PASTOTTO SAPORITO
Ingredienti e dosi per 6 persone:
5 etti di avemarie (tubetti medio-piccoli) ,
3 grossi funghi porcini freschi o surgelati se di ottima qualità,
3 etti di ricotta di pecora,
6 rocchi di salsiccia (possibilmente con il finocchietto),
1 cucchiaio di sugna,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 cucchiaio di semi di finocchio,
1 cipolla dorata tritata grossolanamente,
1 aglio mondato e schiacciato,
2 bicchieri e mezzo di olio d’oliva e.v.p.s. a f.
3 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
3 litri di brodo vegetale da ortaggi freschi(cipolla, patata,carota, 2 mazzetti di erbe aromatiche, ½ bicchiere d’olio e.v.p.s. a f., sale doppio alle erbette) o da 3 dadi vegetali,
1 etto di pecorino grattugiato,
sale fino e pepe nero q.s.
Procedimento
In un’ ampia padella, a fuoco vivace, versare mezzo bicchiere d’olio ed aggiungere il cucchiaio di sugna; quando la sugna si sarà sciolta ed avrà preso calore, aggiungere le salsicce precedentemente private della pelle e sbriciolate,il cucchiaio di semi di finocchio, bagnare con il vino, alzare il fuoco e fare evaporare tutto il vino, indi aggiungere una ramaiolata d’acqua bollente con due cucchiaiate di concentrato di pomodoro e portare a cottura in circa 30’.
A seguire approntiamo il brodo vegetale con tre litri d’acqua fredda e ortaggi freschi (cipolla, patata,carota, 2 mazzetti di erbe aromatiche, ½ bicchiere d’olio e.v.p.s. a f., sale doppio alle erbette) oppure con 3 dadi vegetali e teniamolo a continuo lento bollore; nettare accuratamente i funghi con un cencio umido e con un affilatissimo coltellino e sfettiamoli alla francese(taglio obliquo con lama posta a 45° lungo l’asse maggiore)in pezzi di circa ½ cm. di spessore. Mettiamoli al fuoco in un tegame con un bicchiere d’olio ed un aglio mondato e schiacciato; aggiungiamo mezzo bicchiere d’acqua bollente, manteniamo il fuoco basso e dopo circa 20’ di cottura aggiungiamo l’ultimo cucchiaio di concentrato, regoliamo di sale fino e pepe e continuiamo la cottura per altri 15’; uniamo il fondo con la salsiccia, aggiungendo solo alla fine il trito di prezzemolo; abbassiamo ancóra i fuochi e teniamo il sugo al caldo; poniamo a fuoco vivace in un altro tegame un bicchiere d’olio con il trito di cipolla e facciamola dorare e súbito dopo versiamo tutta la pasta, bagniamo con il vino, e rimestiamo per cinque minuti ;indi aggiungendo a mano a mano piccole ramaiolate di brodo vegetale tenuto a bollore portiamo quasi a cottura il pastotto in circa 20’;alla fine uniamo i funghi e salsiccia con il fondo di cottura dal quale avremo eliminato l’aglio, rimestiamo e completiamo la cottura; regoliamo eventualmente di sale fino;aggiungiamo la ricotta stemperata con il cognac o brandy, abbassiamo un po’ il fuoco, spolverizziamo di pecorino e mantechiamo rimestando accuratamente per l’ultima volta il pastotto e porzioniamolo nei piatti spolverizzandolo ulteriormente con il pecorino grattugiato e generosamente di pepe nero.
Servire caldo di fornello.
Note linguistiche:
Il rocchio (con etimo dal lat. rotulu(m)) è in generale un pezzo cilindrico di qualcosa; nella fattispecie un rocchio di salsiccia,è ogni porzione compresa fra due nodi; un rocchio di carne, un pezzo di carne magra, senza osso.
Il rocchio in napoletano è detto capo/a (‘nu capo/’na capa ‘e saciccia) e ciò perché la salsiccia è un insaccato di carne di suino in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa.
pastotto neologismo da me ideato derivandolo da pasta marcato ad imitazione del termine risottovoce originaria lombarda derivata da riso;
con la voce pastotto indico una particolare minestra di pasta che viene cotta nel brodo, destinato a essere completamente assorbito nel corso della cottura, e che può essere condita in vario modo;
ricotta s. f. gustosissimolatticino molle e bianco, che si ottiene facendo bollire il siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggio; deriva dal part. pass. di ricuocere,
porcini plur. di porcino dal lat. porcinu(m), deriv. di porcus 'porco's. m. fungo spontaneo commestibile assai pregiato con gambo grosso biancastro e cappello spugnoso bruno-castano, alla cui ricerca un tempo con gran successo erano adibiti i maiali addestrati (donde il nome porcino).
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
P.S. Qualcuno usa preparare questo gustosissimo pastotto eliminando il concentrato di pomidoro, ma il risultato è decisamente inferiore!
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
sabato 31 gennaio 2009
FUSILLI PASTICCIATI
FUSILLI PASTICCIATI
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 6 etti di fusilli lunghi bucati,
mezzo litro di passata di pomidoro fresca o in bottiglia,
1 cipolla dorata tritata,
- 2 etti di macinato (colarda) di manzo,
- 2 etti di macinato (spalla) di maiale,
- - 3 etti di mozzarella di bufala tagliati a dadini di ½ cm. di spigolo,
- 3 etti di ricotta di pecora,
- Una tazzina di cognac o brandy
- 1/2 bicchiere di vino bianco secco,
- 1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
cannella in polvere un cucchiaio,
- sale doppio – un pugno,
- sale fino e pepe bianco q.s.,
- pecorino grattugiato 1 etto
procedimento
Sbucciate la cipolla e tritatela finemente; poi fatela appassire a fuoco sostenuto in una padella antiaderente con la metà dell’olio mandato a temperatura. Unitevi la carne, lasciatela insaporire per dieci minuti e bagnatela con il vino. Aggiungete la passata di pomidoro,insaporite con sale, pepe, coprite e cuocete per 50 min. a fuoco moderato..
Nel frattempo, lessate la pasta in abbondante (8 litri) acqua bollente salata (sale doppio un pugno); scolatela molto al dente e versatela in una zuppiera calda con la ricotta che avrete stemperata assieme alla cannella con il cognac e dove la condirete con la carne, e la mozzarella a cubetti;rimestate accuratamentespolverizzando con tutto il pecorino grattugiato, e generoso pepe bianco. Impiattate e servite caldi di fornello questi gustosissimi fusilli pasticciati. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 6 etti di fusilli lunghi bucati,
mezzo litro di passata di pomidoro fresca o in bottiglia,
1 cipolla dorata tritata,
- 2 etti di macinato (colarda) di manzo,
- 2 etti di macinato (spalla) di maiale,
- - 3 etti di mozzarella di bufala tagliati a dadini di ½ cm. di spigolo,
- 3 etti di ricotta di pecora,
- Una tazzina di cognac o brandy
- 1/2 bicchiere di vino bianco secco,
- 1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
cannella in polvere un cucchiaio,
- sale doppio – un pugno,
- sale fino e pepe bianco q.s.,
- pecorino grattugiato 1 etto
procedimento
Sbucciate la cipolla e tritatela finemente; poi fatela appassire a fuoco sostenuto in una padella antiaderente con la metà dell’olio mandato a temperatura. Unitevi la carne, lasciatela insaporire per dieci minuti e bagnatela con il vino. Aggiungete la passata di pomidoro,insaporite con sale, pepe, coprite e cuocete per 50 min. a fuoco moderato..
Nel frattempo, lessate la pasta in abbondante (8 litri) acqua bollente salata (sale doppio un pugno); scolatela molto al dente e versatela in una zuppiera calda con la ricotta che avrete stemperata assieme alla cannella con il cognac e dove la condirete con la carne, e la mozzarella a cubetti;rimestate accuratamentespolverizzando con tutto il pecorino grattugiato, e generoso pepe bianco. Impiattate e servite caldi di fornello questi gustosissimi fusilli pasticciati. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
VOCI NAPOLETANE DERIVATE DALL’ARABO
VOCI NAPOLETANE DERIVATE DALL’ARABO
Elenco qui di sèguito, senza ordine o sistematicità un congruo numero di lemmi partenopei, a mio avviso, mutuati dalla lingua araba.
- cuffià/cuffiare verbo = corbellare, prendere in giro; del verbo è usato come sostantivo o agg.vo il part. pass. cuffïato cioè corbellato che quale il participio passato del verbo cuffià deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
- Cupeta sorta di torrone cioè dolce fatto con mandorle e pistacchi o noci e con miele); la voce copeta/cupeta donde copetaro/cupetaro (fabbricante e venditore di copete/cupete) deriva dall’arabo qubaita/qupaita;
- bbuórdo sost. masch. letteralmente bordo ciascuno dei fianchi o murate di una nave o di qualsiasi imbarcazione; la parte del fianco emergente dall'acqua: nave d'alto bordo, con la fiancata alta; virare di..., ma ma nella classica espressione partenopea menà a bbuórdo estensivamente sta per stomaco, corpo per indicare ad un dipresso la parte del corpo quasi protetta da ipotetiche murate; etimologicamente probabilmente dal tedesco o molto piú facilmente dall’arabo bord con dittongazione popolare (probabilmente dipesa dal fatto che la o di bord fu intesa breve);
- cantàro= misura di aridi che derivato dall’arabo qintâr vale in napoletano quintale= cento rotoli. Va da sé che la voce cantàro (quintale) non deve confondersi con càntaro= vaso di comodo, alto cilindrico contenitore in terraglia smaltata usato, olim, per accogliere gli esiti fisiologici della famiglia; derivato dal lat. càntharu(m) che è dal greco kàntharos;
- guallera =ernia è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità ci si riferisce nella classica, becera, ma gustosa locuzione partenopea Me staje abbuffanno ‘a guallera (mi stai grandemente infastidendo) prestandosi esso sacco scrotale , data la sua quasi sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato.
- Arrassusia
Ad litteram:Lontano sia Non accada mai! Esclamazione accorata che si suole pronunciare spesso accompagnata da un gesto scaramantico, nella temuta evenienza di un pericolo, o - peggio - di un danno.
La locuzione divenuta termine unico in realtà è formata dal vocabolo arrasso (lontano) derivato dall'arabo harasa di identico significato, e dal congiuntivo ottativo sia.
(piglià 'nu) - zzarro id est:errare, prendere un abbaglio,incorrere in un impedimento, inciampare in un qualcosa come ad es. un sasso sporgente; zarro dall'arabo zahr (dado- sasso sporgente).
- vajassa= serva, fantesca; dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in italiano: bagascia= meretrice
- ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
- filusce o filusse o ancora felusse= danaro contante
Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente, il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora piú fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto piú semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felùs ed in Portogallo: fuluz;
- zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar,
- carrafe = caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere: etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere.
- giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra,
- tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas/tasa,
- canacca/ cannacca (dall’arabo hannaqa)= collana vistosa usata da donne del popolo per agghindarsi in maniera eccessiva e ridondante.
- nzacarrone antico sost. nap.= chiacchierone, ciarlatore da collegarsi all’arabo zacar=racconto, secondo il percorso morfologico zacar+ il suff. accrescitivo one e con protesi di una n eufonica che non necessita perciò d’alcun segno diacritico aferetico non trattandosi di in→’n ma di una semplice consonante eufonica protetica.
- matarazzo sost. masch.= materasso, ma quale voce furbesca, giocosa è usata pure per significare una persona grande, grassa e grossa tale da potersi appaiare iperbolicamente ad un materasso, cioè il rigonfio involucro pieno di lana su cui ci si distende per riposare; la voce è etimologicamente da collegarsi all’arabo matrah con il suffisso estensivo aceus,che in napoletano diventa azzo;
- ciofèca – cefèca sost. femm.= liquido meglio bevanda (vino, caffè ed altro) scadente, di scarto, di pessimo gusto.
la voce è di schietta derivazione araba: šafèq che in arabo indica appunto un liquido, una bevanda corrotta o piú estensivamente tutto il cattivo delle cose, di qualità inferiore, di scarto, di nessun valore ed addirittura uomo di poco conto, donna sgraziata e malvestita. Il napoletano e gli altri dialetti ànno recepito però solo il significato attinente alla qualità di una bevanda.
Ciò chiarito, passiamo a fare un breve elenco degli adattamenti morfologici che – in altri dialetti – à subìto il napoletano ciofèca o cefèca;vediamo: in toscano: ciufeca o anche cipeca, in romanesco: ciufeca, in abbruzzese: cifechë, in calabrese e siciliano:cifeca.
Rammenterò, per amor di completezza che in romanesco (e solo in romanesco )partendo da ciufeca si è coniato l’aggettivo: inciufegato/inciufecato che sta per impiastricciato di sporcizia.
A questo punto devo sottolineare che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, i varî dialetti – con eccezion forse del siciliano e calabrese - ànno mutuato i loro adattamenti dal napoletano e non direttamente dall’arabo, atteso che gli arabi le loro invasioni le operarono principalmente nel sud dello stivale in danno dei regni meridionali ed a Napoli e nel napoletano lasciarono, come stiamo vedendo, numerose testimonianze della loro lingua.
- surbetta sost. femm.le = sorbetto, gelato che è da serbet voce arabo-turca.
- tauto/tavuto sost. masch. =bara che è dall’arabo tabut (arca), attraverso lo spagnolo ataúd/ataút;
- cafè= caffè sost. neutro derivato dall’arabo qahuah attraverso il turco qaveh); rammenterò a margine che la parola cafè quando sia preceduta dall’articolo ‘o, in napoletano, per indicare la pianta o la bevanda va rigorosamente scritta con la geminazione iniziale della c e dunque: ‘o ccafè; scritto con una sola c: ‘o cafè, indicherebbe il luogo, la mescita dove viene venduto e servita la bevanda di caffè).
- patacca sost. femm.le = è una falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è derivato dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
- tammorra sost. femm.le = grosso tamburo usato nelle danze popolari è voce derivata dall’arabo: tambur attraverso un cambio di genere,(attesa la piú ampia (rispetto al tamburo) forma dello strumento, forma piú ampia intesa perciò femminile come avviene ad es. per cucchiaro piú piccolo e perciò maschile e cucchiara più grossa e perciò femminile, per tino piú piccolo e perciò maschile e tina più grossa e perciò femminile, carretto piú piccolo e perciò maschile e carretta più grossa e perciò femminile etc. fanno eccezione tiano che è piú grosso, ma maschile rispetto a tiana che è piú piccola e stranamente femminile; fa altresí eccezione caccavo che è piú grosso, ma maschile rispetto a caccavella che è piú piccola e femminile), assimilazione regressiva della b alla m assimilazione che è tipica della lingua napoletana.
Va da sé che il tammurriello = piccolo tamburo abbia il medesimo etimo di tammurro/tammorra di cui è diminutivo con naturale cambio di genere dall’ampio femminile al piú contenuto maschile;
- bardascia sost. femm.le usato per indicare una giovane donna, ragazza e spesso lo si poteva incontrare nel simpatico diminutivo – vezzeggiativo bardascella.L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana.
- mammalucco: sostantivo masch. usato per indicare lo stupido patentato, lo sciocco impenitente, dall’aria frastornata détto pure cannapierto; etimologicamente questo mammalucco è dall’arabo mamluk = schiavo, soldato prigioniero.
- sciabbecco: sostantivo masch. usato per indicare precisamente il bietolone, lo sciocco, lo stupidone aduso a piegarsi ad ogni vento, come che mentalmente vuoto e privo d’ogni opinione e/o cognizione; in origine lo sciabecco (dal turco sumbeki, attraverso un arabo šumbûk) indicò un lungo e stretto naviglio, veloce, ma – per la sua esile consistenza – facilmente preda dei venti e dei marosi;
- sciaveca sost. femm.le = sciabica, indica la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dinto a ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia abbastanza remunerativo.
Etimologicamente la parola sciaveca attraverso lo spagnolo xabeca cosí come la toscana sciabica deriva dall’arabo shabaka da cui anche il portoghesejabeca/ga.
Rammenbto altresí la voce sciavechiello derivato di sciaveca con consueto passaggio al maschile in quanto oggetto notevolmente piú piccolo della femminile sciaveca.
Lo sciavechiello è invatti una piccola contenuta rete a rastrello, munito di alto manico di legno usata sulla battigia per pescare arselle e/o telline, spingendo in avanti il rastrello munito di retino nel quale far transitare la sabbia bagnata in cui di annidano arsellee/o telline; talvolta il pescatore inverte il senso di marcia ed invece di spingerlo, trascina lo sciavechiello; in tal caso si dice che à avutato ‘o sciavechiello espressione che in senso traslato vale: à girato le spalle disinteressandosi di qualcosa.
- catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra –arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí in lingua napoletana, con derivazione forse da un antico castellame (voce del XIV sec. con cui si indicava la torretta lignea posta sulla groppa degli elefanti e nella quale si acquattavano i soldati; la voce, derivata probabilmente da castello, subí nel napoletano un adattamento corruttivo del suffisso me che divenne na per render femminile la parola originariamente maschile, nella convinzione, che già alibi illustrai, che gli oggetti femminili fossero piú grandi o grossi o imponenti dei relativi maschili; difficile stabilire i motivi di tale adattamento corruttivo di me in na: probabilmente si rese necessario atteso che si durava fatica a volgere al femminile un nome terminante in me facendolo diventare un ovvio ma, tuttavia spesso, per errore, parole terminanti in me passando al femminile non mutavano desinenza; fu forse nessario perciò cambiar questa in na (desinenza che non ingenera confusione)!) si indica il catafalco su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni;
- azzeccà verbo che come significato primo à: colpire nel segno, centrare, indovinare (ed in tal senso è forse dal tedesco zeken= menare un colpo), ma quando signica unire strettamente, incollare, attaccare in questa accezione reputo sia da collegarsi all’arabo zêg).
- canzirro = mulo, bardotto; il sost. masch. napoletano canzirro à un etimo dal greco kanthélios, incrociato con l’arabo hinzir;
- mulignana= melanzana dall’arabo badingian incrociato con il prefisso mela→ melingian donde per metatesi meligniana→mulignana; altrove l’arabo badingian fu incrociato con i prefissi peto o petro e per indicare il medesimo ortaggio s’ebbe petonciano o petronciano.
Altre volte la voce melanzana fu ritenuta, ma impropriamente, derivata da mela+ insana in quanto ritenuto ortaggio il cui consumo potesse portare alla pazzia.
- burraccia/vurraccia =borraggine o borragine derivata per l’italiano dal lat. mediev. borragine(m), mentre il napoletano, con tipica alternanza partenopea b/v è dritto per dritto dall’arabo abu rach=burraccia con tipico raddoppiamento interno popolare della r e della c e deglutinazione della a iniziale intesa articolo: aburach= ‘a burraccia; di per sé abu rachc significa "padre del sudore" forse per la particolare attività di questo vegetale che è sudorifero); la borraggine o borragine è usata a Napoli nella preparazione di minestre quasi esclusivamente vegetali, di frittelle etc. ;
-rummano = romano cioè il peso della stadera (dall'ar. rumman, propr. 'melagrana', per la forma del peso simile a quella della melagrana.
-sciorba/ sciorbacca deriva , nel significato di zuppa/zuppaccia , dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach dove trae origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto trattasi di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso;
- sciarra sost. femm.le = lite, bisticcio, ma non violento, particolarmente quello fra innamorati (cfr. l’espressione ànno fatto sciarra= ànno litigato, ma son pronti a riappacificarsi) voce che è dall’ arabo šarr= disputa.
tàmmaro agg.vo e s.vo maschile e solo maschile: non è né attestato, né codificato un ipotetico femminile tàmmara; è un antico sostantivo (presente già nel D’Ambra, Andreoli, P.P.Volpe ed altri ) nel significato di colono,contadino e pure per ampiamento semantico sbirro; oggi è parola ancóra viva nel linguaggio popolare e vale ( epperò ormai solo come aggettivo) rozzo, volgare, ignorante , zotico e scostante; quanto all’etimo è parola derivata dall’arabo tammar = produttore e poi mercante di datteri; la voce napoletana è stata altresí influenzata dall’ omonimo ebraico tammar = pianta da datteri; semanticamente l’accostamento tra l’arabo tammar = produttore e poi mercante di datteri e la voce napoletana tàmmaro è da ricercarsi nel fatto che nell’inteso comune il colono, il contadino e pure lo sbirro oltre che il mercante sono individui carenti di educazione e buone maniere e dunque rozzi, volgari, ignoranti, zotici e scostanti;
varda s.f. = basto, soma da asino o mulo che è dall’arabo barda con consueto adattamento partenopeo della labiale esplosiva b che diventa v (cfr. bocca→vocca – barca→varca – bacile→vacile etc.)
E qui mi fermo, ripromettendomi di ampliare l’elenco, quando e se dovessi trovare altre voci pervenute nel napoletano con provenienza dall’arabo.
raffaele bracale
Elenco qui di sèguito, senza ordine o sistematicità un congruo numero di lemmi partenopei, a mio avviso, mutuati dalla lingua araba.
- cuffià/cuffiare verbo = corbellare, prendere in giro; del verbo è usato come sostantivo o agg.vo il part. pass. cuffïato cioè corbellato che quale il participio passato del verbo cuffià deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
- Cupeta sorta di torrone cioè dolce fatto con mandorle e pistacchi o noci e con miele); la voce copeta/cupeta donde copetaro/cupetaro (fabbricante e venditore di copete/cupete) deriva dall’arabo qubaita/qupaita;
- bbuórdo sost. masch. letteralmente bordo ciascuno dei fianchi o murate di una nave o di qualsiasi imbarcazione; la parte del fianco emergente dall'acqua: nave d'alto bordo, con la fiancata alta; virare di..., ma ma nella classica espressione partenopea menà a bbuórdo estensivamente sta per stomaco, corpo per indicare ad un dipresso la parte del corpo quasi protetta da ipotetiche murate; etimologicamente probabilmente dal tedesco o molto piú facilmente dall’arabo bord con dittongazione popolare (probabilmente dipesa dal fatto che la o di bord fu intesa breve);
- cantàro= misura di aridi che derivato dall’arabo qintâr vale in napoletano quintale= cento rotoli. Va da sé che la voce cantàro (quintale) non deve confondersi con càntaro= vaso di comodo, alto cilindrico contenitore in terraglia smaltata usato, olim, per accogliere gli esiti fisiologici della famiglia; derivato dal lat. càntharu(m) che è dal greco kàntharos;
- guallera =ernia è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità ci si riferisce nella classica, becera, ma gustosa locuzione partenopea Me staje abbuffanno ‘a guallera (mi stai grandemente infastidendo) prestandosi esso sacco scrotale , data la sua quasi sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato.
- Arrassusia
Ad litteram:Lontano sia Non accada mai! Esclamazione accorata che si suole pronunciare spesso accompagnata da un gesto scaramantico, nella temuta evenienza di un pericolo, o - peggio - di un danno.
La locuzione divenuta termine unico in realtà è formata dal vocabolo arrasso (lontano) derivato dall'arabo harasa di identico significato, e dal congiuntivo ottativo sia.
(piglià 'nu) - zzarro id est:errare, prendere un abbaglio,incorrere in un impedimento, inciampare in un qualcosa come ad es. un sasso sporgente; zarro dall'arabo zahr (dado- sasso sporgente).
- vajassa= serva, fantesca; dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in italiano: bagascia= meretrice
- ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
- filusce o filusse o ancora felusse= danaro contante
Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente, il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora piú fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto piú semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felùs ed in Portogallo: fuluz;
- zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar,
- carrafe = caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere: etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere.
- giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra,
- tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas/tasa,
- canacca/ cannacca (dall’arabo hannaqa)= collana vistosa usata da donne del popolo per agghindarsi in maniera eccessiva e ridondante.
- nzacarrone antico sost. nap.= chiacchierone, ciarlatore da collegarsi all’arabo zacar=racconto, secondo il percorso morfologico zacar+ il suff. accrescitivo one e con protesi di una n eufonica che non necessita perciò d’alcun segno diacritico aferetico non trattandosi di in→’n ma di una semplice consonante eufonica protetica.
- matarazzo sost. masch.= materasso, ma quale voce furbesca, giocosa è usata pure per significare una persona grande, grassa e grossa tale da potersi appaiare iperbolicamente ad un materasso, cioè il rigonfio involucro pieno di lana su cui ci si distende per riposare; la voce è etimologicamente da collegarsi all’arabo matrah con il suffisso estensivo aceus,che in napoletano diventa azzo;
- ciofèca – cefèca sost. femm.= liquido meglio bevanda (vino, caffè ed altro) scadente, di scarto, di pessimo gusto.
la voce è di schietta derivazione araba: šafèq che in arabo indica appunto un liquido, una bevanda corrotta o piú estensivamente tutto il cattivo delle cose, di qualità inferiore, di scarto, di nessun valore ed addirittura uomo di poco conto, donna sgraziata e malvestita. Il napoletano e gli altri dialetti ànno recepito però solo il significato attinente alla qualità di una bevanda.
Ciò chiarito, passiamo a fare un breve elenco degli adattamenti morfologici che – in altri dialetti – à subìto il napoletano ciofèca o cefèca;vediamo: in toscano: ciufeca o anche cipeca, in romanesco: ciufeca, in abbruzzese: cifechë, in calabrese e siciliano:cifeca.
Rammenterò, per amor di completezza che in romanesco (e solo in romanesco )partendo da ciufeca si è coniato l’aggettivo: inciufegato/inciufecato che sta per impiastricciato di sporcizia.
A questo punto devo sottolineare che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, i varî dialetti – con eccezion forse del siciliano e calabrese - ànno mutuato i loro adattamenti dal napoletano e non direttamente dall’arabo, atteso che gli arabi le loro invasioni le operarono principalmente nel sud dello stivale in danno dei regni meridionali ed a Napoli e nel napoletano lasciarono, come stiamo vedendo, numerose testimonianze della loro lingua.
- surbetta sost. femm.le = sorbetto, gelato che è da serbet voce arabo-turca.
- tauto/tavuto sost. masch. =bara che è dall’arabo tabut (arca), attraverso lo spagnolo ataúd/ataút;
- cafè= caffè sost. neutro derivato dall’arabo qahuah attraverso il turco qaveh); rammenterò a margine che la parola cafè quando sia preceduta dall’articolo ‘o, in napoletano, per indicare la pianta o la bevanda va rigorosamente scritta con la geminazione iniziale della c e dunque: ‘o ccafè; scritto con una sola c: ‘o cafè, indicherebbe il luogo, la mescita dove viene venduto e servita la bevanda di caffè).
- patacca sost. femm.le = è una falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è derivato dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
- tammorra sost. femm.le = grosso tamburo usato nelle danze popolari è voce derivata dall’arabo: tambur attraverso un cambio di genere,(attesa la piú ampia (rispetto al tamburo) forma dello strumento, forma piú ampia intesa perciò femminile come avviene ad es. per cucchiaro piú piccolo e perciò maschile e cucchiara più grossa e perciò femminile, per tino piú piccolo e perciò maschile e tina più grossa e perciò femminile, carretto piú piccolo e perciò maschile e carretta più grossa e perciò femminile etc. fanno eccezione tiano che è piú grosso, ma maschile rispetto a tiana che è piú piccola e stranamente femminile; fa altresí eccezione caccavo che è piú grosso, ma maschile rispetto a caccavella che è piú piccola e femminile), assimilazione regressiva della b alla m assimilazione che è tipica della lingua napoletana.
Va da sé che il tammurriello = piccolo tamburo abbia il medesimo etimo di tammurro/tammorra di cui è diminutivo con naturale cambio di genere dall’ampio femminile al piú contenuto maschile;
- bardascia sost. femm.le usato per indicare una giovane donna, ragazza e spesso lo si poteva incontrare nel simpatico diminutivo – vezzeggiativo bardascella.L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana.
- mammalucco: sostantivo masch. usato per indicare lo stupido patentato, lo sciocco impenitente, dall’aria frastornata détto pure cannapierto; etimologicamente questo mammalucco è dall’arabo mamluk = schiavo, soldato prigioniero.
- sciabbecco: sostantivo masch. usato per indicare precisamente il bietolone, lo sciocco, lo stupidone aduso a piegarsi ad ogni vento, come che mentalmente vuoto e privo d’ogni opinione e/o cognizione; in origine lo sciabecco (dal turco sumbeki, attraverso un arabo šumbûk) indicò un lungo e stretto naviglio, veloce, ma – per la sua esile consistenza – facilmente preda dei venti e dei marosi;
- sciaveca sost. femm.le = sciabica, indica la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dinto a ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia abbastanza remunerativo.
Etimologicamente la parola sciaveca attraverso lo spagnolo xabeca cosí come la toscana sciabica deriva dall’arabo shabaka da cui anche il portoghesejabeca/ga.
Rammenbto altresí la voce sciavechiello derivato di sciaveca con consueto passaggio al maschile in quanto oggetto notevolmente piú piccolo della femminile sciaveca.
Lo sciavechiello è invatti una piccola contenuta rete a rastrello, munito di alto manico di legno usata sulla battigia per pescare arselle e/o telline, spingendo in avanti il rastrello munito di retino nel quale far transitare la sabbia bagnata in cui di annidano arsellee/o telline; talvolta il pescatore inverte il senso di marcia ed invece di spingerlo, trascina lo sciavechiello; in tal caso si dice che à avutato ‘o sciavechiello espressione che in senso traslato vale: à girato le spalle disinteressandosi di qualcosa.
- catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra –arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí in lingua napoletana, con derivazione forse da un antico castellame (voce del XIV sec. con cui si indicava la torretta lignea posta sulla groppa degli elefanti e nella quale si acquattavano i soldati; la voce, derivata probabilmente da castello, subí nel napoletano un adattamento corruttivo del suffisso me che divenne na per render femminile la parola originariamente maschile, nella convinzione, che già alibi illustrai, che gli oggetti femminili fossero piú grandi o grossi o imponenti dei relativi maschili; difficile stabilire i motivi di tale adattamento corruttivo di me in na: probabilmente si rese necessario atteso che si durava fatica a volgere al femminile un nome terminante in me facendolo diventare un ovvio ma, tuttavia spesso, per errore, parole terminanti in me passando al femminile non mutavano desinenza; fu forse nessario perciò cambiar questa in na (desinenza che non ingenera confusione)!) si indica il catafalco su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni;
- azzeccà verbo che come significato primo à: colpire nel segno, centrare, indovinare (ed in tal senso è forse dal tedesco zeken= menare un colpo), ma quando signica unire strettamente, incollare, attaccare in questa accezione reputo sia da collegarsi all’arabo zêg).
- canzirro = mulo, bardotto; il sost. masch. napoletano canzirro à un etimo dal greco kanthélios, incrociato con l’arabo hinzir;
- mulignana= melanzana dall’arabo badingian incrociato con il prefisso mela→ melingian donde per metatesi meligniana→mulignana; altrove l’arabo badingian fu incrociato con i prefissi peto o petro e per indicare il medesimo ortaggio s’ebbe petonciano o petronciano.
Altre volte la voce melanzana fu ritenuta, ma impropriamente, derivata da mela+ insana in quanto ritenuto ortaggio il cui consumo potesse portare alla pazzia.
- burraccia/vurraccia =borraggine o borragine derivata per l’italiano dal lat. mediev. borragine(m), mentre il napoletano, con tipica alternanza partenopea b/v è dritto per dritto dall’arabo abu rach=burraccia con tipico raddoppiamento interno popolare della r e della c e deglutinazione della a iniziale intesa articolo: aburach= ‘a burraccia; di per sé abu rachc significa "padre del sudore" forse per la particolare attività di questo vegetale che è sudorifero); la borraggine o borragine è usata a Napoli nella preparazione di minestre quasi esclusivamente vegetali, di frittelle etc. ;
-rummano = romano cioè il peso della stadera (dall'ar. rumman, propr. 'melagrana', per la forma del peso simile a quella della melagrana.
-sciorba/ sciorbacca deriva , nel significato di zuppa/zuppaccia , dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach dove trae origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto trattasi di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso;
- sciarra sost. femm.le = lite, bisticcio, ma non violento, particolarmente quello fra innamorati (cfr. l’espressione ànno fatto sciarra= ànno litigato, ma son pronti a riappacificarsi) voce che è dall’ arabo šarr= disputa.
tàmmaro agg.vo e s.vo maschile e solo maschile: non è né attestato, né codificato un ipotetico femminile tàmmara; è un antico sostantivo (presente già nel D’Ambra, Andreoli, P.P.Volpe ed altri ) nel significato di colono,contadino e pure per ampiamento semantico sbirro; oggi è parola ancóra viva nel linguaggio popolare e vale ( epperò ormai solo come aggettivo) rozzo, volgare, ignorante , zotico e scostante; quanto all’etimo è parola derivata dall’arabo tammar = produttore e poi mercante di datteri; la voce napoletana è stata altresí influenzata dall’ omonimo ebraico tammar = pianta da datteri; semanticamente l’accostamento tra l’arabo tammar = produttore e poi mercante di datteri e la voce napoletana tàmmaro è da ricercarsi nel fatto che nell’inteso comune il colono, il contadino e pure lo sbirro oltre che il mercante sono individui carenti di educazione e buone maniere e dunque rozzi, volgari, ignoranti, zotici e scostanti;
varda s.f. = basto, soma da asino o mulo che è dall’arabo barda con consueto adattamento partenopeo della labiale esplosiva b che diventa v (cfr. bocca→vocca – barca→varca – bacile→vacile etc.)
