ERRORI SESQUIPEDALI
1-Piglià asso pe fijura
Ad litteram: prender asso per figura Id est: Detto di chi incorre in un grossolano errore, confonde due elementi d'aspetto e valenza completamente diversi; locuzione mutuata dal giuoco delle carte napoletane nel quale giuoco solo un giocatore molto inesperto ed incapace può incorrere nell'errore di confondere l'asso con il fante o il cavallo o il re.
2 -Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta oppure
3 - Piglià 'a sputazza p''a lira 'argiento.
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta oppure confondere uno sputo per una lira di argento Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, né mai un volgare sputo può esser confuso con una moneta d'argento.Per altri macroscopici errori vedi il seguente.
4- Hê sbagliato palazzo!
Ad litteram: Ài sbagliato palazzo! Id est: Ài malamente equivocato, ài preso un madornale granchio, ti sei comportato malissimo; avresti dovuto comportarti in maniera ben diversa; locuzione che segnala non un qualsiasi tipo di errore o qui pro quo, ma che attiene può specificatamente a quegli errori comportamentali capaci di suscitare in chi ne subisce gli effetti, sensibile, amaro dispiacere e il vago desiderio che colui che abbia sbagliato il palazzo si ravveda prontamente e, se può, ponga riparo all’errore nel quale è intercorso.
Esistono poi molti altri modi di segnalare e bollare errori commessi che non attengono al comportamento , ma sono generici, anche se- a volte - piú macroscopici lapsus; tra questi altri modi di dire segnalerò:
5- Piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
6 - Piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea;
7 - Piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo). e molte altre sulle quali è più opportuno non soffermarsi.
8 - Piglià ‘nu zzarro (prendere un granchio,un abbaglio, incorrere in un inciampo che determini all’errore) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può facilmente inciampare.
Raffaele Bracale
martedì 30 settembre 2008
PEZZOTTO
PEZZOTTO
La voce a margine (sostantivo maschile), nel gergo, meglio nello slang giovanile partenopeo vale cosa, oggetto falsificato, contraffatto, non originale; ad es. s’usa dire ‘stu c.d. è pezzotto quando il c.d. de quo risulti essere una copia prodotta con sistemi piú o meno truffaldini, da un originale, allo scopo di eludere tasse e tenere bassi i costi; come ò segnalato la voce pezzotto è un sostantivo (e dunque apposizione) mentre piú correttamente per indicare un oggetto falsificato, andrebbe usato un aggettivo che è ed un tempo fu appezzuttato, aggettivo che poi cadde in disuso in favore del piú sbrigativo sostantivo pezzotto;
in effetti l’aggettivo appezzuttato starebbe a significare prodotto con il pezzotto che di per sé quale diminutivo di pezzo, risulta essere un arnese del falegname detto tecnicamente in lingua nazionale ascialone (accrescitivo di asciale da un lat. volg. axale(m), deriv. di axis 'perno, asse) una parte del morsetto con il quale i falegnami serrano due pezzi di legno da incollar tra loro, di tal che le voci appezzuttato e/o pezzotto stanno ad indicare cosa o oggetto prodotto in maniera artigianale, non industriale e quindi non originale;
rammenterò poi che in lingua nazionale esistette già il termine pezzotto usato per indicare ( con derivazione da pezzo) un tappeto tipico della Valtellina, fatto con ritagli di tessuti vari arrotolati e cuciti insieme.
Nulla osta che un tempo – come riportato dalla Serao – le artigianali sartine napoletane fornissero alla loro minuta clientela piccolo borghese abiti copiati artigianalmente da originali modelli francesi e dunque abiti pezzotti o appezzuttati; è pur sempre, ora come allora, una dimostrazione della partenopea arte d’arrangiarsi; peccato che oggidì la cosa, finita nelle mani di camorra ed orientali sta prendendo d’acido o se sta azzeccanno sotto! (giacché una cosa è copiare per un amico un costoso C.D. , un’ altra è vedere inondare bancarelle e negozi con C.D.pezzotti la cui vendita ingrassa le tasche di camorristi ed affini!!!)
Raffaele Bracale
La voce a margine (sostantivo maschile), nel gergo, meglio nello slang giovanile partenopeo vale cosa, oggetto falsificato, contraffatto, non originale; ad es. s’usa dire ‘stu c.d. è pezzotto quando il c.d. de quo risulti essere una copia prodotta con sistemi piú o meno truffaldini, da un originale, allo scopo di eludere tasse e tenere bassi i costi; come ò segnalato la voce pezzotto è un sostantivo (e dunque apposizione) mentre piú correttamente per indicare un oggetto falsificato, andrebbe usato un aggettivo che è ed un tempo fu appezzuttato, aggettivo che poi cadde in disuso in favore del piú sbrigativo sostantivo pezzotto;
in effetti l’aggettivo appezzuttato starebbe a significare prodotto con il pezzotto che di per sé quale diminutivo di pezzo, risulta essere un arnese del falegname detto tecnicamente in lingua nazionale ascialone (accrescitivo di asciale da un lat. volg. axale(m), deriv. di axis 'perno, asse) una parte del morsetto con il quale i falegnami serrano due pezzi di legno da incollar tra loro, di tal che le voci appezzuttato e/o pezzotto stanno ad indicare cosa o oggetto prodotto in maniera artigianale, non industriale e quindi non originale;
rammenterò poi che in lingua nazionale esistette già il termine pezzotto usato per indicare ( con derivazione da pezzo) un tappeto tipico della Valtellina, fatto con ritagli di tessuti vari arrotolati e cuciti insieme.
Nulla osta che un tempo – come riportato dalla Serao – le artigianali sartine napoletane fornissero alla loro minuta clientela piccolo borghese abiti copiati artigianalmente da originali modelli francesi e dunque abiti pezzotti o appezzuttati; è pur sempre, ora come allora, una dimostrazione della partenopea arte d’arrangiarsi; peccato che oggidì la cosa, finita nelle mani di camorra ed orientali sta prendendo d’acido o se sta azzeccanno sotto! (giacché una cosa è copiare per un amico un costoso C.D. , un’ altra è vedere inondare bancarelle e negozi con C.D.pezzotti la cui vendita ingrassa le tasche di camorristi ed affini!!!)
Raffaele Bracale
PESCE ‘E CANNUCCIA
PESCE ‘E CANNUCCIA
Con l’espressione in epigrafe che non mette conto tentare di rendere in italiano essendo di facilissima intellezione, in napoletano si sostanzia una sorta di affettuoso dileggio rivolto avverso coloro che , per innata dabbenaggine o bontà, probità, quando non conclamato candore, siano propensi a credere a tutto ed a tutti, non sollevando o opponendo mai dubbi o reticenze,anzi dimostrandosi sempre accondiscendenti e/o creduloni oltre ogni ragionevolezza,per cui è possibile raggirarli ad libitum ,tal quali taluni piccoli comuni pesci che si catturano con estrema facilità giacché abboccano tranquillamente a qualsivoglia esca, anche semplicissima (ad es. mollica di pane intrisa di formaggio) attaccata all’amo di una piccola canna; un’altra scuola di pensiero non ravvisa nella cannuccia una piccola canna da pesca, quanto una sorta di contenuto tubo cavo che attaccato al boccaglio della maschera da pescatore subacqueo, permette a costui di attingere l’aria dalla superficie, trattandosi di pescatori che operano non in profondità, ma a pelo d’acqua dove catturano quasi al volo i pesci con maneggevole retino detto in napoletanosi dice piglià ‘mbuolo; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare quasi al volo i pesci in transito; rammenterò qui per amor di polemica che nel parlato comune la parola subacqueo non viene pronunciata con la doppia (cq), ma come se fosse scritta subaqueo con la q scempia; mi è ignoto il perché di tale errato comportamento, sebbene qualcuno abbia tentato pretestuosamemte di farmi credere che la errata pronuncia, non fosse tanto errata in quanto costruita sul tardo latino aqueum da dove deriva etimologicamente l’ acqueo di sub-acqueo; rammenterò altresí che pescatore subacqueo è reso in napoletano con il termine summuzzatore (etimologicamente deverbale di summuzzà che è da un basso latino subputeàre (da puteum= pozzo) o, con altra ipotesi, forse piú perseguibile morfologicamente, ma non semanticamente, deverbale del basso latino sub-mersare (frequentativo di mergere=immergere; atteso che in origine i sommozzatori erano gli operai addetti alla manutenzione dei pozzi nei quali si facevano calare legati a robuste funi, propendo per la prima ipotesi subputeàre forse incrociata con mersare).
Orbene sia che si tratti di pesci che abboccano con facilità, o che siano quelli che si lasciano catturare col retino, ben possono rappresentare gli improvvidi creduloni che si lasciano irretire, circuire o ingannare.
Altri etimi:
pesce dritto per dritto dall’acc. latino pisce(m).
cannuccia o che si tratti della canna da pesca, o che sia il tubo per respirare si tratta del diminutivo di canna che è dal greco kànna (dall’ebraico qaneh) attraverso il latino canna(m).
Raffaele Bracale
Con l’espressione in epigrafe che non mette conto tentare di rendere in italiano essendo di facilissima intellezione, in napoletano si sostanzia una sorta di affettuoso dileggio rivolto avverso coloro che , per innata dabbenaggine o bontà, probità, quando non conclamato candore, siano propensi a credere a tutto ed a tutti, non sollevando o opponendo mai dubbi o reticenze,anzi dimostrandosi sempre accondiscendenti e/o creduloni oltre ogni ragionevolezza,per cui è possibile raggirarli ad libitum ,tal quali taluni piccoli comuni pesci che si catturano con estrema facilità giacché abboccano tranquillamente a qualsivoglia esca, anche semplicissima (ad es. mollica di pane intrisa di formaggio) attaccata all’amo di una piccola canna; un’altra scuola di pensiero non ravvisa nella cannuccia una piccola canna da pesca, quanto una sorta di contenuto tubo cavo che attaccato al boccaglio della maschera da pescatore subacqueo, permette a costui di attingere l’aria dalla superficie, trattandosi di pescatori che operano non in profondità, ma a pelo d’acqua dove catturano quasi al volo i pesci con maneggevole retino detto in napoletanosi dice piglià ‘mbuolo; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare quasi al volo i pesci in transito; rammenterò qui per amor di polemica che nel parlato comune la parola subacqueo non viene pronunciata con la doppia (cq), ma come se fosse scritta subaqueo con la q scempia; mi è ignoto il perché di tale errato comportamento, sebbene qualcuno abbia tentato pretestuosamemte di farmi credere che la errata pronuncia, non fosse tanto errata in quanto costruita sul tardo latino aqueum da dove deriva etimologicamente l’ acqueo di sub-acqueo; rammenterò altresí che pescatore subacqueo è reso in napoletano con il termine summuzzatore (etimologicamente deverbale di summuzzà che è da un basso latino subputeàre (da puteum= pozzo) o, con altra ipotesi, forse piú perseguibile morfologicamente, ma non semanticamente, deverbale del basso latino sub-mersare (frequentativo di mergere=immergere; atteso che in origine i sommozzatori erano gli operai addetti alla manutenzione dei pozzi nei quali si facevano calare legati a robuste funi, propendo per la prima ipotesi subputeàre forse incrociata con mersare).
Orbene sia che si tratti di pesci che abboccano con facilità, o che siano quelli che si lasciano catturare col retino, ben possono rappresentare gli improvvidi creduloni che si lasciano irretire, circuire o ingannare.
Altri etimi:
pesce dritto per dritto dall’acc. latino pisce(m).
cannuccia o che si tratti della canna da pesca, o che sia il tubo per respirare si tratta del diminutivo di canna che è dal greco kànna (dall’ebraico qaneh) attraverso il latino canna(m).
Raffaele Bracale
‘E PERUCCHIE
‘E PERUCCHIE
Letteralmente con il termine in epigrafe, plurale metafonetico del masch. sing. perocchio, ci si intende riferire ai pidocchi quei piccoli insetti dal corpo piatto, con zampe corte e robuste, che succhiano il sangue dell'uomo vivendo da parassiti principalmente sulla testa,ma pure sul corpo o nei vestiti; sia la voce italiana che la napoletana ànno il medesimo etimo dal tardo latino peduc(u)lu(m), dim. di pídis 'pidocchio'(da notare, nella voce napoletana, la consueta alternanza osco - mediterranea d/r rotacizzazione della dentale d di cui ò abbondantemente detto passim). La parola in epigrafe è usata in napoletano anche per significare i soldi, il danaro in genere, ma in tal senso la voce non è da collegarsi all’insetto, in quanto, nell’ accezione di moneta, perucchie non è che la corruzione del termine purchie= danaro voce coniata sul termine nap. ed irpino porchia/sporchia ( dal verbo sporchià= germogliare)
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro; rammenterò ora che sia in napoletano che in italiano si sono coniate sulle voci perucchie / pidocchio delle forme aggettivali: perucchiuso/a e pidocchioso/a nel significato non solo di pieno di pidocchi, ma figuratamente di avaro, spilorcio, taccagno. e ciò perché nell’inteso comune chi è sporco ed infestato di insetti non è disponibile a ceder nulla di sé, sia pure la sporcizia. Perucchiuso/a e pidocchioso/a sono usati anche come s. m. : essere ‘nu perucchiuso/ un pidocchioso; comportarsi comme a ‘nu perucchiuso/ da pidocchioso. Mi piace chiarire infine che la voce napoletana pirchio con la quale si indica lo spilorcio, l’avaro, il taccagno è solo vagamente assonante con purchie, e con essa non à riferimenti di sorta, giacché – come già dissi alibi –penso che per l’etimo di pirchio, tenendo presente la parallela voce siciliana píllicu e lo spagnolo pelon donde peloneria= avarizia , si debba pensare ad un sia pure tenue collegamento al latino pilus= pelo per cui pirchio sarebbe uno spelato, povero che non potrebbe permettersi il lusso di spender le sue magre sostanze, nulla a che spartire con la rigogliosità richiamata dalla voce purchie.
Raffaele Bracale
Letteralmente con il termine in epigrafe, plurale metafonetico del masch. sing. perocchio, ci si intende riferire ai pidocchi quei piccoli insetti dal corpo piatto, con zampe corte e robuste, che succhiano il sangue dell'uomo vivendo da parassiti principalmente sulla testa,ma pure sul corpo o nei vestiti; sia la voce italiana che la napoletana ànno il medesimo etimo dal tardo latino peduc(u)lu(m), dim. di pídis 'pidocchio'(da notare, nella voce napoletana, la consueta alternanza osco - mediterranea d/r rotacizzazione della dentale d di cui ò abbondantemente detto passim). La parola in epigrafe è usata in napoletano anche per significare i soldi, il danaro in genere, ma in tal senso la voce non è da collegarsi all’insetto, in quanto, nell’ accezione di moneta, perucchie non è che la corruzione del termine purchie= danaro voce coniata sul termine nap. ed irpino porchia/sporchia ( dal verbo sporchià= germogliare)
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro; rammenterò ora che sia in napoletano che in italiano si sono coniate sulle voci perucchie / pidocchio delle forme aggettivali: perucchiuso/a e pidocchioso/a nel significato non solo di pieno di pidocchi, ma figuratamente di avaro, spilorcio, taccagno. e ciò perché nell’inteso comune chi è sporco ed infestato di insetti non è disponibile a ceder nulla di sé, sia pure la sporcizia. Perucchiuso/a e pidocchioso/a sono usati anche come s. m. : essere ‘nu perucchiuso/ un pidocchioso; comportarsi comme a ‘nu perucchiuso/ da pidocchioso. Mi piace chiarire infine che la voce napoletana pirchio con la quale si indica lo spilorcio, l’avaro, il taccagno è solo vagamente assonante con purchie, e con essa non à riferimenti di sorta, giacché – come già dissi alibi –penso che per l’etimo di pirchio, tenendo presente la parallela voce siciliana píllicu e lo spagnolo pelon donde peloneria= avarizia , si debba pensare ad un sia pure tenue collegamento al latino pilus= pelo per cui pirchio sarebbe uno spelato, povero che non potrebbe permettersi il lusso di spender le sue magre sostanze, nulla a che spartire con la rigogliosità richiamata dalla voce purchie.
Raffaele Bracale
PE TRAMENTE – ‘NTRAMENTE
PE TRAMENTE – ‘NTRAMENTE
Si tratta di due avverbi napoletani di tempo che rendono il toscano mentre anzi nel mentre che ed anche nel tempo in cui, intanto che e sono ambedue di derivazione latina: dum interim: mentre, frattanto; il dum interim produsse l’antico italiano domentre ed il partenopeo tramente rafforzato alternativamente o dalla preposizione pe (per) o dall’ in reso proclitico con successiva aferesi della i (‘); da taluni si ritiene che sinonimi delle voci in epigrafe siano ‘nfromme e cunfromme; io non sono della medesima opinione atteso che il significato esatto dei cennati nfromme e cunfromme non è nel mentre, quanto appena che e cosí come, appunto come; ed in effetti l’avverbio cunfromme etimologicamente deriva dal toscano conforme(simile a) con metatesi e raddoppiamento espressivo popolare della m, mentre ‘nfromme (appena, quando) non è che il medesimo cunfromme con procope della sillaba d’avvio.
brak
Si tratta di due avverbi napoletani di tempo che rendono il toscano mentre anzi nel mentre che ed anche nel tempo in cui, intanto che e sono ambedue di derivazione latina: dum interim: mentre, frattanto; il dum interim produsse l’antico italiano domentre ed il partenopeo tramente rafforzato alternativamente o dalla preposizione pe (per) o dall’ in reso proclitico con successiva aferesi della i (‘); da taluni si ritiene che sinonimi delle voci in epigrafe siano ‘nfromme e cunfromme; io non sono della medesima opinione atteso che il significato esatto dei cennati nfromme e cunfromme non è nel mentre, quanto appena che e cosí come, appunto come; ed in effetti l’avverbio cunfromme etimologicamente deriva dal toscano conforme(simile a) con metatesi e raddoppiamento espressivo popolare della m, mentre ‘nfromme (appena, quando) non è che il medesimo cunfromme con procope della sillaba d’avvio.
brak
MA TU VIDE ‘NU POCO QUANT’ È BBELLO PARIGGE!
MA TU VIDE ‘NU POCO QUANT’ È BBELLO PARIGGE!
Icastica locuzione esclamativa che, tradotta ad litteram, pur sonando:
Ma guarda un po’ quanto è bello Parigi! non sostanzia un’espressione ammirativa nei confronti della capitale di Francia; al contrario, sull’abbrivio dell’enfatico attacco (ma tu vide ‘nu poco = ma guarda un po’ ),prodromico di un moto di rabbia o fastidio, è da leggersi in senso antifrastico: Ma guarda un po’ quale brutto guaio (mi doveva capitare)! L’espressione è usata a Napoli a dispiaciuto o rabbioso commento di tutti i guai o accadimenti importuni, se non grandemente lesivi, che dovessero occorrere; il guaio originario cui si riferisce l’espressione, guaio adombrato sotto il nome di Parigi, è la lue o sifilide(malattia infettiva a decorso cronico intermittente, trasmessa per via sessuale, provocata da una spirocheta che causa varie lesioni nell'organismo, in particolare, nell'ultima fase, a danno del sistema nervoso: sifilide acquisita, congenita); tale affezione è nascosta – nel parlato partenopeo - sotto il nome di Parigi (di cui in senso ironico ed antifrastico si esalta la bellezza!) o, altrove, con l’espressione andare o stare in Francia (rammenterò al proposito una divertente battuta dall’evidente doppio senso pronunciata da Totò/falso principe nella trasposizione cinematografica della commedia di E. Scarpetta Miseria e nobiltà “Di’ tu, fratello quante volte siamo stati in Francia!...”, perché a Napoli si ritenne che il morbo (detto comunemente: mal francese o morbo gallico) fosse stato portato e propagato ( nel 1494 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti.Solo il Cielo conosce la verità!
bbello letteralmente: bello, ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico, ma nell’accezione della locuzione in epigrafe da intendersi in senso antifrastico: brutto, spregevole, dannoso; quanto all’etimo la voce a margine è un derivato del lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono';
lue = sifilide (fig. lett.) vizio, corruzione;dal lat. lue(m) 'imputridimento, decomposizione', prob. connesso con il gr. lyein 'sciogliere, dissolvere';
sifilide dal lat. scient. Syphilis -idis, deriv. di Syphilus, nome del protagonista del poemetto latino di G. Fracastoro "Syphilis, sive de morbo gallico" (1530)
Raffaele Bracale
Icastica locuzione esclamativa che, tradotta ad litteram, pur sonando:
Ma guarda un po’ quanto è bello Parigi! non sostanzia un’espressione ammirativa nei confronti della capitale di Francia; al contrario, sull’abbrivio dell’enfatico attacco (ma tu vide ‘nu poco = ma guarda un po’ ),prodromico di un moto di rabbia o fastidio, è da leggersi in senso antifrastico: Ma guarda un po’ quale brutto guaio (mi doveva capitare)! L’espressione è usata a Napoli a dispiaciuto o rabbioso commento di tutti i guai o accadimenti importuni, se non grandemente lesivi, che dovessero occorrere; il guaio originario cui si riferisce l’espressione, guaio adombrato sotto il nome di Parigi, è la lue o sifilide(malattia infettiva a decorso cronico intermittente, trasmessa per via sessuale, provocata da una spirocheta che causa varie lesioni nell'organismo, in particolare, nell'ultima fase, a danno del sistema nervoso: sifilide acquisita, congenita); tale affezione è nascosta – nel parlato partenopeo - sotto il nome di Parigi (di cui in senso ironico ed antifrastico si esalta la bellezza!) o, altrove, con l’espressione andare o stare in Francia (rammenterò al proposito una divertente battuta dall’evidente doppio senso pronunciata da Totò/falso principe nella trasposizione cinematografica della commedia di E. Scarpetta Miseria e nobiltà “Di’ tu, fratello quante volte siamo stati in Francia!...”, perché a Napoli si ritenne che il morbo (detto comunemente: mal francese o morbo gallico) fosse stato portato e propagato ( nel 1494 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti.Solo il Cielo conosce la verità!
bbello letteralmente: bello, ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico, ma nell’accezione della locuzione in epigrafe da intendersi in senso antifrastico: brutto, spregevole, dannoso; quanto all’etimo la voce a margine è un derivato del lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono';
lue = sifilide (fig. lett.) vizio, corruzione;dal lat. lue(m) 'imputridimento, decomposizione', prob. connesso con il gr. lyein 'sciogliere, dissolvere';
sifilide dal lat. scient. Syphilis -idis, deriv. di Syphilus, nome del protagonista del poemetto latino di G. Fracastoro "Syphilis, sive de morbo gallico" (1530)
Raffaele Bracale
PANCIA
PANCIA
Per il vero, non v’à molto da dire circa il termine in epigrafe, termine che in italiano non à molti sinonimi, limitandosi questi ultimi a ventre ed al piú letterario ed antico epa; ugualmente il napoletano non à eccessivi sinonimi della voce di partenza che è appunto panza; le alternative napoletane a panza sono solo: bertula/vertula, pandòla, trippa, triobba/triòbbola/triòbbeca.
Esaminiamo comunque tutte le voci partendo da quelle italiane;
- pancia che à il suo corrispettivo dialettale in panza ed è forgiata sul latino pantice(m) indica essenzialmente il ventre, l’addome dell’uomo o della bestia, ed in senso figurato la parte centrale e tondeggiante di qualcosa: pancia del fiasco,pancia del vaso o ancora la forma tondeggiante di alcune lettere dell’alfabeto: la pancia della a, della p ;
- ventre parte cava del corpo dell'uomo o di un animale, contenente l'intestino, lo stomaco e altri visceri; anche, la parte esterna corrispondente; è forgiata sul latino ventre(m);
- epa antico e letterario modo di indicar la pancia con derivazione da un tardo lat. hípar, che è dal gr. hêpar 'fegato'
Liberatici cosí, sbrigativamente dell’ italiano, passiamo al napoletano cominciando da
- panza che. come facilmente si evince, è forgiata tal quale pancia sul latino pantice(m); e per la verità ancora si discute se la voce latina abbia prodotto dapprima quella partenopea che poi trasmigrando nell’italiano si sia addolcita passando da panza a pancia; a mio avviso è piú probabile che il gruppo latino ti di panticem abbia prodotto la napoletana z di panza e questa si sia addolcita nella ci di pancia, piuttosto che il contrario e cioè che pantice(m) abbia dapprima generato pancia e questa si sia corrotta in panza.
