1.'O purpo s'à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
2. Dà 'ncopp' ê recchie.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana metaforica violenza colpendoli sulle orecchie per fargliele abbassare.
3. N' aggio scaurato strunze, ma tu me jesce cu 'e piede 'a fora...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei un stronzo cosí grosso)che non entri per intero nella ipotetica pentola destinata all'uso. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esageratamente pezzo di merda da eccedere i limiti di una ipotetica pentola destinata all’uso di una ancóra piú ipotetica bollitura!
4.Tante galle a cantà nun schiara maje juorno.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Dunque non è da farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente: parlano in tanti...
5.Sí, sí quanno curre e 'mpizze...
Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
6. Madonna mia, mantiene ll'acqua!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
7. Ommo 'e ciappa.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione ha origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cd repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
8. 'A nave cammina e 'a fava se coce.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che favorisce la sopravvivenza, frutto di una continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui è piú opportuno tradurre se la nave va, la fava cuoce (e si vive bene…).
9. Essere 'nu casatiello cu ll'uva passa.
Letteralmente: essere una caratteristica torta rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi come la torta menzionata già greve di suo per esser ripiena di formaggio, uova, salame, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
10. Nce vonno 'e cquatte laste e 'o lamparulo.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità: i quattro vetri protettivi laterali ed il reggimoccolo centrale. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si gloria di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente.
11. Essere 'nu/ ‘na secaturnese.
Letteralmente: essere un/una sega tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo che circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
12. Essere 'na meza pugnetta.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stante la ridottissima capacità fisica, intellettiva e morale essendo il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero.
13. Essere 'na galletta 'e Castiellammare.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
14. 'E curalle ll'à dda fà 'o turrese.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.
15. Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a carnacotta
Letteralmente: Adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute già sbiancate e lessate, atte ad essere consumate o dai macellai nelle loro botteghe o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di avere un suo significato furbesco con cui si vuol comunicare che ci si trova nell'impossibilità reale o volontaria di aderire alle richieste.
16. Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
17. Dicette 'o scarrafone: Po’ chiovere 'gnostia comme vo’ isso, maje cchiú niro pozzo addeventà...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
18. Abbacca addó vence.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare(=colludere, accordarsi segretamente dal lat. ad-vadicare, frequentativo di vadere) presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe - non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani.
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lunedì 31 agosto 2009
VARIE 370
1.'STA CASA ME PARE RESÍNA: CIRCHE 'NA MALLARDA E TRUOVE 'NA MAPPINA!
Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
3. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
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Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
3. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
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VARIE 369
1.Puozz'avé mez'ora 'e petriata dinto a 'nu vicolo astritto e ca nun sponta, farmacie 'nchiuse e miedece guallaruse!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
2.Aje voglia 'e mettere rumma, 'nu strunzo nun addiventa maje babbà.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...
3.Si 'a morte tenesse crianza, abbiasse a chi sta 'nnanze.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
4.Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
5.'O purpo se coce cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
6.'A gatta, pe gghí 'e pressa, facette 'e figlie cecate.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
7.Fà 'e ccose a capa 'e 'mbrello.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
8.Chi nun sente a mmamma e ppate, va a murí addò nun è nato...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
9.E' gghiuta 'a mosca dint' a 'o Viscuvato...
Letteralmente: E' finita la mosca nella Cattedrale. E' l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
10.Cu 'nu sí te 'mpicce e cu 'nu no te spicce.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
11.Lasseme stà ca stongo'nquartato!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
12.Se fruscia Pintauro, d''e sfugliatelle jute 'acito.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili come sarebbero quelli di sfogliatelle inacidite dunque non edibili.
13.Carcere, malatia e necissità, se scanaglia 'o core 'e ll'amice.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
14.Murí cu 'e guarnemiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
15.Nisciuno te dice: Lavate 'a faccia ca pare cchiú bbello 'e me.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
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Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
2.Aje voglia 'e mettere rumma, 'nu strunzo nun addiventa maje babbà.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...
3.Si 'a morte tenesse crianza, abbiasse a chi sta 'nnanze.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
4.Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
5.'O purpo se coce cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
6.'A gatta, pe gghí 'e pressa, facette 'e figlie cecate.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
7.Fà 'e ccose a capa 'e 'mbrello.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
8.Chi nun sente a mmamma e ppate, va a murí addò nun è nato...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
9.E' gghiuta 'a mosca dint' a 'o Viscuvato...
Letteralmente: E' finita la mosca nella Cattedrale. E' l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
10.Cu 'nu sí te 'mpicce e cu 'nu no te spicce.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
11.Lasseme stà ca stongo'nquartato!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
12.Se fruscia Pintauro, d''e sfugliatelle jute 'acito.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili come sarebbero quelli di sfogliatelle inacidite dunque non edibili.
13.Carcere, malatia e necissità, se scanaglia 'o core 'e ll'amice.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
14.Murí cu 'e guarnemiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
15.Nisciuno te dice: Lavate 'a faccia ca pare cchiú bbello 'e me.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
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VARIE 368
1.Quann' uno s'à dda 'mbriancà, è mmeglio ca 'o ffa cu 'o vino bbuono.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.
2.Sciorta e cauce 'nculo, viato a cchi 'e ttène!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni
3.Ancappa pe primmo, fossero pure mazzate!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
4.A ppavà e a murí, quanno cchiú ttarde se po’.
A pagare e morire, quando piú tardi sia possibile! È la comoda filosofia e strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
5.'Na vota è prena, 'na vota allatta, nun 'a pozzo maje vatte'
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
6.Lèvate 'a miezo, famme fà 'o spezziale.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo speziale era il farmacista, l'erborista, non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi in farmacopea non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
7.Articolo quinto:chi tène 'mmano à vinto!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titoloInfatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
8.Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi in senso antifrastico, si usa a commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
9.'A sciorta d' 'o piecoro: nascette curnuto e murette scannato...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
10.È mmuorto 'alifante!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussiego , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...essendo venuto meno il fondamento su cui poggiava ladi lui altezzosità.
11.Chi se fa puntone, 'o cane 'o piscia 'ncuollo...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro,cantonata di via, il cane gli minge addosso. È l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere.
brak
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.
2.Sciorta e cauce 'nculo, viato a cchi 'e ttène!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni
3.Ancappa pe primmo, fossero pure mazzate!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
4.A ppavà e a murí, quanno cchiú ttarde se po’.
A pagare e morire, quando piú tardi sia possibile! È la comoda filosofia e strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
5.'Na vota è prena, 'na vota allatta, nun 'a pozzo maje vatte'
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
6.Lèvate 'a miezo, famme fà 'o spezziale.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo speziale era il farmacista, l'erborista, non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi in farmacopea non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
7.Articolo quinto:chi tène 'mmano à vinto!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titoloInfatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
8.Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi in senso antifrastico, si usa a commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
9.'A sciorta d' 'o piecoro: nascette curnuto e murette scannato...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
10.È mmuorto 'alifante!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussiego , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...essendo venuto meno il fondamento su cui poggiava ladi lui altezzosità.
11.Chi se fa puntone, 'o cane 'o piscia 'ncuollo...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro,cantonata di via, il cane gli minge addosso. È l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere.
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VARIE 367
1'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno;sarcastica locuzione usata per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2 E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3 Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini, di loro natura esuberanti, sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4 Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare per intera tutta l'umidità dovuta alla cottura divenendo croccante al meglio, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5 A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6 Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7 Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: taccia chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché i ragazzini non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 Vuó campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo., ma precisa che se proprio si debba andare in compagnia, che questa sia buona e non foriera di danno.
9. Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
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Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno;sarcastica locuzione usata per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2 E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3 Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini, di loro natura esuberanti, sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4 Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare per intera tutta l'umidità dovuta alla cottura divenendo croccante al meglio, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5 A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6 Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7 Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: taccia chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché i ragazzini non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 Vuó campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo., ma precisa che se proprio si debba andare in compagnia, che questa sia buona e non foriera di danno.
9. Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
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domenica 30 agosto 2009
STRACCETTI DI CECI CON GAMBERONI E ZUCCHINE
STRACCETTI DI CECI CON GAMBERONI E ZUCCHINE
Ingredienti e dosi per 6 persone
2 etti di farina di ceci,
4 uova,
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
3 zucchine medie verdi e sode con i relativi fiori,
1kg. di gamberoni reali,
olio d’oliva e.v. p. s. a f. q.s.,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
1 dado da brodo vegetale,
2 foglie d’alloro,
5 chiodi di garofano,
1 peperoncino piccante aperto longitudinalmente
2 Cucchiai di pimpinella tritata finemente
Sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.
Procedimento
Lavare mondare e sgusciare i gamberoni eliminando il budellino nero; conservare le code ottenute ed usare teste e carapaci per ottenere con mezzo litro di acqua fredda, dado,foglie d’alloro, chiodi di garofano, peperoncino piccante un cucchiaio di pimpinella e pepe un fumettino che verrà usato successivamente; lavare, asciugare le zucchine staccando i fiori che, una volta che siano priavati del pistillo, lavati ed asciugati, vanno tritati finemente, mentre le zucchine vanno lavate, asciugate, spuntate ed affettate lungo l’asse minore allo spessore di ½ cm. Aprire in una grossa ciotola le uova, e montarle aggiungendo a mano a mano tutto il latte ed a pioggia la farina di ceci; aggiungere sale e pepe ed un cucchiaio di trito di pimpinella ed il trito dei fiori di zucca fino ad ottenere una pastella morbida e fluida; mettere al fuoco vivo una padella di ferro nero unta di olio e.v. p. s. a f. ed ottenere con la pastella delle crespelle non troppo sottili (1 cm.) che vanno poggiate in un piatto e fatte raffreddare prima di tagliarle irregolarmente per ricavarne degli straccetti. In un altro tegame versare il restante olio e farvi rosolare il trito d’aglio, aggiungere le fettine di zucchine e farle scottare a fuoco vivo, aggiungere súbito dopo le code di gamberi regolare di sale e pepe, bagnare il tutto con il fumetto e portare a cottura; quando il fondo sarà ben asciutto aggiungere gli straccetti di ceci, cospargere con il restante trito di pimpinella, rimestare ed impiattare.
Bbona salute!
Raffaele Bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone
2 etti di farina di ceci,
4 uova,
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
3 zucchine medie verdi e sode con i relativi fiori,
1kg. di gamberoni reali,
olio d’oliva e.v. p. s. a f. q.s.,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
1 dado da brodo vegetale,
2 foglie d’alloro,
5 chiodi di garofano,
1 peperoncino piccante aperto longitudinalmente
2 Cucchiai di pimpinella tritata finemente
Sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.
Procedimento
Lavare mondare e sgusciare i gamberoni eliminando il budellino nero; conservare le code ottenute ed usare teste e carapaci per ottenere con mezzo litro di acqua fredda, dado,foglie d’alloro, chiodi di garofano, peperoncino piccante un cucchiaio di pimpinella e pepe un fumettino che verrà usato successivamente; lavare, asciugare le zucchine staccando i fiori che, una volta che siano priavati del pistillo, lavati ed asciugati, vanno tritati finemente, mentre le zucchine vanno lavate, asciugate, spuntate ed affettate lungo l’asse minore allo spessore di ½ cm. Aprire in una grossa ciotola le uova, e montarle aggiungendo a mano a mano tutto il latte ed a pioggia la farina di ceci; aggiungere sale e pepe ed un cucchiaio di trito di pimpinella ed il trito dei fiori di zucca fino ad ottenere una pastella morbida e fluida; mettere al fuoco vivo una padella di ferro nero unta di olio e.v. p. s. a f. ed ottenere con la pastella delle crespelle non troppo sottili (1 cm.) che vanno poggiate in un piatto e fatte raffreddare prima di tagliarle irregolarmente per ricavarne degli straccetti. In un altro tegame versare il restante olio e farvi rosolare il trito d’aglio, aggiungere le fettine di zucchine e farle scottare a fuoco vivo, aggiungere súbito dopo le code di gamberi regolare di sale e pepe, bagnare il tutto con il fumetto e portare a cottura; quando il fondo sarà ben asciutto aggiungere gli straccetti di ceci, cospargere con il restante trito di pimpinella, rimestare ed impiattare.
Bbona salute!
Raffaele Bracale
INSALATA AFRODISIACA
INSALATA AFRODISIACA
Ingredienti e dosi per 6 persone
Un gran sedano verde mondato delle foglie, grattato, privato dei filamenti, lavato asciugato e tagliato a tocchetti di 3 cm.,
due fasci di rapanelli sferici,mondati delle foglie ed eventuali radici, lavati, asciugati e affettati sottilmente,
una radice di rafano,
2 etti di olive nere denocciolate,
1 etto di capperini di Pantelleria dissalati, lavati ed asciugati,
1 cipolla dorata mondata della prima tunica e tritata grossolanamente,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
2 cucchiai di pinoli tostati in forno (240°),
1 ciuffo d’aneto lavato ed asciugato e tritato finemente,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.
