata imperativo dell’infinito jí che in talune espressioni è ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) e dell’imperativo (2 ªsg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à nell’indicativo : i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl che è lloro vanno mentre nell’imperativo è: vai/va’- jate
CA congiunzione che corrisponde all’italiano che 1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive? 2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje; 3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà 4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male; 5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe; 6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse 7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia; 8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato; 9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa; 10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno; 11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...; 12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje; 13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim. Etimologicamente la congiunzione CA è derivato del francese car→ca(r)→ca di uguale significato mentre il pronome ca = (che) è dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; ora sia la congiunzione che il pronome[riconoscibile dalla funzione sintattica] si rendono con la c iniziale scempia (ca), laddove l’avverbio di luogo cca è scritto sempre con la c iniziale geminata e basta ciò ad evitar confusione tra i tre monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi.
NO avv. olofrastico come il corrispondente no dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»).
NUN FACIMMO CA PO... Ad litteram:Non facciamo che poi Id est: Evitiamo di comportarci in maniera non esatta o confacente di talché poi avremo da pentircene o recriminare; comportiamoci con lealtà,schiettamente in modo di non trovarci in situazioni di cui dolersi e rammaricarsi,
NUN attestato anche come ’UN/NU’/NUNN’ avv.di negazione[dal lat. non] = non
1 serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette;nu’ ddicere fessarie; nu’ pparlaje pe tutt’ ‘o juorno(non venne; non dire sciocchezze; non parlò per tutto il giorno); nun ce sta nisciuno irre e òrre(non c'è alcun dubbio);’un c’è prubblema (non c'è problema);’un ce sta nisciuno(non c'è nessuno), | ch’è che nunn è(cosa è, cosa non è), (fam.) tutto a un tratto, senza una ragione evidente:ch’è, che nunn è, fernette ‘e parlà e se ne jette (cosa è, cosa non è, smise di parlare e se ne andò) | in espressioni ellittiche: no ca nun ce crero, ma(non che io non ci creda, ma...), non intendo dire di non crederci, ma...;
2 (ant.) col valore di no: nun po’ serví po dicere ’e no, si hê ditto ‘e sí pure ‘na vota sola!(non varrà poi dire di no, se avrai détto di sì anche una volta sola)
3 nelle contrapposizioni, anche col verbo sottinteso: nunn è bbello, ma ‘ntelliggente(non è bello, ma intelligente); isso fuje pe mme nun sulo ‘nu pate, ma pure n’amico(egli fu per me non solo un padre, ma un amico) | in espressioni ellittiche: vène o nun vène;prufessore o nun prufessore(venga o non venga; professore o non professore) (ma non quando non è ripetuto il primo elemento:vène o no, prufessore o no( venga o no, professore o no))
4 nelle interrogative dirette e indirette che attendono una risposta affermativa e nelle interrogative retoriche: nun avive ‘a partí stasera?(non avresti dovuto partire stasera?); nunn è overo?( non è vero?); m’addimanno si nun fosse stato meglio a lassà perdere; comme facevo a nun crerelo?(mi chiedo se non sarebbe stato meglio rinunciare; come potevo non credergli?)