Questo precisato rammenterò alcune espressioni napoletane che si legano alla voce panza:
- panza chiena e panza vacante id est: pancia piena e pancia vuota usate per indicare alternativamente chi sia satollo di cibo per aver mangiato a sufficienza, se non abbondantemente e, al contrario, chi digiuno abbia lo stomaco vuoto e sia perciò in preda ai morsi della fame; chiena agg. femm. di chino/chieno = pieno è dal latino plenu(m) con normale passaggio di pl>chi come in plaga>chiaia, plica>chieja; vacante= vuoto,insulso,insipiente che è dall’acc. del p.pr. vacante(m) del latino vacare;
- panza ‘e vierme letteralmente pancia di vermi, per indicare il trippone colui che abbia una pancia grossa e prominente,come se questa fosse infestata da un gran numero di grossi vermi e cioè da quella tenia che è un genere di vermi platelminti, di forma vagamente nastriforme, comprendente numerose specie parassite dell'uomo e di animali domestici: tenia comune, la piú nota delle tenie, detta comunemente: verme solitario, Dal lat. taenia(m), dal gr. tainía, propr. 'benda, nastro';
- grattarse ‘a panza o starsene cu ‘e mmane ‘ncopp’ â panza grattarsi la pancia o starsene con le mani sulla pancia, id est: stare senza far nulla, oziare, poltrire; grattare/rse o anche rattà/arse etimologicamente dal francone kratton; cfr. il ted. kratzen grattare;
- abbuffà o ‘nturzà ‘a panza letteralmente gonfiare o render turgida la pancia; id est: ingravidare qualcuna; etimologicamente il verbo abbuffà che è gonfiare risulta essere un denominale da collegarsi al sostantivo latino bufo (rospo) con normale raddoppiamento popolare della effe; di talché abbuffà indicherebbe il gonfiare/rsi cosí come un rospo; alla medesima stregua il verbo ‘nturzà sta per render gonfio anzi duro e turgido giusta la sua etimologia latina che è dal verbo intursare = render (duro e turgido) come un torso, denominale del basso tursus per il classico tyrsus (torso);
- tené ‘a panza ‘nnanze che letteralmente è: avere la pancia avanti e questa che parrebbe una sciocca ovvietà (… non si è mai vista una pancia umana che non sia ubicata sul davanti del corpo!) è invece un’espressione colorita usata nei confronti di una donna incinta da molti mesi di modo che la sua pancia risulti ormai ben piú turgida del normale e lieviti in alto verso la regione epigastrica ed è tale lievitazione che è resa furbescamente con l’ausilio dell’avverbio annanze che è dal lat. in + antea e letteralmente sta per davanti, ma qui (e solo qui!) – per estensione : verso l’alto;
- farsene ‘na panza o farsene ‘na panza tanta che è letteralmente: farsene una pancia oppure farsene una pancia tanto grande e cioè in ambedue i casi: farsene una scorpacciata, (deriv. di corpaccio, pegg. di corpo, nel sign. tosc. di ventre) - mangiarne ad iosa, abbondantemente ed ingordamente ; nella seconda espressione l’aggettivo tanta è accompagnato da un gesto indicante il lievitare ad libitum della pancia di colui che abbia mangiato tanto da sentirsene enfiati stomaco e/o pancia;
- metterse cu ‘a panza e cu ‘o penziero che è letteralmente: disporsi (a qualcosa) con la pancia ed il pensiero e cioè applicarsi (ad un’opera o progetto) con il corpo e con la mente, con solerzia ed attenzione;
- mettere panza = metter pancia cosa molto diversa dall’espressione precedente; questa a margine molto piú prosaicamente attiene all’osservazione di chi (in ispecie uomo ) per l’eccessivo nutrirsi e il non dedicarsi ad attività motoria veda accrescere la propria pancia a dismisura;
-ommo ‘e panza = uomo di pancia è essenzialmente voce gergale malavitosa, pervenuta nel napoletano mutuandola dal gergo malavitoso siciliano, ed è usata per indicare in Sicilia il mafioso, qui il camorrista che però sappia mantenere un segreto o rispettare rigorosamente i codici malavitosi, una persona insomma di cui potersi assolutamente fidare aduso com’è a tenere tutto serrato nella pancia;
- tené ‘a panza azzeccata cu ‘e rine = letteralmente aver la pancia incollata alla schiena; iperbolica espressione usata per indicare chi sia cosí tanto magro o affamato da aver la pancia addirittura vuota di intestini e perciò intimamente unita alla schiena; azzeccata p.p. femm. del verbo azzeccà che come significato primo à: colpire nel segno, centrare, indovinare (ed in tal senso è dal tedesco zeken= menare un colpo), ma qui signica unire strettamente, incollare, attaccare (e questa accezione sembra sia da collegarsi all’arabo zêg).rine=i reni, ma qui la schiena, la parte del busto che insiste sui reni; dall’ acc. latino rene(m); da notare la metafonia tra il singolare ‘o rene ed il plur. ‘e rine;
- nun tené né panza, né stentine: non aver pancia né intestini. Iperbolica espressione con la quale in senso letterale si suole indicare chi è cosí magro da poterlo ritener privo di pancia ed addirittura di pacco intestinale; nella valenza traslata l'espressione si attaglia invece a tutti i vigliacchi,a tutti coloro che son privi di coraggio .stentine = intestini e come questa parola derivante dal latino intestinu(m), deriv. dell'avv. intus 'dentro, nel napoletano stentino si avverte una forma metatetica.
Esaurita la fraseologia con la voce panza, dedichiamoci all’illustrazione dei suoi sinonimi cominciando da
- bertula/vertula: il significato primo di vertula o bertula (è normale nel napoletano l’alternanza v/b cfr. varca/barca – vocca/bocca etc. ) è bisaccia di pelle; questa bisaccia quando sia riempita si gonfia assumendo una forma tondeggiante simile ad un dipresso ad una pancia gonfia; rammenterò che la vertula (etimologicamente dal basso latino averta = bisaccia) fu usata, corredata da lunghi manici con i quali era possibile farla roteare, dai pastori quale arma di difesa/offesa contro i predatori (uomini o bestie) che assalissero le greggi; da tale uso improprio, ma efficace, si trasse il termine vertulina= grande bastonatura inferta originariamente con la vertula e poi con altri mezzi contundenti; a margine di quanto detto rammenterò che in napoletano la parola vèrtula, usata al plurale ‘e vèrtule, sta ad indicare, in senso furbesco e giocoso i seni grossi e cadenti di una donna anziana;
pandòla: letteralmente ed in primis mandòla, poi estensivamente pancia, tenendo presente la forma della cassa armonica della mandòla prominente e convessa cosí come la pancia; la voce pandòla che si ritrova anche come pandòra o pandúra, quantunque sia pervenuta al napoletano dal latino pandura mutuato a sua volta da un tardo greco pandoýra, pare che sia voce di origine assira indicante appunto uno strumento musicale simile alla mandòla, quantunque non ligneo, bensí di rame, a tre corde, simile ad un liuto;una divertente curiosità è che nel napoletano il termine pandòla è usato per indicare – come ò detto – la prominenza anteriore del corpo umano (pancia) sia maschile che femminile, mentre la prominenza posteriore (sedere,) del corpo umano, specialmente femminile è indicata in napoletano (accanto ad altri termini pur essi musicali, quali chitarrino), col termine pandulino (mandolino) diminutivo maschilizzato della pregressa pandòla, usato tenendo appunto presente la forma similare del mandolino con talune aggraziate rotondità posteriori femminili;
- trippa
la voce a margine che appartiene anche alla lingua nazionale, sebbene piú spesso, in forma plurale: le trippe, indica lo stomaco (omaso, abomaso e rumine) e gli intestini delle grosse bestie bovine macellate; come già illustrai altrove in napoletano la trippa è voce che oltre ad indicare lo stomaco di bovino macellato, stomaco che, ridotto in strisce sottili e preparato in vari modi, costituisce una vivanda tradizionale di tutta la cucina italiana: trippa e patate; trippa alla romana, alla fiorentina, a Napoli: ‘a mariscialla (gustosa zuppa(vedi alibi) di brodo e frattraglie lessate), indica con linguaggio familiare o scherzoso la pancia, il ventre di una persona; per ciò che attiene l’etimologia della parola, non v’è identità di vedute; taluno si trincera dietro un pilatesco etimo incerto,qualche altro propende, ma senza convincermi per una culla araba: tarb= omento; piú perseguibile mi appare la strada che la fa derivare, specialmente nel significato di pancia, ventre, da un ant. tedesco treiben= porto innanzi;
triobba e le derivate triòbbola e triòbbeca: con la voce a margine si torna alle similitudini musicali o dei mezzi di asporto; in effetti la voce triobba risulta essere forma metatica con raddoppiamento consonantico popolare di tiorba che, con derivazione dal turco torba (bisaccia), indicò dapprima un sacco da viaggio, ed in seguito il colascione (uno strumento musicale in tutto simile ad un liuto a 10 corde (etimologicamente nel napoletano dallo spagnolo colachón che è dal greco: kalatos=paniere) strumento un po’ differente dal primitivo colascione che aveva solo due o tre corde; questo a dieci corde, detta tiorba fu suonato con l’ausilio di una grossa penna tonda di cuoio detta taccone e s’ebbe la rinomata tiorba a taccone , strumento musicale d’accompagnamento, quasi antesignano del basso; rammenterò che la tiorba a taccone fu il titolo di una raccolta di sonetti e canzoni in dialetto napoletano che venne per la prima volta pubblicata, vivente l'autore Filippo Sgruttendio de Scafate (pseudonimo di un prolifico, ma non mai esattamente identificato poeta partenopeo, sui cui scrissero B.Croce, F. Russo ,F. Nicolini e molti altri) nel 1646.
Alla forma della cassa armonica della tiorba fu paragonata quella di una pancia prominente che divenne (per metatesi e raddoppiamento ) triobba e poi con il suffisso diminutivo latino (olus/ola) triòbbola, donde per corruzione della lingua parlata triòbbeca; sia triobba che triòbbola o triòbbeca furono usati per significare una pancia, segnatamente maschile eccessivamente gonfia o prominente.
Raffaele Bracale
Per il vero, non v’à molto da dire circa il termine in epigrafe, termine che in italiano non à molti sinonimi, limitandosi questi ultimi a ventre ed al piú letterario ed antico epa; ugualmente il napoletano non à eccessivi sinonimi della voce di partenza che è appunto panza; le alternative napoletane a panza sono solo: bertula/vertula, pandòla, trippa, triobba/triòbbola/triòbbeca.
Esaminiamo comunque tutte le voci partendo da quelle italiane;
- pancia che à il suo corrispettivo dialettale in panza ed è forgiata sul latino pantice(m) indica essenzialmente il ventre, l’addome dell’uomo o della bestia, ed in senso figurato la parte centrale e tondeggiante di qualcosa: pancia del fiasco,pancia del vaso o ancora la forma tondeggiante di alcune lettere dell’alfabeto: la pancia della a, della p ;
- ventre parte cava del corpo dell'uomo o di un animale, contenente l'intestino, lo stomaco e altri visceri; anche, la parte esterna corrispondente; è forgiata sul latino ventre(m);
- epa antico e letterario modo di indicar la pancia con derivazione da un tardo lat. hípar, che è dal gr. hêpar 'fegato'
Liberatici cosí, sbrigativamente dell’ italiano, passiamo al napoletano cominciando da
- panza che. come facilmente si evince, è forgiata tal quale pancia sul latino pantice(m); e per la verità ancora si discute se la voce latina abbia prodotto dapprima quella partenopea che poi trasmigrando nell’italiano si sia addolcita passando da panza a pancia; a mio avviso è piú probabile che il gruppo latino ti di panticem abbia prodotto la napoletana z di panza e questa si sia addolcita nella ci di pancia, piuttosto che il contrario e cioè che pantice(m) abbia dapprima generato pancia e questa si sia corrotta in panza.
Questo precisato rammenterò alcune espressioni napoletane che si legano alla voce panza:
- panza chiena e panza vacante id est: pancia piena e pancia vuota usate per indicare alternativamente chi sia satollo di cibo per aver mangiato a sufficienza, se non abbondantemente e, al contrario, chi digiuno abbia lo stomaco vuoto e sia perciò in preda ai morsi della fame; chiena agg. femm. di chino/chieno = pieno è dal latino plenu(m) con normale passaggio di pl>chi come in plaga>chiaia, plica>chieja; vacante= vuoto,insulso,insipiente che è dall’acc. del p.pr. vacante(m) del latino vacare;
- panza ‘e vierme letteralmente pancia di vermi, per indicare il trippone colui che abbia una pancia grossa e prominente,come se questa fosse infestata da un gran numero di grossi vermi e cioè da quella tenia che è un genere di vermi platelminti, di forma vagamente nastriforme, comprendente numerose specie parassite dell'uomo e di animali domestici: tenia comune, la piú nota delle tenie, detta comunemente: verme solitario, Dal lat. taenia(m), dal gr. tainía, propr. 'benda, nastro';
- grattarse ‘a panza o starsene cu ‘e mmane ‘ncopp’ â panza grattarsi la pancia o starsene con le mani sulla pancia, id est: stare senza far nulla, oziare, poltrire; grattare/rse o anche rattà/arse etimologicamente dal francone kratton; cfr. il ted. kratzen grattare;
- abbuffà o ‘nturzà ‘a panza letteralmente gonfiare o render turgida la pancia; id est: ingravidare qualcuna; etimologicamente il verbo abbuffà che è gonfiare risulta essere un denominale da collegarsi al sostantivo latino bufo (rospo) con normale raddoppiamento popolare della effe; di talché abbuffà indicherebbe il gonfiare/rsi cosí come un rospo; alla medesima stregua il verbo ‘nturzà sta per render gonfio anzi duro e turgido giusta la sua etimologia latina che è dal verbo intursare = render (duro e turgido) come un torso, denominale del basso tursus per il classico tyrsus (torso);
- tené ‘a panza ‘nnanze che letteralmente è: avere la pancia avanti e questa che parrebbe una sciocca ovvietà (… non si è mai vista una pancia umana che non sia ubicata sul davanti del corpo!) è invece un’espressione colorita usata nei confronti di una donna incinta da molti mesi di modo che la sua pancia risulti ormai ben piú turgida del normale e lieviti in alto verso la regione epigastrica ed è tale lievitazione che è resa furbescamente con l’ausilio dell’avverbio annanze che è dal lat. in + antea e letteralmente sta per davanti, ma qui (e solo qui!) – per estensione : verso l’alto;
- farsene ‘na panza o farsene ‘na panza tanta che è letteralmente: farsene una pancia oppure farsene una pancia tanto grande e cioè in ambedue i casi: farsene una scorpacciata, (deriv. di corpaccio, pegg. di corpo, nel sign. tosc. di ventre) - mangiarne ad iosa, abbondantemente ed ingordamente ; nella seconda espressione l’aggettivo tanta è accompagnato da un gesto indicante il lievitare ad libitum della pancia di colui che abbia mangiato tanto da sentirsene enfiati stomaco e/o pancia;
- metterse cu ‘a panza e cu ‘o penziero che è letteralmente: disporsi (a qualcosa) con la pancia ed il pensiero e cioè applicarsi (ad un’opera o progetto) con il corpo e con la mente, con solerzia ed attenzione;
- mettere panza = metter pancia cosa molto diversa dall’espressione precedente; questa a margine molto piú prosaicamente attiene all’osservazione di chi (in ispecie uomo ) per l’eccessivo nutrirsi e il non dedicarsi ad attività motoria veda accrescere la propria pancia a dismisura;
-ommo ‘e panza = uomo di pancia è essenzialmente voce gergale malavitosa, pervenuta nel napoletano mutuandola dal gergo malavitoso siciliano, ed è usata per indicare in Sicilia il mafioso, qui il camorrista che però sappia mantenere un segreto o rispettare rigorosamente i codici malavitosi, una persona insomma di cui potersi assolutamente fidare aduso com’è a tenere tutto serrato nella pancia;
- tené ‘a panza azzeccata cu ‘e rine = letteralmente aver la pancia incollata alla schiena; iperbolica espressione usata per indicare chi sia cosí tanto magro o affamato da aver la pancia addirittura vuota di intestini e perciò intimamente unita alla schiena; azzeccata p.p. femm. del verbo azzeccà che come significato primo à: colpire nel segno, centrare, indovinare (ed in tal senso è dal tedesco zeken= menare un colpo), ma qui signica unire strettamente, incollare, attaccare (e questa accezione sembra sia da collegarsi all’arabo zêg).rine=i reni, ma qui la schiena, la parte del busto che insiste sui reni; dall’ acc. latino rene(m); da notare la metafonia tra il singolare ‘o rene ed il plur. ‘e rine;
- nun tené né panza, né stentine: non aver pancia né intestini. Iperbolica espressione con la quale in senso letterale si suole indicare chi è cosí magro da poterlo ritener privo di pancia ed addirittura di pacco intestinale; nella valenza traslata l'espressione si attaglia invece a tutti i vigliacchi,a tutti coloro che son privi di coraggio .stentine = intestini e come questa parola derivante dal latino intestinu(m), deriv. dell'avv. intus 'dentro, nel napoletano stentino si avverte una forma metatetica.
Esaurita la fraseologia con la voce panza, dedichiamoci all’illustrazione dei suoi sinonimi cominciando da
- bertula/vertula: il significato primo di vertula o bertula (è normale nel napoletano l’alternanza v/b cfr. varca/barca – vocca/bocca etc. ) è bisaccia di pelle; questa bisaccia quando sia riempita si gonfia assumendo una forma tondeggiante simile ad un dipresso ad una pancia gonfia; rammenterò che la vertula (etimologicamente dal basso latino averta = bisaccia) fu usata, corredata da lunghi manici con i quali era possibile farla roteare, dai pastori quale arma di difesa/offesa contro i predatori (uomini o bestie) che assalissero le greggi; da tale uso improprio, ma efficace, si trasse il termine vertulina= grande bastonatura inferta originariamente con la vertula e poi con altri mezzi contundenti; a margine di quanto detto rammenterò che in napoletano la parola vèrtula, usata al plurale ‘e vèrtule, sta ad indicare, in senso furbesco e giocoso i seni grossi e cadenti di una donna anziana;
pandòla: letteralmente ed in primis mandòla, poi estensivamente pancia, tenendo presente la forma della cassa armonica della mandòla prominente e convessa cosí come la pancia; la voce pandòla che si ritrova anche come pandòra o pandúra, quantunque sia pervenuta al napoletano dal latino pandura mutuato a sua volta da un tardo greco pandoýra, pare che sia voce di origine assira indicante appunto uno strumento musicale simile alla mandòla, quantunque non ligneo, bensí di rame, a tre corde, simile ad un liuto;una divertente curiosità è che nel napoletano il termine pandòla è usato per indicare – come ò detto – la prominenza anteriore del corpo umano (pancia) sia maschile che femminile, mentre la prominenza posteriore (sedere,) del corpo umano, specialmente femminile è indicata in napoletano (accanto ad altri termini pur essi musicali, quali chitarrino), col termine pandulino (mandolino) diminutivo maschilizzato della pregressa pandòla, usato tenendo appunto presente la forma similare del mandolino con talune aggraziate rotondità posteriori femminili;
- trippa
la voce a margine che appartiene anche alla lingua nazionale, sebbene piú spesso, in forma plurale: le trippe, indica lo stomaco (omaso, abomaso e rumine) e gli intestini delle grosse bestie bovine macellate; come già illustrai altrove in napoletano la trippa è voce che oltre ad indicare lo stomaco di bovino macellato, stomaco che, ridotto in strisce sottili e preparato in vari modi, costituisce una vivanda tradizionale di tutta la cucina italiana: trippa e patate; trippa alla romana, alla fiorentina, a Napoli: ‘a mariscialla (gustosa zuppa(vedi alibi) di brodo e frattraglie lessate), indica con linguaggio familiare o scherzoso la pancia, il ventre di una persona; per ciò che attiene l’etimologia della parola, non v’è identità di vedute; taluno si trincera dietro un pilatesco etimo incerto,qualche altro propende, ma senza convincermi per una culla araba: tarb= omento; piú perseguibile mi appare la strada che la fa derivare, specialmente nel significato di pancia, ventre, da un ant. tedesco treiben= porto innanzi;
triobba e le derivate triòbbola e triòbbeca: con la voce a margine si torna alle similitudini musicali o dei mezzi di asporto; in effetti la voce triobba risulta essere forma metatica con raddoppiamento consonantico popolare di tiorba che, con derivazione dal turco torba (bisaccia), indicò dapprima un sacco da viaggio, ed in seguito il colascione (uno strumento musicale in tutto simile ad un liuto a 10 corde (etimologicamente nel napoletano dallo spagnolo colachón che è dal greco: kalatos=paniere) strumento un po’ differente dal primitivo colascione che aveva solo due o tre corde; questo a dieci corde, detta tiorba fu suonato con l’ausilio di una grossa penna tonda di cuoio detta taccone e s’ebbe la rinomata tiorba a taccone , strumento musicale d’accompagnamento, quasi antesignano del basso; rammenterò che la tiorba a taccone fu il titolo di una raccolta di sonetti e canzoni in dialetto napoletano che venne per la prima volta pubblicata, vivente l'autore Filippo Sgruttendio de Scafate (pseudonimo di un prolifico, ma non mai esattamente identificato poeta partenopeo, sui cui scrissero B.Croce, F. Russo ,F. Nicolini e molti altri) nel 1646.
Alla forma della cassa armonica della tiorba fu paragonata quella di una pancia prominente che divenne (per metatesi e raddoppiamento ) triobba e poi con il suffisso diminutivo latino (olus/ola) triòbbola, donde per corruzione della lingua parlata triòbbeca; sia triobba che triòbbola o triòbbeca furono usati per significare una pancia, segnatamente maschile eccessivamente gonfia o prominente.
Raffaele Bracale
‘NTRALLAZZO
‘NTRALLAZZO
La voce in epigrafe, voce ormai pervenuta nella lingua nazionale (sia pure non aferizzata, ma nella forma di intrallazzo) con particolare riferimento d’ambito socio-politico, è voce non eccessivamente antica (risale infatti agli anni tra il 1940 ed il 1950)ed è di origine centro- meridionale: Abruzzo, Campania, Silicia; attualmente significa: imbroglio, raggiro, intrigo, ma originariamente stette per: scambio illecito di beni o di favori e con le voci: ‘nderlacce (abruzzese), ‘ntrallazzu (siciliano) e appunto ‘ntrallazzo o anche ‘nterlazzo (napoletano) si identificò dapprima il mercato o borsa nera e solo per stensione
l’ imbroglio, il raggiro,l’intrigo dapprima quelli generici, poi segnatamente – complice il linguaggio mediatico – quelli d’ambito socio-politico.
Di non tranquilla lettura l’etimologia della voce a margine;
dai piú si pensa ch’essa derivi dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', a sua volta deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio', ma – pur non potendo negare un’ evidente somiglianza tra il siciliano 'ntrallazzu ed il napoletano ‘ntrallazzo penso che per il partenopeo, piú che ad un prestito siciliano, si possa risalire ad un antico tramite catalano: entralasar o anche un antico francese: entralacer ; sia il verbo catalano che quello francese furono forgiati sul precennato lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio'e valsero: impaniare, intralciare, avviluppare donde il significato di azione che si manifesti in un imbroglio, raggiro,’intrigo; va da sé che il mercato/borsa nera configuri il medesimo imbroglio, raggiro,’intrigo.
A questo punto non ci resta che discutere se sia stato il napoletano o il siciliano a cedere alla lingua nazionale il vocabolo in esame; ma sarebbe questione di lana caprina nella quale è inutile e pericoloso addentrarsi ed io evito di entrarvi.
In coda ed a margine di quanto detto sulla voce ‘ntrallazzo, rammenterò che essa (sebbene ciò talvolta – per mano di taluni operatori dei media, poco preparati-, accada) non va confusa con la voce partenopea nciucio che à dato l’italiano inciucio e vale intrigo, sobillamento, pettegolezzo ed in ambito politico-giornalistico: accordo confabulatorio non lineare, frutto di basso compromesso.
La voce nciucio risulta essere, etimologicamente un deverbale di nciucià a sua volta derivata da un suono onomatopeico (ciuciú)riproducente il parlottío tipico di chi confabuli.
Partendo da tale premessa ne risulta che la n d’avvio di nciucio e nciucià risulta essere non derivante da un in illativo, ma una semplice consonante prostetica eufonica (come ad. es. è il caso di nc’è per c’è) ; erra perciò chi scrive ‘nciucio o ’nciucià con un pletorico ed inutile segno d’aferesi (‘); è l’italiano che à derivato (seppure in modo cialtronescamente raffazzonato, avendo pensato la n d’avvio, un residuo di in( che è stato erroneamente ricostruito) ) inciucio dal napoletano nciucià, non il napoletano nciucio ad esser derivato dall’ inciucio italiano (nel qual caso sarebbe stato opportuno e l’aferesi e la scrittura ‘nciucio).
Raffaele Bracale
La voce in epigrafe, voce ormai pervenuta nella lingua nazionale (sia pure non aferizzata, ma nella forma di intrallazzo) con particolare riferimento d’ambito socio-politico, è voce non eccessivamente antica (risale infatti agli anni tra il 1940 ed il 1950)ed è di origine centro- meridionale: Abruzzo, Campania, Silicia; attualmente significa: imbroglio, raggiro, intrigo, ma originariamente stette per: scambio illecito di beni o di favori e con le voci: ‘nderlacce (abruzzese), ‘ntrallazzu (siciliano) e appunto ‘ntrallazzo o anche ‘nterlazzo (napoletano) si identificò dapprima il mercato o borsa nera e solo per stensione
l’ imbroglio, il raggiro,l’intrigo dapprima quelli generici, poi segnatamente – complice il linguaggio mediatico – quelli d’ambito socio-politico.