Sale fino e pepe nero macinato a fresco q. s.
Procedimento
Approntare un gran sedano verde mondandolo delle foglie, grattandolo,e privandolo dei filamenti; lavarlo asciugarlo e tagliarlo a tocchetti di 3 cm. che vanno brevemente (5 minuti dal primo bollore) lessati in acqua fredda portata a bollore. Sgrondare accuratamente i tocchetti e porli su di un canevaccio di bucato a raffreddarsi. Trasferirli in una zuppiera, aggiungendo i due fasci di rapanelli,mondati delle foglie, lavati, asciugati e affettati sottilmente, le olive denocciolate e tritate, i capperini dissalati, lavati ed asciugati, la cipolla dorata mondata della prima tunica e tritata grossolanamente, i 2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,nonché il ciuffo d’aneto lavato ed asciugato e tritato finemente; rimestare, salare e pepare ad libitum, irrorare con l’olio a filo, rimestare ancóra e grattuggiare abbondantemente la radice di rafano; rimestare per l’ultima volta e trasferire in frigo per circa un’ora, indi cospargere con i pinoli tostati ed impiattare.
r. bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone
Un gran sedano verde mondato delle foglie, grattato, privato dei filamenti, lavato asciugato e tagliato a tocchetti di 3 cm.,
due fasci di rapanelli sferici,mondati delle foglie ed eventuali radici, lavati, asciugati e affettati sottilmente,
una radice di rafano,
2 etti di olive nere denocciolate,
1 etto di capperini di Pantelleria dissalati, lavati ed asciugati,
1 cipolla dorata mondata della prima tunica e tritata grossolanamente,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
2 cucchiai di pinoli tostati in forno (240°),
1 ciuffo d’aneto lavato ed asciugato e tritato finemente,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.
Sale fino e pepe nero macinato a fresco q. s.
Procedimento
Approntare un gran sedano verde mondandolo delle foglie, grattandolo,e privandolo dei filamenti; lavarlo asciugarlo e tagliarlo a tocchetti di 3 cm. che vanno brevemente (5 minuti dal primo bollore) lessati in acqua fredda portata a bollore. Sgrondare accuratamente i tocchetti e porli su di un canevaccio di bucato a raffreddarsi. Trasferirli in una zuppiera, aggiungendo i due fasci di rapanelli,mondati delle foglie, lavati, asciugati e affettati sottilmente, le olive denocciolate e tritate, i capperini dissalati, lavati ed asciugati, la cipolla dorata mondata della prima tunica e tritata grossolanamente, i 2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,nonché il ciuffo d’aneto lavato ed asciugato e tritato finemente; rimestare, salare e pepare ad libitum, irrorare con l’olio a filo, rimestare ancóra e grattuggiare abbondantemente la radice di rafano; rimestare per l’ultima volta e trasferire in frigo per circa un’ora, indi cospargere con i pinoli tostati ed impiattare.
r. bracale
CAZZIBOCCHIO/CAZZIMBOCCHIO/CAZZIBÒ
CAZZIBOCCHIO/CAZZIMBOCCHIO/CAZZIBÒ
Mi scrive da Bologna il gentilissimo dr. Salvatore C. (al solito, per questioni di privatezza mi tocca evitare di indicare per esteso nome e cognome) per chiedermi cosa ne pensi della sua idea che la voce napoletana cazzibò/cazzibocchio/cazzimbocchio possa avere una derivazione dal tedesco KATZENKOPF"(cioè a dire: ciottoli lavorati a testa di gatto). Gli ò risposto che, sulle prime, quella sua idea per un attimo à fatto traballare le mie precedenti certezze semantiche-etimologiche; ma il dubbio è durato poco e si è dileguato allorché ò preso in considerazione le due cose che qui di sèguito indico:
1) la forma del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò;
2) la morfologia della parola.
Vediamo:
1) il napoletano cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò, quanto alla forma, non è un ciottolo semisferico come il katzenkopf, né – d’altra parte – à forma di cubo come sbrigativamente si afferma di quel tal manufatto di porfido o basalto usato per pavimentare le strade, chiamandolo cubetto o quadruccio (cfr. sampietrino); in realtà il cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò à forma di tronco di piramide con base e vertice quadrati, forma che consente ai lastricatori di acconciamente infiggere tali manufatti su di uno spesso letto di sabbia e terriccio, seguendo esattamente l’andamento curvato a botte del piano stradale, facendo accostare i lati delle basi nei cui interstizi vien fatta colare della pece liquida per assicurare tenuta ed una sorta di impermeabilità alla strada cosí lastricata. Come si vede nulla che, per forma, possa appaiare il tronco di piramide del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò napoletano con il ciottolo semisferico del katzenkopf tedesco.
2) altro importante ragione che mi spinge a non lasciare la via vecchia per la nuova è quella che investe la morfologia della parola in esame; in realtà morfologicamente, se si esclude una tenue assonanza tra cazzibò e katzenkopf non esistono chiari e documentabili passaggi linguistici per pervenire a cazzibò partendo da katzenkopf; la originaria voce espressiva, nata nell’àmbito dei lastricatori fu cazzibocchio (nata da cazzi + occhio con epitesi, per evitare lo iato, di una consonante eufonica (b) ottenendosi cazziocchio→cazzibocchio) poi a mano a mano trasformatasi per evidente aggiustamento fonetico in cazzimbocchio ed infine semplificata in cazzibò, ma in tutte e tre le forme (cazzibocchio – cazzimbocchio – cazzibò) è riconoscibile il richiamo osceno d’attacco (cazzo→cazzi) con riferimento vuoi alla forma (il tronco di piramide richiama – sia pure con molta buona volontà - l’organo maschile in erezione) del manufatto di pietra lavica, vuoi al fatto che allorché d’un oggetto non si conosca o non sovvenga con precisione il nome,nel parlato popolare, si adotta quello generico di cazzo (cfr. damme ‘stu cazzo lloco = dammi codesto oggetto di cui mi sfugge il nome!): ed è probabile che ciò sia avvenuto anche nel gergo dei lastricatori; è altresí riconoscibile nelle forme cazzibocchio – cazzimbocchio il suffisso diminutivo latino uculus→occhio suffisso che non è in alcun modo leggibile nel tedesco katzenkopf.
Mi auguro d’essere stato esauriente e d’aver convinto, sia l’amico S.C. che chiunque altro dovesse leggermi ad abbadonare, per ciò che riguarda i termini in epigrafe, pericolose strade... etimologiche!
raffaele bracale
Mi scrive da Bologna il gentilissimo dr. Salvatore C. (al solito, per questioni di privatezza mi tocca evitare di indicare per esteso nome e cognome) per chiedermi cosa ne pensi della sua idea che la voce napoletana cazzibò/cazzibocchio/cazzimbocchio possa avere una derivazione dal tedesco KATZENKOPF"(cioè a dire: ciottoli lavorati a testa di gatto). Gli ò risposto che, sulle prime, quella sua idea per un attimo à fatto traballare le mie precedenti certezze semantiche-etimologiche; ma il dubbio è durato poco e si è dileguato allorché ò preso in considerazione le due cose che qui di sèguito indico:
1) la forma del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò;
2) la morfologia della parola.
Vediamo:
1) il napoletano cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò, quanto alla forma, non è un ciottolo semisferico come il katzenkopf, né – d’altra parte – à forma di cubo come sbrigativamente si afferma di quel tal manufatto di porfido o basalto usato per pavimentare le strade, chiamandolo cubetto o quadruccio (cfr. sampietrino); in realtà il cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò à forma di tronco di piramide con base e vertice quadrati, forma che consente ai lastricatori di acconciamente infiggere tali manufatti su di uno spesso letto di sabbia e terriccio, seguendo esattamente l’andamento curvato a botte del piano stradale, facendo accostare i lati delle basi nei cui interstizi vien fatta colare della pece liquida per assicurare tenuta ed una sorta di impermeabilità alla strada cosí lastricata. Come si vede nulla che, per forma, possa appaiare il tronco di piramide del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò napoletano con il ciottolo semisferico del katzenkopf tedesco.
2) altro importante ragione che mi spinge a non lasciare la via vecchia per la nuova è quella che investe la morfologia della parola in esame; in realtà morfologicamente, se si esclude una tenue assonanza tra cazzibò e katzenkopf non esistono chiari e documentabili passaggi linguistici per pervenire a cazzibò partendo da katzenkopf; la originaria voce espressiva, nata nell’àmbito dei lastricatori fu cazzibocchio (nata da cazzi + occhio con epitesi, per evitare lo iato, di una consonante eufonica (b) ottenendosi cazziocchio→cazzibocchio) poi a mano a mano trasformatasi per evidente aggiustamento fonetico in cazzimbocchio ed infine semplificata in cazzibò, ma in tutte e tre le forme (cazzibocchio – cazzimbocchio – cazzibò) è riconoscibile il richiamo osceno d’attacco (cazzo→cazzi) con riferimento vuoi alla forma (il tronco di piramide richiama – sia pure con molta buona volontà - l’organo maschile in erezione) del manufatto di pietra lavica, vuoi al fatto che allorché d’un oggetto non si conosca o non sovvenga con precisione il nome,nel parlato popolare, si adotta quello generico di cazzo (cfr. damme ‘stu cazzo lloco = dammi codesto oggetto di cui mi sfugge il nome!): ed è probabile che ciò sia avvenuto anche nel gergo dei lastricatori; è altresí riconoscibile nelle forme cazzibocchio – cazzimbocchio il suffisso diminutivo latino uculus→occhio suffisso che non è in alcun modo leggibile nel tedesco katzenkopf.
Mi auguro d’essere stato esauriente e d’aver convinto, sia l’amico S.C. che chiunque altro dovesse leggermi ad abbadonare, per ciò che riguarda i termini in epigrafe, pericolose strade... etimologiche!
raffaele bracale
‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO
‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO
‘A monaca d’’o Bbammeniello: ògne nove mise, fasciatóre e savaniello!
Antichissima desueta espressione che tradotta letteralmente suona:La monaca del Bambin Gesú: ogni nove mesi fasce e sottofasce; espressione che fino a tutti gli anni cinquanta fu usata con sarcasmo nei confronti di spose eccessivamente prolifiche ed usata altresí, per traslato giocoso, nei confronti di chiunque che, per colpevole iperattività in qualsivoglia campo d’azione, necessitasse di aiuti continui. L’espressione nacque in àmbito popolare con malevola cattiveria, chiamando in causa le pie Suore del Bambino Gesú, dell’omonimo Istituto Suore del Bambino Gesú sito in Napoli in san Giovanni Maggiore Pignatelli a ridosso dell’Università degli Studi in pieno centro storico; l’istituto era nato (per opera di un tal Nicola Barrè dell’Ordine dei Minimi di s. Francesco di Paola, noto professore di teologia e Bibliotecario a Parigi) in Francia nel 1666,(con il fine dell’assistenza ed istruzione di bambini, ragazzi/e bisognosi) e solo nel 1906 era approdato in Italia,dapprima nel Bergamasco e poi si era esteso , rispondendo agli appelli della Chiesa Italiana, con molte comunità in Calabria , nelle periferie di Roma, nel centro storico di Napoli ed in diversi luoghi della regione campana , dove le pie suore stavano accanto ai bambini, alle famiglie in difficoltà , condividendo la vita delle persone semplici. e distinguendosi per la catechesi e l’istruzione di tutti i ragazzi/e e facendosi amare per la loro presenza fattiva nei confronti di tutti coloro che ne avevano bisogno; tra coloro che si mostravano bisognosi di aiuto vi furono i primis le ragazze traviate che, per essere assistite, venivano spesso accolte nell’istituto (dove ricevevano accanto ad una migliore istruzione anche un avviamento ai lavori donneschi) e poiché moltissime di esse vi entravano da gravide, diventando madri nell’istituto, si diffuse l’infame credenza che i bimbi generati lo fossero stati, non dalle ragazze madri accolte nell’istituto, ma dalle stesse monache del Bambino Gesù e si coniò persino, con inusuale cattiveria,(per un popolo come il napoletano sempre paziente e comprensivo difronte ai casi della vita...), si coniò persino l’espressione in epigrafe con la quale si fa riferimento al continuo sciorinio di fasce e sottofasce imbandierate alle finestre del’Istituto.
monaca s.f. suora, appartenente a un ordine monastico femminile; voce che è dal lat. tardo monacha(m), che è dal gr. monaché;
fasciatóre s. f. plurale di fasciatóra =fascia per neonato, striscia di tessuto robusto usata un tempo per avvolgere strettamente i neonati; quanto all’etimo si tratta di un deverbale di fasciare (dal lat. tardo fasciare ) aggiungendo al part. pass. fasciato il suff. ora→ura usato per ottenere dei sostantivi verbali;
savaniello/ savanella s. m.o f. sottofascia, topponcino, pannolino in cui avvolgere il bacino del neonato prima fasciarlo; quanto all’etimo si tratta di un derivato dello spagnolo sabanilla; da notare che la voce savaniello maschilizzazione dell’originaria savanella fu coniato per indicare un pannolino alquanto piú piccolo della corrispondente voce femm.le savanella che indicò un pannolino piú ampio secondo il noto criterio che in napoletano considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande, carretto piú piccolo – carrettapiú grande etc. con le sole eccezioni di caccavo piú grande e caccavella piú piccola, tiano piú grande, tiana piú piccola).
raffaele bracale
‘A monaca d’’o Bbammeniello: ògne nove mise, fasciatóre e savaniello!
