CALAMARETTI IN UMIDO
Ingredienti e dosi per 6 persone
1 kg. di calamaretti freschi e piccoli, puliti lavati e tagliati a rondelle (il corpo) ed a pezzetti (i tentacoli),
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v. p.s. a f.,
3 cucchiai di spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
2 peperoncini piccanti privati di picciolo e corona, lavati, asciugati e tritati,
1 cipolla dorata mondata e tritata finemente,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 tazzina di aceto bianco,
sale grosso q. s.
volendo
2 bicchieri di passata fresca o in bottiglia di pomidoro
procedimento
Pulire i calamaretti eliminando bocca, occhi,eventuale sacca del nero ed ossicino centrale, lavare accuratamente e prepararli tagliandoli a rondelle (come per la frittura) e tritando a parte i tentacoli;
In una casseruola versare tutto l’olio, mandarlo a temperatura e farvi soffriggere due cucchiai d'agli tritati finemente ed i peperoncini spezzettati;
Unire i calamaretti dapprima le rondelle ed a seguire i tentacoli ed a fiamma viva iniziate la cottura;
quando i calamaretti saranno ben imbianchiti (5 min. circa) aggiungere la cipolla tritata finemente e súbito dopo il vino bianco;
Fare evaporare sempre con fiamma viva, salare e lasciare consumare la salsa su fiamma bassa (10-15 min.)
Aggiungere una tazzina d'aceto bianco , ancora 1 minuto ed il giuoco è fatto!
Rammento di non esagerare con l'aceto ed è inutile dire che migliori sono gli ingredienti (calamaretti piccoli e freschi, olio d’oliva e.v.p.s.a f.) migliore risulterà la preparazione. Rammento ancóra che se si preferisse un sugo al pomidoro , si procederà come ò détto sino al momento di fare evaporare il vino; a quel punto occorre unire 2 bicchieri di passata + 1 bicchiere d'acqua, salare e lasciare consumare la salsa su fiamma bassa (10-15 min.) senza aggiungere una tazzina d'aceto bianco. Alla fine, a fuochi spenti (sia che il sugo sia bianco, sia che sia al pomidoro) si cospargeranno i calamaretti con un abbondante trito di prezzemolo ed aglio crudo mondato e si impiatterà.
Brak
martedì 31 gennaio 2012
MUSCARIELLE AFFUCATE SU VELLUTATA DI CECI.
MUSCARIELLE AFFUCATE SU VELLUTATA DI CECI.
Nota:
Gustosissima ed appetitosa portata di mare i cui protagonisti sono quei piccolissimi e tenerissimi polpi da consumar, si dice, in un sol boccone, polpi che in italiano son détti moscardini ed in napoletano muscarielle (per l’intenso odore di muschio che emanano): sia per moscardini che per muscarielle l’etimo è il medesimo: derivando ambedue da moscado, forma ant. di moscato (nel sign. di 'muschio'), con influsso di moscardo (per la presenza di piccole macchie sul mantello); per il napoletano muscarielle occorre ricordare che nell’area osco- mediterranea spesso una D scempia diventaR (cfr. Madonna/Maronna – Dito/rito – dinto/rinto etc.).
ingredienti e dosi per 6 persone
per i moscardini.
1 kg. di muscarielle (moscardini),
1cipolla bianca mondata e tritata,
3 spicchi d’ aglio mondati e tritati,
½ etto di funghi secchi,
Un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato,
Una foglia d’alloro,
1 peperoncino piccante lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed inciso longitudinalmente,
5 chiodi di garofano,
250 g. di Passata di pomidoro
6 etti di piccoli crostini di pane casareccio bruscati al forno e soffregati con due spicchi di aglio,
1 bicchiere d’ Olio di oliva extravergine p. s. a f.
Sale fino q.s.
Pepe decorticato macinato a fresco q.s.
per la vellutata
3 confezioni vitree di ceci lessati da 250gr cadauna,
3 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
3 foglie di salvia fresca,
un rametto fresco di rosmarino,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
procedimento
Cominciare con l’approntare la vellutata,ponendo in un mixer con lame da umido il contenuto di 3 confezioni vitree da 250 gr cadauna di ceci lessati eleminando parte del liquido di conserva e frullare fino ad ottenere una abbondante crema soffice e spumosa; porre a fuoco vivo un tegame con un bicchiere d’olio e.v. p. s. a f. , gli agli mondati e tritati finemente, il rametto di rosmarino e appena il trito di agli avrà preso colore unire la crema di ceci, salare e pepare, aggiungere la salvia e far sobbollire per 5 - 10 minuti.Tenere in caldo.