Di non tranquilla lettura l’etimologia della voce a margine;
dai piú si pensa ch’essa derivi dal sicil. 'ntrallazzu 'intreccio, intrigo', a sua volta deriv. del lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio', ma – pur non potendo negare un’ evidente somiglianza tra il siciliano 'ntrallazzu ed il napoletano ‘ntrallazzo penso che per il partenopeo, piú che ad un prestito siciliano, si possa risalire ad un antico tramite catalano: entralasar o anche un antico francese: entralacer ; sia il verbo catalano che quello francese furono forgiati sul precennato lat. volg. *interlaceare, comp. di intra 'tra' e laqueus 'laccio'e valsero: impaniare, intralciare, avviluppare donde il significato di azione che si manifesti in un imbroglio, raggiro,’intrigo; va da sé che il mercato/borsa nera configuri il medesimo imbroglio, raggiro,’intrigo.
A questo punto non ci resta che discutere se sia stato il napoletano o il siciliano a cedere alla lingua nazionale il vocabolo in esame; ma sarebbe questione di lana caprina nella quale è inutile e pericoloso addentrarsi ed io evito di entrarvi.
In coda ed a margine di quanto detto sulla voce ‘ntrallazzo, rammenterò che essa (sebbene ciò talvolta – per mano di taluni operatori dei media, poco preparati-, accada) non va confusa con la voce partenopea nciucio che à dato l’italiano inciucio e vale intrigo, sobillamento, pettegolezzo ed in ambito politico-giornalistico: accordo confabulatorio non lineare, frutto di basso compromesso.
La voce nciucio risulta essere, etimologicamente un deverbale di nciucià a sua volta derivata da un suono onomatopeico (ciuciú)riproducente il parlottío tipico di chi confabuli.
Partendo da tale premessa ne risulta che la n d’avvio di nciucio e nciucià risulta essere non derivante da un in illativo, ma una semplice consonante prostetica eufonica (come ad. es. è il caso di nc’è per c’è) ; erra perciò chi scrive ‘nciucio o ’nciucià con un pletorico ed inutile segno d’aferesi (‘); è l’italiano che à derivato (seppure in modo cialtronescamente raffazzonato, avendo pensato la n d’avvio, un residuo di in( che è stato erroneamente ricostruito) ) inciucio dal napoletano nciucià, non il napoletano nciucio ad esser derivato dall’ inciucio italiano (nel qual caso sarebbe stato opportuno e l’aferesi e la scrittura ‘nciucio).
Raffaele Bracale
MANNAGGIA Ô SURICILLO E PPEZZA ‘NFOSA.
MANNAGGIA Ô SURICILLO E PPEZZA ‘NFOSA.
Letteralmente: mannaggia al topolino ed (allo) straccio bagnato.
Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra piú triviale.
Varie le interpretazioni della locuzione in ispecie nei confronti del topolino fatto oggetto di maledizione
Esamino qui di seguito le varie interpretazioni e per ultima segnalo la mia.
1 – (avv. Renato de Falco) L’illustre amico e scrittore di cose napoletane reputa che il suricillo in epigrafe altro non sia che il frustolo d’epitelio secco che si produceva in ispecie sulle braccia e sulle gambe allorché le si lavavano soffregandole non con una spugna, ma con uno straccetto bagnato. È vero, da ragazzi usavamo dare il nome di suricillo a quei frustoli d’epitelio divelti con il soffregamento dello straccio madido d’acqua.Ma il dotto amico de Falco, per far passare per buona la sua idea è costretto a leggere la e dell’epigrafe non come congiunzione ma come aferesi di de e leggere ‘e pezza ‘nfosa pronunciando in maniera scempia la p di pezza, laddove il proverbio raccolto dalla viva voce della gente suona: mannaggia ‘o suricillo e ppezza ‘nfosa ed è chiara la geminazione iniziale della p di pezza e il significato di congiunzione della e.Per cui, a malgrado dell’amicizia e della stima che nutro per l’avvocato de Falco, non posso addivenire alla sua idea.
2 –(prof. Francesco D’Ascoli)Il vecchio professore, passato oramai nel mondo dei piú, nel suo per altro informato LA FILOSOFIA POPOLARE NAPOLETANA, sbriga la faccenda, ravvisando nel suricillo i pezzetti di panno che si staccavano assumendo la forma del musculus, dallo straccio per lavare a terra;l’idea non è percorribile stante anche per D’Ascoli la medesima lettura impropria della locuzione che ne fa il de Falco leggendo la E come aferesi di de e non come congiunzione.
3 – (dr. Sergio Zazzera)L’ altrove ottimo dr. Zazzera, qui s’incarta alquanto e propone un improbabile sorcio alle prese con un orcio di olio dal quale sia saltato via uno stoppaccio umido (d’olio? di acqua? Zazzera non lo spiega.
A questo punto reputo che potrebbe essere piú veritiera l’interpretazione che mi fu data temporibus illis dalla mia nonna materna che asserí che la locuzione conglobava una imprecazione rivolta ad un sorcetto introdottosi in una casa ed un suggerimento dato agli abitanti di detta casa quello cioè di introdurre sotto le fessure delle porte uno straccio bagnato per modo che al topo fossero precluse le vie di fuga e lo si potesse catturare.Volendo dire: È entrato il topino?Non c’è problema! Ce ne possiamo liberare:lo catturiamo, ma prima, affinchè non ci sfugga, turiamo con uno straccio bagnato (affinché aderisca bene a pavimento e margini) ogni fessura e procediamo alla cattura!
Ma poi che fino a che non ci si sente soddisfatti, è buona norma continuare ad investigare, continuando nell’investigazione, mi pare di poter affermare che la nonna avesse dato una casta spiegazione a dei vocaboli (e perciò a tutta l’espressione) per non inquietare la fantasia di un piccolo adolescente(quando la nonna me ne parlò avevo circa dieci anni...) .
Infatti alla luce di ulteriori indagini ed al supporto di altre menti di appassionati studiosi di cose napoletane mi pare si possa accogliere la tesi del prof. A. Messina che vede nel suricillo – per il tramite di uno *xurikilla (registrato in CIL(Corpus Inscriptionum Latinarum) IV, 8380) tardo latino usato in luogo del piú classico mentula – il membro maschile...
L’amico prof. Carlo Iandolo illustre scrittore di cose partenopee, poi in una sua dotta lettera mi fa notare che nella passata parlata napoletana le pezze piú note erano – accanto a quelle che significavano il danaro - quelle che le donne portavano nel loro corredo, e che usavano per i loro bisogni fisiologici di ogni volger di luna.
Ecco dunque che , messa da parte la casta spiegazione data dalla nonna, mi pare si possa addivenire a ritenere che l’innocente imprecazione con la quale si è soliti commentare piccolissimi inconvenienti ai quali non occorra dare faticose soluzioni, sia sgorgata sulle labbra di una donna trovatasi davanti alla improcrastinabile richiesta di favori, da parte del suo uomo (...pronto alla tenzone...) e gli abbia dovuto opporre che non era… il tempo adatto, giacché sebbene ‘o suricillo fosse inastato, ‘a pezza ...era ‘nfosa e dunque l’accesso vietato!
In chiusura mi piace far notare come talora nell’espressioni napoletane vengono richiamati nomi e/o argomenti desunti dall’ambito sessuale e ciò persino in filastrocche destinate ai bambini, ai quali ovviamente non viene chiarito l’eventuale significato nascosto, obbligandoli quasi a prender per buone soltanto le parole usate nei riferimenti e significati piú chiari e palesi; è il caso ad es. della famosimma
Sega sega mastu Ciccio
ddoje panelle e ‘nu saciccio;
‘o saciccio ce ‘o mangiammo
e ‘e ppanelle ce ‘astipammo! filastrocca nella quale è palesemente adombrato l’atto sessuale del coito con il riferimento osceno al saciccio (pène) che viene consumato súbito (nel breve lasso di tempo dell’atto sessuale) mentre ‘e ppanelle (i testicoli) vengono... tenuti fuori e perciò conservati per altra occasione.
Raffaele Bracale.
Letteralmente: mannaggia al topolino ed (allo) straccio bagnato.
Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra piú triviale.
Varie le interpretazioni della locuzione in ispecie nei confronti del topolino fatto oggetto di maledizione
Esamino qui di seguito le varie interpretazioni e per ultima segnalo la mia.
1 – (avv. Renato de Falco) L’illustre amico e scrittore di cose napoletane reputa che il suricillo in epigrafe altro non sia che il frustolo d’epitelio secco che si produceva in ispecie sulle braccia e sulle gambe allorché le si lavavano soffregandole non con una spugna, ma con uno straccetto bagnato. È vero, da ragazzi usavamo dare il nome di suricillo a quei frustoli d’epitelio divelti con il soffregamento dello straccio madido d’acqua.Ma il dotto amico de Falco, per far passare per buona la sua idea è costretto a leggere la e dell’epigrafe non come congiunzione ma come aferesi di de e leggere ‘e pezza ‘nfosa pronunciando in maniera scempia la p di pezza, laddove il proverbio raccolto dalla viva voce della gente suona: mannaggia ‘o suricillo e ppezza ‘nfosa ed è chiara la geminazione iniziale della p di pezza e il significato di congiunzione della e.Per cui, a malgrado dell’amicizia e della stima che nutro per l’avvocato de Falco, non posso addivenire alla sua idea.
2 –(prof. Francesco D’Ascoli)Il vecchio professore, passato oramai nel mondo dei piú, nel suo per altro informato LA FILOSOFIA POPOLARE NAPOLETANA, sbriga la faccenda, ravvisando nel suricillo i pezzetti di panno che si staccavano assumendo la forma del musculus, dallo straccio per lavare a terra;l’idea non è percorribile stante anche per D’Ascoli la medesima lettura impropria della locuzione che ne fa il de Falco leggendo la E come aferesi di de e non come congiunzione.
3 – (dr. Sergio Zazzera)L’ altrove ottimo dr. Zazzera, qui s’incarta alquanto e propone un improbabile sorcio alle prese con un orcio di olio dal quale sia saltato via uno stoppaccio umido (d’olio? di acqua? Zazzera non lo spiega.
A questo punto reputo che potrebbe essere piú veritiera l’interpretazione che mi fu data temporibus illis dalla mia nonna materna che asserí che la locuzione conglobava una imprecazione rivolta ad un sorcetto introdottosi in una casa ed un suggerimento dato agli abitanti di detta casa quello cioè di introdurre sotto le fessure delle porte uno straccio bagnato per modo che al topo fossero precluse le vie di fuga e lo si potesse catturare.Volendo dire: È entrato il topino?Non c’è problema! Ce ne possiamo liberare:lo catturiamo, ma prima, affinchè non ci sfugga, turiamo con uno straccio bagnato (affinché aderisca bene a pavimento e margini) ogni fessura e procediamo alla cattura!
Ma poi che fino a che non ci si sente soddisfatti, è buona norma continuare ad investigare, continuando nell’investigazione, mi pare di poter affermare che la nonna avesse dato una casta spiegazione a dei vocaboli (e perciò a tutta l’espressione) per non inquietare la fantasia di un piccolo adolescente(quando la nonna me ne parlò avevo circa dieci anni...) .
Infatti alla luce di ulteriori indagini ed al supporto di altre menti di appassionati studiosi di cose napoletane mi pare si possa accogliere la tesi del prof. A. Messina che vede nel suricillo – per il tramite di uno *xurikilla (registrato in CIL(Corpus Inscriptionum Latinarum) IV, 8380) tardo latino usato in luogo del piú classico mentula – il membro maschile...
L’amico prof. Carlo Iandolo illustre scrittore di cose partenopee, poi in una sua dotta lettera mi fa notare che nella passata parlata napoletana le pezze piú note erano – accanto a quelle che significavano il danaro - quelle che le donne portavano nel loro corredo, e che usavano per i loro bisogni fisiologici di ogni volger di luna.
Ecco dunque che , messa da parte la casta spiegazione data dalla nonna, mi pare si possa addivenire a ritenere che l’innocente imprecazione con la quale si è soliti commentare piccolissimi inconvenienti ai quali non occorra dare faticose soluzioni, sia sgorgata sulle labbra di una donna trovatasi davanti alla improcrastinabile richiesta di favori, da parte del suo uomo (...pronto alla tenzone...) e gli abbia dovuto opporre che non era… il tempo adatto, giacché sebbene ‘o suricillo fosse inastato, ‘a pezza ...era ‘nfosa e dunque l’accesso vietato!
In chiusura mi piace far notare come talora nell’espressioni napoletane vengono richiamati nomi e/o argomenti desunti dall’ambito sessuale e ciò persino in filastrocche destinate ai bambini, ai quali ovviamente non viene chiarito l’eventuale significato nascosto, obbligandoli quasi a prender per buone soltanto le parole usate nei riferimenti e significati piú chiari e palesi; è il caso ad es. della famosimma
Sega sega mastu Ciccio
ddoje panelle e ‘nu saciccio;
‘o saciccio ce ‘o mangiammo
e ‘e ppanelle ce ‘astipammo! filastrocca nella quale è palesemente adombrato l’atto sessuale del coito con il riferimento osceno al saciccio (pène) che viene consumato súbito (nel breve lasso di tempo dell’atto sessuale) mentre ‘e ppanelle (i testicoli) vengono... tenuti fuori e perciò conservati per altra occasione.
Raffaele Bracale.
lunedì 29 settembre 2008
PATANE Â ‘NZALATA
PATANE Â ‘NZALATA
dosi per 4 persone
1 kg. di patate vecchie a pasta bianca
1 fascio di cipolline novelle
1 spicchio d’aglio senza camicia tritato finissimo
1 tazzina d’aceto bianco
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.
1 limone (succo)
1 cucchiaio d’origano secco
sale (possibilmente alle erbe) grosso un pugno + 2 prese
procedimento
Porre in acqua fredda salata con un pugno di sale grosso alle erbette, le patate, alzare i fuochi e portare a bollore l’acqua e lessar le patate per circa 15’ dal bollore dell’acqua; prelevarle ed ancora calde pelarle, indi rigorosamente spezzettarle grossolanamente a mano (senza ausilio di coltello); tale fase è importantissima: le patate spezzettate a mano, risultando frastagliate accoglieranno meglio il condimento, meglio che se fossero tagliate a fette con un coltello! Porre i pezzi di patate in una capace insalatiera ed aggiungervi subito le cipolline spuntate, lavate e tagliate in piccoli pezzi; aggiungere altresí i pezzetti d’aglio, rimestare e salare con due prese di croccante sale grosso (possibilmente alle erbe); frattanto in una ciotola prepare un’emulsione con l’olio, l’aceto, il succo del limone ed il cucchiaio d’origano sbattendo vivacemente la salsina con una forchetta; condire le patate con detta emulsione rimestando delicatamente; far riposare per circa 20’ prima di servire questa insalata come contorno di portate di carne o di pesce.
sale grosso e sale fino alle erbe
sale alle erbe cioè mescolato con un trito finissimo di salvia, aglio, maggiorana, pepe, chiodi di garofano, sedano, cipolla, erba cipollina, prezzemolo, timo tritati e miscelati nella giusta proporzione al sale per avere in un solo gesto gli aromi e la giusta sapidità
dosi per 4 persone
1 kg. di patate vecchie a pasta bianca
1 fascio di cipolline novelle
1 spicchio d’aglio senza camicia tritato finissimo
1 tazzina d’aceto bianco
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.
1 limone (succo)
1 cucchiaio d’origano secco
sale (possibilmente alle erbe) grosso un pugno + 2 prese
procedimento
Porre in acqua fredda salata con un pugno di sale grosso alle erbette, le patate, alzare i fuochi e portare a bollore l’acqua e lessar le patate per circa 15’ dal bollore dell’acqua; prelevarle ed ancora calde pelarle, indi rigorosamente spezzettarle grossolanamente a mano (senza ausilio di coltello); tale fase è importantissima: le patate spezzettate a mano, risultando frastagliate accoglieranno meglio il condimento, meglio che se fossero tagliate a fette con un coltello! Porre i pezzi di patate in una capace insalatiera ed aggiungervi subito le cipolline spuntate, lavate e tagliate in piccoli pezzi; aggiungere altresí i pezzetti d’aglio, rimestare e salare con due prese di croccante sale grosso (possibilmente alle erbe); frattanto in una ciotola prepare un’emulsione con l’olio, l’aceto, il succo del limone ed il cucchiaio d’origano sbattendo vivacemente la salsina con una forchetta; condire le patate con detta emulsione rimestando delicatamente; far riposare per circa 20’ prima di servire questa insalata come contorno di portate di carne o di pesce.
sale grosso e sale fino alle erbe
sale alle erbe cioè mescolato con un trito finissimo di salvia, aglio, maggiorana, pepe, chiodi di garofano, sedano, cipolla, erba cipollina, prezzemolo, timo tritati e miscelati nella giusta proporzione al sale per avere in un solo gesto gli aromi e la giusta sapidità
SCAPECE
SCAPECE
Il nome di scapece pare derivi dallo spagnolo “escabeche” (pesciolini in aceto), ma è una preparazione di tradizione araba. Il termine non è da collegarsi ( come erroneamente vorrebbe qualcuno) ad una non attestata esca Apicii, ed oggi indica sopratutto una salsa/conserva appartenente alla gastronomia dell'Italia meridionale, fatta in modo differente da zona a zona, che sostanzialmente prevede nella ricetta: verdure o ortaggi tassativamente fritti (melanzane, pomodori, carote, fagiolini ecc.) e pesce azzurro o anche le une e l’altro, ma fritti separatamente.
Storicamente si tratta di una salsa molto antica tanto che sembra fosse molto gradita all’imperatore Federico II i cui cuochi l’avevano mutuata dagli arabi.
L’antica scapece prevede i ss. Ingredienti:
1 kg. di Alici freschissime,
–1/2 kg. di melanzane violette napoletane,
– 3 bicchieri di olio d’oliva e.v.,
– 5- 6 foglie di menta fresca,
– – acqua q. s.,
– – 1 tazza di aceto bianco ,
– – 2 spicchi d’aglio mondati ed affettati finemente,
– sale fino circa 2 cucchiai da tavola,
– – pepe nero e sale grosso (meglio se alle erbe!) q.s.
Preparazione
Eviscerate, spinate e lavate in acqua fredda le alici; private del calice ed affettate(senza sbucciarle!) le melanzane lavate ed asciugate, per la loro lunghezza nello spessore di 0,5 cm.; tenete per ca un’ora le fette cosparse di sale fino (circa 2 cucchiai da tavola) in uno scolapasta affinché perdano l’amaro liquido di vegetazione;alla fine scicquatele sotto un getto d’acqua fredda e strizzatele; indi in una padella di ferro nero friggete poco per volta le fette di melanzane in abbondante olio d’oliva e .v. ed a seguire le alici.
Poi, a mano a mano scolate e salate parsimoniosamente con sale grosso alle erbe e disponete a strati alici e melanzane in un’insalatiera inframezzate da foglie di menta spezzettate a mano con aggiunta di pepe nero.
Bollite acqua ed aceto con due spicchi d’aglio tritati, dopo alcuni minuti versate questo liquido nell’insalatiera sugli strati di alici e melanzane,accompagnandolo con qualche cucchiaiata dell’olio della frittura.
Lasciate insaporire la scapece per almeno un giorno prima di servirla.
Ed eccovi ora una seconda tipica scapece napoletana.
ZUCCHINE ALLA SCAPECE
Ingredienti
6 grosse e sode zucchine lunghe napoletane,
2 o 3 bicchieri d'olio d’oliva e.v.
una tazza d'aceto bianco,
una bella manciata di foglie di menta
sale fino un cucchiaio,
sale grosso alle erbette q.s.
2 spicchi d’aglio
PROCEDIMENTO
Scegliete delle belle zucchine lunghe, lavatele, asciugatele e tagliatele a fettine a sezione ovale di 0,5 cm di spessore. Dopo averle poste in un recipiente e cosparse con un cucchiaio di sale, coprirle e lasciarle due ore a riposo (oppure, avendone la possibilità, distendeteele su di un canevaccio candido o su di un tagliere di legno e mettetele ad asciugare al sole per almeno un'ora).
In una padella di ferro nero fate scaldare l'olio con l'aglio (quest'ultimo levàtelo appena avrà preso colore), poi friggete le zucchine. Conditele con altro sale e fatele rosolare lentamente. Quando saranno cotte scolatele, fatele asciugare bene su un foglio di carta assorbente e mettele in una pirofola innaffiando (a strati) con l'aceto e cospargendole di foglie di menta spezzettata grossolanamente. Lasciate insaporire per almeno un giorno prima di servire.
raffaele bracale
Il nome di scapece pare derivi dallo spagnolo “escabeche” (pesciolini in aceto), ma è una preparazione di tradizione araba. Il termine non è da collegarsi ( come erroneamente vorrebbe qualcuno) ad una non attestata esca Apicii, ed oggi indica sopratutto una salsa/conserva appartenente alla gastronomia dell'Italia meridionale, fatta in modo differente da zona a zona, che sostanzialmente prevede nella ricetta: verdure o ortaggi tassativamente fritti (melanzane, pomodori, carote, fagiolini ecc.) e pesce azzurro o anche le une e l’altro, ma fritti separatamente.
Storicamente si tratta di una salsa molto antica tanto che sembra fosse molto gradita all’imperatore Federico II i cui cuochi l’avevano mutuata dagli arabi.
L’antica scapece prevede i ss. Ingredienti:
1 kg. di Alici freschissime,
–1/2 kg. di melanzane violette napoletane,
– 3 bicchieri di olio d’oliva e.v.,
– 5- 6 foglie di menta fresca,
– – acqua q. s.,
– – 1 tazza di aceto bianco ,
– – 2 spicchi d’aglio mondati ed affettati finemente,
– sale fino circa 2 cucchiai da tavola,
– – pepe nero e sale grosso (meglio se alle erbe!) q.s.
Preparazione
Eviscerate, spinate e lavate in acqua fredda le alici; private del calice ed affettate(senza sbucciarle!) le melanzane lavate ed asciugate, per la loro lunghezza nello spessore di 0,5 cm.; tenete per ca un’ora le fette cosparse di sale fino (circa 2 cucchiai da tavola) in uno scolapasta affinché perdano l’amaro liquido di vegetazione;alla fine scicquatele sotto un getto d’acqua fredda e strizzatele; indi in una padella di ferro nero friggete poco per volta le fette di melanzane in abbondante olio d’oliva e .v. ed a seguire le alici.
Poi, a mano a mano scolate e salate parsimoniosamente con sale grosso alle erbe e disponete a strati alici e melanzane in un’insalatiera inframezzate da foglie di menta spezzettate a mano con aggiunta di pepe nero.
Bollite acqua ed aceto con due spicchi d’aglio tritati, dopo alcuni minuti versate questo liquido nell’insalatiera sugli strati di alici e melanzane,accompagnandolo con qualche cucchiaiata dell’olio della frittura.
Lasciate insaporire la scapece per almeno un giorno prima di servirla.
Ed eccovi ora una seconda tipica scapece napoletana.
ZUCCHINE ALLA SCAPECE
Ingredienti
6 grosse e sode zucchine lunghe napoletane,
2 o 3 bicchieri d'olio d’oliva e.v.
una tazza d'aceto bianco,
una bella manciata di foglie di menta
sale fino un cucchiaio,
sale grosso alle erbette q.s.
2 spicchi d’aglio
PROCEDIMENTO
Scegliete delle belle zucchine lunghe, lavatele, asciugatele e tagliatele a fettine a sezione ovale di 0,5 cm di spessore. Dopo averle poste in un recipiente e cosparse con un cucchiaio di sale, coprirle e lasciarle due ore a riposo (oppure, avendone la possibilità, distendeteele su di un canevaccio candido o su di un tagliere di legno e mettetele ad asciugare al sole per almeno un'ora).
In una padella di ferro nero fate scaldare l'olio con l'aglio (quest'ultimo levàtelo appena avrà preso colore), poi friggete le zucchine. Conditele con altro sale e fatele rosolare lentamente. Quando saranno cotte scolatele, fatele asciugare bene su un foglio di carta assorbente e mettele in una pirofola innaffiando (a strati) con l'aceto e cospargendole di foglie di menta spezzettata grossolanamente. Lasciate insaporire per almeno un giorno prima di servire.
raffaele bracale
PIZZA RUSTICA NAPOLETANA
PIZZA RUSTICA NAPOLETANA
Dosi per 6 – 8 persone
Per la pasta:
• 500 gr di farina
• 200 gr di burro o 150 gr di strutto,
• quattro tuorli
• 100 gr di zucchero
• sale fino q. s.