Antichissima desueta espressione che tradotta letteralmente suona:La monaca del Bambin Gesú: ogni nove mesi fasce e sottofasce; espressione che fino a tutti gli anni cinquanta fu usata con sarcasmo nei confronti di spose eccessivamente prolifiche ed usata altresí, per traslato giocoso, nei confronti di chiunque che, per colpevole iperattività in qualsivoglia campo d’azione, necessitasse di aiuti continui. L’espressione nacque in àmbito popolare con malevola cattiveria, chiamando in causa le pie Suore del Bambino Gesú, dell’omonimo Istituto Suore del Bambino Gesú sito in Napoli in san Giovanni Maggiore Pignatelli a ridosso dell’Università degli Studi in pieno centro storico; l’istituto era nato (per opera di un tal Nicola Barrè dell’Ordine dei Minimi di s. Francesco di Paola, noto professore di teologia e Bibliotecario a Parigi) in Francia nel 1666,(con il fine dell’assistenza ed istruzione di bambini, ragazzi/e bisognosi) e solo nel 1906 era approdato in Italia,dapprima nel Bergamasco e poi si era esteso , rispondendo agli appelli della Chiesa Italiana, con molte comunità in Calabria , nelle periferie di Roma, nel centro storico di Napoli ed in diversi luoghi della regione campana , dove le pie suore stavano accanto ai bambini, alle famiglie in difficoltà , condividendo la vita delle persone semplici. e distinguendosi per la catechesi e l’istruzione di tutti i ragazzi/e e facendosi amare per la loro presenza fattiva nei confronti di tutti coloro che ne avevano bisogno; tra coloro che si mostravano bisognosi di aiuto vi furono i primis le ragazze traviate che, per essere assistite, venivano spesso accolte nell’istituto (dove ricevevano accanto ad una migliore istruzione anche un avviamento ai lavori donneschi) e poiché moltissime di esse vi entravano da gravide, diventando madri nell’istituto, si diffuse l’infame credenza che i bimbi generati lo fossero stati, non dalle ragazze madri accolte nell’istituto, ma dalle stesse monache del Bambino Gesù e si coniò persino, con inusuale cattiveria,(per un popolo come il napoletano sempre paziente e comprensivo difronte ai casi della vita...), si coniò persino l’espressione in epigrafe con la quale si fa riferimento al continuo sciorinio di fasce e sottofasce imbandierate alle finestre del’Istituto.
monaca s.f. suora, appartenente a un ordine monastico femminile; voce che è dal lat. tardo monacha(m), che è dal gr. monaché;
fasciatóre s. f. plurale di fasciatóra =fascia per neonato, striscia di tessuto robusto usata un tempo per avvolgere strettamente i neonati; quanto all’etimo si tratta di un deverbale di fasciare (dal lat. tardo fasciare ) aggiungendo al part. pass. fasciato il suff. ora→ura usato per ottenere dei sostantivi verbali;
savaniello/ savanella s. m.o f. sottofascia, topponcino, pannolino in cui avvolgere il bacino del neonato prima fasciarlo; quanto all’etimo si tratta di un derivato dello spagnolo sabanilla; da notare che la voce savaniello maschilizzazione dell’originaria savanella fu coniato per indicare un pannolino alquanto piú piccolo della corrispondente voce femm.le savanella che indicò un pannolino piú ampio secondo il noto criterio che in napoletano considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande, carretto piú piccolo – carrettapiú grande etc. con le sole eccezioni di caccavo piú grande e caccavella piú piccola, tiano piú grande, tiana piú piccola).
raffaele bracale
ZEFFUNNO & DINTORNI
ZEFFUNNO & DINTORNI
Eccoci a dire di una antica (cfr. i vocabolaristi Andreoli e P.P.Volpe) parola partenopea: zeffunno usatissima un tempo ed ancóra in uso, sia pure in una tipica espressione che poi illustrerò, nel parlato partenopeo, parola che se usata direttamente quale sost. masch. traduce le voci italiane: rovina, abisso, baratro e che invece se usata accompagnata ad un verbo, in funzione quasi modale, preceduta dalla preposizione a ( a zzeffunno ) acquista differenti significati o particolari sfumature degli originarî significati che qui di sèguito vedremo.
Come ò detto, in primis la voce zeffunno (in origine usata come sinonimo di prufunno) valse le voci italiane: rovina, abisso, baratro ed etimologicamente risultò un deverbale del tardo latino *suffunnare (precipitare, subissare) per il class. sub-fundere , mentre la voce prufunno dal lat. profundu(m), comp. di pro- 'davanti' e fundus 'fondo'; propr. 'che à il fondo innanzi, più in là'(con chiusura della sillaba lunga d’avvio ō→u e consueta assimilazione progressiva nd→nn) valse le voci italiane: orrido,precipizio e segnatamente usata al plurale (e con l’aggiunta dello specificativo ‘e casa (‘e) riavulo) l’inferno ( ‘e prufunne ‘e casa riavulo= l’inferno); di talché passata la voce prufunno/e ad indicare una cosa cosí brutta da incutere paura al solo nominarla (inferno) , si smise di usarla come sinonimo di zeffunno che sebbene avesse risvolti negativi, non raggiungeva mai quelli spaventosi relativi all’inferno!
E passiamo all’uso… modale di a zzeffunno.
- Mannà a zzeffunno= mandare in rovina, ridurre taluno in miseria; il verbo mannà= mandare così come l’italiano è dal lat. mandare 'affidare, ordinare', ricondotto a (in) man(um) dare 'dare in mano'; nella voce napoletana si noti la consueta assimilazione progressiva nd→nn. Come si evince dalla traduzione in italiano,nell’espressione a margine la voce zeffuno mantiene l’originario significato di rovina , ma acquista anche quello estensivo e totalizzante di miseria; all’incirca le medesime accezioni di zeffunno si ritrovano nell’espressione:
-Jí a zzeffunno = andare in rovina, precipitare in miseria
espressione usata a Napoli, solitamente per riferirsi a chi per i piú svariati motivi quasi sempre da addebitare a sue colpe, abbia dilapidato ingenti patrimonî quasi mai acquisiti con il lavoro e piú spesso ricevuti in eredità.
Dell’ infinito del verbo jí = andare (derivato del lat. ire) ò già detto numerose volte per cui qui mi limito a sottolineare che graficamente esso va reso jí e non í o i’ (come pure erroneamente qualcuno fa…), in quanto esso infinito jí è il solo modo corretto di riprodurre in un unico comprensivo modo anche l’infinito ghí altra forma del verbo andare in napoletano, forma con rafforzamento consonantico che si ritrova ad es. nell’espressione a gghí a gghí = a tempo a tempo ed in talune voci della coniugazione dell’infinito jí come ghiammo per jammo – ghiate per jate – ghienno per jenno etc.
- chiovere a zzeffunno = piovere a profusione, copiosamente in maniera esorbitante; in questo caso ( che è poi quasi l’unico nel quale oggi venga usata l’espressione a zzeffunno…) la voce zeffunno si riallaccia quasi al suo verbo d’origine *suffunnare= cadere in profondità o in abbondanza, per significare appunto che si tratta solamente di una pioggia estremamente copiosa, anche se non è errato sospettare che nell’espressione chiovere a zzeffunno non sia estranea l’idea che una pioggia tanto copiosa possa determinare problemi al manto stradale fino a procurare sprofondamenti e/o gravi dissesti del suolo.
l’infinito chiovere= piovere è un derivato del tardo lat. Lat. plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio di pl a chi come è in chiú che è da plus o in chiazza da platea etc.
In chiusura mi permetto un piccolo passo all’indietro per tornare al sostantivo di partenza e ricordare che cosí come affermò il Puoti a Napoli con la voce zeffunno si intese oltre che rovina, abisso, baratro etc. ( cfr. Galiani) anche grande quantità, enorme massa come fu nell’espressione Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) o nell’espressione: Tiene mente, so’ cadute ‘nu zeffunno ‘e prete! = (Guarda, è precipitata un’enorme massa di pietre!).
Per amor di completezza dirò però che oggi la frase Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), si renderebbe con un piú moderno ed usato Viato a isso, tène ‘nu tummulo ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), oppure con un Viato a isso, tène ‘nu cuofano ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) dove la voce tummulo estensivamente = gran quantità, ma letteralmente sta per tomolo : misura di capacità per gli aridi che era tipica dell'Italia meridionale; nel Napoletano equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5 litri l’etimo della voce tummulo è Dall'ar. thumn; propr. 'un ottavo', mentre il termine cuofano estensivamente = gran quantità, letteralmente sta per cofano: cassa munita di coperchio; forziere con etimo dal tardo lat. cophinu(m) 'cesta', dal gr. kóphinos con tipica dittongazione ŏ→uo nella sillaba tonica d’avvio ed apertura della sillaba atona fi→fa.
raffaele bracale
Eccoci a dire di una antica (cfr. i vocabolaristi Andreoli e P.P.Volpe) parola partenopea: zeffunno usatissima un tempo ed ancóra in uso, sia pure in una tipica espressione che poi illustrerò, nel parlato partenopeo, parola che se usata direttamente quale sost. masch. traduce le voci italiane: rovina, abisso, baratro e che invece se usata accompagnata ad un verbo, in funzione quasi modale, preceduta dalla preposizione a ( a zzeffunno ) acquista differenti significati o particolari sfumature degli originarî significati che qui di sèguito vedremo.
Come ò detto, in primis la voce zeffunno (in origine usata come sinonimo di prufunno) valse le voci italiane: rovina, abisso, baratro ed etimologicamente risultò un deverbale del tardo latino *suffunnare (precipitare, subissare) per il class. sub-fundere , mentre la voce prufunno dal lat. profundu(m), comp. di pro- 'davanti' e fundus 'fondo'; propr. 'che à il fondo innanzi, più in là'(con chiusura della sillaba lunga d’avvio ō→u e consueta assimilazione progressiva nd→nn) valse le voci italiane: orrido,precipizio e segnatamente usata al plurale (e con l’aggiunta dello specificativo ‘e casa (‘e) riavulo) l’inferno ( ‘e prufunne ‘e casa riavulo= l’inferno); di talché passata la voce prufunno/e ad indicare una cosa cosí brutta da incutere paura al solo nominarla (inferno) , si smise di usarla come sinonimo di zeffunno che sebbene avesse risvolti negativi, non raggiungeva mai quelli spaventosi relativi all’inferno!
E passiamo all’uso… modale di a zzeffunno.
- Mannà a zzeffunno= mandare in rovina, ridurre taluno in miseria; il verbo mannà= mandare così come l’italiano è dal lat. mandare 'affidare, ordinare', ricondotto a (in) man(um) dare 'dare in mano'; nella voce napoletana si noti la consueta assimilazione progressiva nd→nn. Come si evince dalla traduzione in italiano,nell’espressione a margine la voce zeffuno mantiene l’originario significato di rovina , ma acquista anche quello estensivo e totalizzante di miseria; all’incirca le medesime accezioni di zeffunno si ritrovano nell’espressione:
-Jí a zzeffunno = andare in rovina, precipitare in miseria
espressione usata a Napoli, solitamente per riferirsi a chi per i piú svariati motivi quasi sempre da addebitare a sue colpe, abbia dilapidato ingenti patrimonî quasi mai acquisiti con il lavoro e piú spesso ricevuti in eredità.
Dell’ infinito del verbo jí = andare (derivato del lat. ire) ò già detto numerose volte per cui qui mi limito a sottolineare che graficamente esso va reso jí e non í o i’ (come pure erroneamente qualcuno fa…), in quanto esso infinito jí è il solo modo corretto di riprodurre in un unico comprensivo modo anche l’infinito ghí altra forma del verbo andare in napoletano, forma con rafforzamento consonantico che si ritrova ad es. nell’espressione a gghí a gghí = a tempo a tempo ed in talune voci della coniugazione dell’infinito jí come ghiammo per jammo – ghiate per jate – ghienno per jenno etc.
