domenica 30 settembre 2012
TIMPANO DI PASTA ALLA MANIERA DEI MONZÚ
TIMPANO DI PASTA ALLA MANIERA DEI MONZÚ
Nota
Questo gustoso timballo di pasta è preparato alla maniera dei monzú (cuochi francesi chiamati nel Reame di Napoli in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone; non è dato sapere se si tratti di un piatto derivante dalla cucina francese, o di piatto inventato qui nel Reame, con tutti gli ingredienti usati nella cucina napoletana, con la sola eccezione del burro (ingrediente per solito …nordico) questa volta usato in luogo dello strutto tipico della cucina meridionale e con l’eccezione del pomodoro mancante del tutto in questa preparazione; chi volesse potrebbe acconciamente sostituire il burro con lo strutto ed aggiungere un sugo di passata di pomodoro, ma la ricetta originaria è ugualmente gustosa pure senza strutto e pomodoro!)
Ingredienti per 6 persone:
Due mazzetti di carote mondate,grattate ed affettate a rondelle,
700 gr zucchine mondate,spuntate ed affettate a rondelle,
700 gr patate sbucciate,lavate ed affettate a fettine da ½ cm di spessore,
2 spicchi d’aglio mondato e tritato,
2 coste di sedano verde, mondate, private dei filamenti e tagliate in tocchetti da 4 cm.
2 grosse cipolle dorate, possibilmente di Montoro, mondate della prima tunica ed affettate sottilmente,
3 etti di macinato di manzo,
un mazzetto di basilico lavato, asciugato e spezzettato a mano (senza coltello!)
Sale doppio un pugno ed una presa
1 bicchiere d’ Olio d’oliva e.v. p.s. a f.,
5 cucchiai di burro,
sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.
Pane grattugiato q.s.
600 gr di rigatoni o candele spezzate,
500 gr fiordilatte o provola in fettoline sottili da ½ cm. di spessore,
2 etti di salame napoli in cubetti di ½ cm di spigolo,
300 gr pecorino grattugiato finemente
Procedimento
In una pentola alta unire olio, aglio, carote, patate e zucchine mondate ed affettate. Aggiungere cipolle , sedano, basilico ed una presa di sale grosso. Lasciate stufare il tutto per circa venti minuti.Alla fine unire il macinato, bagnare con una tazza da tè d’acqua bollente e lasciar cuocere per altri quindici minuti; aggiustare di sale e pepe rimestando benissimo. Lessare molto al dente la pasta in acqua salata (pugno di sale grosso) ed aggiungerla allo stufato di ortaglie e manzo cosí ottenuto. Aggiungere i cubetti di salame, rimestare e mantecare a mezza fiamma con due cucchiai di burro ed il formaggio pecorino grattugiato finemente. Verniciare ed ingranire con un po’ di burro e con il pane grattugiato fondo e parete di uno stampo alto a calotta sferica, formare un primo strato di pasta condita ed aggiungete uno strato di fiordilatte o di provola a fettoline; formare un secondo strato di pasta condita,pressare un poco la pasta e spolverizzare di pane grattugiato, aggiungere alcuni fiocchetti di burro ed infornare in forno caldo a circa 180° per 15/20 minuti, lasciare gratinare per qualche minuto prima di servire ben caldo.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso,Campi Flegrei d.o.c., Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
Raffaele Bracale
FILOSCIO * CU ‘E CEPOLLE
FILOSCIO * CU ‘E CEPOLLE
DOSI PER 4 PERSONE
8 uova, preferibilmente fresche,
4 grosse cipolle dorate,
1 ciuffo di menta tritata,
noce moscata q.s.,
1/2 bicchiere di latte,
1 bicchiere abbondante di olio per friggere ,
4 cucchiai di pecorino grattugiato,
sale fino e pepe decorticato q.s.
*per filoscio (dal francese filoche a sua volta da fil), si intende una frittata molto sottile tale da poter essere convenientemente arrovesciata su se stessa fino ad assumere una forma oblunga e soffice.
Affettate le cipolle, mondate della tunica esterna, in senso longitudinale con uno spessore di ca ½ cm.; ponetele in acqua fredda e dopo ca ½ ora sgrondatele ed asciugatele con un canevaccio, ponetele in una teglia con la metà dell’olio e lasciatele stufare a fuoco molto basso, salandole súbito ed aggiungendo il trito di menta; quando avranno preso colore, senza bruciare, aggiungete la grattugiata di noce moscata, raccoglietele con una schiumarola e ponetele in una terrina.
In una grossa ciotola rompete le uova, battetele a spuma, aggiungendo il latte, il pecorino , sale e pepe;
Aggiungete altro olio nella padella dove avete cotte le cipolle, portatelo a temperatura e versatevi parte delle uova sbattute, fino ad ottenere una frittata sottile tale che possa esser ripiegata su stessa; su detta frittata ancora stesa ponete qualche cucchiaiata di cipolle e ripiegate i lembi della frittata in modo che le cipolle restino come imprigionate, ottenendo il cosiddetto filoscio oblungo e soffice; ripetete almeno quattro volte l’operazione fino ad esaurimento delle uova e delle cipolle.
Rammento che (per chi può permetterselo, non avendo problemi di diabete e/o colesterolo ) il filoscio cu ‘e cepolle va consumato caldo di padella, a preferenza, disteso in un panino marsigliese caldo di forno o riscaldato alla piastra, aperto longitudinalmente in due e poi farcito.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute ! E diciteme: Grazie!!
raffaele bracale
FRITTATA ‘E MULIGNANE
FRITTATA ‘E MULIGNANE
chello ca serve pe sseje perzone
miezu kilò ‘e mulignane longhe viulette napulitane lavate asciuttate e tagliate p’ ‘o ccurto a fellocce ‘e miezu centimetro.
‘na grossa cepolla ndurata ‘e Muntoro ammunnata e ntretata,
8 ova
‘nu bicchiere e mmiezo d’ uoglio ‘auliva dunciglio,
‘nu cucchiarino ‘e cannella,
sale duppio ddoje vrancate,
sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco q.n.s.
comme se fa
Lavà e asciuttà ‘e mulignane levanno ‘e streppune e ‘e ddoje ponte; tagliarle p' 'o ccurto a fellocce doppie miezu centimetro e sestimarle a ccuscie (derrammate ognuno ‘e sale duppio) dinto a ‘nu scolapasta pe ‘na mez’ora.
Scularle, sciacquarle sotto a ‘nu strèpeto d’acqua fredda, spremmerle a tagliarle a ffarinule ‘e tre centimetre pe dduje pe ttre. Sciacquarle ancòra. Ammunnà ‘a cepolla e ntretarla. Dinto a ‘na prupurziunata tiella ricà miezu bicchiere d’uoglio cu ‘o ttrigliato ‘e cepolla e tenerlo a ffuoco miccio nfi’ a cche nun à pigliato culore; agnadí ‘e ffellocce ‘e mulignane,agnadí ‘a cannella, sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco, ‘nu quarto d’acqua vullente aizà ‘o ffuoco e fà cocere pe ddiece minute nfi’ a cche ‘e mmulignane nun addeventano tennere. Aumentà ‘o ffuoco pe ffà asciuttà tutta ll’acqua. A chistu punto levà ‘a tiella dô ffuoco e ffà arrefreddà ‘e mulignane. Fraditanto arapí dinto a ‘na zupperella ll’ova accuncià ‘e sale e ppepe e sbatterle. Ricà ll’uoglio rummaso dint’â tiella cu ‘e mulignane, metterle a ffuoco forte e appena è divintato vullente revacà ll’ova sbattute, tuiglià, avascià ‘o ffuoco e aiutannose cu ‘na palettella ‘e fierro fà cocere ‘a frittata primma ‘a ‘nu lato e ppo ‘a ll’ato l'olio, cinche minute pe parte. Serví súbbeto ‘ntavula spartuta a ggusse (spicchi).
Vino: asciutte e profumate janche nustrane ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco ‘e Tufo) fridde ‘e jacciaja o ‘e ‘rotta.
Magna Napule, bbona salute! Scialàteve e cunzulàteve ‘o vernecale!!
Raffaele Bracale
FRITTATA DI MACCHERONI CON CREMA DI CIPOLLE GRATINATA.
FRITTATA DI MACCHERONI CON CREMA DI CIPOLLE GRATINATA.
per la frittata
Ingredienti: x 6 persone
8 etti pasta doppia (zite, rigatoni, maltagliati) lessati in acqua salata, sgrondati e passati in frigorifero almeno per mezz’ora,
6 uova,
sale doppio un pugnetto,
sale fino e pepe bianco q.s.
pecorino grattugiato finemente quattro cucchiai
1 bicchiere e mezzo di olio d'oliva e.v. p. s. a f.
per la crema di cipolle
100 g. di strutto,
100 g. di speck tagliato a dadini,
800 g. di cipolle dorate mondate ed affettate sottilmente,
2 cucchiai di farina,
1 litro di brodo vegetale da verdure fresche o da dado vegetale,
Sale fino q.s.,
Pepe decorticato q.s.,
100 g. di pinoli tostati,
Un gran ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
100 g.di uva passita ammollata e strizzata,
1 bicchiere di panna vegetale da cucina,
Il succo filtrato di un limone non trattato.
Procedimento. Si comincia approntando la crema di cipolle nel modo che segue:
Tagliare in fette molto sottili le cipolle.Porre in una padella di ferro nero lo strutto e farlo sciogliere a fuoco dolce; unire
lo speck tagliato a dadini e le cipolle affettate bagnando il tutto con mezzo bicchiere d’acqua bollente e far cuocere per 15 minuti le cipolle, fino a che non siano diventate ben morbide, ma non scure.
Spolverare con la farina e aggiungere il brodo tenuto in caldo.
Salare, pepare e lasciare cuocere a fuoco basso per 15 minuti circa.
Versare la panna e il succo di limone.Infine aggiungere pinoli tostati ed uva passita ammollata e strizzata; fuori del fuoco aggiungere il trito di prezzemolo.
Mescolare bene. Tenere da parte.
A seguire sbattere a spuma le uova in una terrina con una presa di sale fino, due di pepe e con i cucchiai di pecorino grattugiato finemente,
Lessare la pasta in acqua bollente salata, scolarla e condirla con un filo d'olio e mandarla in frigo almeno per mezz’ora; súbito dopo mescolarla con le uova battute, coprire e lasciar insaporire almeno 15’ rimescolando di tanto in tanto; questa operazione è fondamentale per la buona riuscita di questo piatto. Mettere un po’ d'olio in un tegame da forno rettangolare o quadrato rigorosamente di ferro nero, una volta che l’olio sia ben caldo mettere la pasta condita formando con la pressione d’una forchetta uno strato uniforme, ed a fiamma dolce di fornello rosolare per bene da un lato (3’) e poi fare lo stesso per l'altro lato(altri 3’) ): per girare la frittata, aiutarsi con un ampio piatto da portata. Lasciare intiepidire alquanto; cospargere sulla frittata la crema di cipolle, sezionar la frittata in quadrotti di circa otto cm. di lato e mandarla in forno preriscaldato a 160° per il tempo necessario a far gratinare la crema di cipolle. Servire calda di forno.
Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
FRITTATA ‘E MACCARUNE SAFRUNATA
FRITTATA ‘E MACCARUNE SAFRUNATA
Chello ca ce vo’ pe ddoje perzone
400 gramme ‘e vermecielle o ‘e bucatine arvate teniente teniente dinto a otto litre d’acqua salata vullente, sculate a mmestiere e passate pe mez’ora dint’â jacciaja,
4 ova,
2 cucuzzielle vierde napulitane, lavate, asciuttate, spuntate e ttagliate a rundelle doppie ½ cm.,
4 gruosse sciure jalizze ‘e cucuzzielle, lavate, asciuttate, senza màstilo e ppestílo (gambo e pistillo) e murcellate a lla sanfason,
2 spicule d’aglio ammunnate e ntretate finu fino,
‘na farinula pe bbroro veggetale,
2 bustine ‘e safrone,
200 gramme ‘e provola affummecata tagliata a ffarinule ‘e ½ cm. ‘e ‘squina,
‘na presa ‘e sale duppio,
sale fino e ppepe janco mmacenato a ffrisco q.c.n. v..
pecorino grattugiato due cucchiai
‘Nu bicchiere e miezo d’ uoglio ‘auliva dunciglio.
Comme se fa
Dinto a ‘na prupurziunata tiella ca nun azzecca ricà miezu bicchiere d’uoglio e a ffuoco allero fà piglià culore ‘o ttrigliato d’aglio; appena è ppronto agnadí ‘e cucuzzielle e ‘e piezze ‘e sciure ‘e cucuzzielle murcellate (spezzettati); ‘nfonnere cu meza ciotola d’acqua vullente addó è stato accumpliato ‘a farinula pe bbroro veggetale e ‘e ddoje bustine ‘e safrone e lassà cocere pe ddiece minute sempe a ffuoco allero.
Fraditanto dinto a ‘na zupperella sbattere buono ll’ova cu ‘na presa ‘e sale fino ,ddoje prese ‘e pepe e ‘nu paro ‘e cucchiare ‘e caso pecurino. di pecorino.Arvere ‘a pasta tenente tenente dinto a otto litre d’acqua salata vullente, scularla a mmestiere, cunnirla cu miezu bicchiere d’uoglio e passarla pe mez’ora dint’â jacciaja; súbbeto doppo ammiscarla cu ll’ova sbattute e agnadirve ‘a trufa ‘e cucuzzielle e ‘e ffarinule ‘e provola;ammiscà, cummiglià e lassà ‘nzapurípe ‘nu quarto d’ora ammiscanno ògne ttanto; chistu fatto è sustanziale pe ‘na bbona riuscita d’ ‘o piatto.Ricà miezu bicchiere d’uoglio dinto a ‘na tiella ‘e fierro niro e a ffuoco sustenuto farlo callentà; appena è caudo, agnadirce ‘a pasta cunnita furmanno cu ‘a pressione ‘e ‘na furchetta ‘nu strato uniforme; fà suassà pe cquatto minute ‘nu lato e pe cquatto chill’atu lato; p’avutà ‘a frittata ajutarse cu ‘nu prupurziunato piatto o cupierchio. Serví a ffelle ‘sta frittata cauda o pure fredda. Vino: asciutte e profumate janche nustrane ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco ‘e Tufo) fridde ‘e jacciaja o ‘e ‘rotta.
Magna Napule, bbona salute! Scialàteve e cunzulàteve ‘o vernecale!!
raffaele bracale
sabato 29 settembre 2012
“'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E TT'AFFOCA” & dintorni
“'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E TT'AFFOCA” & dintorni
Questa volta risponderò alla cortese richiesta della mia amica S.P. ( della quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi à chiesto, qualora lo conoscessi, di illustrare significato e portata del proverbio in epigrafe ed in caso positivo di farne partecipe lei ed anche gli altri consueti ventiquattro lettori delle mie paginette. Le ò risposto testualmente nel modo seguente: Sí cara amica
conosco il proverbio che viene di lontano, ma fu sempre usato – a mia memoria quasi a completamento avversativo di altri due proverbi che furono: 1)'O SANGO NUN è ACQUA, 2)'O SANCO VO' DICERE, MA NUN VO' SENTERE che erano – come ò détto - completati in maniera avversativa con la precisazione E ciò a malgrado del fatto che 3)'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E TT'AFFOCA; Entriamo in medias res e chiariamo súbito che in tutti e tre i proverbi il fenomeno ematico è ovviamente usato non in senso reale ma in quello figurato per indicare i legami di parentela e/o affetti. Nel caso sub 1) si afferma che il legame di sangue è fortissimo e di valore ben superiore a quello dell’acqua a cui non si apparenta; nel caso sub 2) si afferma che si è pronti a sparlar della propria parentela, ma non si accetta che ne parlino male i terzi; nel caso sub 3) si afferma che i legami di sangue, per fortissimi ed importanti che siano possono diventare cosí insidiosi facendosi pericolosi fino a nuocerti! Soffermiamoci su qualche voce.
- sanco s.vo neutro = sàngue [ voce dall’acc.vo lat. sangue(m) accus. collaterale di sanguĭnem attraverso un metaplasmo del lat. volg. *sangu(m)→sancu(m) con passaggio espressivo della occlusiva velare sonora (g) a quella sorda (c).]
1.
a. Liquido organico, opaco, viscoso, di colore rosso (rosso vivo il sangue arterioso, rosso scuro il venoso) che, sotto l’impulso dell’attività cardiaca, circola nell’apparato cardiovascolare (cuore, arterie, capillari, vene), distribuendosi in tutti i distretti dell’organismo, nei quali esplica fondamentali funzioni di nutrizione; è fisicamente una sospensione, risultante di una parte corpuscolata (globuli rossi o eritrociti, globuli bianchi o leucociti e piastrine) e di una parte liquida, il plasma; funzionalmente, rappresenta il vero tessuto di correlazione dell’organismo: per suo mezzo, infatti, gli organismi aerobici attuano lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica fra l’ambiente esterno e i proprî tessuti (v. respirazione), e in esso passano i principî nutritivi assorbiti a livello della mucosa intestinale per essere trasportati e distribuiti ai varî organi e tessuti, dove sono utilizzati a scopi energetici e plastici oppure immagazzinati come materiali di riserva. Locuzioni: s. arterioso, s. venoso (anche, s. rosso, s. blu); la formazione del s., o emopoiesi; la circolazione del s.; s. ricco, s. povero di globuli rossi; animali a (o di) s. caldo, i vertebrati che ànno la temperatura corporea costante, come i mammiferi e gli uccelli (detti perciò omeotermi); animali a (o di) s. freddo, i vertebrati con temperatura interna variabile in relazione alla temperatura ambiente, come i rettili, gli anfibî, i pesci (detti perciò eterotermi); coagulazione del s.; prelievo di s.; analisi, esame del s.; trasfusione di s.; datori o donatori di s. (anche volontarî del s.), v. datore. Nel linguaggio com.: avere il s. sano, essere di buon s.; avere il s. malato, guasto, infetto; pop., avere il s. grosso o ingrossato, avere la pressione alta (espressione che risale alla vecchia teoria umorale, nella quale si contrapponeva a s. sottile); prov., il riso fa buon s., fa bene alla salute; occhi iniettati di s., espressione con cui si indica comunem. l’iperemia dei vasi superficiali dell’occhio, soprattutto in quanto sia conseguente a uno stato di violenta eccitazione.
b. Il liquido organico stesso considerato nel suo apparire all’esterno dell’organismo, in quanto eliminato o perduto per cause fisiche, patologiche, traumatiche, ecc.: un getto, un fiotto, un grumo, una goccia, una stilla di s.; s. rosso, nerastro; la ferita fa s., getta s.; perdere s. (fam. fare s.); dal taglio il s. esce, spiccia, sprizza, sgorga abbondante; filare s., quando esce con getto continuo (la mano ferita gli filava s.); nell’uso com., perdere s. dal naso, avere un’epistassi; avere una perdita di s., un’emorragia; sputare s., avere uno sbocco di s., avere un’emottisi; fermare, fare stagnare o ristagnare il s., quando viene perduto per una ferita o un’emorragia; cavare, levare il s., fare un salasso; non avere s. nelle vene, non rimanere piú s. nelle vene, in usi fig. (v. vena2, n. 1 b); un apporto di s. fresco, in senso fig., un apporto di elementi nuovi, giovani, freschi, capaci di ridare vigore a situazioni in stato di debolezza, precarietà, esaurimento (la concessione del mutuo rappresenta un apporto di s. fresco per l’azienda). Per il modo prov., scherz., levare o cavare s. da una rapa. Pietra del s. (o sanguinella), altro nome del diaspro rosso, cosí chiamato perché anticamente ritenuto efficace contro le emorragie.
c. Con riferimento al colore: rosso come il s., o, in funzione appositiva, rosso sangue, rosso vivo, fiammante (a volte anche rosso di s.); con allusione al colore della carnagione: à gote latte e s.; quel bambino è tutto latte e s., à un viso bianco e rosso, segno di buona salute.
d. In frasi di tono enfatico, con allusione al fatto che il sangue è essenziale alla vita, e quindi cosa assai preziosa: amare qualcuno piú del proprio s.; darei metà del mio s., tutto il mio s. pur di vederlo guarito.
e. Come simbolo di fatica e dolore, in senso sia fisico sia morale: costare s., sudare s., richiedere, sopportare un’enorme fatica; piangere lacrime di s., piangere amaramente, sconsolatamente; succhiare il s., esigere da una persona tutto ciò, o anche piú di ciò, ch’essa possa dare, per quanto riguarda il lavoro, un’attività e, soprattutto, il denaro: governo, fisco che succhia il s. dei cittadini; usurai arricchitisi succhiando il s. della povera gente.