5 si usa pleonasticamente in alcune locuzioni: è cchiú facile ‘e chello ca tu nun cride(è più facile di quel che tu non creda);nunn appena( non appena), appena che; | in talune frasi esclamative ed in senso antifrastico: ‘e buscie ca nun m’à ditto!(le bugie che non mi à detto!); ‘e fessarie ca nun hê fatto(le sciocchezze che non ài fatto!) | quando il verbo a cui si riferisce è retto da congiunzioni o locuzioni come fino a cche, pe ppoco, a meno che, salvo che, ‘a fora ‘e che e sim.: t’aspettofino a cche nunn arrive( ti attenderò finché non arriverai); pe ppoco nun è caduto(per poco non è caduto
6 in litote, preposto a un aggettivo, un sostantivo o un avverbio: è stata ‘na facenna nun facile (è stata un'impresa non facile), difficile; nun poche ‘a penzano comme a nnuje(non pochi la pensano come noi), parecchi; aggiu faticato nun poco…(ò lavorato non poco), molto; nun sempe(non sempre), raramente; nun senza fatica(non senza fatica), con notevole fatica;
rammento che il medesimo, originario avv. di negazione nun può esser reso secondo le occorrenze con altre morfologie:aferizzato, di solito in principio di frase[con indicazione dell’aferesi], ‘un: ‘un me faccio capace(non me ne convinco) ‘un ‘o ssaccio!(non lo so)’un me dicere niente(non dirmi nulla) ‘un ‘o saccio!(non lo conosco),apocopato nu’ che però (secondo il principio che la caduta finale di una o piú consonanti non necessita di una indicazione diacritica) si potrebbe anche rendere semplicemente nu Tuttavia è preferibile adottare la morfologia nu’ poi che nel napoletano scritto si potrebbe ingenerare confusione tra l’art. indeterminativo ‘nu/’no e la negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi perciò nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba [ovviamentevocalica], non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. o V. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti, (Galiani, Oliva, Serio) peraltro spesso in contrasto sulle soluzioni proposte furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano un’ adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente[soprattutto il Di Giacomo ed il Nicolardi] adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere,e valga una volta per sempre, a mio avviso nel napoletano scritto gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! Esempi di questo nun→nu(n)→nu’ usato per solito davanti a consonante e/o in frasi esclamative possono essere: e nu’ sta bene!(non sta fatto bene!), statte zitto, nu’ pparlà sempe tu!(taci, non parlar sempre tu!);
si à infine la forma rafforzata nunn’ usata davanti a parole comincianti per a, o,e ed alla voce verbale hê; tale forma nunn è un calco del lat. nonn(e)→nunn’ e pertanto esige il segno diacritico dell’elisione, anche – eccezionalmente - davanti alla acca di hê: nunn’ ‘o ddicere! (non dirlo!)nunn’ ‘e ssiente? (non le/li senti?) nunn’ hê capito niente! (non ài compreso nulla!).
FACIMMO = facciamo [voce verbale 1ª p. pl. Ind. Pres. dell’infinto fà (dal lat. fa(ce)re) ] Comincerò con il precisare che il verbo fare il cui infinito nel napoletano è fá/ffá che io contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’) preferisco rendere con la Á accentata (fá/ffá ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí- dicere→dí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai, , come ancóra si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato di’ di dicere che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: di’= dici, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti, ma poi presuntuosamente da asini e supponenti, spocchiosi, tronfi, saccenti,quali mostran d’ essere!..., osano accusare di ignoranza e faciloneria chi non si adegua al loro inesatto modo di scrivere! In