- chiovere a zzeffunno = piovere a profusione, copiosamente in maniera esorbitante; in questo caso ( che è poi quasi l’unico nel quale oggi venga usata l’espressione a zzeffunno…) la voce zeffunno si riallaccia quasi al suo verbo d’origine *suffunnare= cadere in profondità o in abbondanza, per significare appunto che si tratta solamente di una pioggia estremamente copiosa, anche se non è errato sospettare che nell’espressione chiovere a zzeffunno non sia estranea l’idea che una pioggia tanto copiosa possa determinare problemi al manto stradale fino a procurare sprofondamenti e/o gravi dissesti del suolo.
l’infinito chiovere= piovere è un derivato del tardo lat. Lat. plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio di pl a chi come è in chiú che è da plus o in chiazza da platea etc.
In chiusura mi permetto un piccolo passo all’indietro per tornare al sostantivo di partenza e ricordare che cosí come affermò il Puoti a Napoli con la voce zeffunno si intese oltre che rovina, abisso, baratro etc. ( cfr. Galiani) anche grande quantità, enorme massa come fu nell’espressione Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) o nell’espressione: Tiene mente, so’ cadute ‘nu zeffunno ‘e prete! = (Guarda, è precipitata un’enorme massa di pietre!).
Per amor di completezza dirò però che oggi la frase Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), si renderebbe con un piú moderno ed usato Viato a isso, tène ‘nu tummulo ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), oppure con un Viato a isso, tène ‘nu cuofano ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) dove la voce tummulo estensivamente = gran quantità, ma letteralmente sta per tomolo : misura di capacità per gli aridi che era tipica dell'Italia meridionale; nel Napoletano equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5 litri l’etimo della voce tummulo è Dall'ar. thumn; propr. 'un ottavo', mentre il termine cuofano estensivamente = gran quantità, letteralmente sta per cofano: cassa munita di coperchio; forziere con etimo dal tardo lat. cophinu(m) 'cesta', dal gr. kóphinos con tipica dittongazione ŏ→uo nella sillaba tonica d’avvio ed apertura della sillaba atona fi→fa.
raffaele bracale
sabato 29 agosto 2009
IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ etc
IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ (PIGLIARE) ED I SUOI SIGNIFICATI ESTENSIVI
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione popolare della sillaba d’avvio);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il saporte forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea;
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione popolare della sillaba d’avvio);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il saporte forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea;
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
GENNARINO NUN DICE BUSCIE; DICE ‘NU CUOFANO ‘E FESSARIE.
GENNARINO NUN DICE BUSCIE; DICE ‘NU CUOFANO ‘E FESSARIE.
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe piú giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) che era solito magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí buona come magnificato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuofano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a implicata ed aperta, la si sia sostituita con una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria una non migliore fesseria. Raffaele Bracale
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe piú giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) che era solito magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí buona come magnificato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuofano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a implicata ed aperta, la si sia sostituita con una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria una non migliore fesseria. Raffaele Bracale
MAGNARSE ‘E MACCARUNE
MAGNARSE ‘E MACCARUNE
Ad litteram: mangiare i maccheroni id est:capire l’antifona, fiutare il pericolo prossimo, mettendosi in guardia.
Alibi, il medesimo concetto lo si esprime dicendo: addurà ‘o fieto d’‘o miccio id est: subodorare il puzzo della miccia accesa; in coda di questa esplicazione, mi soffermerò sui singoli vocaboli in epigrafe o richiamati; per l’intanto dico che la locuzione in epigrafe, nasce dalla considerazione che gli abitanti del circondario partenopeo, (villici e cafoni) accreditati di scarso acume, erano detti mangiafoglie, mentre i cittadini che si ritenevano piú scaltri erano detti mangiamaccheroni ; per cui mangiarsi i maccheroni equivaleva, nell’inteso cittadino, ad essere scaltri, capaci di accorgersi di ciò che stesse per accadere non facendosi cogliere di sorpresa. Interessante notare come il medesimo senso della locuzione in epigrafe sia reso in italiano con la locuzione mangiare la foglia quasi volendo richiamare quello che altrove si dice che è il contadino (il mangiafoglie) quello ad aver il cervello fine, ad esser scaltro, certamente piú del cittadino (mangiamaccheroni). Per quanto riguarda l’espressione addurà ‘o fieto d’‘o miccio e cioè annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia rammenterò che con la parola miccio (etimologicamente prob. dal fr. mèche, che è dal lat. volg. micca, per il class. myxa 'luminello, stoppino') , in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
Ciò detto, ritorniamo all’espressione in epigrafe, dicendo súbito che magnarse è l’infinito riflessivo del verbo magnà (magnare) etimologicamente forma metatica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
maccarune/i plurale metafonetico del singolare maccarone = generica pasta alimentare, piú nota con varie specifiche denominazioni giusta il formato di detta pasta: lunga o corta, bucata e non; etimologicamente il termine maccarone deriva,secondo alcuni dal greco makaría= piatto di fave e fiocchi di avena, o da makariòs= beati o pasto funebre, a mio avviso è molto piú convincente l’etimologia che chiama in causa il latino maccare = impastare e comprimere (rammenterò infatti che originariamente i maccaruni latini furono essenzialmente della pasta casalinga (gnocchi) ricavata dall’impasto di farina, sale ed acqua; tale impasto veniva schiacciato (maccatus) e tagliato in pezzetti poi compressi tal quale i greco - napoletani strangulaprievete (vedi alibi).
Rammenterò ora i piú noti formati di detta pasta secca alimentare,
cominciando da quella lunga e doppia:
Maccarune ‘e zite = maccheroni da ragazze da marito; in effetti tali lunghi e doppi maccheroni di formato cilindrico a sezione circolare di ca un cm. di diametro venivano e talvolta vengono ancora usati , spezzati a mano in pezzi di ca 4 cm. di altezza, variamente e sontuosamente conditi, nei pranzi di nozze delle cd zite (etimologicamente collaterale popolare del toscano citta= ragazza nubile) e cioè le ragazze da marito; faccio notare come la voce zite plurale di zita nel significato di nubile da sposare è voce femminile e come tale al plurale preceduto dall’articolo ‘e, in napoletano va scritta con la geminazione della z iniziale: ‘e zzite; passata ad indicare, nel comune parlar napoletano , un tipo di pasta secca alimentare la voce zite à finito per essere inteso, come la maggioranza degli alimenti ( ‘o ppane, ‘o vino, ‘o ppepe, ‘o cafè etc.) neutro da scriversi e leggersi scempio: ‘e zite;
bucatine – pirciatielle = bucatini – foratini; bucatino = s. m.pasta alimentare consistente in un grosso spaghetto piuttosto doppio cavo. e bucato per tutta la sua lunghezza, va da sé che il nome bucatino è da collegarsi al fatto che tale tipo di pasta è bucata; la medesima bucatura centrale che percorre la pasta per tutta la sua lunghezza la si ritrova nei pirciatielle grossi spaghetti piú doppi dei precedenti bucatini; poiché la voce verbale bucare (perforare) non è napoletana, se ne deduce che tra bucatine e pirciatielle la pasta piú tipicamente partenopea sia la seconda, atteso che il verbo bucare (perforare) è reso in napoletano con la voce pircià (che è dall’antico francese percer) da cui derivano ‘e pirciatielle che ci occupano;
ancòra, trattando di pasta doppia, abbiamo:
mezzane tipo di pasta cilindrica doppia e corta: 4 – 5 cm. di altezza, ampiamente forata a superficie liscia o rigata (per trattener meglio il sugo) etimologicamente da un lat. medianu(m), deriv. di medi°us 'mezzo' atteso che tale formato di pasta fa quasi da mediano tra i formati lunghi e quelli corti;
maltagliatetipo di pasta simile alla precedente dalla quale si differenzia per aver, questa a margine le estremità tagliate, non perpendicolarmente rispetto all’asse minore, ma in maniera obliqua, tal quale le antiche penne d’oca usate per la scrittura: per tale taglio diagonale e non perpendicolare la pasta parrebbe quasi mal tagliata donde il nome; taluni rammentando il taglio a becco obliquo delle antiche penne d’oca, usano chiamare tale formato di pasta penne, ma è voce piú moderno rispetto alla classica maltagliate;
mezzanelle/mezzanielle con tale formato di pasta molto simile ai pirciatielli, sebbene di calibro piú doppio ci troviamo di fronte al formato che fa da trait d’union tra i formati doppi e lunghi e quelli di transito come i mezzani, da cui con un pretestuoso vezzeggiativo diminutivo traggono il nome sia che lo si intenda femminile (mezzanelle) sia che lo si intenda maschile (mezzanielle) rammenterò che mentre i perciatelli possono esser cotti e serviti, per come sono lunghi, questi a margine, per esser di calibro maggiore devono essere ridotti in pezzi di altezza di ca 3 cm.
Affrontiamo ora la vasta qualità dei formati lunghi, ma sottili e di diverso calibro; abbiamo:
spavette id est: spaghetti = pasta alimentare, di forma cilindrica lunga e sottile, che si mangia generalmente asciutta: spaghetti al...etc. la voce napoletana è un derivato di spavo = spago che è dal tardo latino spacu(m) con normale caduta della gutturale ed epentesi di un suono di transizione v.
vermicielli id est: vermicelli (dim. di verme) = pasta alimentare secca del tipo degli spaghetti, ma di calibro leggermente piú spesso;
linguine – lengue ‘e passere sia le prime che le seconde sono un tipo di pasta alimentare secca, lunga e sottile, simile a tagliatelle (che vedremo) molto strette; ambedue i tipi (ma segnatamente il secondo traggono il nome dall’accostamento alla voce lingua (di passero) cui – per lo spessore – assomigliano;alibi (Liguria) le linguine son dette trenette (dim. del genov. trena 'cordoncino, passamano'; cfr. trina);
tagliarelle – tagliuline ecco due formati di pasta alimentare secca fettucce – fettuccine che corrispondono ad un dipresso alle tagliatelle e tagliolini che invece son paste alimentari fresche, all’uovo ricavate da una cd pettola (la voce napoletana pettola è quella che rende l’italiana sfoglia; dirò súbito che con il termine pettola si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con il medesimo termine – come ò accennato - , si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del matterello (la voce matterello, che è diminutivo di mattero, etimologicamente deriva da un antico latino mattaris o mataris= bastone, randello, voci probabilmente di origine gallica; talvolta nell’italiano mediatico s’usa in luogo di matterello, la voce mattarello,ma è uso errato in quanto mattarello è voce regionale (laziale)); con il matterello su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; la sfoglia ripiegata su se stessa e tagliata a nastro piú o meno largo dà le tagliatelle o i piú stretti tagliolini che derivano il loro nome dal verbo tagliare che è da un tardo lat.taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; cfr. talea;
Tornando alla voce pettola dirò che etimologicamente si fa derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento popolare della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la originaria pettola!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la pettola/pettula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda o congrua sfoglia di pasta.
Riprendiamo il ns. excursus sui varî formati lunghi di pasta alimentare secca; abbiamo:
lagane e laganelle che sono delle fettuccine piú o meno larghe; esse derivano il loro nome dal matterello con il quale si ricavano nella versione domestica all’uovo; in napoletano il matterello è detto laganaturo (che è da un originario greco laganon, latinizzato nel neutro plurale lagana poi inteso femminile.
E passiamo ad illustrare i formati corti delle paste alimentari secche; abbiamo:
don Ciccillo ‘ncruvattato letteralmente: don Francescino con la cravatta che sono dei grossi tubettoni cosí chiamati con riferimento a taluni antichi alti e duri colletti da camicia usati quando si indossassero ampie e congrue cravatte (che è dal fr. cravate, adattamento del croato hrvat 'croato'; propr. 'croata', poiché designava all'origine la sciarpa portata al collo dai cavalieri croati del sec. XVII);
tubbette e tubbettielle pasta corta cilindrica piú o meno grande con derivazione diminutiva e/o vezzeggiativa dalla voce tubo (che è dal lat. tubu(m); rammenterò che tali tipi di pasta assumono, secondo le varie industrie produttrici di paste alimentari, i piú svariati nomi sui quali non mi soffermo, mentre nel popolare parlare partenopeo tubbette e tubbettielle vengon detti paternoste o avemmarie secondo che siano piú grossi (paternoste) o piú piccoli (avemmarie) con riferimento – quanto al nome – non alle omonime preghiere, ma ai grani della corona del Rosario nella quale i grani per contare le avemarie sono piú minuti di quelli che segnalano il padrenostro;
elenco ora, infine, i principali formati minuti di paste alimentari secche usati per esser cotti in brodo o in minestre; e sono:
anellette cosí chiamati per aver la forma di piccoli anelli;
semmenze ‘e mellone cosí chiamati per aver la forma dei semi del melone (dal lat. tardo melone(m), nom. mílo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mílopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone) che è frutto ovoidale a pasta bianca o gialla dolce e profumata, ricchissimo di semi giallastri da non confondere con il cocomero (che è dal lat. cocumere(m) dalla polpa rossa ed acquosa con semi radi, piccoli e neri;
sturtine il cui nome deriva dal fatto che detta pasta à la forma di un tubicino di piccolissimo calibro, piegato a mo’ d’archetto tal d’apparire storto/stuorto (p.pass. del verbo storcere che è dal lat. torquére 'strappare a forza girando o piegando, con tipica prostesi di una S intensiva);
rosamarina cosí chiamati per aver la forma degli aghi del rosmarino ( di cui la voce partenopea rosamarina è corruzione), pianta arbustiva con piccole foglie lineari persistenti e fortemente aromatiche e fiori in spiga violacei, profumati; detta pianta viene coltivata per le foglie, usate come aromatizzante in cucina, e per le infiorescenze, da cui si estrae un olio essenziale impiegato in profumeria. (etimo: ros marinu(m), propr. 'rugiada di mare', cosí detto perché cresce spontaneo nelle zone costiere mediterranee);
ponte d’aco = punte di ago: è un tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo, lanceolato tal quale le punte degli aghi donde trae il nome;
acene ‘e pepe altro tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo usato soprattutto per l’alimentazione di bambini piccoli e sdentati, non necessitando, per esser deglutito, di lunga e faticosa masticazione; va da sé che il nome gli deriva dal fatto di somigliare quasi ai piccoli acini/acene (dal lat. acinu(m)) di pepe (che è dal lat. piper piperis, dal gr. péperi, voce di orig. orientale) la notissima pianta tropicale rampicante le cui bacche rotonde, nere, di forte aroma, sono usate intere o opportunamente macinate come condimento.