• la buccia grattugiata di un limone non trattato
Per il ripieno:
6 uova,
150 g di prosciutto cotto in un’unica spessa fetta da tagliare in cubetti di 1 cm. di spigolo,
400 g di ricotta,
300 g di fiordilatte tagliato a cubetti di 1 cm. di spigolo,
150 g di salame napoli a listarelle di cm. 5 x 1 x 1,
100 g di pecorino grattugiato,
1 bicchiere di latte inero,
sale fino, noce moscata, cannella in polvere e pepe bianco q.s..
procedimento
Cominciamo col preparare un’ottima pasta frolla, nel modo seguente:
Fare la fontana con la farina e lo zucchero, porre al centro le uova, il limone ed il burro a temperatura ambiente, a pezzetti. Amalgamare dapprima con una forchetta, poi con le mani, fino ad ottenere una pasta mobida, compatta ed omogenea. L'impasto non va lavorato molto con le mani. Lasciarlo riposare 30 minuti in frigo. Divider la pasta in due parti, l’una doppia dell’altra e con la parte maggiore, tirata a sfoglia spessa ½ centimetro, foderare una capace tortiera imburrata a bordi alti. Frattanto in una terrina stemperate la ricotta con le uova intere e battete il composto con una forchetta aggiungendo il latte, il pecorino, un pizzico di sale, uno di cannella e due di pepe, nonché una grattugiata di noce moscata. Mescolate a questa crema densa i cubi di fiordilatte, il prosciutto tagliati a dadini ed il salame a listellini e versate il tutto nella teglia foderata di pasta.
Coprite con una sfoglia ricavata dalla parte minore della pasta, fate combaciare bene i bordi marcondoli con i rebbi d’una forchetta da tavola ed infornate a 180° per circa un'ora. Evitate di servir caldissima questa torta rustica, ma a cottura ultimata, lasciatela riposare e raffreddare un po’ fuori del forno prima di porzionarla per servirla.
Ottimo, gustosissimo piatto unico, anche da asporto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Dosi per 6 – 8 persone
Per la pasta:
• 500 gr di farina
• 200 gr di burro o 150 gr di strutto,
• quattro tuorli
• 100 gr di zucchero
• sale fino q. s.
• la buccia grattugiata di un limone non trattato
Per il ripieno:
6 uova,
150 g di prosciutto cotto in un’unica spessa fetta da tagliare in cubetti di 1 cm. di spigolo,
400 g di ricotta,
300 g di fiordilatte tagliato a cubetti di 1 cm. di spigolo,
150 g di salame napoli a listarelle di cm. 5 x 1 x 1,
100 g di pecorino grattugiato,
1 bicchiere di latte inero,
sale fino, noce moscata, cannella in polvere e pepe bianco q.s..
procedimento
Cominciamo col preparare un’ottima pasta frolla, nel modo seguente:
Fare la fontana con la farina e lo zucchero, porre al centro le uova, il limone ed il burro a temperatura ambiente, a pezzetti. Amalgamare dapprima con una forchetta, poi con le mani, fino ad ottenere una pasta mobida, compatta ed omogenea. L'impasto non va lavorato molto con le mani. Lasciarlo riposare 30 minuti in frigo. Divider la pasta in due parti, l’una doppia dell’altra e con la parte maggiore, tirata a sfoglia spessa ½ centimetro, foderare una capace tortiera imburrata a bordi alti. Frattanto in una terrina stemperate la ricotta con le uova intere e battete il composto con una forchetta aggiungendo il latte, il pecorino, un pizzico di sale, uno di cannella e due di pepe, nonché una grattugiata di noce moscata. Mescolate a questa crema densa i cubi di fiordilatte, il prosciutto tagliati a dadini ed il salame a listellini e versate il tutto nella teglia foderata di pasta.
Coprite con una sfoglia ricavata dalla parte minore della pasta, fate combaciare bene i bordi marcondoli con i rebbi d’una forchetta da tavola ed infornate a 180° per circa un'ora. Evitate di servir caldissima questa torta rustica, ma a cottura ultimata, lasciatela riposare e raffreddare un po’ fuori del forno prima di porzionarla per servirla.
Ottimo, gustosissimo piatto unico, anche da asporto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
ZUCO D’’O PARULANO
ZUCO D’’O PARULANO
sugo all’ortolana
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 grosse cipolle dorate affettate grossolanamente,
2 zucchine verdi piccole e sode, lavate, spuntate e tagliate in tocchetti da 2 cm.,
1 grosso peperone quadrilobato, lavato scapitozzato del picciolo, liberato dei semi e delle costine bianche interni, e ridotto in falde di circa 5 cm.,
2 carote medie, grattate, lavate e tagliate in cubetti da cm. 1,5 di lato,
1 grossa costa di sedano, lavata, liberata dei filamenti e tagliata in tocchetti da 3 cm.,
1 spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente,
2 pomidoro Roma o Sanmarzano lavati, sbollentati pelati e spezzettati grossolanamente,
1 ciuffo di prezzemolo tritato,
1 foglia d’alloro fresco,
1 cucchiaio di strutto,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
1 peperoncino forte spezzettato a mano
sale fino alle erbe e pepe bianco q.s.
1 dado vegetale da brodo,
acqua bollente q.s.
procedimento
Ponete in un ampio tegame provvisto di coperchio l’olio e lo strutto con lo spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente; alzate i fuochi ed appena l’aglio sia imbiondito aggiungete i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta; unite súbito il trito di prezzemolo e la foglia d’alloro spezzettata a mano e dopo cinque minuti di cottura aggiungete via via tutti gli ortaggi, tenendo per ultimo il peperoncino spezzettato a mano;
abbassate un po’ i fuochi ed allungate il tutto con una ramaiolata d’acqua bollente in cui avrete sbriciolato il dado vegetale; regolate con il sale alle erbe ed il pepe bianco, incoperchiate e fate sobbollire il sugo per circa 40’ badando che gli ortaggi cuociano, ma non si disfino eccessivamente; se il sugo si dovesse asciugare troppo aggiungete un po’ d’acqua bollente regolando ancòra di sale.
attenzione:
questo sugo all’ortolana può essere usato per condire
6 etti di maltagliati o rigatoni lessati al dente in molta acqua salata, pasta che una volta impiattata va spolverizzata con abbondante pecorino grattugiato;
questo sugo all’ortolana può essere usato in alternativa per preparare uno stufato con 1,5 kg. di spezzato (in pezzi da ca cm. 6 x3 x2) da pancettone di manzo i cui pezzi abbondantemente infarinati vanno posti in cottura quando il sugo è prossimo alla conclusione e tenuti nel tegame incoperchiato per quasi 2 ore, rivoltandoli di tanto in tanto perché non si attacchino; la carne va servita ben calda e coperta di sugo.
Va da sé che raddoppiando le dosi, questo sugo all’ortolana potrà servire contemporaneamente sia per condire la pasta che per preparare lo stufato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
sugo all’ortolana
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 grosse cipolle dorate affettate grossolanamente,
2 zucchine verdi piccole e sode, lavate, spuntate e tagliate in tocchetti da 2 cm.,
1 grosso peperone quadrilobato, lavato scapitozzato del picciolo, liberato dei semi e delle costine bianche interni, e ridotto in falde di circa 5 cm.,
2 carote medie, grattate, lavate e tagliate in cubetti da cm. 1,5 di lato,
1 grossa costa di sedano, lavata, liberata dei filamenti e tagliata in tocchetti da 3 cm.,
1 spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente,
2 pomidoro Roma o Sanmarzano lavati, sbollentati pelati e spezzettati grossolanamente,
1 ciuffo di prezzemolo tritato,
1 foglia d’alloro fresco,
1 cucchiaio di strutto,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
1 peperoncino forte spezzettato a mano
sale fino alle erbe e pepe bianco q.s.
1 dado vegetale da brodo,
acqua bollente q.s.
procedimento
Ponete in un ampio tegame provvisto di coperchio l’olio e lo strutto con lo spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente; alzate i fuochi ed appena l’aglio sia imbiondito aggiungete i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta; unite súbito il trito di prezzemolo e la foglia d’alloro spezzettata a mano e dopo cinque minuti di cottura aggiungete via via tutti gli ortaggi, tenendo per ultimo il peperoncino spezzettato a mano;
abbassate un po’ i fuochi ed allungate il tutto con una ramaiolata d’acqua bollente in cui avrete sbriciolato il dado vegetale; regolate con il sale alle erbe ed il pepe bianco, incoperchiate e fate sobbollire il sugo per circa 40’ badando che gli ortaggi cuociano, ma non si disfino eccessivamente; se il sugo si dovesse asciugare troppo aggiungete un po’ d’acqua bollente regolando ancòra di sale.
attenzione:
questo sugo all’ortolana può essere usato per condire
6 etti di maltagliati o rigatoni lessati al dente in molta acqua salata, pasta che una volta impiattata va spolverizzata con abbondante pecorino grattugiato;
questo sugo all’ortolana può essere usato in alternativa per preparare uno stufato con 1,5 kg. di spezzato (in pezzi da ca cm. 6 x3 x2) da pancettone di manzo i cui pezzi abbondantemente infarinati vanno posti in cottura quando il sugo è prossimo alla conclusione e tenuti nel tegame incoperchiato per quasi 2 ore, rivoltandoli di tanto in tanto perché non si attacchino; la carne va servita ben calda e coperta di sugo.
Va da sé che raddoppiando le dosi, questo sugo all’ortolana potrà servire contemporaneamente sia per condire la pasta che per preparare lo stufato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA ED ALTRO
T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA ED ALTRO
L’espressione: T’’a faje cu ll’ove ‘a trippa! è ad litteram: Te la fai(te la prepari) con le uova la trippa! Cosí, con ironia e sarcasmo , ci si usa rivolgere a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua dura necessità di adoperarsi nel modo migliore per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato, situazione che spesso però non si è in grado di risolvere…; come se si volesse consigliare chi, per sopravvenuti problemi economici che non gli consentissero di nutrirsi acconciamente, fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, di migliorarlo, renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova; ed in effetti la trippa (sebbene a taluni dai gusti plebei sia molto gradito) non è cibo da ritenersi tra i piú fini e/o gustosi e solo un’aggiunta di uova, erbe aromatiche, pomidoro e formaggio può migliorarne la preparazione, rendendolo maggiormente appetibile e – figuratamente – meno gravoso il doversene cibare!
trippa = trippa, stomaco di bovino macellato, che, ridotto in strisce sottili e preparato in vari modi, costituisce una vivanda tradizionale della cucina italiana; l’etimo della voce a margine è dall’arabo tarb. A chiusura di quanto qui detto a proposito dell’espressione in cui è protagonista la trippa, riporto qui di sèguito ciò che dissi alibi circa uno dei modi piú caratteristici di preparare a Napoli in alternativa a quella con le uova, la vivanda trippa; parlerò cioè della c.d. mariscialla.
A Napoli una volta esistevano ed in qualche vicolo della vecchia città se ne può incontrare ancora qualcuno, i ventraiuoli cioè dei venditori ambulanti che su attrezzati carrettini trainati a mano servivano le trippe cioè il quinto quarto della bestia macellata e tali trippe opportunamente lavate, lessate e sbiancate erano servite ben affettate e ridotte in piccoli pezzi, disposti su fogli di carta oleata ed erano da portare alla bocca con le dita senza l’ausilio di alcuna posata o attrezzo cosparsi di parecchio sale ed irrorati con il succo di limone; spesso affettavano la trippa lessata (specialmente la parte detta cientopelle) in strisce larghe e lunghe come i galloni dei marescialli dell’epoca murattiana quando si indossavano divise fantasmagoriche , per cui i ventraiuoli battezzarono mariscialla la zuppa ricavata da frattaglie di vitello bollite con aggiunta solo di poche erbe aromatiche; la zuppa era versata su biscotti di granturco detti freselle (dal latino frendere cioè spezzettare, rompere) salata e ben pepata ed era servita in piccole ciotole di terracotta. Era una zuppa scarsa di condimento, ma per il suo basso costo, nei rigidi mesi invernali era consumata dalle classi meno abbienti, in sostituzione di un corroborante brodo di manzo o di gallina che quasi nessuno si poteva permettere.
Esaurito cosí l’argomento trippa passiamo ad un’altra tipica espressione partenopea:
te ce vo’ ‘na piccula cu ‘o limone espressione che tradotta ad litteram è: ti ci vuole (cioè ti abbisogna) una piccola con il limone… L’espressione che – come chiarirò – in origine pretese, quantunque non sempre in maniera veritiera, di suggerire un rimedio igienico-sanitario, passò poi nel parlato comune per commentare sarcasticamente l’ingrata situazione di chi, trovandosi in una situazione incresciosa e fastidiosa, dovesse adoperarsi a trovarne una soluzione od un rimedio pur che fosse che gli permettesse di superare l’impasse. In origine ‘a piccula cu ‘o limone indicò una contenuta, ristretta, concentrata premuta di un solo limone senza aggiunta d’altro liquido, bibita che veniva servita a richiesta presso le c.d. banche ‘e ll’acqua (mescite di acqua) in alternativa alle pletoriche limunate che erano grandi bibite preparate con premute di piú limoni, allungate con parecchia acqua ‘e mmummera: acqua ferrata prelevata da un’antichissima fonte esistente a Napoli al Chiatamone (dal greco platamon= grotte platamonie, grotte di roccia marina presenti sotto i contrafforti del monte Echia; la fonte però oggi è purtroppo definitivamente inglobata in talune costruzioni e sottratta al gratuito uso del popolo) e portata alle banche ‘e ll’acqua per la vendita al minuto in tipici panciuti orci di creta a doppia ansa detti mummare ed al sing. mummara (il cui etimo è dal greco bombylia con cambio di suffisso bombyra ed assimilazione *bommara→mmommara); la mmommara se piccola (monoporzioni) diventa mmummarella/e ; ordunque mentre la c.d. piccula cu ‘o limone veniva richiesta e poi sorbita da chi fosse affetto da problemi digestivi (per aver magari mangiato grevemente od avidamente della trippa o altro cibo) nella speranza che il succo del limone avesse effetti benefici che tuttavia non sempre aveva in quanto talvolta si aggiungeva, con il limone, acidità ad acidità, la limunata era invece una gran bibita rinfrescante sorbita il piú delle volte durante i mesi estivi, per combattere la calura, e tale bibita talora veniva fatta artificialmente spumeggiare addizionandola rapidamente di pochissimo bicarbonato. Partendo dalla pretesa idea che ‘a piccula cu ‘o limone fosse un rimedio si estese l’espressione a significare e a sarcasticamente commentare, come ò detto, tutte quelle situazioni fastidiose a cui occorrese porre un rimedio pur che fosse.
In chiusura faccio notare che la voce piccula usata nell’espressione non è esattamente napoletana, ché in lingua napoletana s’usa piccerella/piccerillo= piccina/piccino,ma poiché le voci piccerella/piccerillo a Napoli vengono usate con riferimento ad esseri animati (uomini o bestie) ecco che si adottò l’adattamento della voce italiana piccola→piccula persignificare una cosa contenuta e cioè la bibita de qua. raffaele bracale
L’espressione: T’’a faje cu ll’ove ‘a trippa! è ad litteram: Te la fai(te la prepari) con le uova la trippa! Cosí, con ironia e sarcasmo , ci si usa rivolgere a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua dura necessità di adoperarsi nel modo migliore per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato, situazione che spesso però non si è in grado di risolvere…; come se si volesse consigliare chi, per sopravvenuti problemi economici che non gli consentissero di nutrirsi acconciamente, fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, di migliorarlo, renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova; ed in effetti la trippa (sebbene a taluni dai gusti plebei sia molto gradito) non è cibo da ritenersi tra i piú fini e/o gustosi e solo un’aggiunta di uova, erbe aromatiche, pomidoro e formaggio può migliorarne la preparazione, rendendolo maggiormente appetibile e – figuratamente – meno gravoso il doversene cibare!
trippa = trippa, stomaco di bovino macellato, che, ridotto in strisce sottili e preparato in vari modi, costituisce una vivanda tradizionale della cucina italiana; l’etimo della voce a margine è dall’arabo tarb. A chiusura di quanto qui detto a proposito dell’espressione in cui è protagonista la trippa, riporto qui di sèguito ciò che dissi alibi circa uno dei modi piú caratteristici di preparare a Napoli in alternativa a quella con le uova, la vivanda trippa; parlerò cioè della c.d. mariscialla.
A Napoli una volta esistevano ed in qualche vicolo della vecchia città se ne può incontrare ancora qualcuno, i ventraiuoli cioè dei venditori ambulanti che su attrezzati carrettini trainati a mano servivano le trippe cioè il quinto quarto della bestia macellata e tali trippe opportunamente lavate, lessate e sbiancate erano servite ben affettate e ridotte in piccoli pezzi, disposti su fogli di carta oleata ed erano da portare alla bocca con le dita senza l’ausilio di alcuna posata o attrezzo cosparsi di parecchio sale ed irrorati con il succo di limone; spesso affettavano la trippa lessata (specialmente la parte detta cientopelle) in strisce larghe e lunghe come i galloni dei marescialli dell’epoca murattiana quando si indossavano divise fantasmagoriche , per cui i ventraiuoli battezzarono mariscialla la zuppa ricavata da frattaglie di vitello bollite con aggiunta solo di poche erbe aromatiche; la zuppa era versata su biscotti di granturco detti freselle (dal latino frendere cioè spezzettare, rompere) salata e ben pepata ed era servita in piccole ciotole di terracotta. Era una zuppa scarsa di condimento, ma per il suo basso costo, nei rigidi mesi invernali era consumata dalle classi meno abbienti, in sostituzione di un corroborante brodo di manzo o di gallina che quasi nessuno si poteva permettere.
Esaurito cosí l’argomento trippa passiamo ad un’altra tipica espressione partenopea:
te ce vo’ ‘na piccula cu ‘o limone espressione che tradotta ad litteram è: ti ci vuole (cioè ti abbisogna) una piccola con il limone… L’espressione che – come chiarirò – in origine pretese, quantunque non sempre in maniera veritiera, di suggerire un rimedio igienico-sanitario, passò poi nel parlato comune per commentare sarcasticamente l’ingrata situazione di chi, trovandosi in una situazione incresciosa e fastidiosa, dovesse adoperarsi a trovarne una soluzione od un rimedio pur che fosse che gli permettesse di superare l’impasse. In origine ‘a piccula cu ‘o limone indicò una contenuta, ristretta, concentrata premuta di un solo limone senza aggiunta d’altro liquido, bibita che veniva servita a richiesta presso le c.d. banche ‘e ll’acqua (mescite di acqua) in alternativa alle pletoriche limunate che erano grandi bibite preparate con premute di piú limoni, allungate con parecchia acqua ‘e mmummera: acqua ferrata prelevata da un’antichissima fonte esistente a Napoli al Chiatamone (dal greco platamon= grotte platamonie, grotte di roccia marina presenti sotto i contrafforti del monte Echia; la fonte però oggi è purtroppo definitivamente inglobata in talune costruzioni e sottratta al gratuito uso del popolo) e portata alle banche ‘e ll’acqua per la vendita al minuto in tipici panciuti orci di creta a doppia ansa detti mummare ed al sing. mummara (il cui etimo è dal greco bombylia con cambio di suffisso bombyra ed assimilazione *bommara→mmommara); la mmommara se piccola (monoporzioni) diventa mmummarella/e ; ordunque mentre la c.d. piccula cu ‘o limone veniva richiesta e poi sorbita da chi fosse affetto da problemi digestivi (per aver magari mangiato grevemente od avidamente della trippa o altro cibo) nella speranza che il succo del limone avesse effetti benefici che tuttavia non sempre aveva in quanto talvolta si aggiungeva, con il limone, acidità ad acidità, la limunata era invece una gran bibita rinfrescante sorbita il piú delle volte durante i mesi estivi, per combattere la calura, e tale bibita talora veniva fatta artificialmente spumeggiare addizionandola rapidamente di pochissimo bicarbonato. Partendo dalla pretesa idea che ‘a piccula cu ‘o limone fosse un rimedio si estese l’espressione a significare e a sarcasticamente commentare, come ò detto, tutte quelle situazioni fastidiose a cui occorrese porre un rimedio pur che fosse.
In chiusura faccio notare che la voce piccula usata nell’espressione non è esattamente napoletana, ché in lingua napoletana s’usa piccerella/piccerillo= piccina/piccino,ma poiché le voci piccerella/piccerillo a Napoli vengono usate con riferimento ad esseri animati (uomini o bestie) ecco che si adottò l’adattamento della voce italiana piccola→piccula persignificare una cosa contenuta e cioè la bibita de qua. raffaele bracale
CEFALO SAPORITO AL FORNO
CEFALO SAPORITO AL FORNO
Eccovi una ricetta molto gustosa con cui preparare del cefalo, che alla fine risulterà appetibile anche per i palati che non amano il pesce.
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 cefali abbastanza grossi del peso di circa 5 etti cadauno,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
2 etti di olive nere di Gaeta denocciolate,
½ etto di capperi di Pantelleria dissalati, lavati ed asciugati,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
pepe nero q.s.
3 foglie d’alloro,
3 pomidoro tipo Roma o Sanmarzano lavati, sbollentati, pelati e tagliati a cubetti,
origano secco - due pizzichi,
1 spicchio d’aglio mondato finemente tritato,
sale doppio alle erbette – tre prese.
procedimento
Lavare ed eviscerare i cefali, senza squamarli, sciacquarli in acqua fredda corrente ed aprirli a libro sistemando all’interno di ogni pesce olive, capperi, trito di aglio e prezzemolo, origano, pepe, una cucchiaiata di cubetti di pomidoro ed una foglia d’alloro spezzettata a mano; richiudere i cefali e sistemarli a pancia all’aria uno accanto all’altro in una capace pirofila da forno; irrorali a filo con tutto l’olio e mandare in forno preriscaldato (180°) per 20 – 25 minuti; a fine cottura fare leggermente intiepidire, eliminare testa, coda e la pelle, spinare accuratamente e porzionare (mezzo cefalo a testa) nei singoli piatti; salare ogni porzione con una presa di sale grosso alle erbette ed irrorare con il fondo di cottura.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Eccovi una ricetta molto gustosa con cui preparare del cefalo, che alla fine risulterà appetibile anche per i palati che non amano il pesce.
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 cefali abbastanza grossi del peso di circa 5 etti cadauno,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
2 etti di olive nere di Gaeta denocciolate,
½ etto di capperi di Pantelleria dissalati, lavati ed asciugati,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
pepe nero q.s.
3 foglie d’alloro,
3 pomidoro tipo Roma o Sanmarzano lavati, sbollentati, pelati e tagliati a cubetti,
origano secco - due pizzichi,
1 spicchio d’aglio mondato finemente tritato,
sale doppio alle erbette – tre prese.
procedimento
Lavare ed eviscerare i cefali, senza squamarli, sciacquarli in acqua fredda corrente ed aprirli a libro sistemando all’interno di ogni pesce olive, capperi, trito di aglio e prezzemolo, origano, pepe, una cucchiaiata di cubetti di pomidoro ed una foglia d’alloro spezzettata a mano; richiudere i cefali e sistemarli a pancia all’aria uno accanto all’altro in una capace pirofila da forno; irrorali a filo con tutto l’olio e mandare in forno preriscaldato (180°) per 20 – 25 minuti; a fine cottura fare leggermente intiepidire, eliminare testa, coda e la pelle, spinare accuratamente e porzionare (mezzo cefalo a testa) nei singoli piatti; salare ogni porzione con una presa di sale grosso alle erbette ed irrorare con il fondo di cottura.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
SPIGOLA ALL’ ACQUA COTTA
SPIGOLA ALL’ ACQUA COTTA
Gustosissimo modo di cucinare la spigola anche di allevamento da servire come primo piatto o come pietanza accompagnato da crostini di pane casareccio bruscati in forno o in padella e soffregati di aglio.
Ingredienti e dosi per 6 persone
6 spigole da 250 grammi cadauna,
4 Peperoni quadrilobati: 2 gialli e 2 rossi,
3 Cipolle dorate tritate grossolanamente,
½ kg. di Pomidoro ramati, sbollentati, pelati, privati dei semi e ridotti in cubi da 1 cm. di spigolo,
1 bicchiere e mezzo di Olio d'oliva e.v.,
Sale doppio alle erbette tre prese abbondanti,
1 Costa grande Sedano bianco ridotta in piú tocchetti,
un grosso ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
pepe nero macinato a fresco q.s.,
12 fette di Pane casareccio bruscato al forno (220°).
3 spicchi d’aglio mondati
Procedimento
Squamate,eviscerate,lavate e sfilettate le spigole ottenendo due grossi filetti per ogni pesce eliminando con taglio francese diagonale (lama poggiata a 45° e fatta scorrere verso l’esterno) le parti molli del ventre ricche di spine, ma tenendo da parte testa e lisca;
Mettete in una casseruola mezzo bicchiere di olio e le cipolle sottilmente affettate.Portate la casseruola sul fuoco e quando le cipolle saranno appassite, diventando traslucide e leggermente arsicciate, aggiungete i peperoni privati del torsolo, dei semi e delle costoline interne e ritagliati in sottili listarelle, il sedano a pezzetti ed i cubetti di pomidori senza pelle nè semi.Condite con poco sale e fate cuocere a fuoco vivace per mezz'ora. Trascorso questo tempo versate nella casseruola tre litri di acqua bollente e fate bollire per cinque minuti. Poi aggiungete lische e testa delle spigole e condite con ancóra un pizzico di sale, due prese di pepe, mezzo bicchiere di vino bianco e lasciate sobbollire per circa mezz’ora, fino ad ottenere un gustoso fumetto nel quale, adagerete i filetti di spigola che farete cuocere a fiamma sostenuta per circa dieci minuti. Alla fine spegnete i fuochi, aggiustate di sale doppio e cospargete di abbondante prezzemolo tritato finemente. Mescolate e distribuite i filetti di spigola con la loro acqua cotta in sei scodelle nelle quali avrete già spezzettato le fette di pane bruscate, soffregate d’aglio ed irrorate con l’olio residuo. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Gustosissimo modo di cucinare la spigola anche di allevamento da servire come primo piatto o come pietanza accompagnato da crostini di pane casareccio bruscati in forno o in padella e soffregati di aglio.