effetti nella grafia della parlata napoletana non v’à ragione (checché ne dica ad es. A. Altamura) accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:l'accento, inglobando la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: véde e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fá, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fá in luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. A questo punto torniamo all’assunto dell’epigrafe per rammentare che in napoletano il verbo fare (fá/ffá ) che è dal lat. fa(ce)re à le medesime accezioni del corrispondente fare dell’italiano e cioè: 1 compiere un'azione; porre in essere, eseguire, operare: fá ‘nu passo, ‘o bbene, ‘nu discorzo,’nu suonno;che ffaje stasera?(fare un passo, il bene, un discorso, un sogno; che fai stasera?) | tené assaje che ffá(avere molto da fare), essere occupatissimo | sapé fá uno ‘e tutto(saper fare (di) tutto), essere versato in ogni campo | fá e sfá a ccapa soja( fare e disfare a suo piacimento), agire secondo il proprio comodo, senza render conto a nessuno | fa’ tu!(fai/fa’ tu!), decidi tu | avé a cche ffá cu quaccheduno(avere a che fare con qualcuno), trattare, avere rapporti con lui, ma anche entrare in contrasto con qualcuno | nun tené niente a cche ffá cu coccosa(non avere nulla a che fare con qualcosa), non entrarci, non avere relazione con essa | darse ‘a fa(darsi da fare), adoperarsi, brigare per ottenere qualcosa | lassà fá a quaccheduno(lasciar farequalcuno), non disturbarlo, lasciarlo libero di agire | fá ‘e tutto o ll’impussibbile(fare di tutto o l'impossibile), tentare ogni mezzo pur di raggiungere uno scopo | saperce fa(saperci fare), (fam.) essere in gamba, sapere il fatto proprio | fá ampressa, tarde(fare presto, tardi), agire con rapidità o con lentezza; anche, rientrare presto o tardi, spec. la sera | fá ‘e cunto(far di conto), (antiq.) conteggiare, computare secondo le regole dell'aritmetica | fá festa(fare festa), festeggiare, divertirsi | fá ‘a festa(o ‘a pelle) a quaccuno(fare la festa (o la pelle) a qualcuno, ucciderlo | fá fora a quaccuno(far fuori qualcuno), eliminarlo da una competizione; anche, ucciderlo; fá fora coccosa( fare fuori qualcosa), consumarla, distruggerla rapidamente | fá ‘a bbella vita(fare la bella vita), godersela, spassarsela | fá ‘na bbella, ‘na bbrutta vita(fare una bella, una brutta vita), vivere in buone, in cattive condizioni materiali o morali | fá fijura (far figura), dare una buona impressione | fá ‘na bbella, ‘na bbrutta fijura(fare una bella, una brutta figura), dare, lasciare una buona, una cattiva impressione | fá córpo(fare colpo), colpire, impressionare |fá caso a coccosa( fare caso a qualcosa), badarci | farse ‘e capille(farsi i capelli), tagliarli | farse’a varva( farsi la barba), raderla | fá fuoco( fare fuoco), sparare | fa furtuna( fare fortuna), crearsi una posizione | fa ‘e ccarte (fare le carte), al gioco, distribuirle; in cartomanzia, ricavarne predizioni; nell'uso fam., preparare i documenti necessari al disbrigo di una pratica, ma in questo caso s’usa l’espressione caccià ‘e ccarte | fá ‘o juoco ‘e quaccheduno (fare il gioco di qualcuno), assecondarlo, favorirlo | fá rotta o vela (far rotta o vela), dirigersi | fá scalo( fare scalo), sostare | farla a quaccheduno(farla a qualcuno), giocarlo, raggirarlo | farla sporca(farla sporca), commettere un'azione spregevole | farla grossa (farla grossa), commettere uno sproposito | farla corta, (farla corta, breve), affrettare la conclusione | farla fernuta (farla finita), tagliar corto, smettere; anche, uccidersi | farla franca (farla franca), cavarsela, sottrarsi alle conseguenze di una colpa o di un errore | farla longa (farla lunga), dilungarsi in un discorso, in una