E fermiamoci qui con l’elencazione dei formati della pasta secca alimentare, facendo un passo all’indietro per rammentare che con la voce generica maccarone, nella lingua napoletana si intende per traslato ed estensivamente la persona sciocca, il babbeo, lo stupido, anche se in tale accezione il napoletano suole dire: maccarone senza pertuso, e cioè maccherone non bucato nella convinzione che la pasta secca alimentare migliore sia quella lunga doppia, ma forata come zite, perciatelli etc., mentre spaghetti, vermicelli, fettuccine e similari siano di qualità inferiore; tanto è vero che s’usa dire: meglio unu maccarone ‘e zite ca ciente vermicielle ! di talché lo sciocco, il babbeo è ‘nu maccarone che sia però senza pertuso (= buco, foro da un lat. pertusiu(m) derivato di pertundere).
maccarone sàuteme ‘ncanna! = maccherone saltami in gola! detto di chi sia cosí tanto inetto, svogliato ed incapace di fare alcunché al segno di non sapersi o volersi nutrire da sé ed attendersi, addirittura!, che il cibo (maccherone) gli piova in gola per modo che gli sia evitato il fastidio di portare il cibo alla bocca;
sàuteme = salta a me; voce verbale dell’infinito sautà (che sia pure attraverso il francese sauter donde è pervenuto al napoletano è riconducibile al lat. volgare saltare frequentativo di salire; normale il passaggio di al→au;
‘ncanna = in gola; da in + canna (che è dal lat. canna(m), dal greco kanna) di per sé nome di vari oggetti di forma tubolare: canna di un'arma da fuoco; canne dell'organo; canna della bicicletta: il tubo orizzontale del telaio; canna fumaria, il condotto del camino, qui sta per gola, esofago, condotto respiratorio, tubo digerente;
maccarune vierde vierde o teniente teniente = maccheroni verdissimi o molto tenenti (che abbiano retto la cottura senza diventar molli) cioè pronti, duretti, di giusta cottura; a Napoli i maccheroni non vanno eccessivamente lessati, soprattutto quando si tratti di pasta lunga e non doppia!
vierde letteralmente verde, ma nell’espressione richiamata e nell’iterazione superlativa vale molto pronto, quasi duretto come un frutto che fosse non del tutto maturo e fosse perciò quasi verde ( che è dal lat. viride(m), deriv. di viríre 'verdeggiare'.
teniente o tenente = tenente, ma nell’ espressione e nell’iterazione
superlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
In chiusura di tutto quanto trattato rammenterò (oltre quella in epigrafe che mi à dato il destro per parlar di maccheroni, altre due tipiche icastiche espressioni partenopee che chiamano in causa i maccheroni; e sono:
È caruto ‘o maccarone dint’ ô ccaso letteralmente: È cascato il maccherone nel cacio id est: si è verificata una circostanza estremamente favorevole ed inattesamente proficua: per solito e normalmente è il cacio ad esser cosparso sui maccheroni, qui invece il maccherone casca e si rotola addirittura nel formaggio che viene per ciò ad essere attinto cosí tanto copiosamente da risultare cosa eccessiva quantunque gradevole e gradita; caruto = caduto voce verbale (part. pass.) dell’infinito cadé (cadere) che è dal lat. volg. cadíre, per il class. cadere con tipica alternanza mediterranea D/R; caso = cacio, formaggio (dal lat. caseu(m));
- Mmità a ccarne e maccarune letteralmente: Invitare a (desinare) carne e maccheroni, ma per traslato: Fare una proposta molto allettante, invitare qualcuno a partecipare ad un avvenimento oltremodo gradevole; un tempo, stante la grande miseria popolare dei napoletani, satollarsi improvvisamente – magari a sbafo – di carne e maccheroni fu ritenuto una gran fortuna; la carne ed i maccheroni furono, un tempo il pasto domenicale dei napoletani, pasto che ben difficilmente poteva venir consumato nei giorni feriali, se non per elargizione munifica di qualcuno.
‘Mmità voce verbale, infinito del verbo ‘mmità (‘mmitare) che è invitare
l’/etimo è dal latino invitare composto dalla particella in + vitare (dove vitare dovette significare volere e cioè: invitare qualcuno = voler qualcuno in un (consesso) in un (banchetto) etc.
La strada seguíta per pervenire a ‘mmità partendo da invitare è quella che prevede l’aferisi della vocale nella sillaba d’avvio e la successiva assimilazione progressiva che da nv porta ad mm come altrove che da invece portò a ‘mmece, inventare che condusse ad ammentà e poi ‘mmentà etc. In coda aggiungo l’espressione
'Nu maccarone, vale ciento vermicielle. ppure Meglio ‘nu maccarone ca ciento vermicielle
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli.oppure meglio un solo maccherone, che cento vermicelli Ma le locuzioni non si riferiscono alle pietanze in sé. Il maccherone delle locuzioni adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità, quantunque strictu sensu un maccherone (pasta doppia) sia veramente preferibile per gusto a cento vermicelli (pasta sottile).
E qui penso di poter fare punto.
Raffaele Bracale
Ad litteram: mangiare i maccheroni id est:capire l’antifona, fiutare il pericolo prossimo, mettendosi in guardia.
Alibi, il medesimo concetto lo si esprime dicendo: addurà ‘o fieto d’‘o miccio id est: subodorare il puzzo della miccia accesa; in coda di questa esplicazione, mi soffermerò sui singoli vocaboli in epigrafe o richiamati; per l’intanto dico che la locuzione in epigrafe, nasce dalla considerazione che gli abitanti del circondario partenopeo, (villici e cafoni) accreditati di scarso acume, erano detti mangiafoglie, mentre i cittadini che si ritenevano piú scaltri erano detti mangiamaccheroni ; per cui mangiarsi i maccheroni equivaleva, nell’inteso cittadino, ad essere scaltri, capaci di accorgersi di ciò che stesse per accadere non facendosi cogliere di sorpresa. Interessante notare come il medesimo senso della locuzione in epigrafe sia reso in italiano con la locuzione mangiare la foglia quasi volendo richiamare quello che altrove si dice che è il contadino (il mangiafoglie) quello ad aver il cervello fine, ad esser scaltro, certamente piú del cittadino (mangiamaccheroni). Per quanto riguarda l’espressione addurà ‘o fieto d’‘o miccio e cioè annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia rammenterò che con la parola miccio (etimologicamente prob. dal fr. mèche, che è dal lat. volg. micca, per il class. myxa 'luminello, stoppino') , in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
Ciò detto, ritorniamo all’espressione in epigrafe, dicendo súbito che magnarse è l’infinito riflessivo del verbo magnà (magnare) etimologicamente forma metatica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
maccarune/i plurale metafonetico del singolare maccarone = generica pasta alimentare, piú nota con varie specifiche denominazioni giusta il formato di detta pasta: lunga o corta, bucata e non; etimologicamente il termine maccarone deriva,secondo alcuni dal greco makaría= piatto di fave e fiocchi di avena, o da makariòs= beati o pasto funebre, a mio avviso è molto piú convincente l’etimologia che chiama in causa il latino maccare = impastare e comprimere (rammenterò infatti che originariamente i maccaruni latini furono essenzialmente della pasta casalinga (gnocchi) ricavata dall’impasto di farina, sale ed acqua; tale impasto veniva schiacciato (maccatus) e tagliato in pezzetti poi compressi tal quale i greco - napoletani strangulaprievete (vedi alibi).
Rammenterò ora i piú noti formati di detta pasta secca alimentare,
cominciando da quella lunga e doppia:
Maccarune ‘e zite = maccheroni da ragazze da marito; in effetti tali lunghi e doppi maccheroni di formato cilindrico a sezione circolare di ca un cm. di diametro venivano e talvolta vengono ancora usati , spezzati a mano in pezzi di ca 4 cm. di altezza, variamente e sontuosamente conditi, nei pranzi di nozze delle cd zite (etimologicamente collaterale popolare del toscano citta= ragazza nubile) e cioè le ragazze da marito; faccio notare come la voce zite plurale di zita nel significato di nubile da sposare è voce femminile e come tale al plurale preceduto dall’articolo ‘e, in napoletano va scritta con la geminazione della z iniziale: ‘e zzite; passata ad indicare, nel comune parlar napoletano , un tipo di pasta secca alimentare la voce zite à finito per essere inteso, come la maggioranza degli alimenti ( ‘o ppane, ‘o vino, ‘o ppepe, ‘o cafè etc.) neutro da scriversi e leggersi scempio: ‘e zite;
bucatine – pirciatielle = bucatini – foratini; bucatino = s. m.pasta alimentare consistente in un grosso spaghetto piuttosto doppio cavo. e bucato per tutta la sua lunghezza, va da sé che il nome bucatino è da collegarsi al fatto che tale tipo di pasta è bucata; la medesima bucatura centrale che percorre la pasta per tutta la sua lunghezza la si ritrova nei pirciatielle grossi spaghetti piú doppi dei precedenti bucatini; poiché la voce verbale bucare (perforare) non è napoletana, se ne deduce che tra bucatine e pirciatielle la pasta piú tipicamente partenopea sia la seconda, atteso che il verbo bucare (perforare) è reso in napoletano con la voce pircià (che è dall’antico francese percer) da cui derivano ‘e pirciatielle che ci occupano;
ancòra, trattando di pasta doppia, abbiamo:
mezzane tipo di pasta cilindrica doppia e corta: 4 – 5 cm. di altezza, ampiamente forata a superficie liscia o rigata (per trattener meglio il sugo) etimologicamente da un lat. medianu(m), deriv. di medi°us 'mezzo' atteso che tale formato di pasta fa quasi da mediano tra i formati lunghi e quelli corti;
maltagliatetipo di pasta simile alla precedente dalla quale si differenzia per aver, questa a margine le estremità tagliate, non perpendicolarmente rispetto all’asse minore, ma in maniera obliqua, tal quale le antiche penne d’oca usate per la scrittura: per tale taglio diagonale e non perpendicolare la pasta parrebbe quasi mal tagliata donde il nome; taluni rammentando il taglio a becco obliquo delle antiche penne d’oca, usano chiamare tale formato di pasta penne, ma è voce piú moderno rispetto alla classica maltagliate;
mezzanelle/mezzanielle con tale formato di pasta molto simile ai pirciatielli, sebbene di calibro piú doppio ci troviamo di fronte al formato che fa da trait d’union tra i formati doppi e lunghi e quelli di transito come i mezzani, da cui con un pretestuoso vezzeggiativo diminutivo traggono il nome sia che lo si intenda femminile (mezzanelle) sia che lo si intenda maschile (mezzanielle) rammenterò che mentre i perciatelli possono esser cotti e serviti, per come sono lunghi, questi a margine, per esser di calibro maggiore devono essere ridotti in pezzi di altezza di ca 3 cm.