E qui mi fermo, ripromettendomi di ampliare l’elenco, quando e se dovessi trovare altre voci pervenute nel napoletano con provenienza dall’arabo.
raffaele bracale
venerdì 30 gennaio 2009
BARDASCIA & DINTORNI
BARDASCIA & DINTORNI
Con la voce bardascia (che si ritrova anche nel siciliano con varie significazioni spesso di comodo, ma semanticamente inesatte (basti pensare alla terminazione in a della parola che è di genere femminile e viene riferita al maschile...) quali: monello, giovane omosessuale etc. ) in napoletano si indica null’altro che una ragazza e spesso questa parola (ora quasi del tutto desueta) la si poteva incontrare nel napoletano d’antan con un simpatico diminutivo – vezzeggiativo: bardascella = ragazzina. L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ dove è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana. La voce napoletana bardascia à tuttavia una tenue assonanza con la voce italiana(con la quale ovviamente non deve confondersi!) bagascia che è la meretrice; la voce bardascia non va confusa altresí con il termine partenopeo vajassa che indica la serva, la fantesca;e che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano si generò bagascia= meretrice.Quella ricordata assonanza tra le voci bardascia, bagascia, vajassa determina spesso tra i meno esperti della lingua napoletana una innesatta confusione tra i significati dei termini provocando un conseguenziale marchiano errore nel loro campo d’applicazione.
Raffaele Bracale
Con la voce bardascia (che si ritrova anche nel siciliano con varie significazioni spesso di comodo, ma semanticamente inesatte (basti pensare alla terminazione in a della parola che è di genere femminile e viene riferita al maschile...) quali: monello, giovane omosessuale etc. ) in napoletano si indica null’altro che una ragazza e spesso questa parola (ora quasi del tutto desueta) la si poteva incontrare nel napoletano d’antan con un simpatico diminutivo – vezzeggiativo: bardascella = ragazzina. L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ dove è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana. La voce napoletana bardascia à tuttavia una tenue assonanza con la voce italiana(con la quale ovviamente non deve confondersi!) bagascia che è la meretrice; la voce bardascia non va confusa altresí con il termine partenopeo vajassa che indica la serva, la fantesca;e che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano si generò bagascia= meretrice.Quella ricordata assonanza tra le voci bardascia, bagascia, vajassa determina spesso tra i meno esperti della lingua napoletana una innesatta confusione tra i significati dei termini provocando un conseguenziale marchiano errore nel loro campo d’applicazione.
Raffaele Bracale
VARIE 80
1.'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
brak
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
brak
LÈFRECHE/GHE o RÈFRECHE/GHE – PAMPUGLIE
LÈFRECHE/GHE o RÈFRECHE/GHE – PAMPUGLIE
Tratto questa volta due parole che ò preferito accostare, perché – come vedremo – nella parlata napoletana, in una particolare accezione, possono avere significati molto simili.
Vediamo, dunque:
LÈFRECA/ RÈFRECA: Di queste parole, che in realtà ne è una sola sebbene attestata morfologicamente con le due diverse liquide di avvio, ò trovato riscontro, non solo ovviamente nel napoletano, ma anche in alcuni dialetti campani (tra cui quello di Bisaccia nell’alta Irpinia)ed in taluni dialetti calabresi, sebbene in questi ultimi abbia trovato attestato, piú che le parole cosí come indicate, i verbi liefricare, lievricare che di esse son denominali.
Il significato iniziale e per cosí dire, principale di lefreca/ga o refreca/ga è il cavillo, la fisima, la capziosità, la sofisticheria (donde l’espressione partenopea: jí ascianno lefreche per indicare appunto l’azione di chi per non addivenire ad un quid o non soddisfare richieste, cerchi pretesti capziosi, cavilli pretestuosi etc.) e per tranquilla estensione: la minuzia, la sciocchezza, l’inezia, la cosa da nulla, ed è sola in questa accezione estensiva che lefreca mi pare sia accolta nel dialetto bisaccese
Come abbiamo già accennato per taluni dialetti calabresi, anche per la lingua napoletana le parole qui a margine ànno fornito verbi denominali quali lefrecà =cavillare,sofisticare, litigar per nulla ed il frequentativo lefrechïà che significa invece lesinare.
E veniamo alla etimologia; sia per lefreca/ga – refreca/ga che per i verbi derivati occorre risalire ai latini: refragari o refricare che indicarono l’azione di stropicciare, fregare ripetutamente con le mani materiali i piú varî fino ad ottenerne minuzzoli. Va da sé che i verbi latini ( che per incidens ànno dato il toscano fregola che però à tutt’altro significato dei napoletani lefreca/ga – refreca/ga , con le parole che ne son derivate, possono bene indicare oltre che quelle minuzie prodotte dallo stropicciamento, anche la capziosità, il cavillo richiamati appunto dall’azione dello stropicciare continuo di chi vada e rivada, dividendo in quattro un capello, su di un argomento, lo sceveri a fondo, magari con acribía pedantesca.
E veniamo a pampuglia che nel significato primo sta per piallatura,truciolo del legname ed estensivamente (ragione per la quale ò accostato pampuglia alle altre parole in epigrafe): inezia, cosa da nulla, bagatella, frivolezza e persino, come estrema valenza, quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto chiacchiera, bugia, frappa etc.
Prima di passare a dire dell’etimologia di pampuglia, voglio rammentare come esso termine nel precipuo significato di truciolo, piallatura à in lingua napoletana, sempre abbastanza attenta, precisa e circostanziata, degli specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo dunque: -pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, -pampuglia ‘e chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande, ma da una pialla piú stretta e piccola detta in napoletano chianuzzella che è il diminutivo di chianozza che è dal latino: planula attrezzo per render piano, privandolo delle asperità, un asse di legno, - pampuglia ‘e ‘ntraverzatura(deverbale del verbo ‘ntraverzà= attraversare, andando contro il primitivo senso di marcia) che è il truciolo, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati.
E soffermiamoci sull’etimologia di pampuglia, etimologia non tranquillissima; un tempo si congetturò un neutro plurale tardo latino fabulía = favuli, gambi delle fave, che dopo la raccolta venivano estirpati, adeguatamente seccati ed usati per alimentare, tal quali le pampuglie lignee, i forni domestici; la seconda ipotesi, che a mio avviso mi pare un po’ piú percorribile si rifà ad un latino regionale: pampulia forgiata su un pampus forma sincopata di pampinus che è propriamente il pampino: tralcio di vite vestito di foglie, tralcio che se improduttivo viene resecato e destinato al fuoco.
Raffaele Bracale
Tratto questa volta due parole che ò preferito accostare, perché – come vedremo – nella parlata napoletana, in una particolare accezione, possono avere significati molto simili.
Vediamo, dunque:
LÈFRECA/ RÈFRECA: Di queste parole, che in realtà ne è una sola sebbene attestata morfologicamente con le due diverse liquide di avvio, ò trovato riscontro, non solo ovviamente nel napoletano, ma anche in alcuni dialetti campani (tra cui quello di Bisaccia nell’alta Irpinia)ed in taluni dialetti calabresi, sebbene in questi ultimi abbia trovato attestato, piú che le parole cosí come indicate, i verbi liefricare, lievricare che di esse son denominali.
Il significato iniziale e per cosí dire, principale di lefreca/ga o refreca/ga è il cavillo, la fisima, la capziosità, la sofisticheria (donde l’espressione partenopea: jí ascianno lefreche per indicare appunto l’azione di chi per non addivenire ad un quid o non soddisfare richieste, cerchi pretesti capziosi, cavilli pretestuosi etc.) e per tranquilla estensione: la minuzia, la sciocchezza, l’inezia, la cosa da nulla, ed è sola in questa accezione estensiva che lefreca mi pare sia accolta nel dialetto bisaccese
Come abbiamo già accennato per taluni dialetti calabresi, anche per la lingua napoletana le parole qui a margine ànno fornito verbi denominali quali lefrecà =cavillare,sofisticare, litigar per nulla ed il frequentativo lefrechïà che significa invece lesinare.
E veniamo alla etimologia; sia per lefreca/ga – refreca/ga che per i verbi derivati occorre risalire ai latini: refragari o refricare che indicarono l’azione di stropicciare, fregare ripetutamente con le mani materiali i piú varî fino ad ottenerne minuzzoli. Va da sé che i verbi latini ( che per incidens ànno dato il toscano fregola che però à tutt’altro significato dei napoletani lefreca/ga – refreca/ga , con le parole che ne son derivate, possono bene indicare oltre che quelle minuzie prodotte dallo stropicciamento, anche la capziosità, il cavillo richiamati appunto dall’azione dello stropicciare continuo di chi vada e rivada, dividendo in quattro un capello, su di un argomento, lo sceveri a fondo, magari con acribía pedantesca.
E veniamo a pampuglia che nel significato primo sta per piallatura,truciolo del legname ed estensivamente (ragione per la quale ò accostato pampuglia alle altre parole in epigrafe): inezia, cosa da nulla, bagatella, frivolezza e persino, come estrema valenza, quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto chiacchiera, bugia, frappa etc.
Prima di passare a dire dell’etimologia di pampuglia, voglio rammentare come esso termine nel precipuo significato di truciolo, piallatura à in lingua napoletana, sempre abbastanza attenta, precisa e circostanziata, degli specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo dunque: -pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, -pampuglia ‘e chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande, ma da una pialla piú stretta e piccola detta in napoletano chianuzzella che è il diminutivo di chianozza che è dal latino: planula attrezzo per render piano, privandolo delle asperità, un asse di legno, - pampuglia ‘e ‘ntraverzatura(deverbale del verbo ‘ntraverzà= attraversare, andando contro il primitivo senso di marcia) che è il truciolo, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati.
E soffermiamoci sull’etimologia di pampuglia, etimologia non tranquillissima; un tempo si congetturò un neutro plurale tardo latino fabulía = favuli, gambi delle fave, che dopo la raccolta venivano estirpati, adeguatamente seccati ed usati per alimentare, tal quali le pampuglie lignee, i forni domestici; la seconda ipotesi, che a mio avviso mi pare un po’ piú percorribile si rifà ad un latino regionale: pampulia forgiata su un pampus forma sincopata di pampinus che è propriamente il pampino: tralcio di vite vestito di foglie, tralcio che se improduttivo viene resecato e destinato al fuoco.
Raffaele Bracale
STUPIDO & annessi
STUPIDO & annessi
Pochi giorni or sono due giovani miei nipoti avevano in corso una loro disputa per non ricordo bene quale banale questioncella; durante il litigio , il piú grande dei due gratificò l’altro d’una serie di contumelie dandogli in rapida successione dello scemo, stupido, cretino, imbecille, deficiente; sentendosi vilipeso il ragazzo mi chiese di intervenire per redarguire l’offensore, ma io non seppi dir di piú che:Porta pazienza e consolati pensando che ti à offeso in lingua italiana; lo avesse fatto in napoletano, avrebbe potuto sotterrarti sotto una ben piú vasta e pesante coltre di contumelie! E per tener dietro con degli esempi presi ad illustrare le voci partenopee che traducono le cennate voci italiane;lo faccio anche adesso qui di sèguito.
Al solito diamo prima un rapidissimo sguardo alle parole italiane, per passare poi a quelle ben più numerose della lingua napoletana;
scemo: chi à o denota poco senno,; sciocco ed insulso etimologicamente deverbale dal latino ex-semare= privar della metà di qualcosa; comp. di ex via da e un deriv. di sìmis metà;
stupido: chi denota stupidità, scarsa intelligenza e più propriamente chi è proclive, anche senza motivo, a stupirsi; etimologicamentedal lat. stupidu(m), deriv. di stupìre 'stupire';
cretino: etimologicamente dal franco-provenz. crétin, propr. cristiano, che, usato dapprima nel significato di povero cristiano, poveraccio, à poi assunto valore spregiativo nel senso di stupido etc.;
imbecille: che, chi à scarsa intelligenza: etimologicamente dal latino imbecille(m): debole fisicamente o mentalmente;
deficiente: che, chi è intellettualmente e psichicamente inferiore alla media; etimologicamente dal latino deficiente(m) part. presente di deficere= mancare.
E veniamo al napoletano ed alle sue numerose voci che rendono queste qui elencate: alleccuto o alluccuto o anche locco: persona stupida, di aspetto poco intelligente; etimologicamente dal latino alucus per ulucus/ulluccus donde anche l’italiano allocco;
anchiòne: propriamente lo sciocco, il babbeo aduso a non discutere, ad accettar per buona ogni cosa, ad ubbidire, il tutto in linea con la sua etimologia che è dal latino anculus(da cui il diminutivo femm. ancilla) = servo;
babbano: che è lo sciocco, il gonzo e – per dirla con Cicerone - l’uomo di nessun numero o conto; questo napoletano babbano à in babbaleo il corrispettivo toscano e come questo, etimologicamente una radice greca in bambaliòn dal verbo bambalein=avere l’aria attonita ed incantata;
babbio ed il suo accrescitivo, dispregiativo babbione: uomo sciocco e di poco cervello; etimologicamente dal latino bàblus sincopato di bàbulus=stolto;
babbuasso: indica lo scioccone, lo stupidone inveterato, quasi dispregiativo ed accrescitivo del menzionato babbano; etimologicamente da collegarsi (tenendo presente appunto che il suffisso asso, corrispondente al toscano accio à valore dispregiativo) ad un latino volgare babbius< babejus che diede anche il toscano: babbeo;
basciòscio donde anche i corrotti pachiochio/pachiochiero indicano tutti lo sciocco, rammollito, rimbambito; non di facile lettura l’etimologia: a bascioscio, ma piú ancora a pachiochio/pachiochiero non dovrebbe essere estraneo lo spagnolo chocho nell’accezione di molle,vuoto, ma non è peregrina l’idea che riporta il nostro basciòscio alla voce baciocco/occolo sorta di strumento sonoro di legno fatto a mo’ di cava scodella, dato ai fanciulli per giocarci, quale tamburello; in fondo il napoletano basciòscio connota lo sciocco vuoto di zucca; battilocchio che denota lo stupido che inceda quasi, con tutte le inevitabili, dure conseguenze negative, ad occhi chiusi, anzi bendati; originariamente il battilocchio etimologicamente dal francese: battant l’oeil fu una cuffia da donna, ampia cuffia le cui falde ricadevano sugli occhi; in seguito con la parola battilocchio si finì per indicare piú che la cuffia, chi la indossasse anche se lasciandosi trasportar dalla desinenza maschile si appioppiò all’uomo e non alla donna (che pure indossava la cennata cuffia) il termine battilocchio; cacchio/cacchione: è lo sciocco, lo stupido che non à speranze di migliorare; costui viene appaiato al membro maschile inteso non come organo veicolo della riproduzione (in tal caso non sarebbe figura né dello sciocco, né dello stupido), ma come semplice e perciò sciocco veicolo dei liquidi scarti renali; etimologicamente come la parola cazzo, di cui cacchio e l’accrescitivo cacchione sono addolcimenti eufemistici, vengono – come altrove ricordai da una voce gergale marinaresca greca akatiòn= albero della nave;
cannapierto: è lo stupido dall’aria melensa, che si guarda intorno con lo sguardo perso e la bocca aperta; il napoletano cannapierto stranamente, ma icasticamente piú che alla bocca fa riferimento all’organo ad essa collegato il canale della gola espressivamente reso con il termine canna, etimologicamente dal greco kànna originariamente kàna voce semita dall’ebraico qaneh;
catàmmaro: è il sempliciotto, il babbeo che necessita quasi di esser accompagnato, portato mano nella mano; infatti etimologicamente la parola è una commistione greco/latino katà + manus = mano nella mano, come alibi: pedecatapede = passo dopo passo (da pedes+ katà+ pedes );
chiafeo: antichissima voce, quasi desueta che indica lo sciocco, il grullo, il melenso etimologicamente da collegarsi al greco kophòs = babbeo, attreverso l’aggettivo kophaîos;
chionzo: voce di ampia diffussione tanto da ritrovarla nel comune lessico nazionale, sebbene in quest’ultimo con attinenza al solo aspetto fisico di una persona che sia bassa, grassa e tarchiata e dunque goffa; con la medesima accezione la voce la si ritrova nel dialetto lucchese dove è: chionso/pionso ed in quello calabrese dove è : chionzu; in napoletano la voce attiene piú che all’aspetto fisico, a quello intellettivo, connotando il rozzo babbeo, dall’aria attonita e distratta; etimologicamente la voce si fa risalire unanimemente ad un longobardo klunz= goffo, rozzo;
chiochiaro/ chiochiero: voce ancora viva nell’icastico linguaggio popolare, voce usata per indicare il melenso, sciocco babbeo di zucca vuota, accompagnata per solito da un gesto offensivo consistente nel far muovere velocemente ed alternativamente l’avambraccio a dritta e mancina, tenendo la mano destra drizzata verso l’alto con le dita unite in modo che il polpastrello del pollice , tocchi contemporaneamente tutti gli altri; etimologicamente piú che allo spagnolo chocho =molle, vuoto, pare che debba riferirsi al latino cochlea = conchiglia, considerata nel momento che sia vuotata del suo frutto;non è però da scartar l’ipotesi che la parola, giacché è usata anche per designare lo zotico villano, possa collegarsi alla voce chiochia che è variante di ciocia (termine dall’etimo sconosciuto, di ambito laziale usato per indicare un particolare tipo di calzatura indossata dai contadini) alla voce chiochia unendo il tipico suffisso di competenza aro/ero si arriva ai nostri chiochiaro/chiochiero;
ferlocco ed il suo metatico frellocco: voce in voga negli anni d’antan ed oggi quasi desueta, voce divertente che si usò per indicare lo sciocco citrullo che, a maggior disdoro fosse anche vanesio e privo di sostanza in linea con l’etimologia della parola che risulta dall’unione di un latino ferla = verga vuota con il precedente locco;
fesso: esattamente lo sciocco balordo, senza una sua consistenza fisica e/o morale, in tutto in linea con il suo etimo dal latino fissus part. pass. del verbo findere =spaccare, dividere; fogliamolla: non ci si lasci ingannare dalla desinenza femminile: la parola è un aggettivo sostantivato invariabile e lo si riferisce, senza alcuna variazione desinenziale, sia all’uomo che alla donna: ‘nu fogliamolla o ‘na fogliamolla nel significato di persona sciocca e neghittosa nonché molle tal quale la tenera foglia da cui deriva ed a cui è rassomigliata ; etimologicamente dai tardo latini: folia + molle(m);
- gliògliaro: antica voce ormai desueta che un tempo fu usata quale corruzione (ma nel medesimo significato, e medesime modalità) del precedente chiòchiaro.