discussione |fá a ppiezze (fare a pezzi), rompere; spezzettare; sbranare; (fig.) battere clamorosamente, umiliare | fá ‘a famma (fare la fame), soffrirla; (fig.) essere in miseria | fá paura (fare paura), spaventare | fá curaggio(fare coraggio), incoraggiare | fá piacere a uno (far piaceri a qualcuno), render lieto, contento/favorirlo | fá strata(fare strada), aprire un passaggio; precedere indicando il cammino, la direzione | farsi strada, aprirsi un passaggio; (fig.) raggiungere una buona posizione | farsela ‘ncuollo, sotto, dint’ê cazune(farsela addosso, sotto, nei calzoni), imbrattarsi di feci o di orina; (fig.) spaventarsi |farne d’ògne culor, ‘e crude o ‘e cotte( farne di tutti i colori, di crude e di cotte), commettere ogni sorta di bricconerie | fá specie (far specie), far meraviglia | fá silenzio(fare silenzio), tacere | fá tesoro ‘e coccosa(fare tesoro di qualcosa), tenerla in gran pregio/ trarne esperienza | fá ‘a vocca, ‘o callo a coccosa(fare la bocca, il callo a qualcosa), abituarvisi | nun fá niente (non fare nulla), oziare | nun fa niente! (non fa nulla!), non importa | nun ffá nè ccaudo nè ffriddo (non fare né caldo né freddo), lasciare indifferenti |fá fronte ê spese (fare fronte alle spese), riuscire a pagarle | fá fronte ô nemico (far fronte al nemico), resistergli | farcela(farcela)riuscire in qualcosa: ce ll’aggiu fatta! (ce l'ò fatta!) | prov. : chi fa ‘a sé fa pe ttre (chi fa da sé fa per tre), è meglio fare da sé le proprie cose che affidarle ad altri; chi ‘a fa ca se ll’aspettasse(chi la fa l'aspetti), chi nuoce agli altri non può che aspettarsi il contraccambio; cosa fatta se ne vène a ccapo(cosa fatta se ne viene a capo), bisogna accettare il fatto compiuto;
2 unito a particelle pronominali, spec. nell'uso familiare, assume valore enfatico, esprimendo una partecipazione affettiva del soggetto all'azione: farse ‘na magnata, ‘na bbella passïata(farsi una mangiata, una bella passeggiata); facimmoce ddoje resate!(facciamoci due risate!);me ne faccio ‘nu bbaffo( me ne fo un baffo), infischiarsene;
3 con valore causativo, mettere in condizione di, permettere: fá fá ‘e primme passe ô criaturo(far fare i primi passi al bambino); fá vevere ê cavalle( far bere i cavalli);
4 creare, produrre, fabbricare: Ddio facette ‘o munno ‘a zzero(Dio fece il mondo dal nulla) 'fá figlie (fare figli), generarli | fá frutte( fare frutti), produrli | fá ‘nu libbro(fare un libro), scriverlo | fá ‘na casa( fare una casa), costruirla | fá ‘na menesta (fare una minestra), prepararla | fá ‘nu cuntratto (fare un contratto), stipularlo | fá luce( fare luce), rischiarare, illuminare; (fig.) svelare un mistero, scoprire la verità
5 dire, parlare (per lo piú introducendo il discorso diretto):me facette: «Viene cu mme!» (mi fece: «Vieni con me!»)
6 credere, pensare:te facevo a Pparigge e ‘mmece staje cca!( ti facevo a Parigi e invece sei qui! )
7 emettere, versare: fá sanco dô naso (fare sangue, sanguinare dal naso)
8 raccogliere, mettere insieme: fá legna,denaro,ccravone, acqua, benzina (fare legna,danaro, carbone, acqua, benzina), rifornirsene; chesta città fa trecientomila perzone(questa città fa trecentomila abitanti), ne conta trecentomila |fá acqua (fare acqua), detto di natante, imbarcarla da una falla; (fig.) essere in condizioni di dissesto, (volg.) mingere;
9 (fam.) comprare, regalare: ‘a mamma ll’à fatto ‘nu paro ‘e scarpe nove(la mamma gli à fatto un paio di scarpe nuove) | con la particella pronominale, comprare per sé, procurarsi: farse ‘a machina, ‘a casa(farsi l’automobile, la casa);
10 esercitare un'arte, una professione, un mestiere: fá ‘o pittore, ‘o salumiere(fare il pittore, il salumiere) | praticare: fá ‘o sporto,fá ‘e tuffe(fare sport, fare dei tuffi)