Affrontiamo ora la vasta qualità dei formati lunghi, ma sottili e di diverso calibro; abbiamo:
spavette id est: spaghetti = pasta alimentare, di forma cilindrica lunga e sottile, che si mangia generalmente asciutta: spaghetti al...etc. la voce napoletana è un derivato di spavo = spago che è dal tardo latino spacu(m) con normale caduta della gutturale ed epentesi di un suono di transizione v.
vermicielli id est: vermicelli (dim. di verme) = pasta alimentare secca del tipo degli spaghetti, ma di calibro leggermente piú spesso;
linguine – lengue ‘e passere sia le prime che le seconde sono un tipo di pasta alimentare secca, lunga e sottile, simile a tagliatelle (che vedremo) molto strette; ambedue i tipi (ma segnatamente il secondo traggono il nome dall’accostamento alla voce lingua (di passero) cui – per lo spessore – assomigliano;alibi (Liguria) le linguine son dette trenette (dim. del genov. trena 'cordoncino, passamano'; cfr. trina);
tagliarelle – tagliuline ecco due formati di pasta alimentare secca fettucce – fettuccine che corrispondono ad un dipresso alle tagliatelle e tagliolini che invece son paste alimentari fresche, all’uovo ricavate da una cd pettola (la voce napoletana pettola è quella che rende l’italiana sfoglia; dirò súbito che con il termine pettola si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con il medesimo termine – come ò accennato - , si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del matterello (la voce matterello, che è diminutivo di mattero, etimologicamente deriva da un antico latino mattaris o mataris= bastone, randello, voci probabilmente di origine gallica; talvolta nell’italiano mediatico s’usa in luogo di matterello, la voce mattarello,ma è uso errato in quanto mattarello è voce regionale (laziale)); con il matterello su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; la sfoglia ripiegata su se stessa e tagliata a nastro piú o meno largo dà le tagliatelle o i piú stretti tagliolini che derivano il loro nome dal verbo tagliare che è da un tardo lat.taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; cfr. talea;
Tornando alla voce pettola dirò che etimologicamente si fa derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento popolare della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la originaria pettola!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la pettola/pettula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda o congrua sfoglia di pasta.
Riprendiamo il ns. excursus sui varî formati lunghi di pasta alimentare secca; abbiamo:
lagane e laganelle che sono delle fettuccine piú o meno larghe; esse derivano il loro nome dal matterello con il quale si ricavano nella versione domestica all’uovo; in napoletano il matterello è detto laganaturo (che è da un originario greco laganon, latinizzato nel neutro plurale lagana poi inteso femminile.
E passiamo ad illustrare i formati corti delle paste alimentari secche; abbiamo:
don Ciccillo ‘ncruvattato letteralmente: don Francescino con la cravatta che sono dei grossi tubettoni cosí chiamati con riferimento a taluni antichi alti e duri colletti da camicia usati quando si indossassero ampie e congrue cravatte (che è dal fr. cravate, adattamento del croato hrvat 'croato'; propr. 'croata', poiché designava all'origine la sciarpa portata al collo dai cavalieri croati del sec. XVII);
tubbette e tubbettielle pasta corta cilindrica piú o meno grande con derivazione diminutiva e/o vezzeggiativa dalla voce tubo (che è dal lat. tubu(m); rammenterò che tali tipi di pasta assumono, secondo le varie industrie produttrici di paste alimentari, i piú svariati nomi sui quali non mi soffermo, mentre nel popolare parlare partenopeo tubbette e tubbettielle vengon detti paternoste o avemmarie secondo che siano piú grossi (paternoste) o piú piccoli (avemmarie) con riferimento – quanto al nome – non alle omonime preghiere, ma ai grani della corona del Rosario nella quale i grani per contare le avemarie sono piú minuti di quelli che segnalano il padrenostro;
elenco ora, infine, i principali formati minuti di paste alimentari secche usati per esser cotti in brodo o in minestre; e sono:
anellette cosí chiamati per aver la forma di piccoli anelli;
semmenze ‘e mellone cosí chiamati per aver la forma dei semi del melone (dal lat. tardo melone(m), nom. mílo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mílopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone) che è frutto ovoidale a pasta bianca o gialla dolce e profumata, ricchissimo di semi giallastri da non confondere con il cocomero (che è dal lat. cocumere(m) dalla polpa rossa ed acquosa con semi radi, piccoli e neri;
sturtine il cui nome deriva dal fatto che detta pasta à la forma di un tubicino di piccolissimo calibro, piegato a mo’ d’archetto tal d’apparire storto/stuorto (p.pass. del verbo storcere che è dal lat. torquére 'strappare a forza girando o piegando, con tipica prostesi di una S intensiva);
rosamarina cosí chiamati per aver la forma degli aghi del rosmarino ( di cui la voce partenopea rosamarina è corruzione), pianta arbustiva con piccole foglie lineari persistenti e fortemente aromatiche e fiori in spiga violacei, profumati; detta pianta viene coltivata per le foglie, usate come aromatizzante in cucina, e per le infiorescenze, da cui si estrae un olio essenziale impiegato in profumeria. (etimo: ros marinu(m), propr. 'rugiada di mare', cosí detto perché cresce spontaneo nelle zone costiere mediterranee);
ponte d’aco = punte di ago: è un tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo, lanceolato tal quale le punte degli aghi donde trae il nome;
acene ‘e pepe altro tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo usato soprattutto per l’alimentazione di bambini piccoli e sdentati, non necessitando, per esser deglutito, di lunga e faticosa masticazione; va da sé che il nome gli deriva dal fatto di somigliare quasi ai piccoli acini/acene (dal lat. acinu(m)) di pepe (che è dal lat. piper piperis, dal gr. péperi, voce di orig. orientale) la notissima pianta tropicale rampicante le cui bacche rotonde, nere, di forte aroma, sono usate intere o opportunamente macinate come condimento.
E fermiamoci qui con l’elencazione dei formati della pasta secca alimentare, facendo un passo all’indietro per rammentare che con la voce generica maccarone, nella lingua napoletana si intende per traslato ed estensivamente la persona sciocca, il babbeo, lo stupido, anche se in tale accezione il napoletano suole dire: maccarone senza pertuso, e cioè maccherone non bucato nella convinzione che la pasta secca alimentare migliore sia quella lunga doppia, ma forata come zite, perciatelli etc., mentre spaghetti, vermicelli, fettuccine e similari siano di qualità inferiore; tanto è vero che s’usa dire: meglio unu maccarone ‘e zite ca ciente vermicielle ! di talché lo sciocco, il babbeo è ‘nu maccarone che sia però senza pertuso (= buco, foro da un lat. pertusiu(m) derivato di pertundere).
maccarone sàuteme ‘ncanna! = maccherone saltami in gola! detto di chi sia cosí tanto inetto, svogliato ed incapace di fare alcunché al segno di non sapersi o volersi nutrire da sé ed attendersi, addirittura!, che il cibo (maccherone) gli piova in gola per modo che gli sia evitato il fastidio di portare il cibo alla bocca;
sàuteme = salta a me; voce verbale dell’infinito sautà (che sia pure attraverso il francese sauter donde è pervenuto al napoletano è riconducibile al lat. volgare saltare frequentativo di salire; normale il passaggio di al→au;
‘ncanna = in gola; da in + canna (che è dal lat. canna(m), dal greco kanna) di per sé nome di vari oggetti di forma tubolare: canna di un'arma da fuoco; canne dell'organo; canna della bicicletta: il tubo orizzontale del telaio; canna fumaria, il condotto del camino, qui sta per gola, esofago, condotto respiratorio, tubo digerente;
maccarune vierde vierde o teniente teniente = maccheroni verdissimi o molto tenenti (che abbiano retto la cottura senza diventar molli) cioè pronti, duretti, di giusta cottura; a Napoli i maccheroni non vanno eccessivamente lessati, soprattutto quando si tratti di pasta lunga e non doppia!
vierde letteralmente verde, ma nell’espressione richiamata e nell’iterazione superlativa vale molto pronto, quasi duretto come un frutto che fosse non del tutto maturo e fosse perciò quasi verde ( che è dal lat. viride(m), deriv. di viríre 'verdeggiare'.
teniente o tenente = tenente, ma nell’ espressione e nell’iterazione
superlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
In chiusura di tutto quanto trattato rammenterò (oltre quella in epigrafe che mi à dato il destro per parlar di maccheroni, altre due tipiche icastiche espressioni partenopee che chiamano in causa i maccheroni; e sono:
È caruto ‘o maccarone dint’ ô ccaso letteralmente: È cascato il maccherone nel cacio id est: si è verificata una circostanza estremamente favorevole ed inattesamente proficua: per solito e normalmente è il cacio ad esser cosparso sui maccheroni, qui invece il maccherone casca e si rotola addirittura nel formaggio che viene per ciò ad essere attinto cosí tanto copiosamente da risultare cosa eccessiva quantunque gradevole e gradita; caruto = caduto voce verbale (part. pass.) dell’infinito cadé (cadere) che è dal lat. volg. cadíre, per il class. cadere con tipica alternanza mediterranea D/R; caso = cacio, formaggio (dal lat. caseu(m));
- Mmità a ccarne e maccarune letteralmente: Invitare a (desinare) carne e maccheroni, ma per traslato: Fare una proposta molto allettante, invitare qualcuno a partecipare ad un avvenimento oltremodo gradevole; un tempo, stante la grande miseria popolare dei napoletani, satollarsi improvvisamente – magari a sbafo – di carne e maccheroni fu ritenuto una gran fortuna; la carne ed i maccheroni furono, un tempo il pasto domenicale dei napoletani, pasto che ben difficilmente poteva venir consumato nei giorni feriali, se non per elargizione munifica di qualcuno.
‘Mmità voce verbale, infinito del verbo ‘mmità (‘mmitare) che è invitare
l’/etimo è dal latino invitare composto dalla particella in + vitare (dove vitare dovette significare volere e cioè: invitare qualcuno = voler qualcuno in un (consesso) in un (banchetto) etc.
La strada seguíta per pervenire a ‘mmità partendo da invitare è quella che prevede l’aferisi della vocale nella sillaba d’avvio e la successiva assimilazione progressiva che da nv porta ad mm come altrove che da invece portò a ‘mmece, inventare che condusse ad ammentà e poi ‘mmentà etc. In coda aggiungo l’espressione
'Nu maccarone, vale ciento vermicielle. ppure Meglio ‘nu maccarone ca ciento vermicielle
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli.oppure meglio un solo maccherone, che cento vermicelli Ma le locuzioni non si riferiscono alle pietanze in sé. Il maccherone delle locuzioni adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità, quantunque strictu sensu un maccherone (pasta doppia) sia veramente preferibile per gusto a cento vermicelli (pasta sottile).
E qui penso di poter fare punto.
Raffaele Bracale
VARIE366
1Essere all'abblativo.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
3 Cu 'o tiempo e c 'a paglia...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
4 Sî arrivato â monaca ‘e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. Rammento che dell’esistenza di tale mastuggiorgio ←mastro Giorgio (medico o infermiere presso l’ospedale degli Incurabili dove venivano curati anche gli affetti da malattie nervose) si fa menzione oltre che in un canto popolare di fine ‘600 che à i ss. versi: Comme te voglio amà, ca sî ‘na pazza? /Nun tiene ‘na parola de fermezza… /Vatténne a Nnincuràbbele pe pazza, / là ce sta Mastu Giorgio ca t’addrizza! anche in alcuni versi di Biaso Valentino ? - † fine 1600 ca (di professione scrivano e mediocre poeta, a credere al Galiani) che scrisse: Deh, mastro Giorgio mio, dotto e saputo, /che tanta cape tuoste aje addomate, /si nun te muove a darce quarch’aiuto, nuje simmo tutte quante arrovenate.
5 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
11 'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
12 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che, deducendolo dalla disincantata osservazione della realtà, che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
13 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
14 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
15 Parla surtanto quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla solo quando orina la gallina! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie o ad esprimere giudizi e/o pareri non richiesti.
Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che sia invitato a tacere sempre.
16 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. A Napoli per la zona della Loggia di Genova (cfr. n°17),situata nelle adacienze dell’attuale via Nuova Marina, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
17 Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi aprivono botteghe,trattorie etc. svolgendovi i loro commerci, ed autoamministrandosi.
18 Cesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona tanto spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente, da venire equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti sia in alto che in basso, sforniti di porte per consentire un agevole ricambio d'aria, ed una rapida pulizia con potenti getti d’acqua.
19'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
20 jĺ truvanno scescé
Espressione antica, ma intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo (pur se non dichiarato) di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase simile contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeve truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
brak
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
3 Cu 'o tiempo e c 'a paglia...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
4 Sî arrivato â monaca ‘e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali. Rammento che dell’esistenza di tale mastuggiorgio ←mastro Giorgio (medico o infermiere presso l’ospedale degli Incurabili dove venivano curati anche gli affetti da malattie nervose) si fa menzione oltre che in un canto popolare di fine ‘600 che à i ss. versi: Comme te voglio amà, ca sî ‘na pazza? /Nun tiene ‘na parola de fermezza… /Vatténne a Nnincuràbbele pe pazza, / là ce sta Mastu Giorgio ca t’addrizza! anche in alcuni versi di Biaso Valentino ? - † fine 1600 ca (di professione scrivano e mediocre poeta, a credere al Galiani) che scrisse: Deh, mastro Giorgio mio, dotto e saputo, /che tanta cape tuoste aje addomate, /si nun te muove a darce quarch’aiuto, nuje simmo tutte quante arrovenate.