Ingredienti e dosi per 6 persone
6 spigole da 250 grammi cadauna,
4 Peperoni quadrilobati: 2 gialli e 2 rossi,
3 Cipolle dorate tritate grossolanamente,
½ kg. di Pomidoro ramati, sbollentati, pelati, privati dei semi e ridotti in cubi da 1 cm. di spigolo,
1 bicchiere e mezzo di Olio d'oliva e.v.,
Sale doppio alle erbette tre prese abbondanti,
1 Costa grande Sedano bianco ridotta in piú tocchetti,
un grosso ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
pepe nero macinato a fresco q.s.,
12 fette di Pane casareccio bruscato al forno (220°).
3 spicchi d’aglio mondati
Procedimento
Squamate,eviscerate,lavate e sfilettate le spigole ottenendo due grossi filetti per ogni pesce eliminando con taglio francese diagonale (lama poggiata a 45° e fatta scorrere verso l’esterno) le parti molli del ventre ricche di spine, ma tenendo da parte testa e lisca;
Mettete in una casseruola mezzo bicchiere di olio e le cipolle sottilmente affettate.Portate la casseruola sul fuoco e quando le cipolle saranno appassite, diventando traslucide e leggermente arsicciate, aggiungete i peperoni privati del torsolo, dei semi e delle costoline interne e ritagliati in sottili listarelle, il sedano a pezzetti ed i cubetti di pomidori senza pelle nè semi.Condite con poco sale e fate cuocere a fuoco vivace per mezz'ora. Trascorso questo tempo versate nella casseruola tre litri di acqua bollente e fate bollire per cinque minuti. Poi aggiungete lische e testa delle spigole e condite con ancóra un pizzico di sale, due prese di pepe, mezzo bicchiere di vino bianco e lasciate sobbollire per circa mezz’ora, fino ad ottenere un gustoso fumetto nel quale, adagerete i filetti di spigola che farete cuocere a fiamma sostenuta per circa dieci minuti. Alla fine spegnete i fuochi, aggiustate di sale doppio e cospargete di abbondante prezzemolo tritato finemente. Mescolate e distribuite i filetti di spigola con la loro acqua cotta in sei scodelle nelle quali avrete già spezzettato le fette di pane bruscate, soffregate d’aglio ed irrorate con l’olio residuo. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
GOLA, GOLOSITÀ, GOLOSO & dintorni
GOLA, GOLOSITÀ, GOLOSO & dintorni
Mi è stato chiesto dall’amica M.R.d’A. (al solito son costretto – per motivi di privatezza - a limitarmi alle iniziali di nome e cognome) di illustrare il significato dell’agg.vo partenopeo cannaruto. Premesso che la voce cannaruto vale l’italiano molto goloso ma anche vorace,approfitto della richiesta per dilungarmi alquanto sulle voci napoletane che rendono quelle italiane dell’epigrafe.
Cominciamo comunque con l’illustrare le voci italiane:
- gola s. f. con derivazione dal lat. gula(m) può indicare varie cose:
1 (anat.) la cavità della faringe, delimitata anteriormente dal palato molle e dalle tonsille palatine | mal di gola, denominazione generica delle affezioni che interessano gli organi posti nella gola | gola di lupo, (med.) malformazione congenita, spesso associata al labbro leporino, consistente in una fenditura longitudinale del palato
2 come luogo di transito del cibo, del fiato e della voce dà luogo a numerose locuzioni: col boccone in gola, avendo appena finito di mangiare | rimanere, restare in gola, si dice di boccone che non si riesce a deglutire o di cibo che non si riesce a digerire; (fig.) si dice della perdita di un bene della quale non ci si rassegna | essere pieno fino alla gola, essere sazio; (fig.) non poterne piú di qualcosa | bagnarsi la gola, bere alcolici | restare a gola asciutta, restare senza bere; (fig.) non riuscire a ottenere quanto si desiderava | parlare in (o di) gola, con voce difettosa, emettendo appena la voce; cantare in (o di) gola, con emissione gutturale della voce | avere un nodo, un groppo alla (o in) gola, avere il pianto in gola, essere commossi, emozionati fino al pianto, con una sensazione di impedimento nel respiro e nella deglutizione | urlare, gridare a piena gola, con tutto il fiato che si à in gola, con tutta la forza possibile | ricacciare un'offesa in gola a qualcuno, ribatterla con durezza | ricacciarsi le parole in gola, negare quanto affermato in precedenza, smentirsi | mentire per la gola, (lett.) mentire in modo sfacciato | gola profonda, (fig.) nel gergo giornalistico, persona che rivela notizie molto riservate; informatore, spia
3 (estens.) la parte anteriore del collo | pigliare, prendere uno per la gola, (fig.) imporre dure condizioni a qualcuno, approfittando del suo stato di necessità | avere l'acqua alla gola, essere sul punto di affogare; (fig.) essere in estrema difficoltà | avere il coltello alla gola, (fig.) essere costretto a fare qualcosa | mettere il coltello alla gola di qualcuno, minacciarlo con la lama del coltello contro la gola; (fig.) costringere qualcuno all'obbedienza con la forza
4 avidità di cibi o di bevande; golosità, ghiottoneria: mangiare qualcosa per gola, non per fame | far gola, (fig.) si dice di cosa che suscita desiderio | prendere qualcuno per la gola, allettarlo offrendogli cibi gustosi | prov. : ne uccide più la gola che la spada, le malattie provocate dal troppo mangiare fanno morire più persone che non la guerra
5 (teol.) uno dei sette peccati capitali
6 apertura stretta, passaggio interno: la gola del camino, del forno, del pozzo
7 (geog.) valle stretta e profonda, con pareti assai ripide o quasi verticali
8 (arch.) modanatura di una cornice
9 linea di gola, (geom) linea di lunghezza minima tra tutte le linee chiuse che si ottengono intersecando una superficie con un fascio di piani paralleli.
- golosità s. f. derivato dalla voce precedente; indica in primis l'essere goloso, il vizio della gola ma pure specialmente al plurale ciò (cibo o altro) che faccia gola, e figuratamente vale Avidità, desiderio vivo di qualcosa.
- goloso/a agg.vo e sost. masch.o femm.
indica come agg.vo 1 chi à il vizio della gola: essere goloso di dolci | (fig.) desideroso, bramoso: un uomo goloso di piaceri.
2 (non com.) ciò che stuzzica o soddisfa la gola: un cibo goloso
come s. m. indica la persona golosa ;
l’etimo è dal tardo lat. gulosu(m), deriv. di gula 'gola'
***
E veniamo al napoletano dove la voce gola si rende con la parole canna o cannarone o anche, ma raramente cannarino o meglio al pl. cannarine; la prima voce
- canna è usata soprattutto agglutinata con la preposizione in nell’espressione ‘ncanna= in gola usata sia in senso reale come nel caso di funa ‘ncanna= corda alla gola – annuzzà ‘ncanna= soffocare per non riuscire a deglutire un boccone di cibo finito per traverso oppure in senso metaforico restà ‘ncanna= restare in gola détto di ciò cui non sia pervenuti o non si sia potuto conseguire; ‘ncanna è: in+canna (che deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola); l’altra voce usata per indicare propriamente il canale della gola il gorgzzúle (dall'ant. gorgozzo o gorgozza, che è dal lat. volg. *gurgutiam, per il class. gurges -gitis 'gola’) la seconda voce – dicevo - è
- cannarone palesemente accrescitivo della pregressa canna; cannarone tuttavia non dovrebbe indicare la trachea (dal lat. tardo trachia(m), dal gr. trachêia (artìría), propr. '(arteria) ruvida', f. sost. dell'agg. trachy/s 'ruvido', perché al tatto risultano sensibili i passaggi fra un anello cartilagineo e l'altro) che è poi l’organo dell'apparato respiratorio a forma di tubo, costituito da una serie di anelli cartilaginei, compreso fra la laringe e i bronchi, organo cui si fa riferimento con il napoletano canna; cannarone è usato infatti soprattutto nelle espressioni in cui occorra sottolineare una pretesa vastità del tratto del tubo digerente che va dalla faringe allo stomaco, cioè dell’esofago (dal gr. oisophágos, comp. di óisein 'portare, trasportare' e phaghêin 'mangiare') di chi ingurgiti molto cibo e lo faccia voracemente; possiamo perciò dire che in napoletano – contrariamente da ciò che ritengono i piú avvezzi a far d’ogni erba un fascio, la voce canna corrisponde alla trachea mentre il cannarone è l’esofago.
A margine rammenterò che nell’uso del parlato soprattutto provinciale e/o dell’entroterra accanto al termine cannarone ne esistono altri due da esso derivati e che ne sono una sorta di dispregiativo e sono: cannaruozzo e cannaruozzolo; il suffisso ozzo/uozzo di matrice tardo latino volgare fu usato per indicare (cfr. Rohlfs G.S.D.L.I.E S.D. sub 1040 )qualcosa di rozzo, grossolano, contadinesco e dunque di pertinenza di voci dispregiative; tuttavia nel caso di cannaruozzolo ci troviamo in presenza di una sorta di divertente ossimoro determinato dall’aggiunta d’un suffisso diminutivo olus→olo ad un termine accrescitivo e dispregiativo come cannaruozzo (che in origine è cannar(one)+uozzo). La terza ed ultima voce usata per indicar la gola è
- cannarine/cannarinule che è, in ambedue le poco differenti presentazioni morfologiche, il plurale di cannarino/cannarinulo s. m.anch’esso derivato quale diminutivo da canna usato però per indicare né la trachea, né l’esofago quanto le due carotidi (ciascuna delle due grandi arterie del collo che dall'aorta portano il sangue alla testa con etimo d al gr. karotís -ídos, deriv. di káros 'sonno', perché si credeva che premendo queste arterie si inducesse il sonno) ed il gozzo (prob. forma accorciata di un ant. gorgozzo o gorgozza) voce che letteralmente indica il rigonfiamento nella parte anteriore del collo, dovuta all'ingrossamento della tiroide, ma nel parlato comune indica la gola tout court, per cui con la voce ‘e cannarine/cannarinule si fa riferimento a quelle parti anatomiche del collo (gozzo e/o carotidi) che se fatte oggetto di lesione da arma bianca (sgozzare) conducono rapidamente a morte il colpito: taglià ‘e cannarine a quaccheduno= sgozzarlo.
Detto della gola napoletana, diciamo della golosità (che à in napoletano due sole voci corrispondent: cannarutizzia e cannarizia); parleremo dopo delle numerosi voci napoletane corrispondenti all’italiano goloso;
- cannarutizzia sost. fm. che vale golosità, ingordigia, avidità; è voce ancóra di uso comune che etimologicamente è l’astratto dell’agg.vo cannaruto (di cui qui di sèguito) e morfologicamente va legato ad un acc.vo del tardo lat. cannarutitia(m); accanto a cannarutizzia talora nei medesimi significati si trova usato anche
- cannarizzia derivato da un lat. popolare *cannaritia. Epperò sia per cannarizzia che per cannarutizzia penso che non sia errato vedervi un aggancio al verbo cannarià= ingoiare con ingordia, divorare verbo che a sua volta appare essere un denominale frequentativo di canna per il tramite di un *cannarjare→ cannarià.
E veniamo dulcis in fundo alle voci napoletane che rendono l’italiano goloso.
Cominciamo con due voci che di per sé nacquero per indicare una particolare modalità comportamentale e solo successivamente per traslato ed ampliamento semantico furono usate per indicare il goloso, l’ingordo e/o vorace; si tratta di appojalibbarda ed appujatore:
- appojalibbarda letteralmente colui che poggia l’alabarda
id est: scroccatore, profittatore a spese altrui ed estensivamente goloso, mangione, ingordo e/o vorace L’aggettivo antichissimo risalente al periodo viceregnale, viene tuttora usato quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, acquartierati in quelli che poi sarebbero stati ed ancóra sono chiamati quartieri (spagnoli) a monte della centralissima strada di Toledo, erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade limitrofe degli acquartieramenti, ma poi per un po’ tutte le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate; lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case ( meglio nei cosiddetti bassi (voce il cui sg. basso è derivato dal lat. bassus= posto in basso ) tipici angusti locali posti a livello stradale ed adibiti a negozi e/o abitazione di nucluei familiari spesso eccedenti la ricettività dei locali suddetti altrove détti pure fúnneche= fondaci (fúnneco, singolare di fúnneche è derivato dall'arabo funduq (attraverso lo spagnolo fúndago(con assimilazione progressiva nd→nn e variazione di tipo popolare della occlusiva velare sonora g con la piú aspra e dura occlusiva velare sorda c); ripeto: i soldati entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) donde l’ appojalibbarda a margine; la locuzione è ad litteram: appoggiare l’alabarda e valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella dell’aggettivo che è invece usata piú limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi mangi voracemente e/o ad ufo o anche di chi ottenga,contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento). appujià = appoggiare, poggiare, avvicinare una cosa a un'altra che la sorregga, (fig.) aiutare, favorire; sostenere; l’etimo della voce napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano, è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del lat. podium 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta la chiusura della tonica ō→ u, è caduta la dentale d e s’è adottato il suono di transizione j; libbarda = alabarda s. f. arma bianca costituita da un'asta di legno terminante con una scure sormontata da una lama appuntita, arma di cui erano corredati tutti i soldati della fanteria iberica; la voce libbarda deriva dalla lettura metatetica (h)el→le→li ed assimilazione regressiva mb→bb medio alto ted. helmbarte 'ascia di combattimento'; l’altra voce che ripete in origine significato e semantica di questa appojalibbarda per poi pervenire a scroccone, vorace mangiatore a sbafo è appujatore;
- appujatore aggettivo che letteralmente sta per colui che appoggia (l’alabarda) ed estensivamente, come la voce precedente, vale scroccone, sbafatore e poi avido, ingordo, insaziabile, mangione; anche questa voce - ça va sans dire – trae dal verbo appujià. E passiamo ad
- alliccapiatte aggettivo nato espressamente (non dunque estensivamente o per traslato come invece per le due voci precedenti) nato, dicevo, ad hoc per definire il vorace, l’insaziabile, il ghiotto, il goloso, il famelico letteralmente sta per colui che lecca i piatti e vale dunque avidissimo,smodato, insaziabile, mangione come è colui che non si limiti a mangiare voracemente sino in fondo i cibi che gli vengono ammanniti, ma per non lasciar neppure una briciola di ciò che si trova nei piatti iperbolicamente addirittura li lecchi! etimologicamente la voce a margine è l’agglutinazione di allicca 3° pers. sg. dell’ind. pres. del verbo alliccà (che dal lat. volg. * adligicare, frequentativo di lingere) + il sost. piatte pl. di piatto (che dal lat. volg *plattu(m), che è dal gr. platy/s 'largo, piatto';
ed eccoci ora all’aggettivo che à dato il la a queste mie paginette:
-cannaruto letteralmente come ò chiarito parlando di cannarone l’aggettivo a margine sta per provvisto di un grande esofago e perciò visto che l’esofago è la via del cibo mangiato, cannaruto vale l’italiano molto goloso ma anche vorace, avido, ingordo etc. come colui che sia quasi costretto ad ingerire grandi quantità di cibo e debba farlo in modo rapido, quasi per... contentare l’ampiezza del proprio esofago! Per ampliamento semantico poi cannaruto à anche estensivamente i medesimi significati delle due voci seguenti, valendo cioè ghiotto, goloso (soprattutto di cibi dolci). La voce ovviamente etimologicamente à la medesima derivazione delle precedenti cannarizzia e cannarutizzia con il medesimo aggancio al verbo cannarià;
- gliuttone agg.vo e sost. m. non si tratta di un accrescitivo come invece potrebbe lasciar intendere il suff. one; in napoletano non esiste né mai è attestato uno gliutto di cui gliuttone sarebbe l’accrescitivo ;la voce a margine vale ghiotto, goloso (soprattutto di cibi dolci), ingordo, leccardo, lurco ed à il suo etimo nel lat. volg. glŭttone(m), da guttur -uris 'gola' e quindi 'golosità'; da glŭttone(m)→gliuttone con tipica dittongazione della ŭ;
-guliuso/vuliuso agg.vo e sost. m. che vale: desideroso, bramoso, avido, ghiottone, mangione, ingordo, che mostra o esprime voglia, desiderio di cibi abbondanti e succulenti; la voce a margine ça va sans dire è da collegarsi alla voce gulio/vulio = voglia che è voce attestata sia come gulio che come vulio con consueta alternanza partenopea di c o g in v o altrove al contrario della v in g come ad es in guappo che è dal latino vappa; cfr.anche volpe/golpe, vunnella/gunnella, vongola←concula etc. ; l’etimo di gulio/vulio (donde le voci a margine addizionate del suffisso maschile oso/uso che al femm. è osa e che derivato dal lat. osus indica abbondanza di qualità ) trae forse da un incrocio tra gola e voglia quest’ultima da collegare al verbo volere che è dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui, ma, a mio parere non gli è estraneo il francese antico goule= gola o il piú moderno goulée= boccone;
- leccaréssa agg.vo e sost.femm. ed esclusivamente femminile: non si trova attestato un eventuale maschile leccarisso; voce antica ed abbondantemente desueta usata sí e no in qualche antico scrittore scrittore campano come il Carlo Mormile da Frattamaggiore, il G.B. Basile (NA 1575 † ivi 1642) e l’anonimo autore delle Farse Cavaiole, voce non riportata neppure in tutti gli antichi dizionarî: P. P. Volpe – R.Andreoli; presente solamente nel solito corredatissimo vecchio, ma insostituibile R.D’Ambra e nei moderni Altamura e D’Ascoli e che vi attingono a piene mani, nel significato di golosona, leccona; la voce in esame à anche un significato traslato di adescatrice, seduttrice ma francamente mi riesce un po’ difficoltoso cogliere il passaggio semantico operato per giungere ad adescatrice, seduttrice partendo da golosona, leccona a meno che non si sia messo in collegamento l’atteggiamento viziosamente carezzevole e blandente dell’adescatrice con l’analogo comportamento di una golosona che quasi blandisce e carezza e/o lecca già con gli occhi le ghiottonerie che s’appresta a consumare; quanto all’etimo la voce leccaressa m’appare un derivato, piú che di un fantasioso *leccatrix come sostenuto dall’Altamura, del francese lécheuse incrociato con il verbo leccare;
- lupone agg.vo e sost.masch. ancóra in uso correntemente nel significato di mangione, divoratore, chi abitualmente mangia molto o con avidità; si tratta ovviamente di un accrescitivo (cfr. il suff. one) del sostantivo lupo che è simbolo oltreché di aggressività e forza malvagia,di incontenibile voracità:magnà comme a ‘nu lupo/lupone= mangiare come un lupo, mangiare molto ed avidamente; l’etimo di lupone è dal lat. lupu(m)+ one; e siamo giunti infine a
-sbudellone agg.vo e sost.masch. ancóra in uso correntemente nel significato di mangione, divoratore, crapulone,strippone, ghiottone, goloso e per ampliamento semantico anche parassita; quanto all’etimo si tratta di voce ricavata da budello ( che è dal lat. botellu(m), dim. di botulus 'salsiccia') addizionato da un suff. accrescitivo one e di una s protetica intensiva e di per sé sbudellone varrebbe: provvisto di grosso e capace budello e dunque gran mangiatorea crepapelle; la voce a margine si può anche ritenere un deverbale di sbudellià= mangiare avidamente etc verbo da non confondere con sbudellà che vale sbudellare cioè aprire il ventre ad un animale per levarne le viscere e per traslato riferito a persona, colpire al ventre producendo una grave ferita; anche il verbo sbudellà come sbudellià trae dal cennato budello, ma mentre in sbudellà la s protetica à valore distrattivo, in sbudellià à il tipico partenopeo valore intensivo.
Et de hoc satis, convinto di aver soddisfatto l’amica M. R. d’A che me ne chiese e forse anche altri amici che amabilmente mi seguono.
raffaele bracale
Mi è stato chiesto dall’amica M.R.d’A. (al solito son costretto – per motivi di privatezza - a limitarmi alle iniziali di nome e cognome) di illustrare il significato dell’agg.vo partenopeo cannaruto. Premesso che la voce cannaruto vale l’italiano molto goloso ma anche vorace,approfitto della richiesta per dilungarmi alquanto sulle voci napoletane che rendono quelle italiane dell’epigrafe.
Cominciamo comunque con l’illustrare le voci italiane:
- gola s. f. con derivazione dal lat. gula(m) può indicare varie cose:
1 (anat.) la cavità della faringe, delimitata anteriormente dal palato molle e dalle tonsille palatine | mal di gola, denominazione generica delle affezioni che interessano gli organi posti nella gola | gola di lupo, (med.) malformazione congenita, spesso associata al labbro leporino, consistente in una fenditura longitudinale del palato
2 come luogo di transito del cibo, del fiato e della voce dà luogo a numerose locuzioni: col boccone in gola, avendo appena finito di mangiare | rimanere, restare in gola, si dice di boccone che non si riesce a deglutire o di cibo che non si riesce a digerire; (fig.) si dice della perdita di un bene della quale non ci si rassegna | essere pieno fino alla gola, essere sazio; (fig.) non poterne piú di qualcosa | bagnarsi la gola, bere alcolici | restare a gola asciutta, restare senza bere; (fig.) non riuscire a ottenere quanto si desiderava | parlare in (o di) gola, con voce difettosa, emettendo appena la voce; cantare in (o di) gola, con emissione gutturale della voce | avere un nodo, un groppo alla (o in) gola, avere il pianto in gola, essere commossi, emozionati fino al pianto, con una sensazione di impedimento nel respiro e nella deglutizione | urlare, gridare a piena gola, con tutto il fiato che si à in gola, con tutta la forza possibile | ricacciare un'offesa in gola a qualcuno, ribatterla con durezza | ricacciarsi le parole in gola, negare quanto affermato in precedenza, smentirsi | mentire per la gola, (lett.) mentire in modo sfacciato | gola profonda, (fig.) nel gergo giornalistico, persona che rivela notizie molto riservate; informatore, spia
3 (estens.) la parte anteriore del collo | pigliare, prendere uno per la gola, (fig.) imporre dure condizioni a qualcuno, approfittando del suo stato di necessità | avere l'acqua alla gola, essere sul punto di affogare; (fig.) essere in estrema difficoltà | avere il coltello alla gola, (fig.) essere costretto a fare qualcosa | mettere il coltello alla gola di qualcuno, minacciarlo con la lama del coltello contro la gola; (fig.) costringere qualcuno all'obbedienza con la forza
4 avidità di cibi o di bevande; golosità, ghiottoneria: mangiare qualcosa per gola, non per fame | far gola, (fig.) si dice di cosa che suscita desiderio | prendere qualcuno per la gola, allettarlo offrendogli cibi gustosi | prov. : ne uccide più la gola che la spada, le malattie provocate dal troppo mangiare fanno morire più persone che non la guerra
5 (teol.) uno dei sette peccati capitali
6 apertura stretta, passaggio interno: la gola del camino, del forno, del pozzo
7 (geog.) valle stretta e profonda, con pareti assai ripide o quasi verticali
8 (arch.) modanatura di una cornice
9 linea di gola, (geom) linea di lunghezza minima tra tutte le linee chiuse che si ottengono intersecando una superficie con un fascio di piani paralleli.
- golosità s. f. derivato dalla voce precedente; indica in primis l'essere goloso, il vizio della gola ma pure specialmente al plurale ciò (cibo o altro) che faccia gola, e figuratamente vale Avidità, desiderio vivo di qualcosa.
- goloso/a agg.vo e sost. masch.o femm.
indica come agg.vo 1 chi à il vizio della gola: essere goloso di dolci | (fig.) desideroso, bramoso: un uomo goloso di piaceri.