- lasagna e l’accrescitivo lasagnone nonché il composto pappalasagne (mangialasagne): antiche voci (non dimentichiamo che con il soprannome di lasagna il re Ferdinando II Borbone soleva appellare suo figlio Francesco II e non perché costui – come inesattamente riportato da certa frettolosa aneddotica pseudo-storica – fosse goloso dell’omonima pietanza, quanto perché il re riteneva suo figlio – sia pure ingiustamente – inetto e d’intelligenza poco pronta) con le quali si designavano anche con valenza bonaria, il bietolone, gracile e non molto sveglio, dal carattere cedevole ed accondiscendente, la cedevolezza che si ritrova nell’impasto di uova e farina da cui si ricava la sfoglia per trarne lasagne etimologicamente dal greco lagaròs = floscio, molle;
- mammalucco: ad un dipresso lo sciocco impenitente, dall’aria frastornata, tal quale il precedente cannapierto; etimologicamente questo mammalucco è dall’arabo mamluk = schiavo, soldato prigioniero;
- mamozio: illustrai già abbondantemente alibi la voce a margine, intesa come designante persona (adulto e/o ragazzo) inceppata nei movimenti o nell’espressione a mo’ di fantoccio o di pupazzo o anche di figurina mal scolpita o incisa e piú estensivamente individuo torpidamente imbambolato tale da apparire di duro comprendonio, e parlai della sua etimologia che risulta essere, checché ne dicano i proff. Cortelazzo e Marcato nel loro Dizionario dei dialetti italiani, la corruzione del nome Mavorzio da riferirsi ad una enorme, quantunque acefala, statua del IV sec. d. C. raffigurante il nobile puteolano FLAVIO EGNAZIO LOLLIANO QUINTO MESIO MAVORZIO, pretore urbano, proconsole della provincia dell’ Aquila e candidato questore, statua che fu appunto ritrovata a Pozzuoli nel corso (1704) degli scavi per l’erigenda chiesa di san Giuseppe; l’ inesperto scultore chiamato al restauro della statua acefala la corredò di una testa tanto piccola da risultare sproporzionata e per giunta dall’aria melensa; i puteolani impiegarono un nonnulla per trasformare il nome MAVORZIO in mamozio accreditandolo della stupidità suggerita dal volto della piccola (segno di scarso contenuto di cervello) testa indegnamente restaurata;
- mammuoccelo: che è propriamente l’uomo dall’aria melensa ed attonita denotante mancanza di intelletto, stupidità; etimologicamente da collegarsi come corruzione diminutiva al toscano bamboccio e dunque a bambo che in origine indicò l’infante ed in seguito lo sciocco e lo stupido;
- messere: altra voce antica ed ormai desueta, di sapore ironico, voce che nel significato ironico di stupido, sciocco e credulone non si ritrova che in qualche poeta d’antan ( ad es.: E. Murolo che in una sua gustosa canzone di cui ora mi sfugge il titolo, lo usa ironicamente appunto in luogo di becco, affermando che una donna supera, se intende tradirlo, tutte le pastoie approntatele dal proprio uomo, giungendo, metaforicamente, a fumarselo e a farlo messere id est becco in quanto l’uomo è sciocco, stupido e credulone); la voce, ò detto è ironica, pur se etimologicamente starebbe per mio signore, mio sire risultando esser composta dal provenz.: mes=mio +sere/sire=signore;
- moscammocca: l’ignavo, lo scioccone, l’allocco tanto irresoluto ed immoto da starsene perennemente a bocca aperta tanto da permettere addirittura che le mosche vi passeggino dentro entrando ed uscendo ad libitum; va da sé l’etimologia che fotografa l’atteggiamento di questo ignavo aduso a portarsi la mosca in bocca che è l’esatta traduzione di moscammocca (mmocca infatti è: in+bocca );
mucchione: è propriamente non il bambino, ma l’adolescente o anche l’adulto fatto così sciocco, melenso, inetto tanto da non esser capace o non avvertire la necessità di ripulirsi del moccio che gli coli dal naso; etimologicamente da qualcuno si vorrebbe correlare la voce ad un generico latino murcus>murcius =stolto, ma – rammentato quanto appena detto - penso che non è o sarebbe scorretto pensare ad un deverbale del latino muccare che è da muccus= moccio, catarro; tuttavia non è da scartare neppure l’ipotesi che mucchione sia l’accrescitivo, dispregiativo di mucchio(che è da un latino cumulus >muculus>muc’lus>mucchio) nel senso di uomo grosso e grasso e dunque stolto e sciocco tenendo presente il luogo comune partenopeo per il quale: ommo gruosso bubbelis es = l’uomo grosso è sciocco , dove il maccheronico bubbelis è corruzione di bàblus sincopato di bàbulus=stolto;
- ‘ntòntero : propriamente lo stupido, il melenso ed il perennemente frastornato; voce di tutta l’area mediterranea: la si ritrova anche in Sicilia: ‘ntòntaro, in Sardegna: dòndaro oltre che in Portogallo e Spagna dove è solo tonto tal quale l’italiano tonto; per tutte le voci l’etimologia è latina: tonitus = stordito come chi è colpito dal tuono; cfr.il toscano attonito;
- ‘ntruglione : propriamente il bietolone dal viso inespressivo, incapace di discernere; non bisogna dimenticare infatti che la parola ‘ntruglione non è che l’accrescitivo di ‘ntruglio che non è il toscano intruglio= mescolanza di sostanze diverse, ma è, gastronomicamente, l’intestino d’agnello abbondantemente speziato e avvolto strettamente su sé stesso al segno di non poterlo più dipanare, cotto su braci ardenti;
- ‘nzallanuto ed il derivato zallo (caro al commediografo Raffaele Viviani) che significano l’uno il confuso, lo stordito, l’altro lo sciocco, il credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtù;etimologicamente ambedue le voci sono da collegarsi più che al latino in-sanire, al greco selenizomai= esser lunatico e dunque stordito, confuso ed inebetito;
- papurchio: è lo stolto inveterato che, a maggior disdoro, sia anche poco prestante fisicamente; etimologicamente deriva dal latino baburculus, diminutivo di un baburcus= stolto e melenso;
- purpetta: evidente traslato dispregiativo e non perché la polpetta da cui purpetta non sia cibo gustoso e saporito,in ispecie se fritta e non cotta al forno, ma, in quanto preparato con carne trita, si presta al concorso di più residui di tagli di carne anche non pregiati presenti sul banco del macellaio, che intrugliandoli può conferire una preparazione anche di scarto, come di scarto viene a dimostrarsi il soggetto gratificato della voce a margine;
- rapesta: altro paragone dispregiativo di cui vien gratificato l’uomo inetto e dappoco, come dappoco è la rapa (latino: rapistrum)selvatica che lo rappresenta;
- scapucchione: epiteto per solito riferito a ragazzo dalla testa grossa, ma ovviamente vuota, ed estensivamente all’adulto che si ostini a restare ragazzo, non venendo a capo mai di nulla, né quanto a comprensione, né quanto ad azioni; voce violentemente ironica ed offensiva forgiata com’è quale accrescitivo intensivo (vedi la solita prostesi della iniziale esse, ed il suffisso one) della parola capocchia (che è dal latino capuclum< capiclum per capitulum diminutivo di caput) che in lingua napoletana indica però il glande testa notoriamente poco atta al raziocinio;
- scatozza: precisamente: ignorante, babbeo, scioccone; si tratta di una antica voce, ormai però abbondantemente desueta, nata in ambito teatrale dove fu il nome proprio di un ridicolo personaggio goffo, sciocco, stupido ed ignorante; uscito dall’ambito teatrale il termine trasmigrò come aggettivo in quello letterario dei poeti partenopei secenteschi, e da esso entrò nel linguaggio comune;
- sciabbecco: precisamente il bietolone, lo sciocco, lo stupidone aduso a piegarsi ad ogni vento, come che mentalmente vuoto e privo d’ogni opinione e/o cognizione; in origine lo sciabecco (dal turco sumbeki, attraverso un arabo šumbûk) indicò un lungo e stretto naviglio, veloce, ma – per la sua esile consistenza – facilmente preda dei venti e dei marosi;
- sciaddeo/sciardeo : esattamente lo sciocco, l’incapace buono a nulla ; rammenterò qui che sciaddeo/sciardeo son la medesima parola: nella seconda si è verificato il fenomeno del parlato popolare di rotacizzare la prima d, ma la parola è la stessa; per quanto riguarda l’ etimologia di sciaddeo escludo a priori che la si debba riferire al nome dell’apostolo Giuda Taddeo che con sciaddeo à solo una tenua assonanza, non risultando da nessuna sacra scrittura (vangeli – atti degli apostoli – lettere etc.) che il suddetto Giuda Taddeo fosse uno sprovveduto o un incapace, e propendo per il verbo greco skedao= comportarsi da sbandato e/o sprovveduto; ancora ricorderò che dal femm. di sciardeo,cioè da sciardea si trasse il diminutivo sciardella nel significato di donna inetta, di casalinga incapace di fare i donneschi lavori di casa con attenzione e secondo i crismi dovuti; a Napoli è 'na sciardella la casalinga che lavi le stoviglie, facendosele scappare di mano e rompendole, che lavi i pavimenti con poca acqua, che spolveri superficialmente, che riponga gli abiti in modo raffazzonato, così che riprendendoli uno li trovi stazzonati e gualciti al punto di non poterli indossare, una donna insomma inetta ed inaffidabile, una sbadata patentata.
Esiste anche un peggiorativo del termine ed è sciuazza, peraltro addolcimento – attraverso l’epentesi di una efelchistica u – di un’originaria sciazza (che è dal latino ex-apta=inadatta)inteso troppo duro o volgare;
- sciamegna/sciamenchia: e cioè lo sciocco, il grullo, l’allocco; la parola, con un arzigogolo mentale, trasferisce una probabile deficienza corporale ad una ben più grave deficienza mentale: etimologicamente infatti la parola deriva da un (mo)scia + megna o(mo)scia + menchia dove megna/menchia stanno ovviavente per minchia (che è dal latino méncla collaterale di mèntula diminutivo di menta = membro maschile) nella pretesa che un uomo impossibilitato o incapace di avere un’erezione debba esser uno sciocco, uno stupido o un allocco;
- scialabbacchione: di per sé il balbuziente che come incapace di farsi capire, è conseguentemente stupido e sciocco; etimologicamente la parola è un deverbale del latino ex-alapare = balbettare;
- sciosciammocca: come altrove, anche questo sciocco, credulone, facilmente circuibile, nasce come personaggio del teatro popolare partenopeo ed agì in numerose piéces comiche fino a quando il famosissimo commediografo Eduardo Scarpetta (Napoli 1853 -1925, padre naturale dei fratelli De Filippo: Eduardo, Titina e Peppino)non se ne impossessò, facendone una sua creazione, rendendolo protagonista – col nome di Felice o Feliciello Sciosciammocca - di innumerevoli pochade, molte delle quali tratte da originali francesi; dal teatro poi il nome sciosciammocca, diventato aggettivo dilagò nel parlato partenopeo; preciso qui che la parola sciosciammocca sebbene abbia ad un dipresso il medesimo significato della precedente moscammocca, non va confusa con essa in quanto la precedente fa riferimento a qualcuno che per ignavia lascia addirittura che le mosche gli passeggino in bocca, questo sciosciammocca a margine identifica colui che per ignavia ed inettitudine avrebbe bisogno di chi gli soffiasse in bocca per raffredare i bocconi troppo caldi che avesse ingurgitato;
- smocco ed il suo accrescitivo smuccone connotano il medesimo individuo sciocco, melenso, inetto di cui al precedente mucchione al quale vanno riferiti come intensivi, intensività rappresentata dalla solita prostesi della esse;
- stucchione/strucchione: propriamente il perticone, lo spilungone inteso come vuoto di mente o – per l’eccessiva altezza – perennemente con la testa nelle nuvole e quindi svagato e stupido; etimologicamente stucchione/strucchione provengono al napoletano, attraverso uno spagnolo estuche da un antico provenzale estug = canna secca e perciò vuota;
- tòtaro che sta per tòtano: originariamente un mollusco della specie dei calamari; il fatto che sia un mollusco à fatto pensare ad una sorta di mollezza caratteriale dell’uomo gratificato del termine tòtaro (etimologicamente da un greco teythìs attraverso un latino tòtilus con normale cambio delle liquide l>r), quantunque di per sé il tòtano non sia sempre vuoto (come invece lo stupido cui si appaia) ed anzi venga quasi sempre preparato abbonbantemente imbottito (‘o totaro ‘mbuttunato) rammenterò a margine che con la parola tòtaro, nel comune parlato napoletano, con altra valenza, si indica pure il membro maschile eretto, al segno che nella smorfia napoletana al numero 67 è codificato: ‘o tòtaro dint’ â chitarra a significare il coito in atto;
- turzo: per significare lo sciocco, lo stupido completamente inutile, anzi da scartare tal quale il torsolo (per solito poco edibile) di ortaggi o torsolo di altro; in napoletano infatti ‘o turzo non è solo il torsolo di cavolfiore o broccolo, ma si ànno anche: ‘o turzo ‘e bbotta: il residuo di un fuoco d’artificio combusto, e ancòra ‘o turzo ‘e penniello: ciò che resta di un pennello da barba lungamente usato, perciò logoro ed inutile; tutti questi turzi sono inutilizzabili, da buttar via e – per traslato – stupidi, sciocchi etc. etimologicamente turzo è dal latino tursus = stelo, gambo;
- zimeo: siamo giunti alla fine della nostra elencazione e ci imbattiamo in una parola che serve ad indicare il finto tonto colui che in perfetta malafede, fa ‘o francese o se veste ‘a fesso facendo le viste di non capire o di non comprendere per esimersi dal compiere qualcosa cui invece (o per dovere o graziosità) sarebbe tenuto; per cui più che con uno sciocco si à a che fare con un ignobile furbastro; etimologicamente zimeo risulta essere una popolaresca contrazione d’uno zio (zi’) (Bartolo)meo personaggio non meglio identificato, ma ricordato nel comune popolare come un avaro aduso a non addivenire mai a richieste di danaro, trincerandosi dietro la scusa di non aver capito.