11 comportarsi da: fá ‘o spallettone, ‘o cretino(fare il superuomo, il cretino) | agire come: ll’à fatto ‘a mamma, da ‘nfermera( gli à fatto da mamma, da infermiera)
12 detto di cose, avere una determinata funzione: ‘e capille lle facevano curnice â faccia (i capelli le facevano da cornice intorno al viso); ‘na preta faceva ‘a scannetiello (una pietra faceva da sedile/sgabello)
13 rendere, mettere in una determinata condizione: fá bbella ‘a casa soja( far bella la propria casa)
14 eleggere, nominare: fove fatto generale(fu fatto generale)
15 dare come risultato (nelle operazioni aritmetiche): tre pe ttre fa nove; ddiece meno doje fa otto(tre per tre fa nove; dieci meno due fa otto)
16 (gerg.) rubare: se so’ ffatto ‘o muturino (si sono fatto il motorino)
17 farse n’ommo, ‘na femmena (farsi un uomo, una donna,) (volg.) averci un rapporto sessuale |||
Come v. intr. [aus. avere]
1 convenire, adattarsi, essere utile: chella casa nun fa pe nnuje; ‘a fatica nun fa pe tte(quella casa non fa per noi; il lavoro non fa per te )
2 divenire, essere (con uso impers. quando è riferito alla temperatura, al clima, all'avvicendarsi del giorno e della notte):fa cavero; fa malu tiempo;( fa caldo; fa brutto tempo;) ‘e vierno fa scuro ambressa(d'inverno fa buio presto);
3 compiersi (di un determinato tempo):fa n’anno,fanno dduje anne ca ce sapimmo (fa un anno, fanno due anni da che ci conosciamo);
4 in altre locuzioni: fá a ccazzotte, a mmazzate, a curtellate(fare a pugni, a botte, a coltellate); fá a ttiempo o ‘ntiempo (fare a (o in) tempo), riuscire a fare qualcosa entro una scadenza prefissata; fá a mmeno ‘e coccosa(fare a meno di qualcosa), ||| farse/farese v. rifl. o intr. pron.
1 trasformarsi, diventare: farse ggiudio(farsi ebreo);farse russo russo ‘nfaccia( farsi rosso in viso); ‘stu cacciuttiello s’è ffatto gruosso!(questo cucciolo s'è fatto grosso!) | farse ‘nquatto(farsi in quattro, (fig.) moltiplicare i propri sforzi, il proprio impegno a favore di qualcuno o di qualcosa || Anche in costruzioni impersonali:s’è ffatto scuro; se sta facenno tarde( s'è fatto scuro; si sta facendo tardi);
2 (gerg.) drogarsi:farse ‘e cucaina (farsi di cocaina).
CA (cfr. antea sub 2)
PO avv. di tempo = poi [voce dal lat. post→po(st)→po,] avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua’,ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)).
E qui faccio punto convinto, con gli esempi fatti, d’avere dimostrato l’assunto ed accontentato l’amico A.M. e qualcuno dei miei ventiquattro lettori che dovesse imbattersi in queste paginette.
R.Bracale
mercoledì 30 marzo 2016
CAFONE
tesi etimologica del termine napoletano: CAFONE.
Come riportato da tutti i lessici della parlata napoletana con il termine cafone si intende il villano, lo zotico,il contadino.E di ciò nulla quaestio: si è d’accordo un po’ tutti. Il problema sorge quando si comincia a congetturare intorno all’etimologia della parola..Ci sono numorose opinioni : in primis quella che, partendo da scritti di Cicerone(Filippiche ed altri), la riallaccia ad un nome personale di origine osca: CAFO riferito con tono spregiativo ad un uomo incolto e villano; altra opinione è quella che riallaccia il termine cafone al verbo osco(la cui esistenza, peraltro, non è provata) Kafare= zappare.Segnalo infine la proposta del prof. Carlo Jandolo, proposta che mi pare migliore delle altre, che collega la parola cafone al greco: skaphèus, collaterale di skapaneus= contadino, zappatore.
Escludo altresì, in quanto da ritenersi leggenda metropolitana, l’idea che cafone possa derivare dal fatto che gli abitanti dell’entroterra o della più remota provincia onnicomprensivamente detti cafune, giungendo in città vi camminassero legati gli un gli altri con una fune per evitare di sperdersi.