2.
a. Sangue umano uscito dal corpo in seguito a ferite, spec. mortali, inferte volontariamente: battere, percuotere, mordere a s., con tanta violenza da far sanguinare; duello all’ultimo s., combattere fino all’ultimo s., fino a che uno dei contendenti resti ucciso (propriam., fino a che rimanga nel corpo ancora una goccia di sangue); duello al primo s., battersi al primo s., con l’accordo di sospendere il duello alla prima ferita; iperb., la vittima giaceva in una pozza, in un lago, in un mare di sangue.
b. Con valore simbolico, ferimento, uccisione, strage: spargere s., commettere delitti, stragi: Io che sparsi di s. ampio torrente (T. Tasso), che feci grandi stragi; sacrificio con, senza, spargimento di s., cruento, incruento; delitto, reato, crimine di s.; nella cronaca giornalistica, un grave fatto di s., un delitto; uomo di s., sanguinario, portato alla violenza: io ’l vidi omo di s. e di crucci (Dante); avere le mani lorde di s., imbrattate di s., che grondano s., che ànno ucciso; lavare un’offesa nel s., onta vendicata col s., con la vita dell’offensore; il s. innocente grida vendetta; che il suo s. ricada su di voi!; prezzo del s., presso popoli antichi o primitivi, somma di denaro che dev’esser pagata dall’omicida ai congiunti dell’ucciso come riscatto del proprio delitto (con altro senso, ottenere, raggiungere qualche cosa a prezzo del s., a costo della vita); avere sete, essere assetato di s., essere spinto al delitto da follia omicida o da grande desiderio di vendetta: Sangue sitisti, e io di sangue t’empio (Dante); al contrario, aborrire il s., aver orrore del s., di persona d’animo mite, aliena per natura dalla violenza. Il fiume di s. bollente, nell’Inferno dantesco, il Flegetonte (Inf. XII, 47-48: La riviera del s. in la qual bolle Qual che per vïolenza in altrui noccia), che attraversa il cerchio 7° e nel quale sono puniti i violenti contro il prossimo.
c. In partic., sangue versato nelle lotte o discordie civili, nelle guerre, o comunque per motivi politici o sociali: temprando lo scettro a’ regnatori, Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela Di che lagrime grondi e di che sangue (Foscolo); spargere, versare s. fraterno, nelle lotte intestine; soffocare una rivolta nel s., uccidendo i ribelli; l’insurrezione è finita in un bagno di s., si è conclusa con un massacro; scorreva per le vie il s. dei cittadini; notte di s., giornate di s., in cui siano state compiute gravi stragi di cittadini, di avversarî politici, ecc.; Natale di s. (v. natale, n. 2 b); in tono enfatico, essere scritto a lettere o a caratteri di s., di eventi storici grandi e solenni che siano maturati attraverso lotte dolorose e con molte perdite di vite umane. Con sign. piú prossimo a «vita umana»: dare, versare il s. per la patria, morendo sul campo di battaglia; Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato (Foscolo); essere pronto a donare il s. per un’idea, per un ideale, a sacrificare la vita; l’indipendenza fu conquistata con il s. degli eroi; una vittoria che costò molto s.; quanto s. è costata la riconquista della libertà!; pagare un tributo di s., subire gravi perdite di vite umane. Nel linguaggio religioso e nella storia della Chiesa: fede rinvigorita dal s. dei martiri; battesimo di s., il martirio (v. battesimo, n. 1 a); l’umanità è stata redenta dal s. di Gesú; Nel tempo che ’l buon Tito ... vendicò le fóra Ond’uscí ’l sangue per Giuda venduto (Dante); il preziosissimo S., o il S. preziosissimo, anche senz’altra determinazione, quello sparso da Gesú Cristo sulla croce, e nel quale si trasforma quotidianamente il vino nel sacrificio della Messa.
3. In senso fig.:
a. Essenza vitale, sede della vita e dei sentimenti: non avere piú una goccia di s. nelle vene, sentire che la vita, le forze vengono meno; avere (una qualità) nel s., avere una disposizione, buona o cattiva, profondamente radicata in sé (à la musica nel s.; à la disonestà nel sangue); sentirsi qualcosa nel s., avere un presentimento particolarmente vivo e insistente; con riferimento a persona, avere qualcuno nel s., amarlo profondamente, essergli intimamente assai legato.
b. Lo stato d’animo, l’insieme degli atteggiamenti spirituali e delle passioni, spec. violente, di una persona, in quanto tutto ciò sembra essere in stretta relazione con diversi stati della circolazione del sangue, esercitando influenza su questi o, al contrario, essendone influenzato: guastarsi il s., irritarsi fortemente, arrabbiarsi; farsi cattivo s. (o il s. cattivo; anche, il s. amaro), tormentarsi, rodersi l’animo, prendersela molto a cuore; avere, non avere buon s. per qualcuno, averlo o no in simpatia; ant., andare a s., andare a genio; tra loro non corre buon s., non ci sono buoni rapporti, esiste animosità, acredine; il s. gli salí alla faccia, come manifestazione esteriore d’ira, di sdegno, di vergogna; il s. gli andò o gli montò alla testa, di chi è improvvisamente invaso dalla collera, dal furore; sentirsi rimescolare, rivoltare il s., provare grande turbamento, avvertire un sentimento di ribellione, di ripugnanza, di sdegno; sentirsi ribollire il s., esser vicino a scattare per lo sdegno, per l’ira; il s. gli fece un tuffo, a causa di una violenta e improvvisa emozione; sentirsi gelare o agghiacciare il s., allibire per il terrore; avere il s. caldo, il s. bollente, avere un temperamento focoso, facilmente infiammabile d’ira, d’amore, di passione, o anche d’entusiasmo; con senso affine, sentirsi bollire o ribollire il s. nelle vene; al contrario, non avere s. nelle vene, essere di temperamento freddo, insensibile, incapace di entusiasmo, di calore, di reazione e sim. (con sign. analogo, bisognerebbe non avere s. nelle vene, per non sdegnarsi, per non reagire, per non sentirsi invasi dalla passione o dall’entusiasmo). Come locuz. avv., a s. caldo, nel pieno dell’entusiasmo, dell’ira, della passione; piú com. il contrario, a s. freddo, a mente fredda, con piena consapevolezza delle proprie azioni, oppure freddamente, senza scomporsi: lo uccise a s. freddo. In altri casi, s. freddo, impassibilità, piena padronanza di sé e dei proprî nervi, che permette la visione realistica delle cose e una fredda obiettività di giudizio: tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni piú di s. freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando (Manzoni); conservare, mantenere il s. freddo; non gridavano, non perdevano il s. freddo (Ottieri); mostrare s. freddo; e come raccomandazione a mantenere il controllo di sé: s. freddo, mi raccomando!; calma e s. freddo!, spesso in tono iron. con riferimento a chi si agita troppo o mostra impazienza.
4. Sempre in senso fig.:
a. Veicolo dei caratteri ereditarî, espressione della costituzione genetica (secondo un concetto scientificamente superato, ma tuttora vivo nel linguaggio com.): essere di s. nobile (pop. o scherz., di s. blu), di s. patrizio, appartenere a una famiglia di origine nobile, patrizia; al contr., essere di s. popolano, plebeo; príncipi di s. reale, discendenti di una famiglia reale; con sign. piú ristretto, príncipi del s., quelli che appartengono alla famiglia stessa del sovrano; uomo ... per costumi o per virtú, molto piú che per nobiltà di s., chiarissimo (Boccaccio); buon s. non mente, frase prov. che si usa pronunciare nel vedere risvegliarsi o manifestarsi in una persona, spec. un giovane o un bambino, certe inclinazioni, buone o cattive, che si ritengono ereditarie.
b. Sempre in senso fig.come nel caso che ci occupa:
Relazione di parentela, continuità della famiglia, della stirpe, in quanto si ritiene che il sangue si trasmetta dai genitori nei figli: ci sono tra loro stretti vincoli di s.; legami di s. tra due famiglie, tra due tribú, tra due popoli; avere lo stesso s., essere dello stesso s., appartenere allo stesso s.; tutti quelli del suo s., tutti i suoi parenti; la voce del s., l’istinto che fa riconoscere o amare i proprî parenti (sentire, ascoltare la voce del s.); il s. non è acqua, frase prov. che esprime, come ò anticipato la forza con cui si fanno spesso sentire i legami di parentela (con altro senso, la frase serve a giustificare la facile eccitabilità dell’animo, gli impulsi all’amore, all’ira, allo sdegno, e sim.).
c. Con sign. concr., famiglia, stirpe; piú spesso, unito ad un agg. possessivo, indica i membri di una stessa famiglia, i discendenti, i figli, o anche un singolo parente, un singolo figlio; ll’aggi’ ‘a ajutà è pur’isso sanco mio(devo aiutarlo, è anche lui s. mio); piú enfaticamente,è ssanco d’ ‘o sanco mio (è s. del mio s.), con riferimento a un figlio);lle vuleva bbene comme fósse sanco suĵo (l’amava come se fosse s. suo).
d. Con riferimento a unità etniche: essere di s. italiano, di s. tedesco, di s. arabo; à s. gitano nelle vene; s. misto, v. sanguemisto; anche, il complesso dei caratteri piú genuini e distintivi di un popolo: si vede che à s. siciliano; è il vero s. latino. Con sign. concr. e collettivo, l’insieme dei componenti di una stirpe o progenie, di una nazione, di un’unità etnica; non com., un bel s., una bella stirpe, una bella razza.
e. Analogam., nel linguaggio degli allevatori di cavalli e di altri animali domestici, puro s. (animale, cavallo di puro s., piú spesso in funzione di sost., un puro s., anche in grafia unita: v. purosangue), animale di razza pura; mezzo s. (anche in grafia unita: v. mezzosangue), l’ibrido o meticcio fra due razze diverse; quarto di s., l’individuo che discende da un mezzosangue, incrociato a sua volta con un’altra razza.
5. Sangue di un animale macellato: il sanguinaccio si fa con il s. di maiale; bistecca al s., poco cotta. Sangue di bue, nome con cui viene comunem. indicato in commercio un concime organico azotato ottenuto dal sangue di bovini macellati, seccato e ridotto in polvere, che viene poi usato di solito diluito in acqua.
6. Come elemento di espressioni esclamative o imprecative, in tono talvolta scherz. talvolta volg.: sanco ‘e Giuda!; sanco. ‘e Bacco! sanco ‘e chi t’è vvivo/’e chi t’è mmuortoecc.; (s. di Giuda!; s. di Bacco!; sangue di chi ti è vivo/ di chi ti è morto!)
- saglie voce verbale qui 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito saglí/sàgliere = salire, montar su (voce da un lat. volg. *salíjere→sàljere per il class. salíre, con cambio di coniugazione e consueto passaggio di lj a gli+ vocale come in olju(m)→uoglio, allju(m)→ aglio); alibi anche 2ª p. sg. imperativo del medesimo infinito.