5 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
11 'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
12 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che, deducendolo dalla disincantata osservazione della realtà, che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
13 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
14 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
15 Parla surtanto quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla solo quando orina la gallina! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie o ad esprimere giudizi e/o pareri non richiesti.
Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che sia invitato a tacere sempre.
16 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. A Napoli per la zona della Loggia di Genova (cfr. n°17),situata nelle adacienze dell’attuale via Nuova Marina, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
17 Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi aprivono botteghe,trattorie etc. svolgendovi i loro commerci, ed autoamministrandosi.
18 Cesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona tanto spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente, da venire equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti sia in alto che in basso, sforniti di porte per consentire un agevole ricambio d'aria, ed una rapida pulizia con potenti getti d’acqua.
19'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
20 jĺ truvanno scescé
Espressione antica, ma intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo (pur se non dichiarato) di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase simile contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeve truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
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VARIE 365
1.Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2.Armammoce e gghiate.
Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3.A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie.
Letteralmente: A- Cani e cani non si azzannano B- Corvi e corvi non si accecano Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue o deve seguire immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, dell’artigianale sapone per bucato (sapone ‘e piazza); da tale consuetudine quei rigattieri furon détti appunto sapunare, anche quando smisero di conferire sapone e si adattarono a dare poco, vile danaro in cambio degli abiti smessi,cianfrusaglie e fondi di solai o cantine.; il sapone ‘e piazza aveva tale nome perché in origine non fu venduto in botteghe, ma esclusivamente nelle piazze dai rigattieri e/o venditori girovaghi che ne erano anche produttori artigianali.
5.Tené 'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli(con derivazione dal greco ostrako(n)→ostako→asteco) si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con cocci di anfore o piú spesso con abbondante lapillo vulcanico ammassati all'uopo e poi violentemente percossi con appositi martelli al fine di grandemente compattarli e renderli impermeabili alle infiltrazioni di acqua piovana.
7.Ogne anno Ddio 'o cumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane come se Lui stesso le avesse permesse se non addirittura ordinante.
8.Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronti a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione metaplasmatica della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (ar)raggia.
9.Sciorta e mmole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone.
10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni che si vedono spianata la strada dell’apprendimento al redde rationem si mostrano pessimi allievi, appalesando con i loro comportamenti di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore ed in tal caso ne deriva che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico e perciò antifrastico.
11.Ogne gghiuorno è taluorno.
Letteralmente: ogni giorno è una fastidiosa ripetizione; id est: insistere reiteramente su di uno stesso argomento, non può che procurar fastidio; con la frase in epigrafe a Napoli si cerca di dissuadere dal continuare chi perseveri nel parlare sempre dello stesso argomento, finendo per tediare oltremodo l'interlocutore. Taluorno non deriva come improvvidamente e fantasiosamente pensò qualcuno (D’Ascoli) da un latino: tal-urnus: ripetizione; in realtà il termine taluorno è da collegarsi all’antica voce latorno voce che nella lingua ufficiale è ormai desueta tanto da essere addirittura inopinatamente (manca persino nel Pianegiani!) esclusa nei correnti ed accreditati vocabolarî della lingua italiana; tale latorno (etimologicamente deverbale di ritornare con dissimilazione r→l) indicò un lamento reiterato, una ripetizione noiosa, un canto o una persona fastidiosa e con una tipica dittongazione d’adattamento la voce latorno divenne latuorno in area calabro-lucana e poi anche pugliese, dove indicò il tipico lamento funebre delle prefiche (dal lat. praefica(m), f. dell'agg. praeficus 'messo a capo', deriv. di praeficere 'mettere a capo', perché questa donna era preposta al gruppo delle ancelle che piangevano; in effetti la prefica fu la donna che, presso gli antichi romani, veniva pagata per piangere e lamentarsi durante i funerali; l'usanza ancóra sopravvive in alcune aree mediterranee europee; scherzosamente la voce prefica è usata poi anche per indicare una persona che si lamenti per nulla; ,il lamento funebre, nelle aree soprindicate è detto anche riépeto/liépeto che semanticamente richiamano il latuorno/taluorno con il suo reiterarsi.Riépeto e liépeto sono un’unica voce con due grafie leggermente diverse cioè con la tipica alternanza/dissimilazione partenopea delle liquide r/l etimologicamente risultano essere deverbali di repetà, che da un lat. medioevale repetare indicò appunto il pianger lamentoso durante i funerali e/o le veglie funebri. Alla luce di tutto quanto detto mi pare che, relativamente all’etimo di taluorno si possa finalmente affermare che in napoletano la voce taluorno indicò dapprima il tipico lamento funebre delle prefiche e poi estensivamente persona noiosa e/o ogni fastidio reiterato, e – quanto all’etimo- messo da parte il *tal – urnus del D’Ascoli, si possa con ogni probabilità intendere come lettura metatetica di latuorno→taluorno
12.Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
Felinie = s.vo f.le pl. del sg. felinia = fuliggine, ragnatela dal lat. med. felinea per il class.fuligo.
13.Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re.; mancano precise notizie di quel Cotugno, ma è ipotizzabile il fatto che sulla bocca del popolo il nome Giorgio gli sia derivato dal fatto d’aver la tomba chiesa di san Giorgio maggiore.
14.'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie.
15.Rompere 'o 'nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La voce ‘nciarmo che come il verbo ‘nciarmà di cui pare esser deverbale è etimologicamente dal latino in (illativo)+ carmen, ma attraverso il francese charme = magía, incantesimo a sua volta come il verbo charmer derivati dal basso latino carminare (in latino carmen è la formula magica).
brak
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2.Armammoce e gghiate.
Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3.A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie.
Letteralmente: A- Cani e cani non si azzannano B- Corvi e corvi non si accecano Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue o deve seguire immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, dell’artigianale sapone per bucato (sapone ‘e piazza); da tale consuetudine quei rigattieri furon détti appunto sapunare, anche quando smisero di conferire sapone e si adattarono a dare poco, vile danaro in cambio degli abiti smessi,cianfrusaglie e fondi di solai o cantine.; il sapone ‘e piazza aveva tale nome perché in origine non fu venduto in botteghe, ma esclusivamente nelle piazze dai rigattieri e/o venditori girovaghi che ne erano anche produttori artigianali.
5.Tené 'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli(con derivazione dal greco ostrako(n)→ostako→asteco) si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con cocci di anfore o piú spesso con abbondante lapillo vulcanico ammassati all'uopo e poi violentemente percossi con appositi martelli al fine di grandemente compattarli e renderli impermeabili alle infiltrazioni di acqua piovana.
7.Ogne anno Ddio 'o cumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane come se Lui stesso le avesse permesse se non addirittura ordinante.
8.Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronti a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione metaplasmatica della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (ar)raggia.
9.Sciorta e mmole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone.
10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni che si vedono spianata la strada dell’apprendimento al redde rationem si mostrano pessimi allievi, appalesando con i loro comportamenti di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore ed in tal caso ne deriva che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico e perciò antifrastico.
11.Ogne gghiuorno è taluorno.
Letteralmente: ogni giorno è una fastidiosa ripetizione; id est: insistere reiteramente su di uno stesso argomento, non può che procurar fastidio; con la frase in epigrafe a Napoli si cerca di dissuadere dal continuare chi perseveri nel parlare sempre dello stesso argomento, finendo per tediare oltremodo l'interlocutore. Taluorno non deriva come improvvidamente e fantasiosamente pensò qualcuno (D’Ascoli) da un latino: tal-urnus: ripetizione; in realtà il termine taluorno è da collegarsi all’antica voce latorno voce che nella lingua ufficiale è ormai desueta tanto da essere addirittura inopinatamente (manca persino nel Pianegiani!) esclusa nei correnti ed accreditati vocabolarî della lingua italiana; tale latorno (etimologicamente deverbale di ritornare con dissimilazione r→l) indicò un lamento reiterato, una ripetizione noiosa, un canto o una persona fastidiosa e con una tipica dittongazione d’adattamento la voce latorno divenne latuorno in area calabro-lucana e poi anche pugliese, dove indicò il tipico lamento funebre delle prefiche (dal lat. praefica(m), f. dell'agg. praeficus 'messo a capo', deriv. di praeficere 'mettere a capo', perché questa donna era preposta al gruppo delle ancelle che piangevano; in effetti la prefica fu la donna che, presso gli antichi romani, veniva pagata per piangere e lamentarsi durante i funerali; l'usanza ancóra sopravvive in alcune aree mediterranee europee; scherzosamente la voce prefica è usata poi anche per indicare una persona che si lamenti per nulla; ,il lamento funebre, nelle aree soprindicate è detto anche riépeto/liépeto che semanticamente richiamano il latuorno/taluorno con il suo reiterarsi.Riépeto e liépeto sono un’unica voce con due grafie leggermente diverse cioè con la tipica alternanza/dissimilazione partenopea delle liquide r/l etimologicamente risultano essere deverbali di repetà, che da un lat. medioevale repetare indicò appunto il pianger lamentoso durante i funerali e/o le veglie funebri. Alla luce di tutto quanto detto mi pare che, relativamente all’etimo di taluorno si possa finalmente affermare che in napoletano la voce taluorno indicò dapprima il tipico lamento funebre delle prefiche e poi estensivamente persona noiosa e/o ogni fastidio reiterato, e – quanto all’etimo- messo da parte il *tal – urnus del D’Ascoli, si possa con ogni probabilità intendere come lettura metatetica di latuorno→taluorno
12.Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
Felinie = s.vo f.le pl. del sg. felinia = fuliggine, ragnatela dal lat. med. felinea per il class.fuligo.
13.Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re.; mancano precise notizie di quel Cotugno, ma è ipotizzabile il fatto che sulla bocca del popolo il nome Giorgio gli sia derivato dal fatto d’aver la tomba chiesa di san Giorgio maggiore.
14.'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie.
15.Rompere 'o 'nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La voce ‘nciarmo che come il verbo ‘nciarmà di cui pare esser deverbale è etimologicamente dal latino in (illativo)+ carmen, ma attraverso il francese charme = magía, incantesimo a sua volta come il verbo charmer derivati dal basso latino carminare (in latino carmen è la formula magica).
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venerdì 28 agosto 2009
VARIE 364
1 -Tené 'a parola superchia
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'àmbito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
2 -Tené 'a póvera 'ncopp' ê recchie
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - solo - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea ,che usavano gli antichi effeminati dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmeniello (pederasta passivo).
3 - Tené 'a puzza sott' a 'o naso
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
4 Tené a uno appiso 'ncanna o anche purtà a uno appiso 'ncanna
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
5 -Tené a quaccuno appiso all'urdemo buttone d''a vrachetta
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
6 -Tené a quaccuno 'ncopp' ê ppalle
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
7 -Tené 'a saràca dint' â sacca o anche tené 'a quaglia sotto
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche avere la quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe subito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
8 -Tené 'a sciorta 'e Cazzetta: jette a piscià e se ne cadette
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
9 -Tené 'a sciorta d''o piecoro ca nascette curnuto e murette scannato
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
10 -Tené 'a salute d''a carrafa d''a Zecca
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, la cui capacità non raggiungeva il litro, conservata dalla Regia Zecca per confronto ed era l’ unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
11 -Tené 'a vocca sporca
Ad litteram:tenere la bocca sporca Détto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
12 - Tené 'e chirchie allascate
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
13 -Tené 'e gghiorde
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
14 -Tené 'e lappese a quadrigliè p''a capa
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum seu opus reticulatum diventata lapis quadrellatum (donde lappese a quadriglié) antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione, applicazione ed attenzione con conseguente sforzo mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione a margine.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca di quando furono commercializzate le matite( ca. 1790), ne discende che l'ipotesi è da scartare.
15 - Tené 'e ppalle quadrate
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità mentali e/o operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici, addirittura cubici richiamanti quella quadratura indice di facolttà mentali e/o operative superiori alla media.
16 -Tené 'e pecune
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume
17 -Tené 'e pappice 'ncapa
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
18 - Tené 'e pigne 'ncapo
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
19 -Tené 'e rrecchie 'e pulicano
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso - per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
20- Tené 'e rrecchie pe finimente 'e capa
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
21 -Tené fatto a quaccuno
Locuzione impossibile da tradurre ad litteram, usata da chi voglia fare intendere di avere completamente in pugno qualcuno, di tenerlo nella propria disponibilità, avendolo quasi plagiato.
22-Tené arteteca
Ad litteram:stare in agitazione continua Detto soprattutto di ragazzi irrequieti, instabili e vivaci in perenne movimento, incapaci di star fermi in un luogo e adusi a stender le mani su tutto ciò che capiti nei loro pressi.La parola arteteca, etimologicamente viene da un tardo latino: arthritica con il significato nell'Italia meridionale di irrequietezza mentre nella restante parte dello stivale sta per artrite.
23 - Tené 'mmano
Ad litteram: tenere in mano id est: attendere, rimandare, procrastinare, quasi trattenendo nelle mani ciò che vorrebbe esser fatto subito.