2 (non com.) ciò che stuzzica o soddisfa la gola: un cibo goloso
come s. m. indica la persona golosa ;
l’etimo è dal tardo lat. gulosu(m), deriv. di gula 'gola'
***
E veniamo al napoletano dove la voce gola si rende con la parole canna o cannarone o anche, ma raramente cannarino o meglio al pl. cannarine; la prima voce
- canna è usata soprattutto agglutinata con la preposizione in nell’espressione ‘ncanna= in gola usata sia in senso reale come nel caso di funa ‘ncanna= corda alla gola – annuzzà ‘ncanna= soffocare per non riuscire a deglutire un boccone di cibo finito per traverso oppure in senso metaforico restà ‘ncanna= restare in gola détto di ciò cui non sia pervenuti o non si sia potuto conseguire; ‘ncanna è: in+canna (che deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola); l’altra voce usata per indicare propriamente il canale della gola il gorgzzúle (dall'ant. gorgozzo o gorgozza, che è dal lat. volg. *gurgutiam, per il class. gurges -gitis 'gola’) la seconda voce – dicevo - è
- cannarone palesemente accrescitivo della pregressa canna; cannarone tuttavia non dovrebbe indicare la trachea (dal lat. tardo trachia(m), dal gr. trachêia (artìría), propr. '(arteria) ruvida', f. sost. dell'agg. trachy/s 'ruvido', perché al tatto risultano sensibili i passaggi fra un anello cartilagineo e l'altro) che è poi l’organo dell'apparato respiratorio a forma di tubo, costituito da una serie di anelli cartilaginei, compreso fra la laringe e i bronchi, organo cui si fa riferimento con il napoletano canna; cannarone è usato infatti soprattutto nelle espressioni in cui occorra sottolineare una pretesa vastità del tratto del tubo digerente che va dalla faringe allo stomaco, cioè dell’esofago (dal gr. oisophágos, comp. di óisein 'portare, trasportare' e phaghêin 'mangiare') di chi ingurgiti molto cibo e lo faccia voracemente; possiamo perciò dire che in napoletano – contrariamente da ciò che ritengono i piú avvezzi a far d’ogni erba un fascio, la voce canna corrisponde alla trachea mentre il cannarone è l’esofago.
A margine rammenterò che nell’uso del parlato soprattutto provinciale e/o dell’entroterra accanto al termine cannarone ne esistono altri due da esso derivati e che ne sono una sorta di dispregiativo e sono: cannaruozzo e cannaruozzolo; il suffisso ozzo/uozzo di matrice tardo latino volgare fu usato per indicare (cfr. Rohlfs G.S.D.L.I.E S.D. sub 1040 )qualcosa di rozzo, grossolano, contadinesco e dunque di pertinenza di voci dispregiative; tuttavia nel caso di cannaruozzolo ci troviamo in presenza di una sorta di divertente ossimoro determinato dall’aggiunta d’un suffisso diminutivo olus→olo ad un termine accrescitivo e dispregiativo come cannaruozzo (che in origine è cannar(one)+uozzo). La terza ed ultima voce usata per indicar la gola è
- cannarine/cannarinule che è, in ambedue le poco differenti presentazioni morfologiche, il plurale di cannarino/cannarinulo s. m.anch’esso derivato quale diminutivo da canna usato però per indicare né la trachea, né l’esofago quanto le due carotidi (ciascuna delle due grandi arterie del collo che dall'aorta portano il sangue alla testa con etimo d al gr. karotís -ídos, deriv. di káros 'sonno', perché si credeva che premendo queste arterie si inducesse il sonno) ed il gozzo (prob. forma accorciata di un ant. gorgozzo o gorgozza) voce che letteralmente indica il rigonfiamento nella parte anteriore del collo, dovuta all'ingrossamento della tiroide, ma nel parlato comune indica la gola tout court, per cui con la voce ‘e cannarine/cannarinule si fa riferimento a quelle parti anatomiche del collo (gozzo e/o carotidi) che se fatte oggetto di lesione da arma bianca (sgozzare) conducono rapidamente a morte il colpito: taglià ‘e cannarine a quaccheduno= sgozzarlo.
Detto della gola napoletana, diciamo della golosità (che à in napoletano due sole voci corrispondent: cannarutizzia e cannarizia); parleremo dopo delle numerosi voci napoletane corrispondenti all’italiano goloso;
- cannarutizzia sost. fm. che vale golosità, ingordigia, avidità; è voce ancóra di uso comune che etimologicamente è l’astratto dell’agg.vo cannaruto (di cui qui di sèguito) e morfologicamente va legato ad un acc.vo del tardo lat. cannarutitia(m); accanto a cannarutizzia talora nei medesimi significati si trova usato anche
- cannarizzia derivato da un lat. popolare *cannaritia. Epperò sia per cannarizzia che per cannarutizzia penso che non sia errato vedervi un aggancio al verbo cannarià= ingoiare con ingordia, divorare verbo che a sua volta appare essere un denominale frequentativo di canna per il tramite di un *cannarjare→ cannarià.
E veniamo dulcis in fundo alle voci napoletane che rendono l’italiano goloso.
Cominciamo con due voci che di per sé nacquero per indicare una particolare modalità comportamentale e solo successivamente per traslato ed ampliamento semantico furono usate per indicare il goloso, l’ingordo e/o vorace; si tratta di appojalibbarda ed appujatore:
- appojalibbarda letteralmente colui che poggia l’alabarda
id est: scroccatore, profittatore a spese altrui ed estensivamente goloso, mangione, ingordo e/o vorace L’aggettivo antichissimo risalente al periodo viceregnale, viene tuttora usato quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, acquartierati in quelli che poi sarebbero stati ed ancóra sono chiamati quartieri (spagnoli) a monte della centralissima strada di Toledo, erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade limitrofe degli acquartieramenti, ma poi per un po’ tutte le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate; lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case ( meglio nei cosiddetti bassi (voce il cui sg. basso è derivato dal lat. bassus= posto in basso ) tipici angusti locali posti a livello stradale ed adibiti a negozi e/o abitazione di nucluei familiari spesso eccedenti la ricettività dei locali suddetti altrove détti pure fúnneche= fondaci (fúnneco, singolare di fúnneche è derivato dall'arabo funduq (attraverso lo spagnolo fúndago(con assimilazione progressiva nd→nn e variazione di tipo popolare della occlusiva velare sonora g con la piú aspra e dura occlusiva velare sorda c); ripeto: i soldati entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) donde l’ appojalibbarda a margine; la locuzione è ad litteram: appoggiare l’alabarda e valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella dell’aggettivo che è invece usata piú limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi mangi voracemente e/o ad ufo o anche di chi ottenga,contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento). appujià = appoggiare, poggiare, avvicinare una cosa a un'altra che la sorregga, (fig.) aiutare, favorire; sostenere; l’etimo della voce napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano, è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del lat. podium 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta la chiusura della tonica ō→ u, è caduta la dentale d e s’è adottato il suono di transizione j; libbarda = alabarda s. f. arma bianca costituita da un'asta di legno terminante con una scure sormontata da una lama appuntita, arma di cui erano corredati tutti i soldati della fanteria iberica; la voce libbarda deriva dalla lettura metatetica (h)el→le→li ed assimilazione regressiva mb→bb medio alto ted. helmbarte 'ascia di combattimento'; l’altra voce che ripete in origine significato e semantica di questa appojalibbarda per poi pervenire a scroccone, vorace mangiatore a sbafo è appujatore;
- appujatore aggettivo che letteralmente sta per colui che appoggia (l’alabarda) ed estensivamente, come la voce precedente, vale scroccone, sbafatore e poi avido, ingordo, insaziabile, mangione; anche questa voce - ça va sans dire – trae dal verbo appujià. E passiamo ad
- alliccapiatte aggettivo nato espressamente (non dunque estensivamente o per traslato come invece per le due voci precedenti) nato, dicevo, ad hoc per definire il vorace, l’insaziabile, il ghiotto, il goloso, il famelico letteralmente sta per colui che lecca i piatti e vale dunque avidissimo,smodato, insaziabile, mangione come è colui che non si limiti a mangiare voracemente sino in fondo i cibi che gli vengono ammanniti, ma per non lasciar neppure una briciola di ciò che si trova nei piatti iperbolicamente addirittura li lecchi! etimologicamente la voce a margine è l’agglutinazione di allicca 3° pers. sg. dell’ind. pres. del verbo alliccà (che dal lat. volg. * adligicare, frequentativo di lingere) + il sost. piatte pl. di piatto (che dal lat. volg *plattu(m), che è dal gr. platy/s 'largo, piatto';
ed eccoci ora all’aggettivo che à dato il la a queste mie paginette:
-cannaruto letteralmente come ò chiarito parlando di cannarone l’aggettivo a margine sta per provvisto di un grande esofago e perciò visto che l’esofago è la via del cibo mangiato, cannaruto vale l’italiano molto goloso ma anche vorace, avido, ingordo etc. come colui che sia quasi costretto ad ingerire grandi quantità di cibo e debba farlo in modo rapido, quasi per... contentare l’ampiezza del proprio esofago! Per ampliamento semantico poi cannaruto à anche estensivamente i medesimi significati delle due voci seguenti, valendo cioè ghiotto, goloso (soprattutto di cibi dolci). La voce ovviamente etimologicamente à la medesima derivazione delle precedenti cannarizzia e cannarutizzia con il medesimo aggancio al verbo cannarià;
- gliuttone agg.vo e sost. m. non si tratta di un accrescitivo come invece potrebbe lasciar intendere il suff. one; in napoletano non esiste né mai è attestato uno gliutto di cui gliuttone sarebbe l’accrescitivo ;la voce a margine vale ghiotto, goloso (soprattutto di cibi dolci), ingordo, leccardo, lurco ed à il suo etimo nel lat. volg. glŭttone(m), da guttur -uris 'gola' e quindi 'golosità'; da glŭttone(m)→gliuttone con tipica dittongazione della ŭ;
-guliuso/vuliuso agg.vo e sost. m. che vale: desideroso, bramoso, avido, ghiottone, mangione, ingordo, che mostra o esprime voglia, desiderio di cibi abbondanti e succulenti; la voce a margine ça va sans dire è da collegarsi alla voce gulio/vulio = voglia che è voce attestata sia come gulio che come vulio con consueta alternanza partenopea di c o g in v o altrove al contrario della v in g come ad es in guappo che è dal latino vappa; cfr.anche volpe/golpe, vunnella/gunnella, vongola←concula etc. ; l’etimo di gulio/vulio (donde le voci a margine addizionate del suffisso maschile oso/uso che al femm. è osa e che derivato dal lat. osus indica abbondanza di qualità ) trae forse da un incrocio tra gola e voglia quest’ultima da collegare al verbo volere che è dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui, ma, a mio parere non gli è estraneo il francese antico goule= gola o il piú moderno goulée= boccone;
- leccaréssa agg.vo e sost.femm. ed esclusivamente femminile: non si trova attestato un eventuale maschile leccarisso; voce antica ed abbondantemente desueta usata sí e no in qualche antico scrittore scrittore campano come il Carlo Mormile da Frattamaggiore, il G.B. Basile (NA 1575 † ivi 1642) e l’anonimo autore delle Farse Cavaiole, voce non riportata neppure in tutti gli antichi dizionarî: P. P. Volpe – R.Andreoli; presente solamente nel solito corredatissimo vecchio, ma insostituibile R.D’Ambra e nei moderni Altamura e D’Ascoli e che vi attingono a piene mani, nel significato di golosona, leccona; la voce in esame à anche un significato traslato di adescatrice, seduttrice ma francamente mi riesce un po’ difficoltoso cogliere il passaggio semantico operato per giungere ad adescatrice, seduttrice partendo da golosona, leccona a meno che non si sia messo in collegamento l’atteggiamento viziosamente carezzevole e blandente dell’adescatrice con l’analogo comportamento di una golosona che quasi blandisce e carezza e/o lecca già con gli occhi le ghiottonerie che s’appresta a consumare; quanto all’etimo la voce leccaressa m’appare un derivato, piú che di un fantasioso *leccatrix come sostenuto dall’Altamura, del francese lécheuse incrociato con il verbo leccare;
- lupone agg.vo e sost.masch. ancóra in uso correntemente nel significato di mangione, divoratore, chi abitualmente mangia molto o con avidità; si tratta ovviamente di un accrescitivo (cfr. il suff. one) del sostantivo lupo che è simbolo oltreché di aggressività e forza malvagia,di incontenibile voracità:magnà comme a ‘nu lupo/lupone= mangiare come un lupo, mangiare molto ed avidamente; l’etimo di lupone è dal lat. lupu(m)+ one; e siamo giunti infine a
-sbudellone agg.vo e sost.masch. ancóra in uso correntemente nel significato di mangione, divoratore, crapulone,strippone, ghiottone, goloso e per ampliamento semantico anche parassita; quanto all’etimo si tratta di voce ricavata da budello ( che è dal lat. botellu(m), dim. di botulus 'salsiccia') addizionato da un suff. accrescitivo one e di una s protetica intensiva e di per sé sbudellone varrebbe: provvisto di grosso e capace budello e dunque gran mangiatorea crepapelle; la voce a margine si può anche ritenere un deverbale di sbudellià= mangiare avidamente etc verbo da non confondere con sbudellà che vale sbudellare cioè aprire il ventre ad un animale per levarne le viscere e per traslato riferito a persona, colpire al ventre producendo una grave ferita; anche il verbo sbudellà come sbudellià trae dal cennato budello, ma mentre in sbudellà la s protetica à valore distrattivo, in sbudellià à il tipico partenopeo valore intensivo.
Et de hoc satis, convinto di aver soddisfatto l’amica M. R. d’A che me ne chiese e forse anche altri amici che amabilmente mi seguono.
raffaele bracale
domenica 28 settembre 2008
Carpaccio Di Carciofi E Speck
Carpaccio Di Carciofi E Speck
Ottimo piatto adatto per le afose giornate della primavera inotrata o l’estate partenopea!, ma anche nelle prime giornate autunnali.
Ingredienti e dosi per 4 persone
• 6 carciofi,
• 2 mazzetti di insalata rucola,
• 2 cespi di insalata belga (indivia).
• 100 g di speck a fettine non troppo sottili (circa 2 mm di spessore),
• 1 limone non trattato,
• 50 g di ricotta di pecora stagionata ed infornata,
• in alternativa 100 g. di caciocavallo piccante tagliato a scaglie,
• 10 cucchiai di olio d'oliva extra-vergine
• 2 cucchiai di aceto balsamico
• Sale doppio alle erbette e pepe bianco q.s.
• Preparazione
Mondate i carciofi, divideteli longitudinalmente a metà, eliminate il fieno e lavateli in acqua e succo di limone.
Lavate bene la rucola e l'insalata belga, quindi sgocciolate i carciofi e tagliateli longitudinalmente a fettine molto sottili.
Sui piatti individuali o su un piatto da portata, disponete le foglie di belga alternandole alle fettine di speck, poi unite la rucola e i carciofi.
In una ciotola versate l'olio, l'aceto, il sale e il pepe.
Emulsionate bene poi versate la salsa sui carciofi.
Cospargete con la ricotta sbriciolata o il caciocavallo a scaglie e servite dopo d’aver fatto transitare il carpaccio per un’ora nel frigo.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Ottimo piatto adatto per le afose giornate della primavera inotrata o l’estate partenopea!, ma anche nelle prime giornate autunnali.
Ingredienti e dosi per 4 persone
• 6 carciofi,
• 2 mazzetti di insalata rucola,
• 2 cespi di insalata belga (indivia).
• 100 g di speck a fettine non troppo sottili (circa 2 mm di spessore),
• 1 limone non trattato,
• 50 g di ricotta di pecora stagionata ed infornata,
• in alternativa 100 g. di caciocavallo piccante tagliato a scaglie,
• 10 cucchiai di olio d'oliva extra-vergine
• 2 cucchiai di aceto balsamico
• Sale doppio alle erbette e pepe bianco q.s.
• Preparazione
Mondate i carciofi, divideteli longitudinalmente a metà, eliminate il fieno e lavateli in acqua e succo di limone.
Lavate bene la rucola e l'insalata belga, quindi sgocciolate i carciofi e tagliateli longitudinalmente a fettine molto sottili.
Sui piatti individuali o su un piatto da portata, disponete le foglie di belga alternandole alle fettine di speck, poi unite la rucola e i carciofi.
In una ciotola versate l'olio, l'aceto, il sale e il pepe.
Emulsionate bene poi versate la salsa sui carciofi.
Cospargete con la ricotta sbriciolata o il caciocavallo a scaglie e servite dopo d’aver fatto transitare il carpaccio per un’ora nel frigo.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
INSALATA CAPRESE
INSALATA CAPRESE
Si è allontanata l’estate,ma comunque è sempre tempo di cibi freschi ed appetitosi, con preparazioni rapide; vi consiglio questa squisita caprese.
DOSI PER 4 PERSONE
½ kg. Di mozzarella di bufala (possibilmente aversana)
½ kg. Di pomidoro cuore di bue sodi e non eccessivamente maturi
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
4 o 5 filetti di acciuga sott’olio
½ etto di capperi dissalati
1 cipolla dorata affettata sottilmente
1 cucchiaio di origano
alcuni ciuffetti di basilico fresco,
Sale doppio e pepe decorticato q.s.
PROCEDIMENTO
Lavate accuratamente i pomidoro, privateli del peduncolo verde ed affettateli , inferendo un taglio verticale lungo l’asse nord-sud in modo da ottenere delle sode fette spesse circa 1 cm.
Ugualmente affettate la mozzarella ottenendone fette di 1 cm di spessore; sistemate in un piatto di portata le fette di pomidoro, alternandole con quelle di mozzarella, salate pepate aggiungendo la cipolla affettata sottilmente, i capperi lavati e dissalati, i filetti d’acciuga; spolverizzate sul tutto il cucchiaio di origano ed irrorate a filo con tutto l’olio; guarnite con i ciuffi di basilico e trasferite il piatto in frigo per circa 1 ora.
Servite con crostini di pane bruscati al forno, accompagnando con profumati vini bianchi, possibilmente campani (Ischia – Capri) freddi di frigo.
Per completare il pasto, è sufficiente una coppa di buon gelato alla crema.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Si è allontanata l’estate,ma comunque è sempre tempo di cibi freschi ed appetitosi, con preparazioni rapide; vi consiglio questa squisita caprese.
DOSI PER 4 PERSONE
½ kg. Di mozzarella di bufala (possibilmente aversana)
½ kg. Di pomidoro cuore di bue sodi e non eccessivamente maturi
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
4 o 5 filetti di acciuga sott’olio
½ etto di capperi dissalati
1 cipolla dorata affettata sottilmente
1 cucchiaio di origano
alcuni ciuffetti di basilico fresco,
Sale doppio e pepe decorticato q.s.
PROCEDIMENTO
Lavate accuratamente i pomidoro, privateli del peduncolo verde ed affettateli , inferendo un taglio verticale lungo l’asse nord-sud in modo da ottenere delle sode fette spesse circa 1 cm.
Ugualmente affettate la mozzarella ottenendone fette di 1 cm di spessore; sistemate in un piatto di portata le fette di pomidoro, alternandole con quelle di mozzarella, salate pepate aggiungendo la cipolla affettata sottilmente, i capperi lavati e dissalati, i filetti d’acciuga; spolverizzate sul tutto il cucchiaio di origano ed irrorate a filo con tutto l’olio; guarnite con i ciuffi di basilico e trasferite il piatto in frigo per circa 1 ora.
Servite con crostini di pane bruscati al forno, accompagnando con profumati vini bianchi, possibilmente campani (Ischia – Capri) freddi di frigo.
Per completare il pasto, è sufficiente una coppa di buon gelato alla crema.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
FRUCULEATENNE! & FUTTATENNE!
FRUCULEATENNE! & FUTTATENNE!
Questi in epigrafe sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2 pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m. e f. , sing. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne.
Ma torniamo alle due espressioni in epigrafe e dandone il significato che ovviamente necessiterà d’un giro di parole; il napoletano infatti spessissimo è piú stringato ed gli occorrono meno parole dell’italiano per esprimere incisivamente un concetto. Nella fattispecie sia con l’espressione fruculeatenne che con l’espressione futtatenne si intende pressantemente consigliare (ed ecco perché è usato l’ imperativo piuttosto che un piú morbido congiuntivo ottativo...) si intende consigliare, dicevo, colui cui venga rivolta una o ambedue le espressioni ad impiparsi di un qualcosa, a tenere in non cale un’accadimento, una faccenda, a non curarsi, ad infischiarsi di qualcuno o piú spesso di qualcosa.
Piú esattamente l’espressione fruculeatenne è potremmo dire un modo piú dolce e meno duro, quando non addirittura piú frivolo, per significare il medesimo concetto dell’espressione futtatenne che risulta essere piú dura, salutarmente sanguigna pur se addirittura becera; ambedue gli imperativi in epigrafe risultano, comunque incisivamente piú significativi del corrispondente algido impípatene della lingua italiana!
Ora consideriamo piú da presso le due espressioni e cominciamo con
- fruculeatenne come ò già detto si tratta di un imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; e vale morfologicamente esattamente impipa-te-di ciò; l’etimo del verbo fruculeà/fruculià affonda nel lat. fricare= strofinare, stropicciare ed estensivamente frantumare in piccoli pezzi ed a questa estensione che occorre pensare per percorrere la via semantica seguíta per comprendere il passaggio tra il verbo latino inteso come frantumare in piccoli pezzi ed il napoletano fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; in effetti di qualcosa che venga frantumato in minutissimi pezzi, non vale mettere conto, interessarsene per modo che se ne può impipare tranquillamente.
E passiamo a
- Futtatenne! Anche per la voce a margine, come ò già detto, ci troviamo a che fare con una voce verbale e cioè con l’imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fotterse-ne= impiparse-ne, infischiarse- ne nella medesima valenza del pregresso fruculeatenne quantunque la voce a margine abbia rispetto alla prima voce in esame un’espressività piú dura, sanguigna, impetuosa, anzi addirittura becera atteso che col verbo di cui è imperativo non richiama la frantumazione di qualcosa in piccoli pezzi di cui disinteressarsi, ma molto piú sanguignamente – direi – chiama in causa una... pratica sessuale (il coito) quasi che la faccenda di cui disinteressarsi sia di nessun conto o non abbia nerbo per cui se ne possa con ogni tranquillità abusare quasi congiungendovisi in un ... rapporto sessuale. In effetti l’etimo del verbo fottere donde il riflessivo fotterse-ne e l’imperativo a margine affonda nel lat. futúere→fúttere (con tipico raddoppiamento della consonante antecedente la ú seguíta da vocale e ritrazione dell’accento) verbo che sta per coire, avere rapporti sessuali oltre che raggirare, imbrogliare. Semanticamente anche in questo caso, come per la precedente voce fruculeatenne occorre pensare che di qualcosa che venga impunemente posseduto carnalmente ad libitum, non vale mettere conto, interessarsene per modo che uno se ne può impipare tranquillamente
Preciso ancóra, ad abundantiam, che letteralmente la voce a margine vale Infischiatene, Non dar peso, Lascia correre, Non porvi attenzione. È il pressante invito a tenere i comportamenti indicati rivolto a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Rammento che tale icastico, sanguigno invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero a caratteri cubitali sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma e Gli avrebbero in ogni caso tributato tutta la dulía che sin dal 305 anno del martirio del santo vescovo, gli era stata devotamente riconosciuta.
raffaele bracale
Questi in epigrafe sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2 pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m. e f. , sing. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne.
Ma torniamo alle due espressioni in epigrafe e dandone il significato che ovviamente necessiterà d’un giro di parole; il napoletano infatti spessissimo è piú stringato ed gli occorrono meno parole dell’italiano per esprimere incisivamente un concetto. Nella fattispecie sia con l’espressione fruculeatenne che con l’espressione futtatenne si intende pressantemente consigliare (ed ecco perché è usato l’ imperativo piuttosto che un piú morbido congiuntivo ottativo...) si intende consigliare, dicevo, colui cui venga rivolta una o ambedue le espressioni ad impiparsi di un qualcosa, a tenere in non cale un’accadimento, una faccenda, a non curarsi, ad infischiarsi di qualcuno o piú spesso di qualcosa.
Piú esattamente l’espressione fruculeatenne è potremmo dire un modo piú dolce e meno duro, quando non addirittura piú frivolo, per significare il medesimo concetto dell’espressione futtatenne che risulta essere piú dura, salutarmente sanguigna pur se addirittura becera; ambedue gli imperativi in epigrafe risultano, comunque incisivamente piú significativi del corrispondente algido impípatene della lingua italiana!
Ora consideriamo piú da presso le due espressioni e cominciamo con
- fruculeatenne come ò già detto si tratta di un imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; e vale morfologicamente esattamente impipa-te-di ciò; l’etimo del verbo fruculeà/fruculià affonda nel lat. fricare= strofinare, stropicciare ed estensivamente frantumare in piccoli pezzi ed a questa estensione che occorre pensare per percorrere la via semantica seguíta per comprendere il passaggio tra il verbo latino inteso come frantumare in piccoli pezzi ed il napoletano fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; in effetti di qualcosa che venga frantumato in minutissimi pezzi, non vale mettere conto, interessarsene per modo che se ne può impipare tranquillamente.