- ‘ncanna= in gola espressione usata sia in senso reale come nel caso di funa ‘ncanna= corda alla gola – annuzzà ‘ncanna= soffocare per non riuscire a deglutire un boccone di cibo finito per traverso oppure in senso figurato come nel caso che ci occupa, oppure in senso metaforico restà ‘ncanna= restare in gola détto di ciò a cui non sia pervenuti e/o non si sia potuto conseguire; ‘ncanna è: in+canna→(i)ncanna→’ncanna; (canna deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola); l’altra voce usata per indicare propriamente il canale della gola il gorgozzúle (dall'ant. gorgozzo o gorgozza, che è dal lat. volg. *gurgutiam, per il class. gurges -gitis 'gola’) è cannarone palesemente accrescitivo della pregressa canna; cannarone tuttavia non dovrebbe indicare la trachea (dal lat. tardo trachia(m), dal gr. trachêia (artìría), propr. '(arteria) ruvida', f. sost. dell'agg. trachys 'ruvido', perché al tatto risultano sensibili i passaggi fra un anello cartilagineo e l'altro) che è poi l’organo dell'apparato respiratorio a forma di tubo, costituito da una serie di anelli cartilaginei, compreso fra la laringe e i bronchi, organo cui si fa riferimento con il napoletano canna; cannarone è usato infatti soprattutto nelle espressioni in cui occorra sottolineare una pretesa vastità del tratto del tubo digerente che va dalla faringe allo stomaco, cioè dell’esofago (dal gr. oisophágos, comp. di óisein 'portare, trasportare' e phaghêin 'mangiare') di chi ingurgiti molto cibo e lo faccia voracemente; possiamo perciò dire che in napoletano – contrariamente da ciò che ritengono i piú avvezzi a far d’ogni erba un fascio, la voce canna corrisponde alla trachea mentre il cannarone è l’esofago.
A margine rammenterò che nell’uso del parlato soprattutto provinciale e/o dell’entroterra accanto al termine cannarone ne esistono altri due da esso derivati e che ne sono una sorta di dispregiativo e sono: cannaruozzo e cannaruozzolo; il suffisso ozzo/uozzo di matrice tardo latino volgare fu usato per indicare (cfr. Rohlfs G.S.D.L.I.E S.D. sub 1040 )qualcosa di rozzo, grossolano, contadinesco e dunque di pertinenza di voci dispregiative; tuttavia nel caso di cannaruozzolo ci troviamo in presenza di una sorta di divertente ossimoro determinato dall’aggiunta d’un suffisso diminutivo olus→olo ad un termine accrescitivo e dispregiativo come cannaruozzo (che in origine è cannar(one)+uozzo).
-affoca voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito
affocare v. tr. usato soprattutto nella forma riflessiva affucarse; nella forma normale à svariati significati:
1 uccidere qualcuno immergendolo in acqua o altro liquido; annegare, soffocare;
2 (fig.) spegnere: affogare una delusione nell'alcol, bere per dimenticarla ||| v. intr. [aus. essere]
1 morire per soffocamento in acqua o altro liquido; annegare: cadde nel fiume e affogò | affogare in un bicchier d'acqua, (fig.) perdersi di fronte alle più piccole difficoltà | o bere o affogare, (fig.) dover scegliere fra due cose ugualmente sgradite
2 (fig. non com.) essere oppresso, oberato: affogare nei debiti
affucarse v. rifl. che ci occupa come sinonimo dei precedenti vale:
1 togliersi la vita per annegamento; annegarsi
2 (fig. fam.) immergersi totalmente: affogarsi nel lavoro
(fig. fam. ed è il caso che ci occupa) mangiare con grandissima avidità, con tale voracità da restarne soffocati.
Etimologicamente è da un lat. volg. *affocare per offocare 'strozzare', da ob e fauces, pl. di faux -cis 'gola'.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica S.P. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
CURNUTO E MMAZZIATO
CURNUTO E MMAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastone, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto o del tono con cui venga détta l’espressione). etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato fu adoperata per addolcire quasi la piú cruda curnuto e scannato.
Raffaele Bracale
S’ÀNNU MAGNATO ‘O PIECURO CU TUTT’ ‘A LANA
S’ÀNNU MAGNATO ‘O PIECURO CU TUTT’ ‘A LANA
L’espressione in epigrafe che letteralmente va tradotta: ànno divorato l’agnellino con la sua pelliccia di lana (cioè senza tosarlo)! id est: N’ànno lasciato nulla dell’agnellino!, venne usata un tempo a dolente commento di una situazione nella quale chi si aspettava di poter partecipare alla spartizione d’ un bene, dovette – con suo malgrado – accorgersi di non essere stato soddisfatto nelle attese sue per l’eccessiva voracità, ingordigia ed avidità dei suoi compartecipanti che s’erano impadroniti anche della parte che – per piccola che fósse – gli sarebbe toccata.Successivamente per ampliamento semantico l’espressione venne usata ed ancóra è in uso, a dolente commento dell’eccessiva rapacità e/o esosità
1)del fisco capace di aggredire il contribuente sottraendogli tutto ciò che à;
2) di chiunque in un rapporto, quale che sia, faccia la parte del leone lasciando la controparte a bocca asciutta.
L’espressione affiorò sulle labbra d’un vecchio artiere della città bassa, padre di numerosa prole il quale nell’imminenza delle feste pasquali aveva acquistato, come da tradizione, un agnellino vivo e lo aveva affidato alla consorte ché lo custodisse sino al giorno festivo quando sarebbe stato sacrificato ed approntato per allietare il desco familiare. Accadde invece che i numerosi affamati bambini giocando con l’agnellino finirono, non si sa se per fatalità o di proposito, finirono per ucciderlo costringendo la loro mamma a cucinarlo prima del previsto e poi lo divorarono voracemente senza lasciarne neppure una piccola parte al vecchio artiere assente per lavoro. Costui rientrando a sera ebbe la brutta sorpresa di ciò che era accaduto e la commentò dolentemente con la frase in epigrafe.
piecuro s.vo m.le = agnello, montone voce dal lat. volg. *pĕcoru(m)piecuro rifatto con metaplasmo sul neutro pl. del lat. cl. pecora (gregge).
R.Bracale
VARIE 2090
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1 - Quanno si 'ncunia statte e quanno si martiello vatte
Letteralmente: quando sei incudine sta’ fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ci è favorevole.
quanno avv. di tempo = quando, in quale tempo, in quale momento, nel tempo in cui, nel momento in cui (con valore temporale), ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo), giacché, dal momento che (con valore causale), mentre (con valore avversativo) se, qualora (con valore condizionale, seguito dal verbo al congiunt.) derivato del latino quando con consueta assimilazione progressiva nd→nn;
‘ncunia sost. femm. = incudine con etimo da un aferizzato lat. volgare parlato *ancunia ed *incunia da collegarsi ad un lat. tardo incudine(m), deriv. di incudere 'battere col martello', comp. di in-(illativo) e cudere 'battere'; talvolta in napoletano, specialmente antico (Basile ed altri) in vece della voce a margine aferizzata ‘ncunia si trova il pretto latino volgare parlato ancunia senza variazioni di sorta;
statte = ad litteram: sta’/stai+ tu voce verbale (2° pers. sing. Imperativo ) dell’infinito stare/stà= fermarsi interrompendo un movimento; restare immobile, ma anche costare (es.: quanto sta?= quanto costa) ed anche accettare, prestar fede (es.: me stongo a cchello ca tu dice= presto fede a ciò che tu dici.) estensivamente: accettare sopportando con etimo dal lat. stare;
martiello sost. masch. = martello con etimo dal lat. martellu(m)=martulu(m) diminutivo di *martus sinonimo del classico marcus;
vatte =batti, picchia, percuoti voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito vàttere= picchiare, percuotere, colpire, percuotere con le mani o con un arnese; urtare con forza con etimo dal lat. tardo bàttere, per il class. battúere con consueta alternanza partenopea b/v.
2 - 'Mbarcarse senza viscuotte.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche.
Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua anche marina non ancora inquinata.
‘mbarcarse/’mmarcarse = imbarcarsi voce verbale infinito riflessivo dell’infinito ‘mbarcà = imbarcare, salire da passeggeri o merci su di una nave, su di una imbarcazione e, per estens., anche su altri mezzi di trasporto; voce denominale di barca questa volta stranamente, senza la tipica alternanza partenopea b/v che rende barca→varca;
senza= senza, privi di, indica mancanza, esclusione, privazione (si unisce ai nomi direttamente e ai pronomi personali o dimostrativi mediante la prep.’e= di); l’etimo è dal lat. (ab)sentia, che all'ablativo significa 'in mancanza di'
viscuotte sost. masch. plur. di viscuotto= biscotto innanzitutto piccola pasta dolce a base di farina, zucchero, uova e varî altri ingredienti, a seconda delle forme e dei tipi, cotta a lungo in forno perché risulti asciutta e croccante, ma qui, piú acconciamente: pane cotto due volte perché sia conservabile a lungo; etimologicamente dal lat. biscoctu(m) 'cotto (coctum) due volte (bis)
con consueta alternanza di b/v, ed assimilazione progressiva di ct→tt.
3 -'O sparagno nun è maje guaragno...
Il risparmio non è mai un guadagno..Le merci acquistate ad un prezzo palesemente inferiore a quello di mercato, il più delle volte nascondono una magagna (difetto di fabbricazione nel caso di strumentazioni, specialmente elettroniche, prossimità della scadenza in caso di prodotti alimentari) di talché alla fine il preteso o atteso risparmio si tramuterà in una perdita secca quando occorrerà ricomprare la strumentazione difettosa, o buttare il prodotto alimentare per acquistarne di più fresco, dimostrando la veridicità dell’assunto che cioè quasi sempre ciò che appare essere un profitto, è in realtà si è rivelato come una perdita, un passivo, una rimessa.
sparagno= risparmio, economia, profitto etimologicamente deverbale di sparagnà(= risparmiare, consumare con parsimonia ) che è forgiato su un antico italico * sparmiare che con l’anaptissi della a diede *sparamiare e con la variazione di mi→gn come in scigna←simia;
guaragno/guadambio sostantivo masch. = utilità ,frutto, vantaggio;
deverbale di guaragnà/guadagnà derivato dal francone *waidanjan, da waida 'pascolo'; propr. 'pascolare', quindi 'trarre un profitto; per la forma guadambio che è deverbale di guadambià,ci troviamo di fronte ad una voce frutto di un fuorviante ipercorrettismo popolare che attesa erronea la desinenza agno di guadagno/guaragno, pensò di renderla migliore mutandola in un ambio inteso più elegante di agno.
4 - S'à dda fà 'o pireto pe quanto è ggruosso 'o culo.