Raffaele Bracale - Napoli
Pochi giorni or sono due giovani miei nipoti avevano in corso una loro disputa per non ricordo bene quale banale questioncella; durante il litigio , il piú grande dei due gratificò l’altro d’una serie di contumelie dandogli in rapida successione dello scemo, stupido, cretino, imbecille, deficiente; sentendosi vilipeso il ragazzo mi chiese di intervenire per redarguire l’offensore, ma io non seppi dir di piú che:Porta pazienza e consolati pensando che ti à offeso in lingua italiana; lo avesse fatto in napoletano, avrebbe potuto sotterrarti sotto una ben piú vasta e pesante coltre di contumelie! E per tener dietro con degli esempi presi ad illustrare le voci partenopee che traducono le cennate voci italiane;lo faccio anche adesso qui di sèguito.
Al solito diamo prima un rapidissimo sguardo alle parole italiane, per passare poi a quelle ben più numerose della lingua napoletana;
scemo: chi à o denota poco senno,; sciocco ed insulso etimologicamente deverbale dal latino ex-semare= privar della metà di qualcosa; comp. di ex via da e un deriv. di sìmis metà;
stupido: chi denota stupidità, scarsa intelligenza e più propriamente chi è proclive, anche senza motivo, a stupirsi; etimologicamentedal lat. stupidu(m), deriv. di stupìre 'stupire';
cretino: etimologicamente dal franco-provenz. crétin, propr. cristiano, che, usato dapprima nel significato di povero cristiano, poveraccio, à poi assunto valore spregiativo nel senso di stupido etc.;
imbecille: che, chi à scarsa intelligenza: etimologicamente dal latino imbecille(m): debole fisicamente o mentalmente;
deficiente: che, chi è intellettualmente e psichicamente inferiore alla media; etimologicamente dal latino deficiente(m) part. presente di deficere= mancare.
E veniamo al napoletano ed alle sue numerose voci che rendono queste qui elencate: alleccuto o alluccuto o anche locco: persona stupida, di aspetto poco intelligente; etimologicamente dal latino alucus per ulucus/ulluccus donde anche l’italiano allocco;
anchiòne: propriamente lo sciocco, il babbeo aduso a non discutere, ad accettar per buona ogni cosa, ad ubbidire, il tutto in linea con la sua etimologia che è dal latino anculus(da cui il diminutivo femm. ancilla) = servo;
babbano: che è lo sciocco, il gonzo e – per dirla con Cicerone - l’uomo di nessun numero o conto; questo napoletano babbano à in babbaleo il corrispettivo toscano e come questo, etimologicamente una radice greca in bambaliòn dal verbo bambalein=avere l’aria attonita ed incantata;
babbio ed il suo accrescitivo, dispregiativo babbione: uomo sciocco e di poco cervello; etimologicamente dal latino bàblus sincopato di bàbulus=stolto;
babbuasso: indica lo scioccone, lo stupidone inveterato, quasi dispregiativo ed accrescitivo del menzionato babbano; etimologicamente da collegarsi (tenendo presente appunto che il suffisso asso, corrispondente al toscano accio à valore dispregiativo) ad un latino volgare babbius< babejus che diede anche il toscano: babbeo;
basciòscio donde anche i corrotti pachiochio/pachiochiero indicano tutti lo sciocco, rammollito, rimbambito; non di facile lettura l’etimologia: a bascioscio, ma piú ancora a pachiochio/pachiochiero non dovrebbe essere estraneo lo spagnolo chocho nell’accezione di molle,vuoto, ma non è peregrina l’idea che riporta il nostro basciòscio alla voce baciocco/occolo sorta di strumento sonoro di legno fatto a mo’ di cava scodella, dato ai fanciulli per giocarci, quale tamburello; in fondo il napoletano basciòscio connota lo sciocco vuoto di zucca; battilocchio che denota lo stupido che inceda quasi, con tutte le inevitabili, dure conseguenze negative, ad occhi chiusi, anzi bendati; originariamente il battilocchio etimologicamente dal francese: battant l’oeil fu una cuffia da donna, ampia cuffia le cui falde ricadevano sugli occhi; in seguito con la parola battilocchio si finì per indicare piú che la cuffia, chi la indossasse anche se lasciandosi trasportar dalla desinenza maschile si appioppiò all’uomo e non alla donna (che pure indossava la cennata cuffia) il termine battilocchio; cacchio/cacchione: è lo sciocco, lo stupido che non à speranze di migliorare; costui viene appaiato al membro maschile inteso non come organo veicolo della riproduzione (in tal caso non sarebbe figura né dello sciocco, né dello stupido), ma come semplice e perciò sciocco veicolo dei liquidi scarti renali; etimologicamente come la parola cazzo, di cui cacchio e l’accrescitivo cacchione sono addolcimenti eufemistici, vengono – come altrove ricordai da una voce gergale marinaresca greca akatiòn= albero della nave;
cannapierto: è lo stupido dall’aria melensa, che si guarda intorno con lo sguardo perso e la bocca aperta; il napoletano cannapierto stranamente, ma icasticamente piú che alla bocca fa riferimento all’organo ad essa collegato il canale della gola espressivamente reso con il termine canna, etimologicamente dal greco kànna originariamente kàna voce semita dall’ebraico qaneh;
catàmmaro: è il sempliciotto, il babbeo che necessita quasi di esser accompagnato, portato mano nella mano; infatti etimologicamente la parola è una commistione greco/latino katà + manus = mano nella mano, come alibi: pedecatapede = passo dopo passo (da pedes+ katà+ pedes );
chiafeo: antichissima voce, quasi desueta che indica lo sciocco, il grullo, il melenso etimologicamente da collegarsi al greco kophòs = babbeo, attreverso l’aggettivo kophaîos;
chionzo: voce di ampia diffussione tanto da ritrovarla nel comune lessico nazionale, sebbene in quest’ultimo con attinenza al solo aspetto fisico di una persona che sia bassa, grassa e tarchiata e dunque goffa; con la medesima accezione la voce la si ritrova nel dialetto lucchese dove è: chionso/pionso ed in quello calabrese dove è : chionzu; in napoletano la voce attiene piú che all’aspetto fisico, a quello intellettivo, connotando il rozzo babbeo, dall’aria attonita e distratta; etimologicamente la voce si fa risalire unanimemente ad un longobardo klunz= goffo, rozzo;
chiochiaro/ chiochiero: voce ancora viva nell’icastico linguaggio popolare, voce usata per indicare il melenso, sciocco babbeo di zucca vuota, accompagnata per solito da un gesto offensivo consistente nel far muovere velocemente ed alternativamente l’avambraccio a dritta e mancina, tenendo la mano destra drizzata verso l’alto con le dita unite in modo che il polpastrello del pollice , tocchi contemporaneamente tutti gli altri; etimologicamente piú che allo spagnolo chocho =molle, vuoto, pare che debba riferirsi al latino cochlea = conchiglia, considerata nel momento che sia vuotata del suo frutto;non è però da scartar l’ipotesi che la parola, giacché è usata anche per designare lo zotico villano, possa collegarsi alla voce chiochia che è variante di ciocia (termine dall’etimo sconosciuto, di ambito laziale usato per indicare un particolare tipo di calzatura indossata dai contadini) alla voce chiochia unendo il tipico suffisso di competenza aro/ero si arriva ai nostri chiochiaro/chiochiero;
ferlocco ed il suo metatico frellocco: voce in voga negli anni d’antan ed oggi quasi desueta, voce divertente che si usò per indicare lo sciocco citrullo che, a maggior disdoro fosse anche vanesio e privo di sostanza in linea con l’etimologia della parola che risulta dall’unione di un latino ferla = verga vuota con il precedente locco;
fesso: esattamente lo sciocco balordo, senza una sua consistenza fisica e/o morale, in tutto in linea con il suo etimo dal latino fissus part. pass. del verbo findere =spaccare, dividere; fogliamolla: non ci si lasci ingannare dalla desinenza femminile: la parola è un aggettivo sostantivato invariabile e lo si riferisce, senza alcuna variazione desinenziale, sia all’uomo che alla donna: ‘nu fogliamolla o ‘na fogliamolla nel significato di persona sciocca e neghittosa nonché molle tal quale la tenera foglia da cui deriva ed a cui è rassomigliata ; etimologicamente dai tardo latini: folia + molle(m);
- gliògliaro: antica voce ormai desueta che un tempo fu usata quale corruzione (ma nel medesimo significato, e medesime modalità) del precedente chiòchiaro.
- lasagna e l’accrescitivo lasagnone nonché il composto pappalasagne (mangialasagne): antiche voci (non dimentichiamo che con il soprannome di lasagna il re Ferdinando II Borbone soleva appellare suo figlio Francesco II e non perché costui – come inesattamente riportato da certa frettolosa aneddotica pseudo-storica – fosse goloso dell’omonima pietanza, quanto perché il re riteneva suo figlio – sia pure ingiustamente – inetto e d’intelligenza poco pronta) con le quali si designavano anche con valenza bonaria, il bietolone, gracile e non molto sveglio, dal carattere cedevole ed accondiscendente, la cedevolezza che si ritrova nell’impasto di uova e farina da cui si ricava la sfoglia per trarne lasagne etimologicamente dal greco lagaròs = floscio, molle;
- mammalucco: ad un dipresso lo sciocco impenitente, dall’aria frastornata, tal quale il precedente cannapierto; etimologicamente questo mammalucco è dall’arabo mamluk = schiavo, soldato prigioniero;
- mamozio: illustrai già abbondantemente alibi la voce a margine, intesa come designante persona (adulto e/o ragazzo) inceppata nei movimenti o nell’espressione a mo’ di fantoccio o di pupazzo o anche di figurina mal scolpita o incisa e piú estensivamente individuo torpidamente imbambolato tale da apparire di duro comprendonio, e parlai della sua etimologia che risulta essere, checché ne dicano i proff. Cortelazzo e Marcato nel loro Dizionario dei dialetti italiani, la corruzione del nome Mavorzio da riferirsi ad una enorme, quantunque acefala, statua del IV sec. d. C. raffigurante il nobile puteolano FLAVIO EGNAZIO LOLLIANO QUINTO MESIO MAVORZIO, pretore urbano, proconsole della provincia dell’ Aquila e candidato questore, statua che fu appunto ritrovata a Pozzuoli nel corso (1704) degli scavi per l’erigenda chiesa di san Giuseppe; l’ inesperto scultore chiamato al restauro della statua acefala la corredò di una testa tanto piccola da risultare sproporzionata e per giunta dall’aria melensa; i puteolani impiegarono un nonnulla per trasformare il nome MAVORZIO in mamozio accreditandolo della stupidità suggerita dal volto della piccola (segno di scarso contenuto di cervello) testa indegnamente restaurata;
- mammuoccelo: che è propriamente l’uomo dall’aria melensa ed attonita denotante mancanza di intelletto, stupidità; etimologicamente da collegarsi come corruzione diminutiva al toscano bamboccio e dunque a bambo che in origine indicò l’infante ed in seguito lo sciocco e lo stupido;
- messere: altra voce antica ed ormai desueta, di sapore ironico, voce che nel significato ironico di stupido, sciocco e credulone non si ritrova che in qualche poeta d’antan ( ad es.: E. Murolo che in una sua gustosa canzone di cui ora mi sfugge il titolo, lo usa ironicamente appunto in luogo di becco, affermando che una donna supera, se intende tradirlo, tutte le pastoie approntatele dal proprio uomo, giungendo, metaforicamente, a fumarselo e a farlo messere id est becco in quanto l’uomo è sciocco, stupido e credulone); la voce, ò detto è ironica, pur se etimologicamente starebbe per mio signore, mio sire risultando esser composta dal provenz.: mes=mio +sere/sire=signore;
- moscammocca: l’ignavo, lo scioccone, l’allocco tanto irresoluto ed immoto da starsene perennemente a bocca aperta tanto da permettere addirittura che le mosche vi passeggino dentro entrando ed uscendo ad libitum; va da sé l’etimologia che fotografa l’atteggiamento di questo ignavo aduso a portarsi la mosca in bocca che è l’esatta traduzione di moscammocca (mmocca infatti è: in+bocca );
mucchione: è propriamente non il bambino, ma l’adolescente o anche l’adulto fatto così sciocco, melenso, inetto tanto da non esser capace o non avvertire la necessità di ripulirsi del moccio che gli coli dal naso; etimologicamente da qualcuno si vorrebbe correlare la voce ad un generico latino murcus>murcius =stolto, ma – rammentato quanto appena detto - penso che non è o sarebbe scorretto pensare ad un deverbale del latino muccare che è da muccus= moccio, catarro; tuttavia non è da scartare neppure l’ipotesi che mucchione sia l’accrescitivo, dispregiativo di mucchio(che è da un latino cumulus >muculus>muc’lus>mucchio) nel senso di uomo grosso e grasso e dunque stolto e sciocco tenendo presente il luogo comune partenopeo per il quale: ommo gruosso bubbelis es = l’uomo grosso è sciocco , dove il maccheronico bubbelis è corruzione di bàblus sincopato di bàbulus=stolto;
- ‘ntòntero : propriamente lo stupido, il melenso ed il perennemente frastornato; voce di tutta l’area mediterranea: la si ritrova anche in Sicilia: ‘ntòntaro, in Sardegna: dòndaro oltre che in Portogallo e Spagna dove è solo tonto tal quale l’italiano tonto; per tutte le voci l’etimologia è latina: tonitus = stordito come chi è colpito dal tuono; cfr.il toscano attonito;
- ‘ntruglione : propriamente il bietolone dal viso inespressivo, incapace di discernere; non bisogna dimenticare infatti che la parola ‘ntruglione non è che l’accrescitivo di ‘ntruglio che non è il toscano intruglio= mescolanza di sostanze diverse, ma è, gastronomicamente, l’intestino d’agnello abbondantemente speziato e avvolto strettamente su sé stesso al segno di non poterlo più dipanare, cotto su braci ardenti;
- ‘nzallanuto ed il derivato zallo (caro al commediografo Raffaele Viviani) che significano l’uno il confuso, lo stordito, l’altro lo sciocco, il credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtù;etimologicamente ambedue le voci sono da collegarsi più che al latino in-sanire, al greco selenizomai= esser lunatico e dunque stordito, confuso ed inebetito;
- papurchio: è lo stolto inveterato che, a maggior disdoro, sia anche poco prestante fisicamente; etimologicamente deriva dal latino baburculus, diminutivo di un baburcus= stolto e melenso;
- purpetta: evidente traslato dispregiativo e non perché la polpetta da cui purpetta non sia cibo gustoso e saporito,in ispecie se fritta e non cotta al forno, ma, in quanto preparato con carne trita, si presta al concorso di più residui di tagli di carne anche non pregiati presenti sul banco del macellaio, che intrugliandoli può conferire una preparazione anche di scarto, come di scarto viene a dimostrarsi il soggetto gratificato della voce a margine;
- rapesta: altro paragone dispregiativo di cui vien gratificato l’uomo inetto e dappoco, come dappoco è la rapa (latino: rapistrum)selvatica che lo rappresenta;
- scapucchione: epiteto per solito riferito a ragazzo dalla testa grossa, ma ovviamente vuota, ed estensivamente all’adulto che si ostini a restare ragazzo, non venendo a capo mai di nulla, né quanto a comprensione, né quanto ad azioni; voce violentemente ironica ed offensiva forgiata com’è quale accrescitivo intensivo (vedi la solita prostesi della iniziale esse, ed il suffisso one) della parola capocchia (che è dal latino capuclum< capiclum per capitulum diminutivo di caput) che in lingua napoletana indica però il glande testa notoriamente poco atta al raziocinio;
- scatozza: precisamente: ignorante, babbeo, scioccone; si tratta di una antica voce, ormai però abbondantemente desueta, nata in ambito teatrale dove fu il nome proprio di un ridicolo personaggio goffo, sciocco, stupido ed ignorante; uscito dall’ambito teatrale il termine trasmigrò come aggettivo in quello letterario dei poeti partenopei secenteschi, e da esso entrò nel linguaggio comune;
- sciabbecco: precisamente il bietolone, lo sciocco, lo stupidone aduso a piegarsi ad ogni vento, come che mentalmente vuoto e privo d’ogni opinione e/o cognizione; in origine lo sciabecco (dal turco sumbeki, attraverso un arabo šumbûk) indicò un lungo e stretto naviglio, veloce, ma – per la sua esile consistenza – facilmente preda dei venti e dei marosi;
- sciaddeo/sciardeo : esattamente lo sciocco, l’incapace buono a nulla ; rammenterò qui che sciaddeo/sciardeo son la medesima parola: nella seconda si è verificato il fenomeno del parlato popolare di rotacizzare la prima d, ma la parola è la stessa; per quanto riguarda l’ etimologia di sciaddeo escludo a priori che la si debba riferire al nome dell’apostolo Giuda Taddeo che con sciaddeo à solo una tenua assonanza, non risultando da nessuna sacra scrittura (vangeli – atti degli apostoli – lettere etc.) che il suddetto Giuda Taddeo fosse uno sprovveduto o un incapace, e propendo per il verbo greco skedao= comportarsi da sbandato e/o sprovveduto; ancora ricorderò che dal femm. di sciardeo,cioè da sciardea si trasse il diminutivo sciardella nel significato di donna inetta, di casalinga incapace di fare i donneschi lavori di casa con attenzione e secondo i crismi dovuti; a Napoli è 'na sciardella la casalinga che lavi le stoviglie, facendosele scappare di mano e rompendole, che lavi i pavimenti con poca acqua, che spolveri superficialmente, che riponga gli abiti in modo raffazzonato, così che riprendendoli uno li trovi stazzonati e gualciti al punto di non poterli indossare, una donna insomma inetta ed inaffidabile, una sbadata patentata.