Ciò annotato passo ad indicare la mia diversa opinione che si fonde sul fatto che storicamente, nel tardo ‘800 e principi del ‘900 eran definiti, nel parlar comune,cafoni non solo gli zappatori, i villani e consimili, ma estensivamente un po’ tutti gli abitanti o i nativi dei paesini dell’entroterra campano, paesini arroccati sui monti ,-come quelli del sannio- beneventano, del casertano o dell’ alta Irpinia - difficili da raggiungere e chi li raggiungeva con carretti o altro aveva bisogno di aiuto per ascendere fino al paese propriamente détto. A tale bisogna provvedevano nerboruti paesani che scendevano incontro ai visitatori , ed erano armati di robuste funi con le quali aiutavano nell’ascensione le persone bisognose d’aiuto.Tali paesani erano indicati con la locuzione “chille cu ‘a fune o chille c’’a fune “ id est: quelli con la fune. Da c’’a fune a cafune il passo è breve e d è ipotizzabile che con esso termine si indicassero tutti gli abitanti dell’entroterra o della più remota provincia. CAFUNE è comunque un plurale. Il singolare CAFONE penso si sia formato successivamente tenendo presente i consueti fenomeni metafonetici dell’ idioma napoletano alla stregua di GUAGLIONE che al plurale fa GUAGLIUNE.
Riconosco tuttavia, a questo punto che la mia idea configura piú che un’etimologia con crismi scentifici,un’ipotesi paretimologica, e quantunque possa apparire piú percorribile di pur tante dotte ipotesi libresche, la metto da parte per aderire all’ipotesi fatta dall’amico prof. Carlo Jandolo, ipotesi decisamente migliore di tante altre, puranco di quella dell’altro amico avv.to Renato de Falco che parlò di un (ca)cafone(s) = balbuziente che semanticamente poco o nulla mi pare abbia a che spartire con il villano, lo zotico,il contadino; il cacafone di Renato De Falco, semanticamente, a mio avviso potrebbe al massimo attagliarsi al tartaglia/one se per tale figura il napoletano non avesse già la voce cacaglio derivato piú che dallo spagnolo encallar = inceppare con la parola, dal greco kaka-lailo= parlo male.
Raffaele Bracale
VARIE 16/285
1 -Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sarcasticamente sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta l’abitudine dei canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2 -Armammoce e gghiate.
Letteralmente: armiamoci ed... andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fare troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3 - A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuóvere e cuóvere nun se cecano ll'uocchie.
Letteralmente:
A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO
B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4 -Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare.
Il sapone da bucato offerto da quei rigattieri era un sapone molto morbido, di colore ambra ed era un sapone di produzione artigianale che non si trovava in vendita nelle botteghe, ma era reperibile quasi esclusivamente presso quei rigattieri girovaghi che svolgevano all’aperto (in piazza) la loro opera e perciò fu detto sapone ‘e piazza , ma come tutti i manufatti artigianali d’antan era un ottimo prodotto che serviva egregiamente allo scopo.
5 - Tené 'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6 -T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco (dal greco óstrakon= coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio la cui copertura anticamente era formata con coccio residuo della lavorazione delle anfore e con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.
7 -Ogne anno Ddio 'o ccumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime.
8 - Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, infilare le dita nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta raggia.
9 -Sciorta e mole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone
10 -Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però càpita che taluni inetti ed incapaci si vedano immeritatamente spianata la strada ed invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico.
11 - Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
12 - Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re.
13 - 'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie, ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie.
14 -Rompere 'o nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare ànno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda.
La parola nciarmo= magia, fascino, incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen ma da un francese n + charme
15 -'Ngrifarse comme a 'nu gallerinio.
Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato.
‘ngrifato=rizzato, irsuto etc. è il part. pass. dell’infinito ‘ngrifà/arse=rizzare/adirarsi etc. dallo spagnolo engrifar
16 -Fà zite e murticielle e battesime bunarielle.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco.
17 - Vieste Ciccone, ca pare barone.
Letteralmente:vesti Ceccone e sembrerà un barone. La locuzione napoletana stravolge completamente quella toscana che afferma: l'abito non fa il monaco. Il detto partenopeo, al contrario, afferma che basta vestire accuratamente un qualsiasi Ceccone (villano) per farlo apparire un barone...