Becero, ma icastico consiglio che letteralmente è : occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. In forma meno cruda, a senso può rendersi: occorre fare il passo per quanto è lunga la gamba (evitando strappi muscolari o dei pantaloni!)Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali, evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati. Nell’inteso partenopeo la brutta figura preconizzabile o i pessimi risultati producili, nel caso di ostinarsi a far peti più vasti del proprio deretano, sarebbero rappresentati dall’imbrattamento dei vestiti operato dalle proprie feci emesse in uno con gli ampi peti eccedenti le possibilità fisiche, o – per traslato – qualsiasi altro effetto negativo prodotto dalle azioni eccedenti di chi operasse al di là delle proprie possibilità o facoltà.
s’à dda fà ad litteram è: si à da fare che è il modo napoletano di rendere il si deve fare, occorre fare; si à è la voce verbale impersonale (3° pers. sing. indicativo presente) dell’infinito avere/avé = avere, tenere, possedere ma in unione con la preposizione semplice da id est: avere ‘a = avere da vale dovere, occorrere; avere/avé etimologicamente è dal lat. habére da una radice indo-europea sah= hab= tenere; nel napoletano c’è la tipica alternanza b/v ed aferesi dell’aspirata d’avvio h intesa superflua ed inutile;
fà = fare infinito della voce verbale fare/fà con etimo dalla sincope del latino fa(ce)re; chiarisco qui che molti scrittori napoletani usano scrivere in napoletano l’infinito a margine: fa’ con una forma apocopata che non ritengo esatta: il monosillabo fa’ può anche adombrare la 2° pers. sing. dell’imperativo apocopato di fare e cioè: fai= fa’; preferisco per ciò usare per l’infinito la forma tronca fà forma omologa di quasi tutti gli infiniti dei verbi napoletani che risultano apocopati, ma tonicamente accentati sulla sillaba finale (es.: mangià=mangiare, campà=campare, saglí = salire, sentí = sentire, cadé= cadere;etc. );
pireto sost. masch. = peto, emissione gassosa intestinale, rumorosa, ma raramente fetida al contrario della loffa, emissione gassosa intestinale, silenziosa, ma olfattivamente tremenda; etimologicamente pireto è dal lat. peditum deriv. di pedere ' fare scorregge', mentre loffa è da collegarsi al tedesco luft/loft= aria;
pe quanto locuz. avverbiale con varî valori: concessivo, limitativo (ed è il ns. caso)= per quanto, nella misura in cui, limitatamente a;
quanto etimologicamente è dal lat. quantum;
gruosso aggettivo qualif.= grosso, che à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione) con etimo dal tardo latino grossu(m) tipica la dittongazione uo←o nella sillaba d’avvio intesa breve;
culo sost. masch. culo, sedere, deretano ed estensimamente fondo di un sacco, fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia, culi di bicchiere; etimologicamente dal tardo latino culu(m) da un greco koîlon e kolon (intestino).
5 - Chi se mette cu 'e criature, cacato se trova.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto più giovani di lui o intrattiene rapporti con persone non particolarmente serie, è destinato a fine ingloriosa; per solito chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, derivanti dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini, la medesima immaturità che denotano coloro che non ànno serietà di comportamento o di pensiero.
mette = mette,ma pure intrattiene rapporti, contratta; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito mettere= mettere, porre ma pure, come qui intrattenere rapporti, contrattare con etimo dal lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere';
criature esattamente sost. plurale di criaturo/ra= bambino/bambina; il plurale criature che in napoletano vale sia per il maschile che per il femminile con la sola differenza che preceduto dall’art. determ. plurale, il maschile ‘e (i) criature= ibambini si scrive con la c scempia, mentre il femminile ‘e (le) ccriature= le bambine vuole la c geminata; rammenterò che nel caso del proverbio in epigrafe è stato usato il termine maschile ‘e criature, inteso termine generico indicante un determinato lasso di età, onnicomprensivo dei maschi e delle femmine e non dei soli bambini maschi;
cacato di per sé cacato, defecato ma qui vale lordato, sporco d’escrementi e per traslasto perdente, sconfitto; voce verbale (part. passato aggettivato masch.) dell’infinito cacare/cacà che è dal basso latino cacare;
se trova = si trova, ne ricava voce verbale (3° p.sing. indicativo presente) dell’infinito truvar-se= riceverne, ricavarne, ottenerne;
incerto l’etimo del verbo truvà anche se quasi tutti concordemente parlano di un lat. volg. *tropare= esprimersi mediante tropi, dal class. tropus 'tropo' (qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia ecc.
6 - Mo abbrusciale pure'a bbarba e po' dice ca so' stat' io!
Letteralmente: Adesso àrdigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa.
Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdì santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e così via. Nell'agitazione dell'eloquio finì per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
mo avv. di tempo =ora, adesso, in questo momento ed anche talora, come nel caso in esame, nel significato estensivo di anche, in aggiunta; la maggior parte degli addetti ai lavori fa derivare l’avverbio da quello latino modo= ora, adesso e qualche vocabolarista della lingua italiana dove il napoletano mo vi è pervenuto negli identici significati di ora, adesso, in questo momento , è costretto a scriverlo mo’ con il segno dell’apocope indicante la caduta della sillaba do, incorrendo però fatalmente nella confusione tra il mo’ avverbio di tempo ed il mo’ s. m. troncamento del sostantivo modo, usato solo nella loc. a mo' di, a guisa di, in funzione di: a mo' d'esempio; per non incorrere in simili confusioni preferisco ritenere il mo avv. nap. a margine, derivato dall’avv. latino mox con caduta della sola consonante x , caduta che non necessita di alcun segno diacritico come avviene anche per co/cu(con) derivato di cum o pe (per) e ciò a malgrado si ritenga che, secondo le regole della glottologia, la caduta di una consonante doppia x=cs dovrebbe pur lasciare un residuo, fosse anche un segno diacritico, ma le eccezioni esistono proprio perché vi son le regole!;
abbrusciale= brucia+gli voce verbale (2° per. sing. imperativo) (addizionata in posizione enclitica del pronome obliquo le=gli, a lui )
dell’infinito abbruscià=bruciare, ardere che è dal latino volgare *ad brusiare rafforzativo di brusiare;
pure congiunzione =quand'anche; sebbene, tuttavia, nondimeno, eppure (con valore avversativo) al fine di (introduce una prop. finale implicita con il verbo all'inf. oppure avverbio= anche (con valore aggiuntivo), proprio, davvero (con valore asseverativo) derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' e anche, nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
barba sost. femm.= barba l'insieme dei peli che crescono sulle guance e sul mento dell'uomo; per estens., i peli del muso di alcuni animali dal latino barba(m); talora in napoletano con tipica alternanza b/v si trova pure varva e si tratta dello stesso sostantivo;
po= poi, in seguito, dopo, appresso avv. di tempo dal lat. po(st); la caduta delle consonanti, come ò ricordato, non necessitano in napoletano di segni diacritici d’apocope0, in questo caso poi anche inutile perché in napoletano esiste già un po’ ma è l’apocope, ovviamente sillabica di po(te)= può 3° p. sg. ind. pres. di puté ;
dice= dici, di’ voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito dí/ dícere dal latino di(ce)re;
ca cong. ed altrove anche pronome relativo= che con etimo dal latino q(ui)a; come pronome deriva dal lat. quid;
so’ stato/songo stato = sono stato voce verbale (1° pers. sing. pass. pross.) dell’infinito essere dritto per dritto dal lat. volg. *essere, per il class. esse.
7 - Puozz'avé mez'ora 'e petrïata dinto a 'nu viculo astritto e ca nun sponta, farmacíe nchiuse e mierece guallaruse!
Imprecazione divertente, ma malevola, se non cattiva, rivolta contro un inveterato nemico cui, con spirito esacerbato, si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subìta in un vicolo stretto e cieco, (che non offra cioè possibilità di fuga) e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte e di imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti a prestar soccorso.
puozz’ avé = possa avere id est: possa subire; puozze= possa voce verbale (2° pers. sing. cong. pres.) dell’infinito puté =potere, avere la forza, la facoltà, la capacità, la possibilità, la libertà di fare qualcosa, mancando ostacoli di ordine materiale o non materiale che lo impediscano; nell’espressione a margine puozze vale ti auguro; l’etimo di puté/potere è dal lat. volg. *potìre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; avé= avere e molti altri significati positivi come: conseguire, ottenere; ricevere; entrare in possesso o negativi come: subire; per l’etimo vedi sopra;
petrïata/petrata sost. femm; letteralmente la petrata è la pietrata,il tiro e il colpo di una singola pietra, mentre con la voce petrïata si intende una prolungata gragnuola di colpi di pietra, quasi una lapidazione; anticamente a far tempo dalla fine del ‘500, a Napoli soprattutto in talune zone della città quali Arenaccia, Arena alla Sanità, San Carlo Arena, ricche di detriti sassosi, residuali di piogge che trasportavano a valle terriccio e sassi provenienti dalle alture di Capodimonte, Fontanelle etc. o, nelle stagioni secche, residui di fiumiciattoli (es. Sebéto) in secca si svolgevano, tra opposte bande di scugnizzi e/o bassa plebaglia, delle autentiche battaglie(petrïate) a colpi di pietre e sassi con feriti spesso gravi; ai primi del ‘600 tali battaglie divennero cosí cruente che i viceré dell’epoca furono costretti ad emanar prammatiche, nel (peraltro) vano tentativo di limitare il fenomeno… Si ricorda una divertente espressione in uso tra i contendenti di tali petrïate: Menàte ‘e grosse, pecché ‘e piccerelle vanno dint’ a ll’uocchie! (Tirate le (pietre) grandi, giacché quelle piccole vanno negli occhi!).