A seguire pulire i moscardini rovesciando la testa, privarli delle interiora, degli occhi e del becco corneo, quindi lavarli con cura. Appena dopo far rinvenire i funghi in una tazza di acqua tiepida, quindi tritarli.
Tritare anche la cipolla e farla rosolare in un tegame provvisto di coperchio con tutto l'olio, la foglia d’alloro, il peperoncino ed i chiodi di garofano;Tritare gli agli ed unirli al soffritto mescolando per qualche minuto. Aggiungere i funghi tritati, la passata di pomidoro, il sale ed il pepe ad libitum . Mescolare bene e far cuocere per circa trenta minuti unendo mezzo mestolo di di acqua bollente; versare nella padella i moscardini e proseguire la cottura, a fuoco basso ed a recipiente coperto, per 45 minuti. Al termine distribuire a specchio in sei fondine alcune cucchiaiate di velluta di ceci, aggiungervi i moscardini porzionati irrorati con il loro fondo di cottura e cosparsi con abbondante prezzemolo trito; accompagnare il tutto con crostini di pane bruscati al forno e soffregati d’aglio. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute, scialàteve e facíteve ‘a scarpetta !
R. Bracale
Nota:
Gustosissima ed appetitosa portata di mare i cui protagonisti sono quei piccolissimi e tenerissimi polpi da consumar, si dice, in un sol boccone, polpi che in italiano son détti moscardini ed in napoletano muscarielle (per l’intenso odore di muschio che emanano): sia per moscardini che per muscarielle l’etimo è il medesimo: derivando ambedue da moscado, forma ant. di moscato (nel sign. di 'muschio'), con influsso di moscardo (per la presenza di piccole macchie sul mantello); per il napoletano muscarielle occorre ricordare che nell’area osco- mediterranea spesso una D scempia diventaR (cfr. Madonna/Maronna – Dito/rito – dinto/rinto etc.).
ingredienti e dosi per 6 persone
per i moscardini.
1 kg. di muscarielle (moscardini),
1cipolla bianca mondata e tritata,
3 spicchi d’ aglio mondati e tritati,
½ etto di funghi secchi,
Un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato,
Una foglia d’alloro,
1 peperoncino piccante lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed inciso longitudinalmente,
5 chiodi di garofano,
250 g. di Passata di pomidoro
6 etti di piccoli crostini di pane casareccio bruscati al forno e soffregati con due spicchi di aglio,
1 bicchiere d’ Olio di oliva extravergine p. s. a f.
Sale fino q.s.
Pepe decorticato macinato a fresco q.s.
per la vellutata
3 confezioni vitree di ceci lessati da 250gr cadauna,
3 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
3 foglie di salvia fresca,
un rametto fresco di rosmarino,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
procedimento
Cominciare con l’approntare la vellutata,ponendo in un mixer con lame da umido il contenuto di 3 confezioni vitree da 250 gr cadauna di ceci lessati eleminando parte del liquido di conserva e frullare fino ad ottenere una abbondante crema soffice e spumosa; porre a fuoco vivo un tegame con un bicchiere d’olio e.v. p. s. a f. , gli agli mondati e tritati finemente, il rametto di rosmarino e appena il trito di agli avrà preso colore unire la crema di ceci, salare e pepare, aggiungere la salvia e far sobbollire per 5 - 10 minuti.Tenere in caldo.
A seguire pulire i moscardini rovesciando la testa, privarli delle interiora, degli occhi e del becco corneo, quindi lavarli con cura. Appena dopo far rinvenire i funghi in una tazza di acqua tiepida, quindi tritarli.
Tritare anche la cipolla e farla rosolare in un tegame provvisto di coperchio con tutto l'olio, la foglia d’alloro, il peperoncino ed i chiodi di garofano;Tritare gli agli ed unirli al soffritto mescolando per qualche minuto. Aggiungere i funghi tritati, la passata di pomidoro, il sale ed il pepe ad libitum . Mescolare bene e far cuocere per circa trenta minuti unendo mezzo mestolo di di acqua bollente; versare nella padella i moscardini e proseguire la cottura, a fuoco basso ed a recipiente coperto, per 45 minuti. Al termine distribuire a specchio in sei fondine alcune cucchiaiate di velluta di ceci, aggiungervi i moscardini porzionati irrorati con il loro fondo di cottura e cosparsi con abbondante prezzemolo trito; accompagnare il tutto con crostini di pane bruscati al forno e soffregati d’aglio. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute, scialàteve e facíteve ‘a scarpetta !