Esiste anche un peggiorativo del termine ed è sciuazza, peraltro addolcimento – attraverso l’epentesi di una efelchistica u – di un’originaria sciazza (che è dal latino ex-apta=inadatta)inteso troppo duro o volgare;
- sciamegna/sciamenchia: e cioè lo sciocco, il grullo, l’allocco; la parola, con un arzigogolo mentale, trasferisce una probabile deficienza corporale ad una ben più grave deficienza mentale: etimologicamente infatti la parola deriva da un (mo)scia + megna o(mo)scia + menchia dove megna/menchia stanno ovviavente per minchia (che è dal latino méncla collaterale di mèntula diminutivo di menta = membro maschile) nella pretesa che un uomo impossibilitato o incapace di avere un’erezione debba esser uno sciocco, uno stupido o un allocco;
- scialabbacchione: di per sé il balbuziente che come incapace di farsi capire, è conseguentemente stupido e sciocco; etimologicamente la parola è un deverbale del latino ex-alapare = balbettare;
- sciosciammocca: come altrove, anche questo sciocco, credulone, facilmente circuibile, nasce come personaggio del teatro popolare partenopeo ed agì in numerose piéces comiche fino a quando il famosissimo commediografo Eduardo Scarpetta (Napoli 1853 -1925, padre naturale dei fratelli De Filippo: Eduardo, Titina e Peppino)non se ne impossessò, facendone una sua creazione, rendendolo protagonista – col nome di Felice o Feliciello Sciosciammocca - di innumerevoli pochade, molte delle quali tratte da originali francesi; dal teatro poi il nome sciosciammocca, diventato aggettivo dilagò nel parlato partenopeo; preciso qui che la parola sciosciammocca sebbene abbia ad un dipresso il medesimo significato della precedente moscammocca, non va confusa con essa in quanto la precedente fa riferimento a qualcuno che per ignavia lascia addirittura che le mosche gli passeggino in bocca, questo sciosciammocca a margine identifica colui che per ignavia ed inettitudine avrebbe bisogno di chi gli soffiasse in bocca per raffredare i bocconi troppo caldi che avesse ingurgitato;
- smocco ed il suo accrescitivo smuccone connotano il medesimo individuo sciocco, melenso, inetto di cui al precedente mucchione al quale vanno riferiti come intensivi, intensività rappresentata dalla solita prostesi della esse;
- stucchione/strucchione: propriamente il perticone, lo spilungone inteso come vuoto di mente o – per l’eccessiva altezza – perennemente con la testa nelle nuvole e quindi svagato e stupido; etimologicamente stucchione/strucchione provengono al napoletano, attraverso uno spagnolo estuche da un antico provenzale estug = canna secca e perciò vuota;
- tòtaro che sta per tòtano: originariamente un mollusco della specie dei calamari; il fatto che sia un mollusco à fatto pensare ad una sorta di mollezza caratteriale dell’uomo gratificato del termine tòtaro (etimologicamente da un greco teythìs attraverso un latino tòtilus con normale cambio delle liquide l>r), quantunque di per sé il tòtano non sia sempre vuoto (come invece lo stupido cui si appaia) ed anzi venga quasi sempre preparato abbonbantemente imbottito (‘o totaro ‘mbuttunato) rammenterò a margine che con la parola tòtaro, nel comune parlato napoletano, con altra valenza, si indica pure il membro maschile eretto, al segno che nella smorfia napoletana al numero 67 è codificato: ‘o tòtaro dint’ â chitarra a significare il coito in atto;
- turzo: per significare lo sciocco, lo stupido completamente inutile, anzi da scartare tal quale il torsolo (per solito poco edibile) di ortaggi o torsolo di altro; in napoletano infatti ‘o turzo non è solo il torsolo di cavolfiore o broccolo, ma si ànno anche: ‘o turzo ‘e bbotta: il residuo di un fuoco d’artificio combusto, e ancòra ‘o turzo ‘e penniello: ciò che resta di un pennello da barba lungamente usato, perciò logoro ed inutile; tutti questi turzi sono inutilizzabili, da buttar via e – per traslato – stupidi, sciocchi etc. etimologicamente turzo è dal latino tursus = stelo, gambo;
- zimeo: siamo giunti alla fine della nostra elencazione e ci imbattiamo in una parola che serve ad indicare il finto tonto colui che in perfetta malafede, fa ‘o francese o se veste ‘a fesso facendo le viste di non capire o di non comprendere per esimersi dal compiere qualcosa cui invece (o per dovere o graziosità) sarebbe tenuto; per cui più che con uno sciocco si à a che fare con un ignobile furbastro; etimologicamente zimeo risulta essere una popolaresca contrazione d’uno zio (zi’) (Bartolo)meo personaggio non meglio identificato, ma ricordato nel comune popolare come un avaro aduso a non addivenire mai a richieste di danaro, trincerandosi dietro la scusa di non aver capito.
Raffaele Bracale - Napoli
ERRORE, CANTONATA, ABBAGLIO, FESSERÍA GRANCHIO; LAPSUS & DINTORNI
ERRORE, CANTONATA, ABBAGLIO, FESSERÍA GRANCHIO; LAPSUS & DINTORNI
L’amico F.P. (al solito, mi limito ad indicare le iniziali non avendo ricevuto autorizzazione a fare per esteso nome e cognome...) si è detto molto soddisfatto di ciò che – su sua richiesta – scrissi sul termine diavolo & dintorni ed allora mi lancia una nuova sfida chiedendomi di dilungarmi sulla voce errore ed affini nonché sulle corrispondenti voci del napoletano.
Fino a che me ne sentirò capace non mi sottrarrò ad una sfida! Cominciamo; in italiano la voce piú comune usata per indicare l'allontanarsi dalla verità, dal giusto o dalla norma convenuta, lo sbaglio, lo sproposito, nonché, in senso morale, un fallo, una colpa, un peccato, la voce piú comune – dicevo – è errore che può avere un nutrito ventaglio di riferimenti; ricorderò ad es.: errore di giudizio, di valutazione; errore di calcolo, di misura; errore di lingua, di grammatica, di stampa; fare, commettere un errore; essere, cadere, incorrere, indurre in errore; correggere gli errori | salvo errore che sta per: a meno che non vi sia qualche sbaglio involontario | per errore, per sbaglio, spec. di distrazione; in senso morale: scontare i propri errori; errori di gioventú ; nelle scienze sperimentali poi, l’errore è la differenza fra il valore vero e quello osservato: errore sistematico, quello che ricorre in tutti i casi osservati in quanto dovuto allo strumento usato, al metodo o ad imperizia; errore accidentale, casuale che è quello che dipende dal caso.
Nel diritto l’errore è la mancata o imprecisa conoscenza di un fatto o di una disposizione di legge: errore di fatto, di diritto | errore giudiziario: in un processo penale, erronea ricostruzione o interpretazione dei fatti che porta alla condanna di un innocente.
L’etimo di errore è dal lat. errore(m), deriv. di errare 'vagare, smarrirsi, sbagliarsi'.
Per la voce errore non esistono moltissimi sinonimi usati con eccezione di quelli indicati in epigrafe; e sono:
- abbaglio s. m. letteralmente (quale deverbale di abbagliare connesso con bagliore) indica
l’abbagliamento (offesa della vista per luce troppo viva) e per traslato figurato l’errore, la svista: prendere un abbaglio; cadere in un abbaglio.
- cantonata s. f. . è un denominale di canto( che è dal lat. tardo canthu(m), derivato dal gr. kanthós 'angolo dell'occhio') indica l’angolo formato all'esterno, da due muri che s'incontrano e dunque indica appunto l’angolo formato dai muri esterni di una casa fra una strada e un'altra (per l’incotro interno di due muri s’usa la voce canto oppure angolo; mettiti in quel canto e sta’ fermo! | nell’espressione prendere una cantonata,quest’ultima figuratamente vale grosso errore, e tutta l’espressione sta per prendere un abbaglio, incorrere in un colpevole sbaglio quale quello (donde trasse l’espressione) di chi facesse urtare una ruota del proprio carro contro l'angolo della via, nel prendere una curva troppo stretta.
- fessería s.f. sciocchezza, quisquilia, errore da poco,scusabile stupidaggine voce marcata (vedi oltre) sia pure con un insulso aggiustamento sul napoletano fessaría.
- granchio s. m. derivato da una lettura metatetica del lat. cancer –cri con sostituzione di comodo della occlusiva velare sonora g al posto della piú aspra e dura occlusiva velare sorda c; è voce che à varie accezioni:
- 1) (zool.) Nome delle circa 4500 specie di crostacei decapodi brachiuri, diffusi in tutto il mondo, per lo piú marini ma anche dulcacquicoli e terrestri, di dimensioni variabili da pochi cm a oltre 3,50 m, con addome corto e ripiegato sotto il carapace e chele robuste: g. comune (Carcinus maenas), diffuso sulle coste italiane; g. di fiume (Potamon fluviatile), delle acque dolci dell'Italia e dei Balcani.
- 2) ( per estens., tecn.)
a) il cuneo bipenne opposto a quello battente del martello da falegname, cuneo bipenne usato per estrarre chiodi. b) Ferro conficcato sul banco del falegname, contro il quale si tiene fermo il legno da piallare.
- 3) ed è l’accezione che ci occupa (fig., fam.) Errore, sbaglio causato da un equivoco: prendere un granchio.
- 4) (ant.) La costellazione del Cancro.
- 5) usato impropriamente (pop.) quale sinonimo di crampo.
- lapsus s. m. invar. errore involontario verbale o di scrittura propr. "inceppamento, caduta", derivato dal lat. labi "scivolare", part. pass. lapsus – Si tratta cioè di un piccolo sbaglio non volontario, verbale o di scrittura, consistente nel sostituire un suono o una parola intera o scrivere una lettera invece di un'altra, nella fusione di due o piú parole in una sola, ecc., al quale, per S. Freud e la psicanalisi, bisogna attribuire un significato inconscio: scusa, è stato un lapsus! Espressioni usate: lapsus calami (lett. errore di penna= errore di scrittura), lapsus linguae letteralmente "errore di lingua= del parlato) che designano appunto il lapsus nello scrivere e nel parlare; infine lapsus freudiano: quello dovuto a motivi inconsci.
Esaurite ad un dipresso le voci dell’italiano, passiamo alle piú numerose voci del napoletano dove abbiamo:
-fessaría s. f. che letteralmente vale errore di poco conto, ed estensivamente sciocchezza, stupidaggine, azione insulsa tipica dello sciocco; la voce a margine deriva forse da fesso con il suff. arius→aro + il suff. astratto tonico ía; epperò non gli dovrebbe essere comunque estranea, come reputo e morfologicamente piú vicina la voce fessa (l’organo sessuale femminile esterno) ( part. pass. del verbo latino findere) dalla fessaría (da fessa+ aría da arius) sciocchezza, stupidata, deriva la toscana fessería di significato analogo).In chiusura faccio notare la solita incomprensibile, stupida mutazione che opera il toscano trasformando una A etimologica (da fessa→ fessaría) per adottare una piú chiusa E (fessaría vien cioè trasformata in fessería) forse nella sciocca convinzione che la vocale chiusa E sia piú consona dell’aperta A alla elegante (?!) lingua di Alighieri Dante…
In ogni caso con la voce fesso (dell’italiano e del napoletano) derivato attraverso il sign. del femm. fessa dell'Italia merid., pop. si indica l’imbecille, lo sciocco quello cioè capace di errori di poco o molto conto, ed ancóra estensivamente sciocchezze, stupidaggini, azioni insulse etc. Rammento talune espressioni popolari in uso sia nella lingua nazionale che nel napoletano: fare fesso, m’hê fatto fesso : riferito a persona, ingannarla: mi vuoi proprio fare fesso? fam., fare il fesso/ fà ‘o fesso, fare lo spiritoso, o anche il temerario. Dim. fessacchiotto, scherz si indica lo sciocco,il balordo , voce in ogni caso da far risalire al lat. fissu(m), part. pass. di findere 'fendere').
-marrone s. m. . che letteralmente vale grosso errore, sbaglio di gran conto, ed estensivamente addirittura sproposito; la voce a margine è presente pure nell’italiano con un ampio ventaglio di significati che sono:
1)Bestia che guida il branco,
2) (equit.) Cavallo anziano che deve servire di esempio al puledro da ammansire,
3) (ant.) Guida alpina.,
4)(bot.) Nome di una varietà pregiata del frutto di castagno (Castanea sativa), generalm. piú grande della castagna comune,
5) volgarmente testicolo,
6) Il colore tipico, bruno rossiccio, del guscio delle castagne 7) come per il napoletano (e forse da esso mutuato), ma d’uso rarissimo e solo letterario errore grave, sproposito.
Non di facilissima comprensione le strade semantiche seguíte nell’italiano per approdare a tanti significati diversi, né semplicissimo indicare un eventuale etimo della voce italiana (esercizio forse inutile atteso che a mio avviso il marrone dell’italiano è mutuato (vedi oltre) sul napoletano); ad ogni buon conto dirò che per il marrone dell’italiano qualcuno propose il tardo greco *màraon, altri vi vedono una voce indigena usata pure come nome proprio Virgilio Marone altri ancóra vi leggono una radice celtica mar= grande, grosso che forse ben si può attagliare al cavallo piú vecchio e/o grande che guida il branco o a quello piú capace usato a mo’ d’esempio nell’addestramento dei puledri, alla castagna piú grande .
Quanto al marrone napoletano, atteso che la reputo una voce affatto originaria e non mutuata dall’italiano,anzi voce che al contrario, l’italiano à preso in prestito dal napoletano, penso che etimologicamente sia da collegarsi all’ant. francese marrir= confondersi, smarrirsi o piú ancóra allo spagnolo marrar= errare, attraverso il sost. marro= errore addizionato del suff. accrescitivo one.