Etimologicamente sia petrata che petrïata sono un derivato metatetico di preta metatesi del lat. . petra(m), che è dal gr. pétra; nella voce petrïata generata dopo petrata si è avuta l’anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico o tra una consonante ed una vocale; epentesi vocalica) di una i durativa allo scopo di espander nel tempo il senso della parola d’origine;l’anaptissi di questa i à determinato altresí la ritrazione dell’accento tonico e si è avuto petrïata in luogo di petriàta;
dinto (a) = dentro (ad) avverbio e prep. impropria dal basso lat. de intus; da notare che in napoletano, come prep. impropria, dinto debba sempre essere accompagnata dalla prep. semplice a o dalle sue articolate â = a + ‘a (alla ) ô= a + lo ( al/allo) ê= a + i/a + le (ai/alle) per modo che si abbia ad es. dint’ ô treno (dentro al treno ) di contro il corrispondente italiano dentro il treno. La medesima cosa càpita come alibi dissi per ‘ncoppa (sopra) ,sotto (sotto), ‘mmiezo (in mezzo) fora (fuori) ed ogni altro avverbio e/o preposizione impropria;
viculo = vicolo, vico via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano ; l’etimo è dal lat. viculu(m), dim. di vicus;
astritto o astrinto agg. qual. masch. stretto, poco sviluppato nel senso della larghezza; non largo, non ampio; angusto; l’etimo è dal lat. *a(d)strictus part. pass. di un *a(d)stringere, rafforzativo di stringere;
ca nun sponta letteralmente: che non sfocia in altra strada cioè: vicolo (stretto e) cieco; sponta =sfocia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spuntà= sbottonare, spuntare, comparire all’improvviso,sfociare; in primis spuntare con etimo dal latino *ex-punctare vale toglier la punta, metter fuori la punta ed il senso di spuntare, comparire all’improvviso,sfociare deriva dal fatto che chi spunta (appare), compare all’improvviso o sfocia in qualche luogo proveniente da un altro, non lo fa di colpo, ma paulatim et gradatim quasi mettendo fuori innanzi tutto la propria punta e poi il resto del corpo; ugualmente il senso di sbottonare è dato dal fatto che il bottone vien fuori dall’asola prima per la parte limitrofa(punta.) poi tutt’intero;
farmacíe sost. femm. plurale di farmacía che in napoletano, piú restrettivamente del corrispondente italiano,( dove con derivazione dal greco pharmakéia 'medicina, rimedio', da phármakon 'farmaco'si intende l'insieme degli studi e delle pratiche che ànno per oggetto le proprietà, l'uso terapeutico e la preparazione dei medicinali) si intende, derivato dal francese pharmacie esclusivamente il locale destinato alla vendita e, soprattutto nel passato, anche alla preparazione dei medicinali;
nchiuse agg. plur. femm. = chiuse, serrate, strette etimologicamente trattasi del part. pass. aggettivato femm. del verbo nchiurere= chiudere, ostruire, sbarrare, impedire un accesso; bloccare un passaggio con etimo dal basso latino cludere, per il class. claudere; faccio notare come nel verbo napoletano nchiurere si è avuta la consueta trasformazione di cl→chi come altrove ad es.: chiesia←(ec)clesia, chiuovo←clavus etc, la tipica rotacizzazione mediterranea d→r e la protesi di una n eufonica che non va marcata con alcun segno diacritico (‘n) in quanto essa n non è l’aferesi di in, ma solo una consonante eufonica come nel caso di nc’è= c’è, ragion per cui erra chi dovesse scrivere la voce a margine ‘nchiuse da un inesatto ‘nchiurere atteso che , come ò detto, nchiurere deriva da n(eufonica)+ cludere non da in(illativo)→’n+cludere;
mierece sost. masch. plurale di miedeco/miereco= medico, chi professa la medicina avendo conseguito il titolo accademico e l'abilitazione all'esercizio della professione; l’etimo è dal lat.medicu(m), deriv. di medìri 'curare, soccorrere'con dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve ie←e, e rotacizzazione mediterranea d/r;
guallaruse agg. masch. plur. di guallaruso= affetto da ernia probabilmente inguinale tale da limitare il movimento deambulatorio; la voce a margine (che è maschile, come dal suff. use plurale di uso, il femminile avrebbe avuto il metafonetico suff. ose pl. di osa) è un derivato del sostantivo guallera(= ernia) che è dall’arabo wadara.
8 -Jí ascianno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andar cercando di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare in cerca di uova di lupo che – mammifero - è un animale viviparo e non deposita uova,oppure cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai più di tredici.Cominciamo a rammentare ai più giovani, che un tempo – quando non esistevano materassi ortopedici e/o in lattice, quelli in uso erano dei sacconi di cotone riempiti di lana ovina, lana che periodicamente occorreva smuovere, lavare e pettinare (cardare) in profondità per ridarle volume e morbidezza; tale operazione consistente, come detto parallelizzare le fibre tessili in fiocco, naturali (p. e. lana, cotone, canapa) o artificiali (p. e. raion), era fatta da tipici operai, detti lanaioli o cardatori che all’uopo si servivano di uno strumento dentato detto scardasso o in origine della pianta di cardo (dal lat. tardo cardu(m), per il class. carduus) le cui infiorescenze uncinate si usavano appunto per cardare la lana; la pianta cardo cedette il nome all’azione cardare; dismesso l’uso del cardo, i lanaioli napoletani presero a servirsi prima che dello scardasso (attrezzo a forma di cavalletto in cui due serie di punte d'acciaio, una delle quali montata su una parte mobile azionata a mano, provvedono alla sfioccatura delle fibre tessili; voce derivata di cardo con protesi di una s intensiva ed un suffisso dispregiativo (l’attrezzo fu brutto da vedersi e – se non usato con cautela – spesso produceva danni ai fiocchi cardati, strappandoli anzi che pareggiarli) asso per accio), di particolari pettini fabbricati all’uopo, pettini che in Campania ( e segnatamente a Napoli) non contavano mai piú di tredici denti.
jí ascianno letteralmente andar cercando locuzione verbale formata dall’infinito jí= andare (dal lat. ire) e dal gerundio ascianno = cercando dell’infinito asciare/ascià=cercare con insistenza ed applicazione; l’etimo di ascià potrebbe essere da un lat. volg. *anxiare(ansimare, anelare) denom. di *anxia; ma preferisco l’ipotesi che ascià derivi dal tardo lat. *adflare (annusare) verbo nel quale è riconoscibile il digramma fl che in napoletano è sempre sci (es.: sciore←flos,sciummo←flumen, scioccele ←flacces etc. ) da a(d)flare→aflare→asciare;
ova sost. neutro plur. di uovo da un lat. volg. òvu(m) per il class. óvu(m); in napoletano il plur. ova giustamente perde la u del dittongo mobile uovo laddove in italiano ( l’uovo – le uova) essa u viene conservata, ma non se ne comprende il motivo.
lupo sost. masch.= lupo, mammifero carnivoro selvatico simile al cane, che vive prevalentemente in branchi ed è caratterizzato da muso aguzzo, orecchie grandi ed erette, pelame folto; la femmina, che da mammifera non depone uova, genera vivipari; l’etimo di lupo è dal lat. lupu(m) per *vlupu(m),*vlucu(m) che come il greco lýkos, * vlýkos il gotico vulfas, l’ant. ted. wolf ed altre lingue son tutti riconducibili alla radice vark o valk/vlak= strappare, lacerare;
piéttene sost. masch. plur. di pèttene= pettine, arnese di materiale vario, costituito di una serie di denti più o meno fitti innestati su una costola che serve da impugnatura; è usato per mettere in ordine capelli o pelame similare; quello usato dai cardatori non contava mai piú di tredici denti.
la voce pettene sing. di piettene (in cui è da notare la tipica dittongazione ie di un’iniziale e intesa breve, con successiva chiusura della é in sillaba tonica del maschile plurale dell’aperta tonica è del singolare; es.: ‘o scèmo – ‘e sciéme, ma se femm.: ‘a scèma – ‘e scème; ) etimologicamente è dall’acc. lat. pectine(m) deverbale di pectere 'pettinare' con tipica assimilazione regressiva ct→tt ;
quinnece agg. numerale cardinale = quindici dal lat. quindece(m), comp. di quinque 'cinque' e decem 'dieci'nella voce napoletana si è avuta la tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Raffaele Bracale
ARRAPATO COMME A ‘NA SCIGNA
ARRAPATO COMME A ‘NA SCIGNA
Ad litteram: Sessualmente eccitato al pari di una scimmia
Espressione usata iperbolicamente per burlarsi di chi non riuscendo a dominarsi si mostri costantemente su di giri, acceso, agitato anche quando le circostanze non lo richiedano; ancòr piú l’espressione si attaglia a chi non sa porre un freno al proprio istinto ed alla prima occasione proprizia faccia le viste di essere cosí tanto infoiato/a da non potersi frenare ed esser costretto/a quasi a dare spettacolo di sé tal quale uno scimpanzé di sesso maschile aduso a soddisfarsi, anche ononisticamente, senza alcuna remora coram populo et ceteris. Va da sé che l’agitazione che è propria delle scimmie antropomorfe è presa a riferimento per schernire chi sia molto eccitato anche non sessualmente.
arrapato è il part. pass. usato anche come agg.vo dell’infinito arrapà (arrapare) che è v.bo tr.vo di origine meridionale,pervenuto anche nel lessico italiano sia pure come voce volgare. [denominale del lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi considerato come f.le sg.in senso maliziosamente allusivo alla durezza dell’ortaggio] = eccitare sessualmente; piú spesso usato come intr. o intr. pron. (arrapà, arraparse, fà arrapà), eccitarsi sessualmente; quantunque sia piú comunemente usata al maschile (arrapato= eccitato ) nulla vieta che la voce sia coniugata anche al f.le (arrapata= eccitata) quantunque l’eccitazione maschile meglio si presti in pratica ad esser rappresentata dalla turgidità della rapa!
scigna s.vo f.le = scimmia; voce deriva dal lat. simia→simja, con un consueto passaggio di s+ vocale a sci: (cfr. alibi semum→scemo) e con passaggio di mj a gn (come in ca(m)mjare→cagnà).
Brak
venerdì 28 settembre 2012
VARIE 2089
1.DICETTE 'O PAPPICE ‘NFACCI’Â NOCE: DAMME 'O TIEMPO CA TE SPERTOSO!
L'insetto punteruolo disse alla noce: Dammi tempo e ti perforerò - Cioè: chi la dura la vince!
2.A GGHIENNERE E NNEPUTE, CHELLO CA FAJE È TUTTO PERDUTO.
A generi e nipoti quel che fai, è tutto perso - Cioè: va perduto il bene fatto ai parenti prossimi
3.Ô FIGLIO MUTO, 'A MAMMA 'O 'NTENNE.
Il figlio muto è compreso dalla madre - Lo si dice di due persone che abbiano un'intesa perfetta.
4.SAN LUCA NCE S'È SPASSATO...
San Luca ci si è divertito...- Lo si dice di una donna cosí bella che sembra dipinta dal pennello di San Luca, che la tradizione vuole valente pittore. Ma lo si dice ironicamente anche in senso antifrastico quando ci si imbatta in una donna decisamente brutta.Nel primo caso ci si intende riferire all’opera cosí ricercata attenta e pignola del pittore che nel ritrarre cosí tanto bene una bella donna ci si è applicato quasi con la passione del dilettante a mo’ di divertimento; nel senso antifrastico ildivertimento del pittore è consistito nel ritrarre appunto una donna brutta, lui che per solito dipingeva bei soggetti!
5.QUANNO SIENTE 'O LLATINO D' 'E FESSE, STA VENENNO 'A FINE D' 'O MUNNO...
Quando senti i fessi parlare in latino, s'approssima la fine del mondo. Cioè: quando gli sciocchi prendono il comando a parole e con i fatti, si preparono tempi grami.
6.QUANNO DDUJE SE VÒNNO, CIENTO NUN CE PÒNNO...
Quando due si vogliono, cento non possono contrastarli... Cioè: E' inutile opporsi all'amore di due persone che si amano
7.ME STAJE ABBUFFANNO 'E ZIFERE 'E VIENTO.
Mi stai riempiendo di refoli di vento. - Cioè: mi stai riempiendo la testa di fandonie
8.PASSA 'A VACCA...
Transita la vacca. - Cioè: è poverissimo. L'espressione dialettale è una derivazione dal latino: transit vacuus, usata nelle dogane medioevali per indicare i carri transitanti senza merce, quindi non soggetti a balzelli.
9.ÒGNE CAPA È 'NU TRIBBUNALE!