E passiamo a
- Futtatenne! Anche per la voce a margine, come ò già detto, ci troviamo a che fare con una voce verbale e cioè con l’imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fotterse-ne= impiparse-ne, infischiarse- ne nella medesima valenza del pregresso fruculeatenne quantunque la voce a margine abbia rispetto alla prima voce in esame un’espressività piú dura, sanguigna, impetuosa, anzi addirittura becera atteso che col verbo di cui è imperativo non richiama la frantumazione di qualcosa in piccoli pezzi di cui disinteressarsi, ma molto piú sanguignamente – direi – chiama in causa una... pratica sessuale (il coito) quasi che la faccenda di cui disinteressarsi sia di nessun conto o non abbia nerbo per cui se ne possa con ogni tranquillità abusare quasi congiungendovisi in un ... rapporto sessuale. In effetti l’etimo del verbo fottere donde il riflessivo fotterse-ne e l’imperativo a margine affonda nel lat. futúere→fúttere (con tipico raddoppiamento della consonante antecedente la ú seguíta da vocale e ritrazione dell’accento) verbo che sta per coire, avere rapporti sessuali oltre che raggirare, imbrogliare. Semanticamente anche in questo caso, come per la precedente voce fruculeatenne occorre pensare che di qualcosa che venga impunemente posseduto carnalmente ad libitum, non vale mettere conto, interessarsene per modo che uno se ne può impipare tranquillamente
Preciso ancóra, ad abundantiam, che letteralmente la voce a margine vale Infischiatene, Non dar peso, Lascia correre, Non porvi attenzione. È il pressante invito a tenere i comportamenti indicati rivolto a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Rammento che tale icastico, sanguigno invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero a caratteri cubitali sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma e Gli avrebbero in ogni caso tributato tutta la dulía che sin dal 305 anno del martirio del santo vescovo, gli era stata devotamente riconosciuta.
raffaele bracale
venerdì 26 settembre 2008
VERMICELLONI CU ‘E FRIARIELLI
VERMICELLONI CU ‘E FRIARIELLI
I friarielli, tipica verdura napoletana, sono molto simili alle cime di rape,anche se di sapore piú gradevolmente amaro; sono insomma dei broccoletti con infiorescenze appena sviluppate. Si cucinano normalmente soffriggendoli ben mondati e lavati, a crudo! in aglio, olio e peperoncino, e rappresentano uno dei piatti piú caratteristici della cucina napoletana; devono il loro nome, peraltro intraducibile appunto al fatto che devono esser fritti. Difficilmente si trovano lontano da Napoli. Si può tentare di sostituirli con le cime di rape, ma non è la stessa cosa!
Dosi per sei persone:
6 etti di vermicelloni, 5 fasci di friarielli, 3 spicchi d’aglio, 1 peperoncino piccante, 1 bicchiere d’olio d’oliva extra vergine,1/2 etto di pecorino grattugiato
sale fino q.s. pepe bianco q.s.
sale doppio – un pugno
procedimento
Mondate i friarielli spezzettando a mano le foglie piú grosse ed i gambi piú teneri, lavateli in acqua fredda e sistemateli in un’ampia padella di ferro dove avrete fatto soffriggere nell’olio l’aglio mondato e schiacciato facendolo prender colore insieme al peperoncino piccante spezzettato; incoperchiate e rimestate di tanto in tanto fino a che la verdura diventi morbida; portate a cottura e solo alla fine salate e pepate e mantenete in caldo; nella stessa padella dove avete soffritto i friarielli, versate il restante olio ed altro aglio mondato e tritato; fate colorire l’aglio e versate nell’intingolo i vermicelloni che frattanto avrete lessato al dente in abbondante (8 litri) acqua salata (sale doppio); rimestate ed aggiungete i friarielli soffritti che avrete tagluzzato con un coltello; rimestate ancora, impiattate cospargendo i piatti di pecorino grattugiato.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
I friarielli, tipica verdura napoletana, sono molto simili alle cime di rape,anche se di sapore piú gradevolmente amaro; sono insomma dei broccoletti con infiorescenze appena sviluppate. Si cucinano normalmente soffriggendoli ben mondati e lavati, a crudo! in aglio, olio e peperoncino, e rappresentano uno dei piatti piú caratteristici della cucina napoletana; devono il loro nome, peraltro intraducibile appunto al fatto che devono esser fritti. Difficilmente si trovano lontano da Napoli. Si può tentare di sostituirli con le cime di rape, ma non è la stessa cosa!
Dosi per sei persone:
6 etti di vermicelloni, 5 fasci di friarielli, 3 spicchi d’aglio, 1 peperoncino piccante, 1 bicchiere d’olio d’oliva extra vergine,1/2 etto di pecorino grattugiato
sale fino q.s. pepe bianco q.s.
sale doppio – un pugno
procedimento
Mondate i friarielli spezzettando a mano le foglie piú grosse ed i gambi piú teneri, lavateli in acqua fredda e sistemateli in un’ampia padella di ferro dove avrete fatto soffriggere nell’olio l’aglio mondato e schiacciato facendolo prender colore insieme al peperoncino piccante spezzettato; incoperchiate e rimestate di tanto in tanto fino a che la verdura diventi morbida; portate a cottura e solo alla fine salate e pepate e mantenete in caldo; nella stessa padella dove avete soffritto i friarielli, versate il restante olio ed altro aglio mondato e tritato; fate colorire l’aglio e versate nell’intingolo i vermicelloni che frattanto avrete lessato al dente in abbondante (8 litri) acqua salata (sale doppio); rimestate ed aggiungete i friarielli soffritti che avrete tagluzzato con un coltello; rimestate ancora, impiattate cospargendo i piatti di pecorino grattugiato.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
GATTÒ DI PATATE
GATTÒ DI PATATE
Nota introduttiva
Il gattò di patate napoletano è una torta rustica, salata o meglio uno sformato di patate tipico della cucina partenopea dove fu introdotto dai cuochi francesi chiamati nel Reame di Napoli in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone; il gattò, però non è piatto derivante dalla cucina francese, ma fu inventato qui nel Reame, con tutti gli ingredienti usati nella cucina napoletana, con la sola eccezione del burro (ingrediente per solito …nordico) questa volta usato in luogo dell’olio d’oliva e.v. tipico della cucina meridionale (ma possono essere ambedue sostituiti proficuamente con dello strutto...) e con l’eccezione del pomodoro mancante del tutto in questa preparazione il cui nome è gattò, evidente corruzione del lemma francese gateau (torta); al proposito ricorderò che la parola gattò entrò anche, dopo la discesa dei cuochi francesi detti dai napoletani monzú,corrompendo il francese monsieur, nelle pasticceria napoletana dove con il nome di gattò mariaggio con evidente corruzione di gateau du mariage si indicò la dolce torta nuziale. Torniamo al gattò di patate.
DOSI per 6 persone
1,5 kg di patate vecchie a pasta gialla,
2 bicchieri di latte intero,
2 etti di burro ammorbidito (oppure e meglio 1 etto e ½ di strutto),
3 etti di salame tipo napoli tagliato a listarelle di cm.3 x ½ x 1,
4 etti di provola affumicata tagliata a dadini di 1,5 cm. di spigolo,
6 uova di cui 2 rassodate(facendole cioè cuocere con il guscio in acqua bollente per la durata di 7’a partire dal primo bollore),sgusciate, sciacquate e tagliate a fettine,
100 grammi di pecorino laticauda grattugiato,
2 cucchiai di pangrattato,
Sale fino, noce moscata e pepe nero macinato q. s.
Procedimento.
Lessare le patate con la buccia (o cuocerle in microonde).
Ancora calde, pelarle e passarle allo schiaccia-patate. Metterle in una grossa ciotola.
Aggiungere metà del burro o dello strutto e mescolare a mani nude finché sia completamente amalgamato, quindi unire 4 uova intere, il latte, una manciata di pecorino, un po’ di noce moscata, il salame e le fettine di uova sode. Regolar di sale, aggiungere il pepe macinato.
Ungere molto con il burro o lo strutto residui una teglia di circa 30 cm. di diametro e cospargerla di pan grattato.
Fare un unico strato con il composto di patate avendo cura di farlo ben aderire al fondo e alle pareti della teglia.
Cospargere di pan grattato e fiocchetti di burro o strutto.
Cuocere in forno già caldo a circa 190 gradi per 30-35 minuti o fino a che la superficie non sia ben dorata.
In alternativa (ed a me piace di piú…) il gattò può essere anche fritto già monoporzionato, in successive volte, sulla fiamma in una teglia appena unta d’olio fino a che non risulti ben dorato.
Rammentarsi che l’impasto e la sistemazione nella teglia va fatto rigorosamente a mani nude senza l’ausilio di posate!
Togliere dal forno o dal fuoco ed attendere che si raffreddi (occorrerà circa una mezz'ora) prima di servire il gattò tagliato in ampie fette, se non già monoporzionato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Nota introduttiva
Il gattò di patate napoletano è una torta rustica, salata o meglio uno sformato di patate tipico della cucina partenopea dove fu introdotto dai cuochi francesi chiamati nel Reame di Napoli in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone; il gattò, però non è piatto derivante dalla cucina francese, ma fu inventato qui nel Reame, con tutti gli ingredienti usati nella cucina napoletana, con la sola eccezione del burro (ingrediente per solito …nordico) questa volta usato in luogo dell’olio d’oliva e.v. tipico della cucina meridionale (ma possono essere ambedue sostituiti proficuamente con dello strutto...) e con l’eccezione del pomodoro mancante del tutto in questa preparazione il cui nome è gattò, evidente corruzione del lemma francese gateau (torta); al proposito ricorderò che la parola gattò entrò anche, dopo la discesa dei cuochi francesi detti dai napoletani monzú,corrompendo il francese monsieur, nelle pasticceria napoletana dove con il nome di gattò mariaggio con evidente corruzione di gateau du mariage si indicò la dolce torta nuziale. Torniamo al gattò di patate.
DOSI per 6 persone
1,5 kg di patate vecchie a pasta gialla,
2 bicchieri di latte intero,
2 etti di burro ammorbidito (oppure e meglio 1 etto e ½ di strutto),
3 etti di salame tipo napoli tagliato a listarelle di cm.3 x ½ x 1,
4 etti di provola affumicata tagliata a dadini di 1,5 cm. di spigolo,
6 uova di cui 2 rassodate(facendole cioè cuocere con il guscio in acqua bollente per la durata di 7’a partire dal primo bollore),sgusciate, sciacquate e tagliate a fettine,
100 grammi di pecorino laticauda grattugiato,
2 cucchiai di pangrattato,
Sale fino, noce moscata e pepe nero macinato q. s.
Procedimento.
Lessare le patate con la buccia (o cuocerle in microonde).
Ancora calde, pelarle e passarle allo schiaccia-patate. Metterle in una grossa ciotola.
Aggiungere metà del burro o dello strutto e mescolare a mani nude finché sia completamente amalgamato, quindi unire 4 uova intere, il latte, una manciata di pecorino, un po’ di noce moscata, il salame e le fettine di uova sode. Regolar di sale, aggiungere il pepe macinato.
Ungere molto con il burro o lo strutto residui una teglia di circa 30 cm. di diametro e cospargerla di pan grattato.
Fare un unico strato con il composto di patate avendo cura di farlo ben aderire al fondo e alle pareti della teglia.
Cospargere di pan grattato e fiocchetti di burro o strutto.
Cuocere in forno già caldo a circa 190 gradi per 30-35 minuti o fino a che la superficie non sia ben dorata.
In alternativa (ed a me piace di piú…) il gattò può essere anche fritto già monoporzionato, in successive volte, sulla fiamma in una teglia appena unta d’olio fino a che non risulti ben dorato.
Rammentarsi che l’impasto e la sistemazione nella teglia va fatto rigorosamente a mani nude senza l’ausilio di posate!
Togliere dal forno o dal fuoco ed attendere che si raffreddi (occorrerà circa una mezz'ora) prima di servire il gattò tagliato in ampie fette, se non già monoporzionato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
FUNGE E FASULE
FUNGE E FASULE
Nota linguistica:
funge = funghi; la voce italiana fungo (pl. funghi) deriva dal lat. fungus, mentre il napoletano funge (sing. fungio) pur con derivazione per il singolare dal medesimo fungu(m) à subíto la palatizzazione della g che da gu→gi donde fungum à dato fungio detta palatizzazione è ovviamente mantenuta nel plurale funge.
fasule = fagioli (sing. fagiolo/fagiuolo dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos); anche il napoletano fasulo (pl. fasule) à il medesimo etimo dal lat. phaseolu(m),ma attraverso un lat. volg. *fasjólu(m) con normale passaggio di sj→s ; da notare che mentre l’italiano à trasformato la sibilante etimologica s nel gruppo gruppo palatale gi, il napoletano molto piú correttamente à mantenuto la sibilante, approdando a fasulo piuttosto che a fagiolo/fagiuolo , ragion per cui auspicherei che anche in italiano si accogliesse fasulo/e dismettendo i leziosi fagiolo/i fagiuolo/i.
E passiamo alla ricetta
ingredienti e dosi per 6 persone:
500gr. di fagioli cannellini secchi,
in alternativa 2 confezioni vitree da 250 gr. cadauna di fagioli cannellini già lessati,
1 cipolla dorata,
1 costa di sedano ed una carota lavate,grattate e divise in grossi pezzi,
1 foglia d’alloro,
5 chiodi di garofano,
una presa di sale doppio
3 grossi funghi porcini freschi (o anche surgelati se di ottima qualità),
3 spicchi d’aglio mondati e tritati,
250 gr. di pancetta tesa tagliata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
peperoncino piccante q.s.,
1 bicchiere e mezzo d’olio extravergine d’oliva,
sale doppio e pepe nero q.s..
1 ciuffo di prezzemolo tritato finemente assieme ad un aglio mondato.
procedimento
Lavare i fagioli e metteteli a mollo in acqua fredda (con un cucchiaio di bicarbonato) la sera prima di cucinarli. Il giorno successivo ponete a lessare a fuoco lentissimo i fagioli possibilmente in una pignatta di terracotta con l’acqua dell’ammollo, la cipolla, sedano e carota, la foglia d’alloro, i chiodi di garofano ed una presa di sale doppio . In un capace tegame soffriggete per 10 minuti con la metà dell’olio, l’aglio a fettine, la pancetta a cubetti ed il peperoncino tagliuzzato, poi aggiungete i funghi porcini, mondati con uno straccio umido ed un affilatissimo coltellino e sfettati alla francese in fettine da ½ cm. di spessore, bagnateli con una tazza d’acqua bollente e fate rosolare a fuoco lento regolando di sale. Frattanto in un altro tegame soffriggete nell’ olio residuo il secondo spicchio d’aglio tritato. Quando l’aglio è imbiondito scolate e aggiungete i fagioli lessati o il contenuto delle due confezioni di cannellini lessati; fate sobbollire per cinque minuti, indi unite i funghi con il loro fondo di cottura , mescolate, regolate di sale e pepe, cospargete con il trito d’aglio e prezzemolo e lasciate riposare alquanto.Impiattate aggiungendo su ogni porzione un filo di ol’olio d’oliva ed a piacere peperoncino a pezzetti e servite come gustoso primo piatto o come contorno di portate di carni in umido o formaggi stagionati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Nota linguistica:
funge = funghi; la voce italiana fungo (pl. funghi) deriva dal lat. fungus, mentre il napoletano funge (sing. fungio) pur con derivazione per il singolare dal medesimo fungu(m) à subíto la palatizzazione della g che da gu→gi donde fungum à dato fungio detta palatizzazione è ovviamente mantenuta nel plurale funge.
fasule = fagioli (sing. fagiolo/fagiuolo dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos); anche il napoletano fasulo (pl. fasule) à il medesimo etimo dal lat. phaseolu(m),ma attraverso un lat. volg. *fasjólu(m) con normale passaggio di sj→s ; da notare che mentre l’italiano à trasformato la sibilante etimologica s nel gruppo gruppo palatale gi, il napoletano molto piú correttamente à mantenuto la sibilante, approdando a fasulo piuttosto che a fagiolo/fagiuolo , ragion per cui auspicherei che anche in italiano si accogliesse fasulo/e dismettendo i leziosi fagiolo/i fagiuolo/i.
E passiamo alla ricetta
ingredienti e dosi per 6 persone:
500gr. di fagioli cannellini secchi,
in alternativa 2 confezioni vitree da 250 gr. cadauna di fagioli cannellini già lessati,
1 cipolla dorata,
1 costa di sedano ed una carota lavate,grattate e divise in grossi pezzi,
1 foglia d’alloro,
5 chiodi di garofano,
una presa di sale doppio
3 grossi funghi porcini freschi (o anche surgelati se di ottima qualità),
3 spicchi d’aglio mondati e tritati,
250 gr. di pancetta tesa tagliata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
peperoncino piccante q.s.,
1 bicchiere e mezzo d’olio extravergine d’oliva,
sale doppio e pepe nero q.s..
1 ciuffo di prezzemolo tritato finemente assieme ad un aglio mondato.
procedimento
Lavare i fagioli e metteteli a mollo in acqua fredda (con un cucchiaio di bicarbonato) la sera prima di cucinarli. Il giorno successivo ponete a lessare a fuoco lentissimo i fagioli possibilmente in una pignatta di terracotta con l’acqua dell’ammollo, la cipolla, sedano e carota, la foglia d’alloro, i chiodi di garofano ed una presa di sale doppio . In un capace tegame soffriggete per 10 minuti con la metà dell’olio, l’aglio a fettine, la pancetta a cubetti ed il peperoncino tagliuzzato, poi aggiungete i funghi porcini, mondati con uno straccio umido ed un affilatissimo coltellino e sfettati alla francese in fettine da ½ cm. di spessore, bagnateli con una tazza d’acqua bollente e fate rosolare a fuoco lento regolando di sale. Frattanto in un altro tegame soffriggete nell’ olio residuo il secondo spicchio d’aglio tritato. Quando l’aglio è imbiondito scolate e aggiungete i fagioli lessati o il contenuto delle due confezioni di cannellini lessati; fate sobbollire per cinque minuti, indi unite i funghi con il loro fondo di cottura , mescolate, regolate di sale e pepe, cospargete con il trito d’aglio e prezzemolo e lasciate riposare alquanto.Impiattate aggiungendo su ogni porzione un filo di ol’olio d’oliva ed a piacere peperoncino a pezzetti e servite come gustoso primo piatto o come contorno di portate di carni in umido o formaggi stagionati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Fritto misto alla napoletana
Fritto misto alla napoletana
Ingredienti per sei persone
Carciofi 4
Cavolfiore napoletano 1
melanzane violette napoletane 4
zucchine grandi verdi e sode 500 gr.
Ricotta di pecora 500 gr
Patate medie 6
Uova sode 5
pan grattato 6 cucchiai
un pugno di sale doppio
Olio di semi per friggere q.s.
Pastella q.s.
Per la pastella
Uova 4
Farina 2 tazze
Acqua minerale 2 tazze
Sale fino q.s.
Olio extra vergine due cucchiai.
.
Preparazione
Liberate il cavolo delle foglie esterne e dividetelo in piccole cimette che laverete velocemente in acqua fredda corrente.
Fate cuocere per 3-4 minuti le cime del cavolo in acqua bollente salata. Sgrondatele e fatele raffreddare.
Prima di pulire i carciofi preparate una ciotola con acqua e limone per evitare che anneriscano.
Pulite i carciofi tagliando il gambo, le foglie esterne e la punta,divideteli longitudinalmente in due parti; eliminate il fieno e tagliateli sempre longitudinalmente in spicchi dello spessore di ½ centimetro.
Sbucciate le patate e tagliatele a rondelle alte ½ centimetro altrimenti non cuociono.
Tagliate la ricotta a fette allo spessore di un cm.
Spuntate, lavate ed affettate longitudinalmente sia melanzane che zucchine in fette di ½ cm. di spessore
Sgusciate le uova sode e sciacquatele velocemente, tagliando ognuna in 4 spicchi.
Preparate la pastella
Ponete una padella piuttosto capiente sul fuoco, aggiungete l’olio per friggere, nel frattempo immergete tutti (escluso le uova sode i cui spicchi vanno rollati nel pangrattato)gli ingredienti nella pastella e friggete.
Lasciate dorare ed adagiate il fritto su carta assorbente. Salate bene e servite il fritto ben caldo.
NOTA
Il fritto può ulteriormente essere arricchito con
piccoli panzarotti di patate
paste cresciute
minuscole arancine di riso
brak
Ingredienti per sei persone
Carciofi 4
Cavolfiore napoletano 1
melanzane violette napoletane 4
zucchine grandi verdi e sode 500 gr.
Ricotta di pecora 500 gr
Patate medie 6
Uova sode 5
pan grattato 6 cucchiai
un pugno di sale doppio
Olio di semi per friggere q.s.
Pastella q.s.
Per la pastella
Uova 4
Farina 2 tazze
Acqua minerale 2 tazze
Sale fino q.s.
Olio extra vergine due cucchiai.
.
Preparazione
Liberate il cavolo delle foglie esterne e dividetelo in piccole cimette che laverete velocemente in acqua fredda corrente.
Fate cuocere per 3-4 minuti le cime del cavolo in acqua bollente salata. Sgrondatele e fatele raffreddare.
Prima di pulire i carciofi preparate una ciotola con acqua e limone per evitare che anneriscano.
Pulite i carciofi tagliando il gambo, le foglie esterne e la punta,divideteli longitudinalmente in due parti; eliminate il fieno e tagliateli sempre longitudinalmente in spicchi dello spessore di ½ centimetro.
Sbucciate le patate e tagliatele a rondelle alte ½ centimetro altrimenti non cuociono.
Tagliate la ricotta a fette allo spessore di un cm.
Spuntate, lavate ed affettate longitudinalmente sia melanzane che zucchine in fette di ½ cm. di spessore
Sgusciate le uova sode e sciacquatele velocemente, tagliando ognuna in 4 spicchi.
Preparate la pastella
Ponete una padella piuttosto capiente sul fuoco, aggiungete l’olio per friggere, nel frattempo immergete tutti (escluso le uova sode i cui spicchi vanno rollati nel pangrattato)gli ingredienti nella pastella e friggete.
Lasciate dorare ed adagiate il fritto su carta assorbente. Salate bene e servite il fritto ben caldo.
NOTA
Il fritto può ulteriormente essere arricchito con
piccoli panzarotti di patate
paste cresciute
minuscole arancine di riso
brak
IL DIAVOLO
IL DIAVOLO
Questa volta su richiesta dell’amico F.P. (il consueto motivo di riservatezza m’impedisce di fare per esteso nome e cognome e mi obbliga alle iniziali...) tenterò di esaminare tutte le voci napoletane usate per rendere quella dell’epigrafe.
In primis è da ricordare che in napoletano esistono numerosissime voci per tradurre la parola diavolo (ne ò reperite, se non ò sbagliato il conto, ben diciotto!) alcune delle quali son nomi comuni e generici, altri quasi dei nomi proprî.
Ciò détto comincio con l’esaminare la voce italiana
- diavolo (teol.) Spirito del male (chiamato anche demonio), nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana (cfr. oltre), principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero (cfr. oltre) , capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare'.
- Satana nome comune ripreso come proprio ed è voce che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore';
- Lucifero altro nome comune ripreso come proprio ed è voce che deriva dal lat. lucĭfer -a -um, comp. di lux lucis "luce" e fer "-fero", calco del gr. phōsphóros].di per sé agg., lett. Che porta la luce, che dà luce: come s. m. vale con iniziale maiusc. a) Il pianeta Venere nelle sue apparizioni mattutine. b) Satana, il demonio. c) (fig.) Persona malvagia.
Passiamo al napoletano ed abbiamo:
- Deavolo è voce molto generica e non molto usata..., ricalcata come l’italiano diavolo (di cui parrebbe addirittura un adattamento...) su di un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore'
- Demmonio altra voce molto generica, ma questa piú usata della precedente soprattutto nelle imprecazioni (mannaggia ô demmonio) o come riferimenti iperbolici o nei riguardi di bambini e/o ragazzi particolarmente vivaci (‘stu guaglione è ‘nu demmonio oppure ‘stu guaglione tene ‘e demmonie ‘ncuollo , espressioni che valgono: non trovar pace, non stare mai fermo etc. ) o anche nei riguardi di adulto inteso persona malvagia o straordinariamente astuta o anche persona vivace, irrequieta: chella bbella guagliona: è proprio ‘nu demmonio! | nel linguaggio familiare è riferito a persona straordinariamente dotata, abile etc: a scupone è ‘nu vero demmonio! È ‘nu demmonio comme porta ‘a machina ! è voce derivata dal lat. tardo daemoniu(m), dal gr. daimónion, propr. 'che appartiene alla divinità'; faccio notare che nel greco e tardo latino la voce non ebbe connotazioni negative e le acquistò solo quando la voce demonio/demmonio fu intesa come sinonimo di diavolo.