R. Bracale
SCAGNOZZO, & DINTORNI
SCAGNOZZO, & DINTORNI
Sollecitato dalla richiesta d’una mia nipote,che non restò soddisfatta d’una spiegazione data nel corso d’una trasmissione televisiva con domande a premio, e mi chiese del termine in iscrizione, tratto questa vòlta la voce scagnozzo ed i suoi sinonimi dell’italiano e del napoletano sicuro di far cosa gradita non solo alla mia congiunta, ma pure a qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Premetto che i sinonimi in italiano della voce in esame lo sono in maniera molto imprecisa e/o generica, mente quelli del napoletano, al solito, sono piú precisi e circostanziati. Cominciamo dunque:
Scagnozzo s.vo m.le e solo maschile; 1 (in origine ed in primis antiq.) prete con pochi mezzi che si arrangia, senza dignità, a procurarsi del denaro facendo questue girovaghe o celebrando, per clienti non facoltosi, messe piane, funerali non solenni e sim.
2 (spreg.) chi esegue ciecamente gli ordini di un potente
3 (fig.) persona mediocre, priva di dignità o di capacità
Voce denominale di cagna addizionato in posizione protetica d’ una esse distrattiva, nonché d’un suffisso dispregiativo di sostantivi ozzo derivato di occio suffisso alterativo di aggettivi, dal lat. volg. -oceu(m), suffisso che di suo à valore diminutivo-vezzeggiativo (belloccio, grassoccio); la spiegazione semantica del collegamento di scagnozzo al s.vo cagna è da ricercarsi nel fatto che quei preti con pochi mezzi che si arrangiavano, senza dignità, a procurarsi del denaro facendo questue bussando alle porte di masserie e casolari spesso dovevano subire l’onta dell’inseguimento o dei latrati dissuasorî dei cani da guardia, o piú spesso delle feroci cagne; passiamo ai sinonimi della voce or ora esaminata; il piú ovvio e, come ò anticipato non troppo significante, in quanto generico è
servo, s.vo m.le [f. -a]
1 chi è privo di libertà, soggetto ad altri; schiavo (anche fig.)
2 termine, oggi in disuso, che indicava chi svolge servizi generici, spec. domestici, alle dipendenze di privati: gli mandò il suo servo | in formule di cortesia e di saluto ormai disusate: il vostro umilissimo servo; servo vostro!, a vostra disposizione
3 (estens.) chi si dedica con dedizione o devozione a qualcuno o qualcosa | servo di Dio, persona vissuta santamente e morta in fama di santità, per la quale sia stato introdotto il processo di beatificazione | servo dei servi di Dio, formula con cui si denomina il papa
4 nomi di appartenenti a ordini religiosi: Servi di Maria
5 servo muto, piccolo mobile, spostabile e maneggevole, sul quale si possono disporre ordinatamente gli indumenti quando ci si spoglia; mobiletto o tavolino a ripiani, collocabile presso la tavola da pranzo per prendervi o riporvi le stoviglie
¶ agg.vo (lett.)
1 schiavo (anche fig.): un popolo servo dello straniero
2 servile: vergin di servo encomio / e di codardo oltraggio (MANZONI Il cinque maggio).
Voce dal lat. servu(m)=schiavo; altro sinonimo sebbene impreciso(da considerare comunque solo nell’accezione sub 1) è
galoppino, s. m.
1 chi corre di qua e di là a sbrigare servizi per conto di altri (anche spreg.) | galoppino elettorale, chi va in giro a procacciare voti a un candidato o ad un partito;
2 cavallo che, durante l'allenamento dei cavalli trottatori, li affianca correndo al galoppo, al fine di stimolarli;
3 (mecc.) puleggia di piccolo diametro, a forma di rullo, che gira in folle e mantiene tesa una cinghia di trasmissione; Voce dal fr. galopin, deriv. di galoper 'galoppare' (in origine, nome di un personaggio che nelle chansons de gestes aveva i compiti di messo);
il sinonimo che segue solo estensivamente vale quelli fin qui esaminati, in quanto di suo varrebbe esclusivamente nell’accezione sub 1 :
tirapiedi; s. m. invar.
1 (in primis ant.) aiutante del boia; aveva il compito di aggrapparsi alle gambe degli impiccati, tirandoli per i piedi per affrettarne la morte, mentre nel caso di condannati alla decapitazione aveva il compito di accovacciarsi sulle gambe e piedi del condannato frenandone i movimenti per evitare che il reo scalciando si muovesse e rendesse piú difficile il lavoro del boia.