Ogni testa è un tribunale - Cioè:ognuno decide secondo il proprio metro valutativo.
10.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Il pesce puzza dalla testa. Cioè: il cattivo esempio parte dall'alto.
11.PARÉ 'A VARCA 'E MASTU TTORE:A PPOPPA CUMBATTEVANO E NUN 'O SSAPEVANO A PRORA...
Sembrare la barca di mastro Salvatore: a poppa combattevano e lo ignoravano a prua - Cioè:il massimo della disorganizzazione!...
12.MAZZE E PANELLE, FANNO 'E FIGLIE BBELLE...,PANELLE SENZA MAZZE, FANNO 'E FIGLIE PAZZE!
Botte e cibo saporito, fanno i figli belli, cibo senza percosse fanno i figli matti! - Cioè: nell'educazione dei figli occorre contemperare le maniere forti con quelle dolci.
13.CHI S'ANNAMMORA D''E CAPILLE E D''E DIENTE, S'ANNAMMORA 'E NIENTE...
Chi si lascia conquistare dai capelli e dai denti, s'innamora di niente, perché capelli e denti sono beni che sfioriscono presto..
14.CHIAGNERE CU 'A ZIZZA 'MMOCCA...
Piangere con la tetta in bocca - Cioè: piangere ingiustificatamente; détto di chi si lamenti sempre ingiustificatamente al solo fine di turlupinare il prossimo ottenendo aiuti o vantaggi immeritati. In tal senso s’usa anche affermare: ‘O PICCIO RENNE il est: il pianto rende, è produttivo!
15.GUÀLLERE E PPAZZE, VENONO 'E RAZZA...
Ernie e pazzia sono ereditarie(non si possono eludere).
Brak
VARIE 2088
1.DOPPO MAGNATO E VVÍPPETO, " Â SALUTE VOSTA!".
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il comportamento di chi approfitta di una situazione proficua e posticipa gli atteggiamenti augurali, dopo di aver goduto di benefici per i quali la buona norma vorrebbe che gli auguri venissero fatti antecedentemente prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale;
vippeto = bevuto part. pass. collaterale di vevuto dell’infinito vevere← lat. bibere che diede direttamente vevere con consueta alternanza partenopea di b/v (cfr.barca →varca, botte →vótta, basiu(m)→vaso” ecc.), ma forní anche come deverbale il s.vo f.le veppeta= bevuta attraverso un acc.vo tardo latino bíbita(m)→*bíbbita→bippta→vippta→veppeta; è ipotizzabile che da questo s.vo si sia ricato il p.pass. víppeto collaterale di vevuto.
Tuttavia si può comodamente ipotizzare anche una diretta provenienza da "bíbere (→ vévere)", il cui regolare participio passato *bíbitum →*bíbb(i)tum (col normale raddoppiamento espressivo di "-b- " intervocalica) → *vipptum (con "pt" per omorganizzazione e poi con l'inserimento della vocale evanescente d'appoggio nel nesso consonantico per ovvia facilitazione della pronunzia)...A meno che un "bíbitu(m)→*vipeto di partenza non abbia subíto raddoppiamento nella consonante della penultima sillaba "-p-" come avviene nelle parole sdrucciole di sviluppo popolare nell’idioma napoletano e nel dialetto fiorentino-italiano: cfr. "fémina(m) → fémmena/femmina, pàrochu(m)→parroco/parrucchiano, hòmines→*hòmini→ uómmene, públicu(m)→pubblico" ecc. (senza dimenticare che nel Medioevo anche la grafia di "Africa" sia risultata il petrarchesco "Affrica").
2. METTERSE 'E CASA E PPUTECA.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Id est:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
3. FÀ 'O SCRUPOLO D''O RICUTTARO.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone che abituato a compiere gravi mancanze si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per bollare il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze...
ricuttaro.
Da sempre il lenocinio è praticato da piccoli furfantelli e camorristi. Temporibus illis,cioè a fine '800 i piccoli furfanti ed i camorristi venivano arrestati e finivano sotto processo durante il quale dovevano esser difesi da avvocati che,qualora non fossero affiliati alla camorra, volevano esser pagati. A mettere insieme i fondi necessarî provvedevano i compagni dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra piccoli commercianti e bottegai sia adiacenti al Tribunale, sia operanti nel rione d’origine del/dei furfante/i sotto processo. Tale questua finalizzata era detta 'a recoveta (la raccolta) da recoveta a recotta il passo è breve e da recotta a ricuttaro è ancora piú breve;successivamente con il termine ricuttare si indicarono non soltanto i questuanti suddetti, ma piú segnatamente i lenoni,i ruffiani,i protettori,i prosseneti etc. che spessissimo traevano origine dalle schiere di quei camorristi questuanti.
4. PURTÀ P''E VICHE.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e piú breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
5. 'A RAGGIONE S''A PIGLIANO 'E FESSE.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
6. SE SO' STUTATE 'E LLAMPIUNCELLE.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.
7.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHISTO ACCUNTO.
Letteralmente: Trovati chiuso e perditi questo cliente.La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restio a pagare il giusto prezzo dovuto.
La voce accunto deriva dal latino: adcognitus→accognitus= conosciuto, ben noto poi che chi è cliente per ovvi motivi di frequentazione quotidiana è ben noto al bottegaio.
8. FÀ TRE FICHE NOVE RÒTELE.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
9. 'A DISGRAZZIA D''O 'MBRELLO È QUANNO CHIOVE FINO FINO.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
10. AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE 'A FORA E 'E FRIDDE 'A DINTO.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si dia via libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).Tuttavia preciso che è inutile come che non significante la traduzione letterale; in senso ampio, come ò détto, la locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la locuzione in esame sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione, che il termine cupinte (pl. di cupinto), oltre a fornire una adeguata rima con il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso, agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
11. 'A PECORA S'À DDA TUSÀ, NUN S'À DDA SCURTECÀ!
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata!
Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
12. - SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... - ACCUSSÍ À DDA JÍ!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.Rammento che nel parlato comune dei meno consci o attenti della/alla parlata napoletana, l’espressione viene riportata erroneamente come: Zi' pre' 'o cappiello va stuorto... - accussí à dda jí! con un’evidente colpevole confusione tra il si’ e zi’ che comporta la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di si- gnore ) con lo scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene lo scorretto zi’ prevete in luogo del corretto si’ prevete dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre alibi per indicare la voce signora si usa un sié che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse.
Rammenterò a margine di tutto ciò un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a tale insignificante individuo s’usa dire: sî ‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!); l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famosissimo scrittore partenopeo don Peppino Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 -† Napoli, 10 ottobre 1963), che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da pietra di paragone, che gli perdono e gli dobbiamo perdonare tutto!
13.DICETTE NUNZIATA: NCE PONNO CCHIÚ LL'UOCCHIE CA 'E SCUPPETTATE!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla jettatura.
14. Â NNOTTE SE 'NZURAJE CATIELLO.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata: â = crasi di a+ ‘a= alla che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.Si sarebbe potuto pure usare la preposizione semplice A che comunque avrebbe comportato la geminazione della N di notte, ed avrebbe introdotto un concetto temporale; ò preferito l’uso della preposizione articolata: Â= alla per riportare correttamente il pensiero napoletano che non articola mentalmente a notte, ma alla notte per cui è giocoforza scrivere â nnotte e non a nnotte.
15.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIÉNTE, TENIÉNTE.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
teniente o tenente ag.vo m.le = tenente, che mantiene (la cottura); non si tratta ovviamente del s.vo m.le usato per indicare quel militare che nell'esercito, nell'aeronautica, nell'arma dei carabinieri e nella guardia di finanza è un ufficiale di grado superiore a sottotenente e inferiore a capitano; si tratta di un agg.vo m.le che nell’ espressione e nell’iterazionesuperlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
Brak
VARIE 2087
1.JÍ Ô BATTESIMO, SENZA CRIATURO.
Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere.
2.PARE CA S''O ZUCANO 'E SCARRAFUNE...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- È detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
3.ABBRUSCIÀ 'O PAGLIONE...
Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, dandosi alla fuga come facevano le truppe sconfitte che incendiavano i propri accampamenti, distruggendoli per non lasciare alcunché nelle mani dei sopravvenienti eserciti vittoriosi..L’espressione in senso più ampio è usata infatti per significare: procurare un danno definitivo.
4.OGNE SCARRAFONE È BBELLO A MMAMMA SOJA...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione.
5.S’È AUNITO, ‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO A TIRITEPPE…
Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione... Tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come ad esempio nel caso di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
6.CHI SAGLIE ‘NCOPP’Ê CCORNA ‘E CHILLO, PO’ DÀ ‘A MANO Ô PATATERNO.
Chi si inerpica sulle corna di quello, può stringer la mano al Signore -(tanto sono alte...)- Espressione iperbolica usata con riferimento ad un uomo molto tradito dalla moglie.
7.QUANNO 'O DIAVULO TUĴO JEVA Â SCOLA, 'O MIO ERA MASTO ‘E SCOLA.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza e/o perspicacia perché ti sopravanzo e nell’una e nell’altra!
8.'O CANE MOZZECA Ô STRACCIATO.
Il cane morde l’individuo che vesta dimesso - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
9.TRE SONGO 'E PUTIENTE:'O PAPA, 'O RRE E CHI NUN TÈNE NIENTE...
Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla. In effetti il papa è la massima autorità in campo religioso/morale, il re lo è in campo politico/amministrativo ed il nullatenente che non può avere richieste di aiuti né può temere d’essere derubato lo è nel campo sociale.
10.'A FESSA È GGHIUTA 'MMANO Ê CRIATURE, 'A CARTA 'E MUSICA 'MMANO Ê BBARBIERE, 'A LANTERNA 'MMANO Ê CECATE...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi. - l'espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità.
11.S' À DDA JÍ A DD' 'O PATUTO, NO A DD' 'O MIEDECO.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia(e ne à esperienza) non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
12.AÚRIO SENZA CANISTO, FA' VEDÉ CA NUN L'HÊ VISTO.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre accompagnare i fatti.
13.Ô PIRCHIO PARE CA 'O CULO LL'ARROBBA 'A PETTULA...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
14.CHI FATICA'NA SARÀCA, CHI NUN FATICA, 'NA SARÀCA E MMEZA.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
15.'A MAMMA D''E FESSE È SEMPE PRENA.
L a mamma degli sciocchi è sempre incinta - Cioè: il mondo brulica di stupidi.
Brak
VARIE 2086
1.SI 'A FATICA FÓSSE BBONA, 'A FACESSENO 'E PRIEVETE.
Se il lavoro fosse una cosa buona lo farebbero i preti(che per solito non fanno niente). Nella considerazione popolare il ministero sacerdotale è ritenuto cosa che non implica lavoro.
2.AVIMMO CASSATO N' ATU RIGO 'A SOTT' Ô SUNETTO.