-nguacchio/’nquacchio s.m. La parola a margine ,(si tratta infatti di un solo termine, reso con due diverse grafie), nel suo significato primo di bruttura, lordura, sudiciume e poi in quello estensivo di piccolo involontario errore risulta essere – quanto al suo etimo – un deverbale di ‘nguacchià/’nquacchià voci tutte di origini onomatopeiche; i verbi ànno il loro significato primo di: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare;proprio in tali accezioni la parola in epigrafe fu usata per indicare quegli inopinati sgorbi e/o macchie d’inchiostro che – complici la distrazione, l’inchiostro ed il pennino della penna comune – lordarono quaderni e libri al tempo (1950) delle scuole elementari; quando poi (1955) con l’avvento della penna biro che mandò in soffitta inchiostro, calamaio, pennini e penne comuni, divenne desueta anche la parola ‘nguacchio/’nquacchio ed essa venne sostituita da spirinquacchio usata per indicare non lo sgorbio o la macchia casuale, quindi l’involontario errore, quanto quel ghirigoro voluto e cercato prodotto per saggiare se l’inchiostro contenuto nella cannuccia di plastica della penna biro fosse ancora sufficiente o sufficientemente fluido per permettere di scrivere; poiché per saggiare la scorrevolezza e fluidità del detto inchiestro, si muoveva in maniera piú o meno circolare la penna tenuta rigidamente perpendicolare al piano di scrittura, la traccia che se ne ricavava era di forma spirale, di talché il disegno ottenuto era pur sempre ‘nu ‘nguacchio, ma in quanto di forma spiraleggiante, finí per esser definito spirinquacchio/spiringuacchio; la parola napoletana ‘nguacchio o ‘nquacchio oltre ai cennati significati, à poi un suo significato estensivo che è quello di: situazione intrigata, pasticcio di difficile soluzione ed ancóra infine deflorazione con conseguente fecondazione di una giovane che consenzientemente, da nubile, si sia fatta possedere da un innamorato; nelle cennate due accezioni di pasticcio di difficile soluzione, situazione intrigata la parola è trasmigrata pure se in non tutti, in molti dei piú corredati vocabolarî della lingua italiana dove è diventata: inguacchio; ugualmente un significato estensivo ànno i verbi nguacchià/’nquacchià che in lingua napoletana vengono usati per indicare oltre che i cennati: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, anche l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro, fatti che sostanziano in ogni caso un errore (ovunque e sempre occorrono misura e moderazione, secondo il détto: l’esagerazione è difetto!); molta meraviglia à destato in me il fatto che mentre abbia incontrato in molti dizionarî della lingua italiana il termine inguacchio, in nessuno vi ò ritrovato il verbo da cui dovrebbe essere scaturito: inguacchiare… Misteri della lingua italiana e di taluni soloni linguisti che la fanno, i quali considerano (cfr. Treccani – Garzanti etc.)il verbo inguacchiare napoletano, ma fanno italiana la voce inguacchio derivata di inguacchiare!Proseguiamo e troviamo
-pistacchiata s.f. letteralmente la pistacchiata è una sorta di untuosa cremina ad uso di pasticceria ricavata dalla pestatura di pistacchi sgusciati e tostati, ma - prendendo a prestito l’immagine di questa crema - si indicarono i contenuti errori presenti sui quaderni dei bambini della scuola primaria, errori spesso accompagnati da una qualche macchia d’inchiostro (cfr. la voce precedente); per traslato ed ampliamento semantico la voce a margine vale sbaglio, strafalcione ed anche sproposito, svarione; quanto all’etimo la voce pistacchiata è da collegarsi alla voce pistacchio dal lat. pistaciu(m), che è dal gr. pistákion. A margine di questa voce rammenterò che essa voce nel parlar becero, quando non addirittura triviale, di talune zone della città bassa, sulla bocca del popolino, sia pure nei medesimi significati, veniva e talora ancóra viene corrotta in picchiaccata o pucchiaccata voci derivate dritto per dritto da pucchiacca/ purchiacca che (con etimo dal greco pýr+k(o)leacca←*cljacca) sta per fodero di fuoco ed è uno dei modi piú volgari, ma icastici usati per indicare l’organo sessuale esterno della riproduzione femminile.E non faccia meraviglia l’accostamento divertente tra le voci pucchiacca/ purchiacca→picchiaccata o pucchiaccata ed un tipo di errore; in fondo è il medesimo accostamento che corre tra un piccolo errore e la parola fessaria che è da fessa.
-rancefellone s m. eccoci ad un’altra voce che solo per traslato è usata per indicare un grande sbaglio, un colpevole strafalcione ed anche un’ azione o parola inopportuna, fatta o detta a sproposito, uno svarione volontario ; letteralmente infatti con la voce a margine si indica un tipo di granchio, détto granciporro e semanticamente la connessione tra il colpevole sbaglio e questo granchio grosso, è da cercarsi nel fatto che questo granchio-traditore (vedi oltre) se toccato,può diventare pericoloso e procurare lesioni dolorose alla medesima stregua d’un colpevole sbaglio che può lasciare il segno! Quanto all’etimo rancefellone risulta essere l’agglutinazione della voce rance (da una lettura metatetica del lat. cànceru(m)→*(c)rance(um) + la voce fellone= traditore con molta probabilità da un antico franco félon ma forse piú probabilmente dall’antico sassone félen odonde un lat. med. fello/fellonis→fellone(m) (Du Cange).
-rapata s.f. voce che vale corbelleria, insulsaggine, banalità sciocchezza e come tale usata per indicare gli i piccoli, perdonabili errori comportamentamentali degli adolescenti e dei ragazzi; la voce a margine è un derivato di rapa voce che è dal lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi inteso f. sing. e che indica, nel linguaggio figurato una persona non ancóra matura, di scarsa intelligenza, tale da mettere in essere corbellerie, insulsaggini, banalità e sciocchezze.
-sbalanzone s.m. un’altra voce che solo per traslato è usata per indicare un eccezionale sbaglio, un colpevole grande strafalcione un grave sproposito, un importate svarione volontario tutti errori capaci di procurar danno ; letteralmente con la voce a margine si indica uno spintone un urtone operato in danno di persona anziana che da detta spinta e/o urto può subire conseguenze dannose.
Son proprie queste conseguenze dannose il trait d’union logico e semantico tra lo sbalanzone-urto e lo sbalanzone-sproposito. Etimologicamente la voce a margine è un derivato dalla voce valanza (dal lat. bislanx=dal doppio piatto) addizionata della tipica s qui distrattiva e del suff. accrescitivo one; ò parlato di s distrattiva che qui vale quasi ex in quanto in origine con la voce sbalanzone si indicò quel tipico colpo assestato ad uno dei piatti della bilancia per scuoter via un po’ delle granaglie eccedenti il peso voluto.
-sbarione s. m. cretinata, errore stupido dovuto a vaneggiamento, innocente grulleria da attribuirsi ad improvviso delirare, incolpevole idiozia dovuta forse ad uno stato febbrile; la voce a margine risulta un deverbale di sbarià verbo intran.vo che vale: vaneggiare, farneticare, delirare (cfr. sbarià cu ‘a capa!= applicarsi ad altro, eludere pensieri serî etc.) sbarià con la consueta alternanza b/v è dal lat. *s +variare, deriv. di varius 'vario'.
-scunnietto s. m. che indica una grossa idiozia,un involontario sbaglio, una minchioneria volgarmente détta anche cazzata dovuti però ad improvvisi e transeunti stati di non raziocinio,di dissociazione mentale e pertanto scusabili, se non perdonabili; la voce a margine è etimologicamente un deverbale di scunnettïà esatto opposto di cunnettïà = unire, associare, legare, correlare con la protesi di una s, qui distrattiva, che ne inverte il significato e pertanto scunnettïà vale disunire, dissociare, slegare, non cogliere le correlazioni tra cose e/o tra cause ed effetti. A margine rammenterò che per traslato e/o ampliamento semantico la voce a margine in talune occasioni sta per oscenità, parola oscena. Ad un dipresso ciò che accade per la voce seguente che in primis valse parolaccia, bestemmia e poi per traslato ebbe altri significati.
-scuntrufo/scuntrufolo s.m. in doppia morfologia leggermente variata: nella seconda è leggibile il suffisso diminutivo olus→olo ma sostanzialmente la parola è la medesima ed in primis (cosí come attestato nel D’Ambra e nell’Andreoli valse parolaccia, bestemmia e poi per traslato errore irrispettoso, caso, combinazione erronei, scontro forse con riferimento all’etimologia che è da cercare in un deverbale di scuntrà= urtare, mettersi all’opposto di, cozzare violentemente contro qualcosa, verbo che è derivato da ‘ncuntrà con cambio di prefisso; al verbo scuntrà per ottenere le voci a marigine sono stati aggiunti rispettivamente i suffissi ufo o il suff. dim. ufolo suffissi sui quali – prima o poi cercherò d’essere piú preciso; per ora mi sono arreso non avendone trovato riscontro nel Rohlfs (libro sacro dei suffissi!),
-straverio/streverio s. m. antica voce attestata passim in ambedue le morfologie nel significato primo di cosa eccedente la realtà, sproposito e quindi grosso errore, marchiana fanfaluca, madornale ciancia, spropositata frottola, grossolana sciocchezza, assurdità colossale; l’etimo, checché ne abbia détto il fu D’Ascoli che fantasiosamente ipotizzò un deverbale di stravedé/straveré (ma fu lui ad ipotizzare la faccenda? In effetti non penso che fosse farina del suo sacco,bensí il parto di uno dei tanti negri che lo aiutavano a stendere i suoi numerosi libri ai quali – complice la senescenza – egli non potette dare tutta la cura e l’attenzione di cui abbisognavano... lasciando correre molte inesattezze e/o fantasie!) l’etimo – dicevo – a mio avviso è dal lat. extra-verum→straveru(m)→straverio;
-trummunata s.f. che letteralmente sta per trombonata, spacconata, smargiassata. e per traslato ed ampliamento semantico vale sesquipedale sproposito, immane sciocchezza, enorme cretinata, fesseria spropositata stupidaggine madornale il tutto in linea con la parole da cui deriva che non è il trombone strumento a fiato di ottone, simile alla tromba ma di maggiori dimensioni e tonalità piú bassa, normalmente dotato di pistoni o di coulisse, strumento che quantunque piú grosso della tromba, non raggiunge misure tali da esser presa a modello per tutti i significati surriportati; la voce da cui deriva trummunata è trummone che in napoletano indica sí il trombone strumento a fiato, ma indica altresí una grossa botticella cilindrica incerneriata su i due lati opposti della circonferenza centrale, per poter comodamente ondeggiare basculando; in tale contenitore,(agganciato sul ripiano laterale delle cosiddette banche ‘e ll’acqua= banchetti di mescita di acqua ed altre bevande) veniva conservata la caretteristica acqua zuffregna/zurfegna= acqua sulfurea;
la voce zuffregna/zurfegna trae da un acc.vo lat. aqua(m)sulphurínea(m)→suphrínja→surphínja→ surfegna→zurfegna o con raddoppiamento espressivo della fricativa labiodentale sorda e metatesi della liquida zuffregna;
per trummone da cui trummunata, occorre pensare forse ad un lemma onomatopeico con riferimento ad un’iniziale tromma + un suff. accrescitivo, benché la voce a margine non abbia nulla a che spartire – come ò detto - con gli strumenti musicali a fiato tromba e trombone quantunque (per la sua forma panciutamente cilindrica) ‘o trummone ‘e ll’acqua è simile al grosso bombardino strumento a fiato di ottone, usato nelle bande; flicorno baritono, impropriamente détto trombone→trummone.
-zzarro svarione, errore non segnatamente volontario dovuto ad un improvviso, quanto imprevisto impedimento (cfr. l’espressione piglià 'nu -zzarro che vale errare, prendere un abbaglio,incorrere in un impedimento, inciampare in un qualcosa come ad es. un sasso sporgente; per l’etimo la voce zzarro deriva dall'arabo zahr (dado- sasso sporgente).
E qui penso di poter far punto avendo – a mio avviso – esaurito l’argomento, nella speranza d’avere accontentato, o - quanto meno - interessato l’amico F.P. e chi altro dovesse leggermi.
Raffaele Bracale
L’amico F.P. (al solito, mi limito ad indicare le iniziali non avendo ricevuto autorizzazione a fare per esteso nome e cognome...) si è detto molto soddisfatto di ciò che – su sua richiesta – scrissi sul termine diavolo & dintorni ed allora mi lancia una nuova sfida chiedendomi di dilungarmi sulla voce errore ed affini nonché sulle corrispondenti voci del napoletano.
Fino a che me ne sentirò capace non mi sottrarrò ad una sfida! Cominciamo; in italiano la voce piú comune usata per indicare l'allontanarsi dalla verità, dal giusto o dalla norma convenuta, lo sbaglio, lo sproposito, nonché, in senso morale, un fallo, una colpa, un peccato, la voce piú comune – dicevo – è errore che può avere un nutrito ventaglio di riferimenti; ricorderò ad es.: errore di giudizio, di valutazione; errore di calcolo, di misura; errore di lingua, di grammatica, di stampa; fare, commettere un errore; essere, cadere, incorrere, indurre in errore; correggere gli errori | salvo errore che sta per: a meno che non vi sia qualche sbaglio involontario | per errore, per sbaglio, spec. di distrazione; in senso morale: scontare i propri errori; errori di gioventú ; nelle scienze sperimentali poi, l’errore è la differenza fra il valore vero e quello osservato: errore sistematico, quello che ricorre in tutti i casi osservati in quanto dovuto allo strumento usato, al metodo o ad imperizia; errore accidentale, casuale che è quello che dipende dal caso.
Nel diritto l’errore è la mancata o imprecisa conoscenza di un fatto o di una disposizione di legge: errore di fatto, di diritto | errore giudiziario: in un processo penale, erronea ricostruzione o interpretazione dei fatti che porta alla condanna di un innocente.
L’etimo di errore è dal lat. errore(m), deriv. di errare 'vagare, smarrirsi, sbagliarsi'.
Per la voce errore non esistono moltissimi sinonimi usati con eccezione di quelli indicati in epigrafe; e sono:
- abbaglio s. m. letteralmente (quale deverbale di abbagliare connesso con bagliore) indica
l’abbagliamento (offesa della vista per luce troppo viva) e per traslato figurato l’errore, la svista: prendere un abbaglio; cadere in un abbaglio.
- cantonata s. f. . è un denominale di canto( che è dal lat. tardo canthu(m), derivato dal gr. kanthós 'angolo dell'occhio') indica l’angolo formato all'esterno, da due muri che s'incontrano e dunque indica appunto l’angolo formato dai muri esterni di una casa fra una strada e un'altra (per l’incotro interno di due muri s’usa la voce canto oppure angolo; mettiti in quel canto e sta’ fermo! | nell’espressione prendere una cantonata,quest’ultima figuratamente vale grosso errore, e tutta l’espressione sta per prendere un abbaglio, incorrere in un colpevole sbaglio quale quello (donde trasse l’espressione) di chi facesse urtare una ruota del proprio carro contro l'angolo della via, nel prendere una curva troppo stretta.
- fessería s.f. sciocchezza, quisquilia, errore da poco,scusabile stupidaggine voce marcata (vedi oltre) sia pure con un insulso aggiustamento sul napoletano fessaría.
- granchio s. m. derivato da una lettura metatetica del lat. cancer –cri con sostituzione di comodo della occlusiva velare sonora g al posto della piú aspra e dura occlusiva velare sorda c; è voce che à varie accezioni:
- 1) (zool.) Nome delle circa 4500 specie di crostacei decapodi brachiuri, diffusi in tutto il mondo, per lo piú marini ma anche dulcacquicoli e terrestri, di dimensioni variabili da pochi cm a oltre 3,50 m, con addome corto e ripiegato sotto il carapace e chele robuste: g. comune (Carcinus maenas), diffuso sulle coste italiane; g. di fiume (Potamon fluviatile), delle acque dolci dell'Italia e dei Balcani.
- 2) ( per estens., tecn.)
a) il cuneo bipenne opposto a quello battente del martello da falegname, cuneo bipenne usato per estrarre chiodi. b) Ferro conficcato sul banco del falegname, contro il quale si tiene fermo il legno da piallare.
- 3) ed è l’accezione che ci occupa (fig., fam.) Errore, sbaglio causato da un equivoco: prendere un granchio.
- 4) (ant.) La costellazione del Cancro.
- 5) usato impropriamente (pop.) quale sinonimo di crampo.
- lapsus s. m. invar. errore involontario verbale o di scrittura propr. "inceppamento, caduta", derivato dal lat. labi "scivolare", part. pass. lapsus – Si tratta cioè di un piccolo sbaglio non volontario, verbale o di scrittura, consistente nel sostituire un suono o una parola intera o scrivere una lettera invece di un'altra, nella fusione di due o piú parole in una sola, ecc., al quale, per S. Freud e la psicanalisi, bisogna attribuire un significato inconscio: scusa, è stato un lapsus! Espressioni usate: lapsus calami (lett. errore di penna= errore di scrittura), lapsus linguae letteralmente "errore di lingua= del parlato) che designano appunto il lapsus nello scrivere e nel parlare; infine lapsus freudiano: quello dovuto a motivi inconsci.
Esaurite ad un dipresso le voci dell’italiano, passiamo alle piú numerose voci del napoletano dove abbiamo:
-fessaría s. f. che letteralmente vale errore di poco conto, ed estensivamente sciocchezza, stupidaggine, azione insulsa tipica dello sciocco; la voce a margine deriva forse da fesso con il suff. arius→aro + il suff. astratto tonico ía; epperò non gli dovrebbe essere comunque estranea, come reputo e morfologicamente piú vicina la voce fessa (l’organo sessuale femminile esterno) ( part. pass. del verbo latino findere) dalla fessaría (da fessa+ aría da arius) sciocchezza, stupidata, deriva la toscana fessería di significato analogo).In chiusura faccio notare la solita incomprensibile, stupida mutazione che opera il toscano trasformando una A etimologica (da fessa→ fessaría) per adottare una piú chiusa E (fessaría vien cioè trasformata in fessería) forse nella sciocca convinzione che la vocale chiusa E sia piú consona dell’aperta A alla elegante (?!) lingua di Alighieri Dante…
In ogni caso con la voce fesso (dell’italiano e del napoletano) derivato attraverso il sign. del femm. fessa dell'Italia merid., pop. si indica l’imbecille, lo sciocco quello cioè capace di errori di poco o molto conto, ed ancóra estensivamente sciocchezze, stupidaggini, azioni insulse etc. Rammento talune espressioni popolari in uso sia nella lingua nazionale che nel napoletano: fare fesso, m’hê fatto fesso : riferito a persona, ingannarla: mi vuoi proprio fare fesso? fam., fare il fesso/ fà ‘o fesso, fare lo spiritoso, o anche il temerario. Dim. fessacchiotto, scherz si indica lo sciocco,il balordo , voce in ogni caso da far risalire al lat. fissu(m), part. pass. di findere 'fendere').