- Avèrzerco - averzèrio letteralmente sono ambedue nomi com. masch. sing. e valgono avversario,contraddittore nella medesima valenza del termine ebraico satan. Il primo però da nome comune masch. è stato poi riferito, (soprattutto nel linguaggio popolare della città bassa) particolarmente al diavolo inteso come il piú pericoloso ed accanito degli avversarii e/o contraddittóri e come tale la voce à finito per essere intesa nome proprio e come tale da scriversi con l’iniziale maiuscola Avèrzerco mentre averzèrio è continuato ad essere nome comune sebbene riferito anche al diavolo oltre che ad ogni altro oppositore, contrario. Sia Avèrzerco che averzèrio sono un denominale del lat. adversus attraverso un percorso morfologico leggermente diverso;
- Barzabbucco questa voce si differenzia dalla precedente Avèrzerco perché la voce qui a margine è - di partenza - esattamente un nome proprio e non nome comune ripreso come proprio; in effetti Barzabbucco è l’adattamento morfologico del nome ebr. Baal-zebu'signore della casa (degli inferi)' con mutamento della liquida l→r , raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva b e paragoge della sillaba evanescente finale cco per evitare l’eventuale tronca Barza bbú che poteva risultare troppo musicale e... frivola per il nome di un diavolo! In effetti nella Bibbia Baal-zebu è indicato quale nome del principe degli spiriti maligni e sarebbe stato disdicevole e non consono renderlo con uno squillante Barza bbú; molto piú adatto il piano e serioso Barzabbucco
- Bruttone Con questa voce ritorniamo ad occuparci della trasformazione in nome proprio di una voce comune come il pregresso Avèrzerco; qui però invece di un nome comune si è trasformato in nome proprio addirittura un aggettivo (sia pure un accrescitivo...) In effetti con la voce Bruttone (accrescitivo di brutto cfr. il suff. one) si è inteso attribuire al diavolo la qualifica di essere il piú brutto pensabile e/o possibile, essere cioè cattivo, riprovevole, sconcio al massimo grado, il piú sfavorevole e negativo, che arreca danno e perdizione.Il diavolo è – nell’inteso comune il brutto per antonomasia e dunque Bruttone; la voce brutto ed il suo accrescitivo bruttone derivano con molta probabilità dal lat. brutu(m) 'bruto', con espressivo raddoppiamento consonantico, se non vogliamo credere al rev. Ludovico Antonio Muratori (Vignola, 21 ottobre 1672 – Modena, 23 gennaio 1750)noto studioso che ipotizzò invece un ant. alto tedesco bruttan= spaventare→spaventoso;
- Farfaro/a – Farfariello eccoci a che fare con un altro nome proprio (ed ò parlato di nome e non nomi perché chiaramente il secondo Farfariello non è che l’ipocoristico del primo!) Anche in questo caso si è partiti da un nome comune (l’arabo farfar= folletto) per approdare ai nomi proprî Farfaro/a e Farfariello
La voce napoletana Farfaro/a (usata solo come nome proprio del diavolo) non va confusa con l’omografa ed omofona dell’italiano farfara s. f. , pianta erbacea con fiori raccolti in capolini gialli e foglie cuoriformi; i fiori sono usati come medicinale contro la tosse (fam. Composite). Rammento che Farfariello fu usato (sia pure nella forma Farfarello) anche dall’Alighieri Dante come nome di uno dei diavoli del suo Inferno.
La voce napoletana Farfariello viene usata riferita al diavolo come nome proprio, ma come nome comune e/o aggettivo è riferito ad uomo dai movimenti vivaci ed imprevedibili, frivolo nei gusti e nei discorsi;
- mazzamauriello – scazzamuriello - scazzamurillo
In questo caso ci troviamo difronte a tre voci che – come specificherò – sono usate quali nomi comuni generici per indicare sia il demonio che un generico folletto; ed in effetti i tre nomi vengono usati oltre che per indicare il denomio (specialmente nella città bassa, sulla bocca delle persone molto avanti con gli anni) anche per riferisi al piú famoso degli spiritelli e/o folletti napoletani e cioè al cosiddetto munaciello. Però ricordiamo che delle tre la voce piú usata quale sinonimo di diavolo è la prima mazzamauriello mentre le altre due si riferiscono al piú famoso degli spiritelli e/o foletti napoletani; di per sé mazzamauriello come derivato quale adattamento dello spagnolo matamorillos a sua volta diminutivo di matamoros è un aggettivo e varrebbe smargiasso anzi ammazza-piccoli- mori e francamente non mi so spiegare perché tale aggettivo venga adoperato per indicare il diavolo, né riesco a trovare il collegamento semantico che abbia reso possibile intendere uno smargiasso/assassino come il diavolo. Forse l’etimo e la via semantica da percorrere sono altrove e probabilmente li scoveremo parlando di – scazzamuriello/ scazzamurillo.
Come ò già detto rammenterò che nel parlato napoletano il famoso folletto noto col nome di ‘o munaciello è chiamato anche scazzamuriello/scazzamurillo termine generico per indicare appunto uno spirito, un folletto; non di facilissima lettura anche l’etimo ed il percorso semantico della voce scazzamuriello; comunque ci proviamo e diciamo che ai piú appare un’agglutinazione della voce verbale scazza (3° pers. sing. ind. presente dell’infinito scazzà= smuovere, staccare da un freq. lat. excaptiare + la voce muriello per la quale si parla di un derivato diminutivo di un ant. tedesco mara= fantasma; epperò sia l’etimo che il percorso semantico (chi o cosa dovrebbe far smuovere o staccare un fantasma?...) mi convincono poco e reputo che scazzamuriello sia solo una corruzione popolare di un originario scazzamurillo→scazzamuriello con un’agglutinazione della voce verbale scazza (3° pers. sing. ind. presente dell’infinito scazzà= smuovere, staccare da un freq. lat. excaptiare + la voce murillo diminutivo di muro atteso che, tra le sue facoltà ‘o munaciello à proprio quella di passare i muri (forse smuovendoli o staccandoli ); messa in questi termini sia etimologicamente che semanticamente l’ipotesi mi appare maggiormente perseguibile e significante; e poi da scazzamurillo e scazzamuriello voci che come visto valgon spiritello, folletto per adattamento corruttivo si è potuto tranquillamente ottenere mazzamauriello mantenendo il significato di spiritello, folletto riferito però al diavolo; facendo in tal modo piazza pulita del pregresso matamorillos ed il suo inconferente smargiasso ed ammazza-piccoli-mori; mi si perdoni la presunzione, ma trovo abbastanza corretti e convincenti percorsi ed etimi da me ipotizzati.
- Parasacco voce desueta; letteralmente colui che appronta il sacco.Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio. Si tratta di un particolare diavolo il cui nome veniva pronunciato come spauracchio per i bambini irrequieti e disobbedienti cui si agitava appunto il pauroso fantasma di questo diavolo che richiamato dalle malefatte dei bambini, accorreva munito di sacco in cui stipare i monelli disobbedienti per condurli con sé. Si trattava, ça va sans dire, di una spiegazione di comodo in quanto Parasacco= colui che appronta il sacco è voce derivata dall’agglutinazione di para (3° p. sg. ind. pr.dell’infinito parare dal latino parare=approntare, disporre) + sacco (dal lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia) nel significato di colui che dispone il sacco per trascinar con sé i peccatori. non certo i bambini irrequieti o disobbedienti: fosse cosí, l’inferno brulicherebbe di bambini!...
- Rancecótena Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio;è nome peraltro abbondantemente desueto e che si può oramai solo trovare passim nel G.C.Cortese, nel Gabriele Fasano nel Marc’antonio Perillo oltre che nel corredatissimo dizionario del Raffele D’Ambra. A mio avviso (ma non ò purtroppo documentate prove da addurre) penso che si tratti di un nome di diavolo coniato proprio dal Gabriele Fasano (Solofra 7 luglio 1654 - † Vietri sul Mare 1698) per la sua Gierosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso votata a llengua napoletana. Si tratta di un particolare diavolo dall’aspetto pericoloso (come quello di un granchio; pare anzi – cosí almeno nella tradizione popolaresca – che al posto delle mani armate di artigli, possedesse delle chele!... ) e coriaceo (tal quale una cotenna) il cui nome è l’agglutinazione di rance (per rancio=granchio voce etimologicamente rifatta sull’ acc.vo (c)rance(um) metatesi nel lat. volgare della voce cancerum +cótena = cotenna voce che è dall’acc.vo volg. cutina(m) per il class. cutínna(m).
- Satanasso/Sautanasso in questo caso ci troviamo difronte non ad una voce comune assurta a nome proprio, ma a due forme leggermente del medesimo nome proprio che è Satanasso mentre la seconda Sautanasso non ne è che una patente erronea alterazione d’estrazione popolare;perdutosi del tutto l’uso di Sautanasso è ancóra in auge Satanasso che è nome ancóra in uso nel parlato popolare partenopeo dove come nome proprio sta per
- 1) Satana
mentre come nome comune (fig.) vale
2)persona prepotente, violenta, furiosa: alluccà comme a ‘nu satanasso
ed anche
- 3) persona molto esuberante e dinamica: chillu guaglione è propeto ‘nu satanasso
La voce Satanasso oltre che nel napoletano ed altre parlate meridionali fu pure usato nella lingua nazionale (Alighieri Dante) sia pure soltanto con il significato sub 1); mentre successivamente anche per la lingua nazionale à assunto la valenza sub 2) e 3) e ne à aggiunto addirittura una quarta:
4) scimmia con barba lunghissima e lunga coda non prensile (ord. Primati). Quanto all’etimo della parola Satanasso non mi convince quello proposto dalla maggioranza dei filologi che propongono una pronuncia ossitona di Satanas nel lat. mediev.; ossia voce derivata dalle forme Satănas, Satanâs che nel lat. e gr. biblico compaiono come var. di Satan, Satân; gli è che come attestato dal Rohlfs il suff.dispregiativo asso accanto ad azzo con base nel lat. aceus è di marca meridionale; nel settentrione se ne trasse e si usa /usò accio (cfr. il nap. Michelasso ed il toscano Michelaccio) ; di talché a mio sommesso avviso è inutile scomodare Satănas e Satanâs del lat. e gr. biblico; ai napoletani fu sufficiente risalire a Satan(a) ed aggiungervi il dispregiativo asso per ottenere Satanasso.
Tentazione – Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio con il quale si è posto l’accento su di una particolare, precipua attività del diavolo che è quella di spingere qualcuno al male istigandolo al peccato attraverso lo stimolo o l’invito a compiere azioni attraenti ma sconsigliabili, sconvenienti o addirittura proibite; la voce comune a margine assurta poi a nome proprio è dal lat. temptatione(m), der. di temptare "tentare".
Tentillo Anche in questo caso, come per la precedente ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio, nome che risulta essere l’ipocoristico (cfr. il suff. illo) di tentatore e con la voce a margine, attestata passim in Biase Valentino, Pompeo Sarnelli, Pietro Martorana ed altri autori partenopei del tardo seicento, oltre che nel dizionario di Raffaele D’Ambra ci troviamo nel medesimo àmbito di significato della voce precedente ed anche tentatore da cui il nostro Tentillo è, ça va sans dire, un deverbale di temptare "tentare".
- Zefierno Con la voce a margine - voce peraltro abbondantemente desueta - siamo giunti alla fine della nostra elencazione ed in questo caso ci troviamo a che fare con un nome proprio (non derivato però da un nome comune) con il quale si identificò come ci assicura il D’Ambra il piú malvagio e cattivo dei diavoli quantunque – aggiungo io (che mi fido dell’etimo cui accennerò) – quantunque dicevo uno dei diavoli piú splendente di luce ingannatrice. Il nome Zefierno starebbe per luce dell’inferno in quanto incrocio Cifero←(Lu)cifero→Zifero + ‘nfierno = Zifierno→Zefierno.
E qui penso di poter far punto ritenendo d’aver esaurito l’argomento ed accontentato l’amico F.P. e forse anche qualche altro.
Raffaele Bracale
Questa volta su richiesta dell’amico F.P. (il consueto motivo di riservatezza m’impedisce di fare per esteso nome e cognome e mi obbliga alle iniziali...) tenterò di esaminare tutte le voci napoletane usate per rendere quella dell’epigrafe.
In primis è da ricordare che in napoletano esistono numerosissime voci per tradurre la parola diavolo (ne ò reperite, se non ò sbagliato il conto, ben diciotto!) alcune delle quali son nomi comuni e generici, altri quasi dei nomi proprî.
Ciò détto comincio con l’esaminare la voce italiana
- diavolo (teol.) Spirito del male (chiamato anche demonio), nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana (cfr. oltre), principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero (cfr. oltre) , capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare'.
- Satana nome comune ripreso come proprio ed è voce che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore';
- Lucifero altro nome comune ripreso come proprio ed è voce che deriva dal lat. lucĭfer -a -um, comp. di lux lucis "luce" e fer "-fero", calco del gr. phōsphóros].di per sé agg., lett. Che porta la luce, che dà luce: come s. m. vale con iniziale maiusc. a) Il pianeta Venere nelle sue apparizioni mattutine. b) Satana, il demonio. c) (fig.) Persona malvagia.
Passiamo al napoletano ed abbiamo:
- Deavolo è voce molto generica e non molto usata..., ricalcata come l’italiano diavolo (di cui parrebbe addirittura un adattamento...) su di un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore'
- Demmonio altra voce molto generica, ma questa piú usata della precedente soprattutto nelle imprecazioni (mannaggia ô demmonio) o come riferimenti iperbolici o nei riguardi di bambini e/o ragazzi particolarmente vivaci (‘stu guaglione è ‘nu demmonio oppure ‘stu guaglione tene ‘e demmonie ‘ncuollo , espressioni che valgono: non trovar pace, non stare mai fermo etc. ) o anche nei riguardi di adulto inteso persona malvagia o straordinariamente astuta o anche persona vivace, irrequieta: chella bbella guagliona: è proprio ‘nu demmonio! | nel linguaggio familiare è riferito a persona straordinariamente dotata, abile etc: a scupone è ‘nu vero demmonio! È ‘nu demmonio comme porta ‘a machina ! è voce derivata dal lat. tardo daemoniu(m), dal gr. daimónion, propr. 'che appartiene alla divinità'; faccio notare che nel greco e tardo latino la voce non ebbe connotazioni negative e le acquistò solo quando la voce demonio/demmonio fu intesa come sinonimo di diavolo.
- Avèrzerco - averzèrio letteralmente sono ambedue nomi com. masch. sing. e valgono avversario,contraddittore nella medesima valenza del termine ebraico satan. Il primo però da nome comune masch. è stato poi riferito, (soprattutto nel linguaggio popolare della città bassa) particolarmente al diavolo inteso come il piú pericoloso ed accanito degli avversarii e/o contraddittóri e come tale la voce à finito per essere intesa nome proprio e come tale da scriversi con l’iniziale maiuscola Avèrzerco mentre averzèrio è continuato ad essere nome comune sebbene riferito anche al diavolo oltre che ad ogni altro oppositore, contrario. Sia Avèrzerco che averzèrio sono un denominale del lat. adversus attraverso un percorso morfologico leggermente diverso;
- Barzabbucco questa voce si differenzia dalla precedente Avèrzerco perché la voce qui a margine è - di partenza - esattamente un nome proprio e non nome comune ripreso come proprio; in effetti Barzabbucco è l’adattamento morfologico del nome ebr. Baal-zebu'signore della casa (degli inferi)' con mutamento della liquida l→r , raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva b e paragoge della sillaba evanescente finale cco per evitare l’eventuale tronca Barza bbú che poteva risultare troppo musicale e... frivola per il nome di un diavolo! In effetti nella Bibbia Baal-zebu è indicato quale nome del principe degli spiriti maligni e sarebbe stato disdicevole e non consono renderlo con uno squillante Barza bbú; molto piú adatto il piano e serioso Barzabbucco
- Bruttone Con questa voce ritorniamo ad occuparci della trasformazione in nome proprio di una voce comune come il pregresso Avèrzerco; qui però invece di un nome comune si è trasformato in nome proprio addirittura un aggettivo (sia pure un accrescitivo...) In effetti con la voce Bruttone (accrescitivo di brutto cfr. il suff. one) si è inteso attribuire al diavolo la qualifica di essere il piú brutto pensabile e/o possibile, essere cioè cattivo, riprovevole, sconcio al massimo grado, il piú sfavorevole e negativo, che arreca danno e perdizione.Il diavolo è – nell’inteso comune il brutto per antonomasia e dunque Bruttone; la voce brutto ed il suo accrescitivo bruttone derivano con molta probabilità dal lat. brutu(m) 'bruto', con espressivo raddoppiamento consonantico, se non vogliamo credere al rev. Ludovico Antonio Muratori (Vignola, 21 ottobre 1672 – Modena, 23 gennaio 1750)noto studioso che ipotizzò invece un ant. alto tedesco bruttan= spaventare→spaventoso;
- Farfaro/a – Farfariello eccoci a che fare con un altro nome proprio (ed ò parlato di nome e non nomi perché chiaramente il secondo Farfariello non è che l’ipocoristico del primo!) Anche in questo caso si è partiti da un nome comune (l’arabo farfar= folletto) per approdare ai nomi proprî Farfaro/a e Farfariello
La voce napoletana Farfaro/a (usata solo come nome proprio del diavolo) non va confusa con l’omografa ed omofona dell’italiano farfara s. f. , pianta erbacea con fiori raccolti in capolini gialli e foglie cuoriformi; i fiori sono usati come medicinale contro la tosse (fam. Composite). Rammento che Farfariello fu usato (sia pure nella forma Farfarello) anche dall’Alighieri Dante come nome di uno dei diavoli del suo Inferno.
La voce napoletana Farfariello viene usata riferita al diavolo come nome proprio, ma come nome comune e/o aggettivo è riferito ad uomo dai movimenti vivaci ed imprevedibili, frivolo nei gusti e nei discorsi;
- mazzamauriello – scazzamuriello - scazzamurillo
In questo caso ci troviamo difronte a tre voci che – come specificherò – sono usate quali nomi comuni generici per indicare sia il demonio che un generico folletto; ed in effetti i tre nomi vengono usati oltre che per indicare il denomio (specialmente nella città bassa, sulla bocca delle persone molto avanti con gli anni) anche per riferisi al piú famoso degli spiritelli e/o folletti napoletani e cioè al cosiddetto munaciello. Però ricordiamo che delle tre la voce piú usata quale sinonimo di diavolo è la prima mazzamauriello mentre le altre due si riferiscono al piú famoso degli spiritelli e/o foletti napoletani; di per sé mazzamauriello come derivato quale adattamento dello spagnolo matamorillos a sua volta diminutivo di matamoros è un aggettivo e varrebbe smargiasso anzi ammazza-piccoli- mori e francamente non mi so spiegare perché tale aggettivo venga adoperato per indicare il diavolo, né riesco a trovare il collegamento semantico che abbia reso possibile intendere uno smargiasso/assassino come il diavolo. Forse l’etimo e la via semantica da percorrere sono altrove e probabilmente li scoveremo parlando di – scazzamuriello/ scazzamurillo.
Come ò già detto rammenterò che nel parlato napoletano il famoso folletto noto col nome di ‘o munaciello è chiamato anche scazzamuriello/scazzamurillo termine generico per indicare appunto uno spirito, un folletto; non di facilissima lettura anche l’etimo ed il percorso semantico della voce scazzamuriello; comunque ci proviamo e diciamo che ai piú appare un’agglutinazione della voce verbale scazza (3° pers. sing. ind. presente dell’infinito scazzà= smuovere, staccare da un freq. lat. excaptiare + la voce muriello per la quale si parla di un derivato diminutivo di un ant. tedesco mara= fantasma; epperò sia l’etimo che il percorso semantico (chi o cosa dovrebbe far smuovere o staccare un fantasma?...) mi convincono poco e reputo che scazzamuriello sia solo una corruzione popolare di un originario scazzamurillo→scazzamuriello con un’agglutinazione della voce verbale scazza (3° pers. sing. ind. presente dell’infinito scazzà= smuovere, staccare da un freq. lat. excaptiare + la voce murillo diminutivo di muro atteso che, tra le sue facoltà ‘o munaciello à proprio quella di passare i muri (forse smuovendoli o staccandoli ); messa in questi termini sia etimologicamente che semanticamente l’ipotesi mi appare maggiormente perseguibile e significante; e poi da scazzamurillo e scazzamuriello voci che come visto valgon spiritello, folletto per adattamento corruttivo si è potuto tranquillamente ottenere mazzamauriello mantenendo il significato di spiritello, folletto riferito però al diavolo; facendo in tal modo piazza pulita del pregresso matamorillos ed il suo inconferente smargiasso ed ammazza-piccoli-mori; mi si perdoni la presunzione, ma trovo abbastanza corretti e convincenti percorsi ed etimi da me ipotizzati.
- Parasacco voce desueta; letteralmente colui che appronta il sacco.Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio. Si tratta di un particolare diavolo il cui nome veniva pronunciato come spauracchio per i bambini irrequieti e disobbedienti cui si agitava appunto il pauroso fantasma di questo diavolo che richiamato dalle malefatte dei bambini, accorreva munito di sacco in cui stipare i monelli disobbedienti per condurli con sé. Si trattava, ça va sans dire, di una spiegazione di comodo in quanto Parasacco= colui che appronta il sacco è voce derivata dall’agglutinazione di para (3° p. sg. ind. pr.dell’infinito parare dal latino parare=approntare, disporre) + sacco (dal lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia) nel significato di colui che dispone il sacco per trascinar con sé i peccatori. non certo i bambini irrequieti o disobbedienti: fosse cosí, l’inferno brulicherebbe di bambini!...
- Rancecótena Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio;è nome peraltro abbondantemente desueto e che si può oramai solo trovare passim nel G.C.Cortese, nel Gabriele Fasano nel Marc’antonio Perillo oltre che nel corredatissimo dizionario del Raffele D’Ambra. A mio avviso (ma non ò purtroppo documentate prove da addurre) penso che si tratti di un nome di diavolo coniato proprio dal Gabriele Fasano (Solofra 7 luglio 1654 - † Vietri sul Mare 1698) per la sua Gierosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso votata a llengua napoletana. Si tratta di un particolare diavolo dall’aspetto pericoloso (come quello di un granchio; pare anzi – cosí almeno nella tradizione popolaresca – che al posto delle mani armate di artigli, possedesse delle chele!... ) e coriaceo (tal quale una cotenna) il cui nome è l’agglutinazione di rance (per rancio=granchio voce etimologicamente rifatta sull’ acc.vo (c)rance(um) metatesi nel lat. volgare della voce cancerum +cótena = cotenna voce che è dall’acc.vo volg. cutina(m) per il class. cutínna(m).
- Satanasso/Sautanasso in questo caso ci troviamo difronte non ad una voce comune assurta a nome proprio, ma a due forme leggermente del medesimo nome proprio che è Satanasso mentre la seconda Sautanasso non ne è che una patente erronea alterazione d’estrazione popolare;perdutosi del tutto l’uso di Sautanasso è ancóra in auge Satanasso che è nome ancóra in uso nel parlato popolare partenopeo dove come nome proprio sta per
- 1) Satana
mentre come nome comune (fig.) vale
2)persona prepotente, violenta, furiosa: alluccà comme a ‘nu satanasso
ed anche
- 3) persona molto esuberante e dinamica: chillu guaglione è propeto ‘nu satanasso
La voce Satanasso oltre che nel napoletano ed altre parlate meridionali fu pure usato nella lingua nazionale (Alighieri Dante) sia pure soltanto con il significato sub 1); mentre successivamente anche per la lingua nazionale à assunto la valenza sub 2) e 3) e ne à aggiunto addirittura una quarta:
4) scimmia con barba lunghissima e lunga coda non prensile (ord. Primati). Quanto all’etimo della parola Satanasso non mi convince quello proposto dalla maggioranza dei filologi che propongono una pronuncia ossitona di Satanas nel lat. mediev.; ossia voce derivata dalle forme Satănas, Satanâs che nel lat. e gr. biblico compaiono come var. di Satan, Satân; gli è che come attestato dal Rohlfs il suff.dispregiativo asso accanto ad azzo con base nel lat. aceus è di marca meridionale; nel settentrione se ne trasse e si usa /usò accio (cfr. il nap. Michelasso ed il toscano Michelaccio) ; di talché a mio sommesso avviso è inutile scomodare Satănas e Satanâs del lat. e gr. biblico; ai napoletani fu sufficiente risalire a Satan(a) ed aggiungervi il dispregiativo asso per ottenere Satanasso.
Tentazione – Anche in questo caso ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio con il quale si è posto l’accento su di una particolare, precipua attività del diavolo che è quella di spingere qualcuno al male istigandolo al peccato attraverso lo stimolo o l’invito a compiere azioni attraenti ma sconsigliabili, sconvenienti o addirittura proibite; la voce comune a margine assurta poi a nome proprio è dal lat. temptatione(m), der. di temptare "tentare".
Tentillo Anche in questo caso, come per la precedente ci troviamo difronte ad una voce comune assurta a nome proprio, nome che risulta essere l’ipocoristico (cfr. il suff. illo) di tentatore e con la voce a margine, attestata passim in Biase Valentino, Pompeo Sarnelli, Pietro Martorana ed altri autori partenopei del tardo seicento, oltre che nel dizionario di Raffaele D’Ambra ci troviamo nel medesimo àmbito di significato della voce precedente ed anche tentatore da cui il nostro Tentillo è, ça va sans dire, un deverbale di temptare "tentare".
- Zefierno Con la voce a margine - voce peraltro abbondantemente desueta - siamo giunti alla fine della nostra elencazione ed in questo caso ci troviamo a che fare con un nome proprio (non derivato però da un nome comune) con il quale si identificò come ci assicura il D’Ambra il piú malvagio e cattivo dei diavoli quantunque – aggiungo io (che mi fido dell’etimo cui accennerò) – quantunque dicevo uno dei diavoli piú splendente di luce ingannatrice. Il nome Zefierno starebbe per luce dell’inferno in quanto incrocio Cifero←(Lu)cifero→Zifero + ‘nfierno = Zifierno→Zefierno.
E qui penso di poter far punto ritenendo d’aver esaurito l’argomento ed accontentato l’amico F.P. e forse anche qualche altro.
Raffaele Bracale
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