Letteralmente: Abbiamo cancellato un altro verso dal sonetto, che - nella sua forma classica - conta appena 14 versi. Cioè: abbiamo ulteriormernte diminuito le nostre già esigue pretese. La frase è usata con senso di disappunto tutte le volte che mutano in peggio situazioni già di per sè non abbondanti...
3.HÊ VIPPETO VINO A UNA RECCHIA.
Ài bevuto vino ad una orecchia - Ossia vino scadente che fa reclinare la testa da un lato. Pare, nell’inteso comune che il vino buono sia quello che faccia reclinare la testa in avanti. L’espressione è usata per sottolineare i pessimi risultati di chi à agito dopo di aver bevuto vino scadente.
4.PURTÀ 'E FIERRE A SANT' ALOJA.
Recare i ferri a Sant'Eligio. Alla chiesa di sant'Eligio i vetturini da nolo solevano portare, per ringraziamento, i ferri dismessi dei cavalli ormai fuori servizio.Per traslato l'espressione si usa con riferimento furbesco agli uomini che per raggiunti limiti di età, non possono piú permettersi divagazioni sessuali...
5.'O PATATERNO 'NZERRA 'NA PORTA E ARAPE ‘NU PURTONE O 'NA FENESTA.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portone o una finestra - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
6.NUN TENÉ PILE 'NFACCIA E SFOTTERE Ô BARBIERE
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si erge ad ipercritico e spaccone.
7.È GGHIUTO 'O CASO 'A SOTTO E 'E MACCARUNE 'A COPPA.
E' finito il cacio sotto e i maccheroni al di sopra. Cioè: si è rivoltato il mondo.
8.À FATTO MARENNA A SSARACHIELLE.
À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa.
9.FÀ LL'ARTE 'E MICHELASSO: MAGNÀ, VEVERE E GGHÍ A SPASSO.
Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente...
10.SO' GGHIUTE 'E PRIEVETE 'NCOPP'Ô CAMPO
Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:temporibus illis i preti erano costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco determinando un procedere caotico. L’icastica espressione è usata a commento di situazioni in cui regnino disordine, baraonda, scompiglio, soqquadro.
11.NUN VULÈ NÈ TTIRÀ, NÈ SCURTECÀ...
Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità,rifuggere da ogni impegno come accadeva con taluni operai conciatori di pelle quando non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla loro scuoiatura.
12.ACCUNCIARSE QUATT' OVE DINTO A 'NU PIATTO.
Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...).
13.FARSE 'NU PURPETIELLO.
Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
14.JÍ A PPÈRE 'E CHIUMMO.
Andare con i piedi di piombo - Cioè: con attenzione e cautela. Quasi si calzassero scarpe da palombaro appesantite da suole di piombo che costringessero a procedere lentamente.
15.TENÉ'A SCIORTA 'E MARIA VRENNA.
Avere la sorte di Maria di Brienne - Cioè:perder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla morte del coniuge (1414) dalla di lui sorella Giovanna II che,succedutagli sul trono, si impossessò di tutti i beni, anche di quelli personali della vedova di Ladislao la quale fu esautorata in tutto, privandola del prestigio, della stima, del credito,della considerazione prestigio,nonché delle competenze precedentemente esercitate.
Brak
VARIE 2085
1.CHIJARSELA A LIBBRETTA.
Letteralmente:piegarsela a libretto. È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non lo si possa fare stando comodamente seduti al tavolo servendosi di piatto e posate e si sia costretti a mangiare stando in piedi. In tal caso si procede alla piegatura in quattro parti della pietanza circolare che assume quasi la forma di un piccolo libro e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento. L’espressione in senso traslato vale accettare obtorto collo, far, per necessità, buon viso a cattivo gioco.
2.VENNERE 'A SCAFAREA PE SICCHIETIELLO.
Letteralmente:Vendere una grossa insalatiera presentandola come un secchiello.Figuratamente e sarcasticamente la locuzione viene adoperata nei confronti di chi decanti la nettezza dei costumi di una donna che invece è stata notoriamente conosciuta biblicamente da parecchi.
3.'E SÀBBATO, 'E SÚBBETO E SENZA PREVETE!
Di sabato, di colpo e senza prete! E' il malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso
4.A PPESIELLE NE PARLAMMO.
Letteralmente: Parliamone al tempo dei piselli -(quando cioè avremo incassato i proventi della raccolta e potremo permetterci nuove spese...) Id est: Rimandiamo tutto a tempi migliori.
5.JÍ CERCANNO OVA 'E LUPO E PIETTENE 'E QUINNICE.
Letteralmente:Andare alla ricerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti). Id est: andare alla ricerca di cose introvabili o impossibili; nulla quaestio per le uova di lupo che è un mammifero per ciò che concerne i pettini bisogna sapere che un tempo i piú conosciuti nel popolo, oltre quelli usati per ravviarsi i capelli, erano i pettini dei cardalana e tali attrezzi non contavano mai piú di tredici denti...
6.CHI TÈNE MALI CCEREVELLE, TÈNE BBONI CCOSCE...
Chi à cattivo cervello, deve avere buone gambe, per sopperire con il moto alle dimenticanze o agli sbagli conseguenti del proprio cattivo intendere.
7.METTERE 'O PPEPE 'NCULO Â ZÒCCOLA.
Letteralmente:introdurre pepe nel deretano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora si navigava, capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci solcassero i mari grossi topi, che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero (spezia che avevano abbondantemente a portata di mano in quanto presente tra quelle trasportate come beni da importazione) nell'ano delle bestie, poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in luogo di metter pace in una disputa, gode ad attizzare il fuoco della discussione...
8.PURE 'E PULICE TENONO 'A TOSSE...
Anche le pulci tossiscono - Id est: anche le persone insignificanti tossiscono, ossia voglione esprimere il proprio parere.
9.DICE BBUONO 'O DITTO 'E VASCIO QUANNO PARLA DELLA DONNA: UNA BBONA CE NE STEVA E 'A FACETTERO MADONNA...
Ben dice il detto terrestre allorché parla della donna: ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna... Id est: La donna è un essere inaffidabile e da cui guardarsi. - La quartina, violentemente misogina è tratta dal poemetto 'Mparaviso del grande poeta Ferdinando Russo
10.DICERE 'A MESSA CU 'O TEZZONE.
Celebrare la messa con un tizzone ardente(in mancanza di ceri...)Id est: quando c'è un dovere da compiere, bisogna farlo quale che siano le condizioni in cui ci si trovi.
11.JAMMO, CA MO S'AIZA!
Muoviamoci, ché ora si leva(il sipario)! - Era l'avviso che il servo di scena dava agli attori per avvertirli di tenersi pronti , perché lo spettacolo stava per iniziare. Oggi lo si usa per un avviso generico sull'imminenza di una qualsiasi attività.
12.CHELLO È BBELLO 'O PRUTUSINO, VA 'A GATTA E CE PISCIA A COPPA...
Ad litteram: Il prezzemolo è bello, poi la gatta vi minge su; espressione ironica da intendersi:Il prezzemolo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge sopra - Amaro commento di chi si trova in una situazione precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora maggiormente...L’espressione cosí come formulata con l’aggettivo bello, parrebbe sostanziare un fatto o dote positiva, ma trattandosi di un’espressione ironica se non sarcastica essa deve essere lètta in senso antifrastico cioè negativo di talché il bello va inteso brutto
13.QUANNO VIDE 'O FFUOCO Â CASA 'E LL'ATE, CURRE CU LL'ACQUA Â CASA TOJA...
Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura, che potrebbe colpirti nello stesso momento.
14.GIORGIO SE NE VO’ JÍ E 'O VESCOVO N' 'O VO’ CACCIÀ.
Giorgio intende andar via ed il vescovo vuole cacciarlo. L'icastica espressione mutuata da una farsa pulcinellesca fotografa un rapporto nel quale due persone intendono perseguire il medesimo fine, ma nessuno à il coraggio di prendere l'iniziativa, come nel caso del prelato e del suo domestico...
15.FA MMIRIA Ô TRE 'E BASTONE.
Fa invidia al tre di bastoni- Ironico riferimento ad una donna che abbia il labbro superiore provvisto di eccessiva peluria, tale da destare l'invidia del 3 di bastoni, che nel mazzo di carte napoletano è rappresentato con nell'incrocio di tre randelli un mascherone di uomo provvisto di esorbitanti baffi a manubrio.
Brak
giovedì 27 settembre 2012
VARIE 2084
1. JÍ TRUVANNO A CCRISTO ‘INT’ Ê LUPINE o meglio JÍ TRUVANNO A CCRISTO DINTO A LA PINA
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2. JÍ TRUVANNO CHI LL’ACCIDE nell’espressione: va truvanno chi ll’accide
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3. JÍ TRUVANNO GUAJE CU ‘A LANTERNELLA
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4. JÍ PE FICHE E TRUVÀ CETRÓLE
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile ad altra che recitabeceramente: “Jí pe cculo e truvà cazzo” atteso che ci si imbatte in qualcosa che non corrisponde al desiderato; nella fattispecie in esame il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico; nell’altra locuzione c’è una bella differenza nell’imbattersi non in un culo che si intenda sodomizzare, ma in un pene da cui si possa esser sodomizzati!In senso furbesco e figurato l’espressione in esame fa riferimento al fastidioso quiproquò in cui incorra chi vada in cerca di vulve (fiche) e si imbatta invece in peni(cetrole).
5. JÍ Ô BBATTESEMO SENZA ‘O CRIATURO
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6. JÍ A PPUORTO (O A PUORTECE) PE ‘NA RAPESTA.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
7. JÍ DINT’ A LL’OSSA.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. JÍ ‘NFREVA
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9. JÍ METTENNO ‘A FUNE ‘E NOTTE
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ho i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
10. JÍ ASCIANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11. JÍ TRUVANNO SCESCÉ
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana, se non in quella angioina, un milite francese si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12. LL’URDEMU LAMPIONE ‘E FOREROTTA.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13. LL’OMMO ‘NCOPP’Â SALÈRA.
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14. LLOCO TE VOGLIO, ZUOPPO, A ‘STA SAGLIUTA
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15. LEVAMMO ‘ACCASIONE
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. LEVAMMO ‘A TAVERNA ‘A NANNTE A CCARNEVALE.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe.
17. LEVÀTE ‘O BBRITO.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18. LEVÀ ‘A FRASCA ‘A MIEZO
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. LILLO, LÉLLA Ô PERE ‘E SANT’ ANNA.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero e restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata, , discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia ; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in e debba leggersi come Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
20. LEVARSE ‘A MIEZ’Ê BBOTTE
Ad litteram: togliersi di mezzo ai botti. Defilarsi, sottrarsi da rischi e pericoli e farlo vilmente magari a danno altrui. Da notare che con la voce bbotte a margine non si intendono le percosse, ma i fuochi artificiali.
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