18 -Pigliarse 'e penziere d''o Russo.
Letteralmente: Prendersi i pensieri del Rosso. Id est: preoccuparsi di faccende senza importanza, trascurandone altre ben piú importanti.Il Rosso della locuzione fu un famoso ladro, che condannato al capestro, invece di preoccuparsi della propria sorte, si chiedeva chi sarebbe stato incaricato di portare la scala necessaria all'esecuzione.
19 - Vestirse 'a fesso.
Letteralmente: indossare l'abito dello stupido. Id est: comportarsi in maniera volutamente sciocca, fare lo gnorri, tenere un comportamento da stupido nella speranza che cosí facendo si possa indurre una ipotetica controparte a non calcar la mano con pretese e richieste e raggiungere cosí il fine sperato con poca fatica e minimo impegno.E' l'atteggiamento che temporibus illis tenevano taluni chiamati alle armi per evitare la partenza per il fronte.Il fatto era compendiato nella frase: fà 'o fesso pe nun gghí â guerra(fare lo sciocco per non andare in battaglia; spesso si raggiungeva lo scopo, giacché non erano graditi soldati stupidi.
20 - Fà 'nu sizia-sizia.
Letteralmente: fare un sitio- sitio Id est: richiedere ripetutamente e lamentosamente qualcosa con ossessiva petulanza. La locuzione nasce prendendo spunto dal Sitio! pronunciato da Cristo sulla croce. Alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli dell'aceto che misto ad acqua è la bevanda piú adatta a spegnere l'arsura.
21 - Essere 'na pimmice 'e canapé.
Letteralmente: essere una cimice annidata in un divano. Id est: essere inaffidabile, subdolo e perfido come una cimice che - secondo la credenza popolare - è pronta a tradire il proprio simile o colui che abbia la sventura di tenerla nascosta nel proprio divano; il primo ad essere morsicato sarà proprio il padrone del divano.
22 -Ma tenisse 'e gghiorde?
Letteralmente: fossi affetto da giarda? Domanda retorica che con aria insolente, viene rivolta a Napoli, a qualcuno che appaia pigro, indolente, scansafatiche, che non si muove, nè fa alcunché, quasi fosse affetto da giarda la malattia che colpisce le giunture ed in ispecie il collo del piede dei cavalli producendo eccessiva enfiagione delle zampe delle bestie, impossibilitate, per ciò a procedere speditamente.
23 -Jí cercanno 'mbruoglio, aiutame!
Letteralmente: andare alla ricerca di un imbroglio che possa aiutare. Id est: quando ci si trovi in situazioni o circostanze tali che non lascino intravedere vie d’uscita, l’unico mezzo di trarsi d’impaccio è quello di rifugiarsi in un non meglio identificato ‘mbroglio (imbroglio,astuzia, inganno, moto di destrezza) che in un modo o in un altro consenta di risolver la faccenda. La locuzione a Napoli è usata a salace commento delle azioni di chi, per abitudine, non è avvezzo ad agire con rettitudine o chiarezza e per habitus mentale si rifugia nell’imbroglio, pescando nel torbido.
24 - Appíla ca jesce feccia!
Letteralmente: tura ché esce feccia. È questo il comando imperioso dato dall'oste al garzone che stia aiutandolo a travasare il vino affinché ponga lo stoppaccio o zipolo alla botte quando, oramai vuotata, questa comincia a metter fuori la feccia o (in gergo) la mamma del vino; per traslato è il caustico ed imperioso comando che a Napoli si suole dare a chi - colloquiando - cominci a metter fuori sciocchezze o, peggio ancora, offese gratuite.
25 - Â pprimma entratura, guardateve 'e ssacche!
Letteralmente: entrando per la prima volta, in qualche sito sconosciuto, badate alle tasche; id est: state attenti alle nuove frequentazioni specie di sconosciuti che possono derubarvi o procurare altri danni.
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