-marrone s. m. . che letteralmente vale grosso errore, sbaglio di gran conto, ed estensivamente addirittura sproposito; la voce a margine è presente pure nell’italiano con un ampio ventaglio di significati che sono:
1)Bestia che guida il branco,
2) (equit.) Cavallo anziano che deve servire di esempio al puledro da ammansire,
3) (ant.) Guida alpina.,
4)(bot.) Nome di una varietà pregiata del frutto di castagno (Castanea sativa), generalm. piú grande della castagna comune,
5) volgarmente testicolo,
6) Il colore tipico, bruno rossiccio, del guscio delle castagne 7) come per il napoletano (e forse da esso mutuato), ma d’uso rarissimo e solo letterario errore grave, sproposito.
Non di facilissima comprensione le strade semantiche seguíte nell’italiano per approdare a tanti significati diversi, né semplicissimo indicare un eventuale etimo della voce italiana (esercizio forse inutile atteso che a mio avviso il marrone dell’italiano è mutuato (vedi oltre) sul napoletano); ad ogni buon conto dirò che per il marrone dell’italiano qualcuno propose il tardo greco *màraon, altri vi vedono una voce indigena usata pure come nome proprio Virgilio Marone altri ancóra vi leggono una radice celtica mar= grande, grosso che forse ben si può attagliare al cavallo piú vecchio e/o grande che guida il branco o a quello piú capace usato a mo’ d’esempio nell’addestramento dei puledri, alla castagna piú grande .
Quanto al marrone napoletano, atteso che la reputo una voce affatto originaria e non mutuata dall’italiano,anzi voce che al contrario, l’italiano à preso in prestito dal napoletano, penso che etimologicamente sia da collegarsi all’ant. francese marrir= confondersi, smarrirsi o piú ancóra allo spagnolo marrar= errare, attraverso il sost. marro= errore addizionato del suff. accrescitivo one.
-nguacchio/’nquacchio s.m. La parola a margine ,(si tratta infatti di un solo termine, reso con due diverse grafie), nel suo significato primo di bruttura, lordura, sudiciume e poi in quello estensivo di piccolo involontario errore risulta essere – quanto al suo etimo – un deverbale di ‘nguacchià/’nquacchià voci tutte di origini onomatopeiche; i verbi ànno il loro significato primo di: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare;proprio in tali accezioni la parola in epigrafe fu usata per indicare quegli inopinati sgorbi e/o macchie d’inchiostro che – complici la distrazione, l’inchiostro ed il pennino della penna comune – lordarono quaderni e libri al tempo (1950) delle scuole elementari; quando poi (1955) con l’avvento della penna biro che mandò in soffitta inchiostro, calamaio, pennini e penne comuni, divenne desueta anche la parola ‘nguacchio/’nquacchio ed essa venne sostituita da spirinquacchio usata per indicare non lo sgorbio o la macchia casuale, quindi l’involontario errore, quanto quel ghirigoro voluto e cercato prodotto per saggiare se l’inchiostro contenuto nella cannuccia di plastica della penna biro fosse ancora sufficiente o sufficientemente fluido per permettere di scrivere; poiché per saggiare la scorrevolezza e fluidità del detto inchiestro, si muoveva in maniera piú o meno circolare la penna tenuta rigidamente perpendicolare al piano di scrittura, la traccia che se ne ricavava era di forma spirale, di talché il disegno ottenuto era pur sempre ‘nu ‘nguacchio, ma in quanto di forma spiraleggiante, finí per esser definito spirinquacchio/spiringuacchio; la parola napoletana ‘nguacchio o ‘nquacchio oltre ai cennati significati, à poi un suo significato estensivo che è quello di: situazione intrigata, pasticcio di difficile soluzione ed ancóra infine deflorazione con conseguente fecondazione di una giovane che consenzientemente, da nubile, si sia fatta possedere da un innamorato; nelle cennate due accezioni di pasticcio di difficile soluzione, situazione intrigata la parola è trasmigrata pure se in non tutti, in molti dei piú corredati vocabolarî della lingua italiana dove è diventata: inguacchio; ugualmente un significato estensivo ànno i verbi nguacchià/’nquacchià che in lingua napoletana vengono usati per indicare oltre che i cennati: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, anche l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro, fatti che sostanziano in ogni caso un errore (ovunque e sempre occorrono misura e moderazione, secondo il détto: l’esagerazione è difetto!); molta meraviglia à destato in me il fatto che mentre abbia incontrato in molti dizionarî della lingua italiana il termine inguacchio, in nessuno vi ò ritrovato il verbo da cui dovrebbe essere scaturito: inguacchiare… Misteri della lingua italiana e di taluni soloni linguisti che la fanno, i quali considerano (cfr. Treccani – Garzanti etc.)il verbo inguacchiare napoletano, ma fanno italiana la voce inguacchio derivata di inguacchiare!Proseguiamo e troviamo
-pistacchiata s.f. letteralmente la pistacchiata è una sorta di untuosa cremina ad uso di pasticceria ricavata dalla pestatura di pistacchi sgusciati e tostati, ma - prendendo a prestito l’immagine di questa crema - si indicarono i contenuti errori presenti sui quaderni dei bambini della scuola primaria, errori spesso accompagnati da una qualche macchia d’inchiostro (cfr. la voce precedente); per traslato ed ampliamento semantico la voce a margine vale sbaglio, strafalcione ed anche sproposito, svarione; quanto all’etimo la voce pistacchiata è da collegarsi alla voce pistacchio dal lat. pistaciu(m), che è dal gr. pistákion. A margine di questa voce rammenterò che essa voce nel parlar becero, quando non addirittura triviale, di talune zone della città bassa, sulla bocca del popolino, sia pure nei medesimi significati, veniva e talora ancóra viene corrotta in picchiaccata o pucchiaccata voci derivate dritto per dritto da pucchiacca/ purchiacca che (con etimo dal greco pýr+k(o)leacca←*cljacca) sta per fodero di fuoco ed è uno dei modi piú volgari, ma icastici usati per indicare l’organo sessuale esterno della riproduzione femminile.E non faccia meraviglia l’accostamento divertente tra le voci pucchiacca/ purchiacca→picchiaccata o pucchiaccata ed un tipo di errore; in fondo è il medesimo accostamento che corre tra un piccolo errore e la parola fessaria che è da fessa.
-rancefellone s m. eccoci ad un’altra voce che solo per traslato è usata per indicare un grande sbaglio, un colpevole strafalcione ed anche un’ azione o parola inopportuna, fatta o detta a sproposito, uno svarione volontario ; letteralmente infatti con la voce a margine si indica un tipo di granchio, détto granciporro e semanticamente la connessione tra il colpevole sbaglio e questo granchio grosso, è da cercarsi nel fatto che questo granchio-traditore (vedi oltre) se toccato,può diventare pericoloso e procurare lesioni dolorose alla medesima stregua d’un colpevole sbaglio che può lasciare il segno! Quanto all’etimo rancefellone risulta essere l’agglutinazione della voce rance (da una lettura metatetica del lat. cànceru(m)→*(c)rance(um) + la voce fellone= traditore con molta probabilità da un antico franco félon ma forse piú probabilmente dall’antico sassone félen odonde un lat. med. fello/fellonis→fellone(m) (Du Cange).
-rapata s.f. voce che vale corbelleria, insulsaggine, banalità sciocchezza e come tale usata per indicare gli i piccoli, perdonabili errori comportamentamentali degli adolescenti e dei ragazzi; la voce a margine è un derivato di rapa voce che è dal lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi inteso f. sing. e che indica, nel linguaggio figurato una persona non ancóra matura, di scarsa intelligenza, tale da mettere in essere corbellerie, insulsaggini, banalità e sciocchezze.
-sbalanzone s.m. un’altra voce che solo per traslato è usata per indicare un eccezionale sbaglio, un colpevole grande strafalcione un grave sproposito, un importate svarione volontario tutti errori capaci di procurar danno ; letteralmente con la voce a margine si indica uno spintone un urtone operato in danno di persona anziana che da detta spinta e/o urto può subire conseguenze dannose.
Son proprie queste conseguenze dannose il trait d’union logico e semantico tra lo sbalanzone-urto e lo sbalanzone-sproposito. Etimologicamente la voce a margine è un derivato dalla voce valanza (dal lat. bislanx=dal doppio piatto) addizionata della tipica s qui distrattiva e del suff. accrescitivo one; ò parlato di s distrattiva che qui vale quasi ex in quanto in origine con la voce sbalanzone si indicò quel tipico colpo assestato ad uno dei piatti della bilancia per scuoter via un po’ delle granaglie eccedenti il peso voluto.
-sbarione s. m. cretinata, errore stupido dovuto a vaneggiamento, innocente grulleria da attribuirsi ad improvviso delirare, incolpevole idiozia dovuta forse ad uno stato febbrile; la voce a margine risulta un deverbale di sbarià verbo intran.vo che vale: vaneggiare, farneticare, delirare (cfr. sbarià cu ‘a capa!= applicarsi ad altro, eludere pensieri serî etc.) sbarià con la consueta alternanza b/v è dal lat. *s +variare, deriv. di varius 'vario'.
-scunnietto s. m. che indica una grossa idiozia,un involontario sbaglio, una minchioneria volgarmente détta anche cazzata dovuti però ad improvvisi e transeunti stati di non raziocinio,di dissociazione mentale e pertanto scusabili, se non perdonabili; la voce a margine è etimologicamente un deverbale di scunnettïà esatto opposto di cunnettïà = unire, associare, legare, correlare con la protesi di una s, qui distrattiva, che ne inverte il significato e pertanto scunnettïà vale disunire, dissociare, slegare, non cogliere le correlazioni tra cose e/o tra cause ed effetti. A margine rammenterò che per traslato e/o ampliamento semantico la voce a margine in talune occasioni sta per oscenità, parola oscena. Ad un dipresso ciò che accade per la voce seguente che in primis valse parolaccia, bestemmia e poi per traslato ebbe altri significati.
-scuntrufo/scuntrufolo s.m. in doppia morfologia leggermente variata: nella seconda è leggibile il suffisso diminutivo olus→olo ma sostanzialmente la parola è la medesima ed in primis (cosí come attestato nel D’Ambra e nell’Andreoli valse parolaccia, bestemmia e poi per traslato errore irrispettoso, caso, combinazione erronei, scontro forse con riferimento all’etimologia che è da cercare in un deverbale di scuntrà= urtare, mettersi all’opposto di, cozzare violentemente contro qualcosa, verbo che è derivato da ‘ncuntrà con cambio di prefisso; al verbo scuntrà per ottenere le voci a marigine sono stati aggiunti rispettivamente i suffissi ufo o il suff. dim. ufolo suffissi sui quali – prima o poi cercherò d’essere piú preciso; per ora mi sono arreso non avendone trovato riscontro nel Rohlfs (libro sacro dei suffissi!),
-straverio/streverio s. m. antica voce attestata passim in ambedue le morfologie nel significato primo di cosa eccedente la realtà, sproposito e quindi grosso errore, marchiana fanfaluca, madornale ciancia, spropositata frottola, grossolana sciocchezza, assurdità colossale; l’etimo, checché ne abbia détto il fu D’Ascoli che fantasiosamente ipotizzò un deverbale di stravedé/straveré (ma fu lui ad ipotizzare la faccenda? In effetti non penso che fosse farina del suo sacco,bensí il parto di uno dei tanti negri che lo aiutavano a stendere i suoi numerosi libri ai quali – complice la senescenza – egli non potette dare tutta la cura e l’attenzione di cui abbisognavano... lasciando correre molte inesattezze e/o fantasie!) l’etimo – dicevo – a mio avviso è dal lat. extra-verum→straveru(m)→straverio;
-trummunata s.f. che letteralmente sta per trombonata, spacconata, smargiassata. e per traslato ed ampliamento semantico vale sesquipedale sproposito, immane sciocchezza, enorme cretinata, fesseria spropositata stupidaggine madornale il tutto in linea con la parole da cui deriva che non è il trombone strumento a fiato di ottone, simile alla tromba ma di maggiori dimensioni e tonalità piú bassa, normalmente dotato di pistoni o di coulisse, strumento che quantunque piú grosso della tromba, non raggiunge misure tali da esser presa a modello per tutti i significati surriportati; la voce da cui deriva trummunata è trummone che in napoletano indica sí il trombone strumento a fiato, ma indica altresí una grossa botticella cilindrica incerneriata su i due lati opposti della circonferenza centrale, per poter comodamente ondeggiare basculando; in tale contenitore,(agganciato sul ripiano laterale delle cosiddette banche ‘e ll’acqua= banchetti di mescita di acqua ed altre bevande) veniva conservata la caretteristica acqua zuffregna/zurfegna= acqua sulfurea;
la voce zuffregna/zurfegna trae da un acc.vo lat. aqua(m)sulphurínea(m)→suphrínja→surphínja→ surfegna→zurfegna o con raddoppiamento espressivo della fricativa labiodentale sorda e metatesi della liquida zuffregna;
per trummone da cui trummunata, occorre pensare forse ad un lemma onomatopeico con riferimento ad un’iniziale tromma + un suff. accrescitivo, benché la voce a margine non abbia nulla a che spartire – come ò detto - con gli strumenti musicali a fiato tromba e trombone quantunque (per la sua forma panciutamente cilindrica) ‘o trummone ‘e ll’acqua è simile al grosso bombardino strumento a fiato di ottone, usato nelle bande; flicorno baritono, impropriamente détto trombone→trummone.
-zzarro svarione, errore non segnatamente volontario dovuto ad un improvviso, quanto imprevisto impedimento (cfr. l’espressione piglià 'nu -zzarro che vale errare, prendere un abbaglio,incorrere in un impedimento, inciampare in un qualcosa come ad es. un sasso sporgente; per l’etimo la voce zzarro deriva dall'arabo zahr (dado- sasso sporgente).
E qui penso di poter far punto avendo – a mio avviso – esaurito l’argomento, nella speranza d’avere accontentato, o - quanto meno - interessato l’amico F.P. e chi altro dovesse leggermi.
Raffaele Bracale
varie 79
1.Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e criature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3.Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
*culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
**pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
***addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sg.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4.Si 'arena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuría.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7.'Ammuina* è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
* ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8.Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
* ‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. Male e bbene a fine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati rimunerati dai nuovi governanti.
Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone*.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata. *pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15. Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
brak
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e criature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3.Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
*culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
**pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
***addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sg.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4.Si 'arena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuría.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7.'Ammuina* è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
* ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8.Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
* ‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. Male e bbene a fine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati rimunerati dai nuovi governanti.
Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone*.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata. *pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15. Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
brak
varie 78
1.Comme cucozza ‘ntrona, pasca nun vene pe mmo.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
2. Comme pagazio, accussí pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
3. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
4. Càntero spetenato - Cesso a vviento.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case ,ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero = grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. Core cuntento â Loggia.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis si meritò lo scrittore nolano Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6. Coppola ê denocchie!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
7. Curnuto e mazziatoLetteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica ed estesa si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
8. Comme ‘a vide accussí ‘a scrive
Ad litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che appariva ad un primo esame.
r.bracale
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
2. Comme pagazio, accussí pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
3. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
4. Càntero spetenato - Cesso a vviento.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case ,ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero = grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. Core cuntento â Loggia.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cosí a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis si meritò lo scrittore nolano Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
6. Coppola ê denocchie!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
7. Curnuto e mazziatoLetteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica ed estesa si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
8. Comme ‘a vide accussí ‘a scrive
Ad litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che appariva ad un primo esame.
r.bracale
varie 77
1.'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
brak
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
brak
VARIE 76
1.'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perì di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto più pericolosa di essa vipera.
2. E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3. Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4.Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo per intero la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancóra nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancóra intatte.
5. A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo, quello usato per arrostire le carni e/o pesci,), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6. Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre súbito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare tanto grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7. Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8. Vuo' campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9. Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
10. Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; talvolta anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
brak
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perì di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto più pericolosa di essa vipera.
2. E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3. Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4.Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo per intero la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancóra nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancóra intatte.
5. A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo, quello usato per arrostire le carni e/o pesci,), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6. Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre súbito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare tanto grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7. Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8. Vuo' campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9. Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
10. Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; talvolta anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
brak
Iscriviti a:
Post (Atom)