24 -Tené 'mpont' ê ddete
Ad litteram: tenere(qualcosa) sulla punta delle dita; id est: essere pienamente padrone d'un'arte o mestiere, conoscendone a menadito la strada ed i tempi da seguire per ottenere degni risultati.
25 -Tené 'na pioneca 'ncuollo
Ad litteram: tenere una miseria addosso; id est: essere o ritenersi di essere perseguitati dalla malasorte , quasi vessati dalla sfortuna che si è quasi attaccata addosso a mo' di seconda pelle.
26 -Tené n' appietto 'e core
Ad litteram: avvertire una compressione toracica id est: trovarsi in uno stato di angoscia, essere ansiosi al punto di avvertire il cuore pulsare tachicardicamente nel petto, quasi comprimendosi contro la gabbia toracica.
27 -Tené 'nu chiuvo 'ncapa
Ad litteram: tenere un chiodo in testa id est:avere un'idea fissa che preoccupa ed affanna tenuta per iperbole a mo' di chiodo confitto in testa.
28 -Tené 'nfrisco a quaccuno
Ad litteram: tenere in fresco qualcuno id est: fare attendere qualcuno prima di provvedere ai suoi bisogni o desideri , oppure anche solo prima di prestargli ascolto, lasciarlo in sospeso, senza curarsene, come di un cibo che d'estate, prima d'esser consumato venga messo a refrigerare.
29 -Tené 'nu písemo 'ncopp'ô stommeco
Ad litteram: tenere un peso sullo stomaco id est: avere la sgradevole sensazione di portare un peso sullo stomaco, peso rappresentato - per solito - da una grave contrarietà ricevuta e risultata metaforicamente indigesta, sí da avvertirne il relativo peso sullo stomaco.
30 -Tené 'o bballo 'e san Vito
Ad litteram: essere affetto da còrea ed estensivamente essere o mostrarsi irrequieto ed instabile .
31 - Tené 'o culo a buttiglione, a mappata, a purtera, a mandulino
Ad litteram: avere il culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni del fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino; le altre tre forme si riferiscono alla medesima sgraziata forma d’un fondoschiena eccessivamente vasto tale da potersi volta a volta raffigurare come un bottiglione (grossa bottiglia di grande capacità), o come una mappata ( ampio inviluppo di panni) o infine come una purtera (vasto sportello).
32 -Tené 'o culo a tre pacche
Ad litteram: avere il culo a tre natiche Atteso che la cosa è anatomicamente impossibile, la locuzione è usata ironicamente, a mo' di dileggio di ognispocchioso, borioso saccente e supponente che si ritenga titolare di eccezionali doti e talenti fisici o morali che in realtà non esistono, come è inesistente un culo con tre natiche.
33 -Tené 'o cuorio a pesone
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente messo fuori dal proprietario.
34 -Tené 'o ffràceto 'ncuorpo
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso - pessime inclinazioni; va da sè che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali carenze o inclinazioni.
35 -Tené 'o pizzo sano e 'a scella rotta
Ad litteram: avere il becco integro e l'ala rotta Détto ironicamente di chi sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare . Al di là del significato traslato, la locuzione si riferisce di per sé a chi sia sempre pronto a mangiare e restio a lavorare.
36 - Tené 'e ppezze
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro, atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma - appunto - moneta; rammenterò che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era una ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del valore di ben 15 carlini; l’essere in possesso di tante piastre o pezze era indice di grande ricchezza.
37 -Tené 'e fruvole pazze 'int' ô mazzo
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi continuamente.
38 -Tené 'e sette vizzie d''a rosamarina
Ad litteram: avere i setti vizi del rosmarino Detto iperbolicamente di chi non sia ritenuto titolare di alcuna virtú, anzi - al contrario - di troppi vizi ; tra i quali sono considerati anche le eccessive voglie, i desideri, le richieste pressanti in ispecie quelle di taluni incontentabili ragazzi, ma anche di qualche adulto di sesso femminile.
La pianta del rosmarino, arbusto aromatico che viene molto usato in cucina , ma anche sfruttato in erboristeria per la produzione di profumi, ed in farmacopea - per le sue capacità terapeutiche, è ritenuto però ricca di vizi, che se non sono sette come affermato nella locuzione in epigrafe, son comunque tanti: è pianta che brucia con difficoltà , fa molto fumo e poca fiamma e dunque non riscalda, quando brucia, contrariamente a ciò che avviene normalmente, putisce ed irrita fastidiosamente gli occhi con il suo fumo.
39 -Tené 'o sfunnolo
Ad litteram: avere lo stomaco sfondato Detto iperbolicamente di chi sia
cosí tanto vorace ed insaziabile da mangiare continuatamente ad immettendo tantissimo cibo nello stomaco, senza mai satollarsi, quasi che lo stomaco fosse sfondato e non fosse possibile riempirlo mai.
40 -Tené 'o stommaco 'mpietto e 'o velliculo ô pizzo sujo.
Ad litteram: avere lo stomaco nel petto e l'ombellico al suo (giusto) posto. Detto ironicamente di chi lamenti continui,gravi ma - in realtà -inesistenti malanni.
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Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'àmbito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
2 -Tené 'a póvera 'ncopp' ê recchie
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - solo - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea ,che usavano gli antichi effeminati dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmeniello (pederasta passivo).
3 - Tené 'a puzza sott' a 'o naso
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
4 Tené a uno appiso 'ncanna o anche purtà a uno appiso 'ncanna
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
5 -Tené a quaccuno appiso all'urdemo buttone d''a vrachetta
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
6 -Tené a quaccuno 'ncopp' ê ppalle
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
7 -Tené 'a saràca dint' â sacca o anche tené 'a quaglia sotto
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche avere la quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe subito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
8 -Tené 'a sciorta 'e Cazzetta: jette a piscià e se ne cadette
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
9 -Tené 'a sciorta d''o piecoro ca nascette curnuto e murette scannato
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
10 -Tené 'a salute d''a carrafa d''a Zecca
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, la cui capacità non raggiungeva il litro, conservata dalla Regia Zecca per confronto ed era l’ unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
11 -Tené 'a vocca sporca
Ad litteram:tenere la bocca sporca Détto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
12 - Tené 'e chirchie allascate
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
13 -Tené 'e gghiorde
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
14 -Tené 'e lappese a quadrigliè p''a capa
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum seu opus reticulatum diventata lapis quadrellatum (donde lappese a quadriglié) antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione, applicazione ed attenzione con conseguente sforzo mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione a margine.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca di quando furono commercializzate le matite( ca. 1790), ne discende che l'ipotesi è da scartare.
15 - Tené 'e ppalle quadrate
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità mentali e/o operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici, addirittura cubici richiamanti quella quadratura indice di facolttà mentali e/o operative superiori alla media.
16 -Tené 'e pecune
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume
17 -Tené 'e pappice 'ncapa
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
18 - Tené 'e pigne 'ncapo
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
19 -Tené 'e rrecchie 'e pulicano
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso - per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
20- Tené 'e rrecchie pe finimente 'e capa
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
21 -Tené fatto a quaccuno
Locuzione impossibile da tradurre ad litteram, usata da chi voglia fare intendere di avere completamente in pugno qualcuno, di tenerlo nella propria disponibilità, avendolo quasi plagiato.
22-Tené arteteca
Ad litteram:stare in agitazione continua Detto soprattutto di ragazzi irrequieti, instabili e vivaci in perenne movimento, incapaci di star fermi in un luogo e adusi a stender le mani su tutto ciò che capiti nei loro pressi.La parola arteteca, etimologicamente viene da un tardo latino: arthritica con il significato nell'Italia meridionale di irrequietezza mentre nella restante parte dello stivale sta per artrite.
23 - Tené 'mmano
Ad litteram: tenere in mano id est: attendere, rimandare, procrastinare, quasi trattenendo nelle mani ciò che vorrebbe esser fatto subito.
24 -Tené 'mpont' ê ddete
Ad litteram: tenere(qualcosa) sulla punta delle dita; id est: essere pienamente padrone d'un'arte o mestiere, conoscendone a menadito la strada ed i tempi da seguire per ottenere degni risultati.
25 -Tené 'na pioneca 'ncuollo
Ad litteram: tenere una miseria addosso; id est: essere o ritenersi di essere perseguitati dalla malasorte , quasi vessati dalla sfortuna che si è quasi attaccata addosso a mo' di seconda pelle.
26 -Tené n' appietto 'e core
Ad litteram: avvertire una compressione toracica id est: trovarsi in uno stato di angoscia, essere ansiosi al punto di avvertire il cuore pulsare tachicardicamente nel petto, quasi comprimendosi contro la gabbia toracica.
27 -Tené 'nu chiuvo 'ncapa
Ad litteram: tenere un chiodo in testa id est:avere un'idea fissa che preoccupa ed affanna tenuta per iperbole a mo' di chiodo confitto in testa.
28 -Tené 'nfrisco a quaccuno
Ad litteram: tenere in fresco qualcuno id est: fare attendere qualcuno prima di provvedere ai suoi bisogni o desideri , oppure anche solo prima di prestargli ascolto, lasciarlo in sospeso, senza curarsene, come di un cibo che d'estate, prima d'esser consumato venga messo a refrigerare.
29 -Tené 'nu písemo 'ncopp'ô stommeco
Ad litteram: tenere un peso sullo stomaco id est: avere la sgradevole sensazione di portare un peso sullo stomaco, peso rappresentato - per solito - da una grave contrarietà ricevuta e risultata metaforicamente indigesta, sí da avvertirne il relativo peso sullo stomaco.
30 -Tené 'o bballo 'e san Vito
Ad litteram: essere affetto da còrea ed estensivamente essere o mostrarsi irrequieto ed instabile .
31 - Tené 'o culo a buttiglione, a mappata, a purtera, a mandulino
Ad litteram: avere il culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni del fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino; le altre tre forme si riferiscono alla medesima sgraziata forma d’un fondoschiena eccessivamente vasto tale da potersi volta a volta raffigurare come un bottiglione (grossa bottiglia di grande capacità), o come una mappata ( ampio inviluppo di panni) o infine come una purtera (vasto sportello).
32 -Tené 'o culo a tre pacche
Ad litteram: avere il culo a tre natiche Atteso che la cosa è anatomicamente impossibile, la locuzione è usata ironicamente, a mo' di dileggio di ognispocchioso, borioso saccente e supponente che si ritenga titolare di eccezionali doti e talenti fisici o morali che in realtà non esistono, come è inesistente un culo con tre natiche.
33 -Tené 'o cuorio a pesone
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente messo fuori dal proprietario.
34 -Tené 'o ffràceto 'ncuorpo
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso - pessime inclinazioni; va da sè che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali carenze o inclinazioni.
35 -Tené 'o pizzo sano e 'a scella rotta
Ad litteram: avere il becco integro e l'ala rotta Détto ironicamente di chi sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare . Al di là del significato traslato, la locuzione si riferisce di per sé a chi sia sempre pronto a mangiare e restio a lavorare.
36 - Tené 'e ppezze
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro, atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma - appunto - moneta; rammenterò che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era una ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del valore di ben 15 carlini; l’essere in possesso di tante piastre o pezze era indice di grande ricchezza.
37 -Tené 'e fruvole pazze 'int' ô mazzo
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi continuamente.
38 -Tené 'e sette vizzie d''a rosamarina
Ad litteram: avere i setti vizi del rosmarino Detto iperbolicamente di chi non sia ritenuto titolare di alcuna virtú, anzi - al contrario - di troppi vizi ; tra i quali sono considerati anche le eccessive voglie, i desideri, le richieste pressanti in ispecie quelle di taluni incontentabili ragazzi, ma anche di qualche adulto di sesso femminile.
La pianta del rosmarino, arbusto aromatico che viene molto usato in cucina , ma anche sfruttato in erboristeria per la produzione di profumi, ed in farmacopea - per le sue capacità terapeutiche, è ritenuto però ricca di vizi, che se non sono sette come affermato nella locuzione in epigrafe, son comunque tanti: è pianta che brucia con difficoltà , fa molto fumo e poca fiamma e dunque non riscalda, quando brucia, contrariamente a ciò che avviene normalmente, putisce ed irrita fastidiosamente gli occhi con il suo fumo.
39 -Tené 'o sfunnolo
Ad litteram: avere lo stomaco sfondato Detto iperbolicamente di chi sia
cosí tanto vorace ed insaziabile da mangiare continuatamente ad immettendo tantissimo cibo nello stomaco, senza mai satollarsi, quasi che lo stomaco fosse sfondato e non fosse possibile riempirlo mai.
40 -Tené 'o stommaco 'mpietto e 'o velliculo ô pizzo sujo.
Ad litteram: avere lo stomaco nel petto e l'ombellico al suo (giusto) posto. Detto ironicamente di chi lamenti continui,gravi ma - in realtà -inesistenti malanni.
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