2 [anche f.] (per estensione spreg.) chi è addetto a mansioni di infimo ordine | chi serve una persona secondandone senza dignità tutti i desideri.
Voce composta da tira (voce verb. 3°pers. sg. ind. pres. dell’infinito tirare (dal lat. volg. *tirare, alterazione del class. trahere 'trarre') ed il pl. di piede
guardia del corpo, s.vo m.le e/o f.le formato dal s.vo guardia addizionato necessariamente dello specificativo del corpo: chi serve una persona secondandone senza ogni desiderio o ordine con il compito precipuo di assicurargli protezione fisica; (fig.) persona molto devota e fidata;
guardia s.vo f.le
1 il custodire, il vigilare: fare la guardia a qualcosa; fare buona, cattiva guardia; tenere sotto buona guardia; cane da guardia
2 turno obbligatorio di servizio di militari, sorveglianti, medici, infermieri: medico di guardia; essere, stare, montare di guardia; montare, smontare la guardia | corpo di guardia, l'insieme di soldati che partecipano allo stesso turno di vigilanza; anche il locale in cui essi si raccolgono | guardia medica, servizio medico permanente; anche, il luogo nel quale esso viene prestato
3 (ed è il caso che ci occupa) persona o gruppo di persone, spesso militari, cui è affidato un particolare servizio di custodia o di protezione; scorta: guardia armata, a cavallo; guardia d'onore, quella che scorta un personaggio d'alto grado in cerimonie ufficiali | cambio della guardia, cambio dei soldati alla fine di un turno di vigilanza; (fig.) sostituzione contemporanea di più persone che occupano posti importanti in un governo, una direzione, un'amministrazione di un'azienda ecc. | guardia del corpo, nucleo di forze di polizia o militari addetto alla protezione di personalità pubbliche o politiche; anche, chi è addetto alla protezione di un personaggio importante, gorilla | essere della vecchia guardia, (fig.) essere tra i più anziani e fedeli seguaci di un partito, di un movimento, di un'associazione ecc.
4 denominazione di corpi militari o civili che svolgono servizio di vigilanza, di protezione, di custodia; ciascuno degli appartenenti a tali corpi: guardia forestale, campestre, daziaria | guardia di finanza, corpo militare dello stato addetto a impedire e reprimere i reati finanziari e tributari e a sorvegliare le frontiere; finanziere | guardia svizzera, corpo militare mercenario addetto alla difesa della persona del papa e dei palazzi pontifici | guardia di pubblica sicurezza, nel vecchio ordinamento della polizia di stato, grado corrispondente a quello attuale di agente | guardia carceraria, agente di custodia | guardia giurata, privato che svolge attività di vigilanza nei confronti di beni e persone | guardia notturna, guardia giurata che svolge compiti di sorveglianza notturna
5 (fam.) agente di polizia, vigile urbano: chiamare le guardie; giocare a guardie e ladri
6 soprattutto nella scherma e nel pugilato, posizione di difesa: guardia alta, bassa; avere una guardia stretta, chiusa ' guardia destra, pugile mancino | mettersi, stare in guardia, assumere una posizione di difesa di fronte all'avversario; (fig.) prepararsi ad affrontare qualcosa che si teme | mettere qualcuno in guardia contro qualcosa, (fig.) avvertirlo dei pericoli cui va incontro | non abbassare la guardia, (fig.) non allentare la vigilanza | in guardia!, comando dato ai duellanti o ai pugili perché si mettano in posizione di difesa; usato anche come avvertimento
7 nella pallacanestro, ciascuno dei giocatori, spesso di statura relativamente bassa, che hanno il compito di portare in avanti il pallone
8 parte dell'elsa in cui si mette la mano impugnando la spada
9 l'altezza, segnata sull'argine di un fiume, che indica il limite cui l'acqua può giungere senza pericolo di alluvione: il Po è un metro sotto la guardia, il livello di guardia ' superare il livello di guardia, (fig.) raggiungere un livello pericoloso: la tensione ha superato il livello di guardia
10 (tip.) foglio di carta bianco che il legatore pone all'inizio di un libro, fra la copertina e il frontespizio, e alla fine di esso, fra l'ultima pagina e la copertina inferiore; risguardo; detto anche foglio, carta di guardia
11 (tecn.) dispositivo del telaio automatico che mantiene diritta la spola
12 la parte del morso che sta fuori della bocca del cavallo ed è fornita di anelli per l'attacco delle redini.
Voce dal gotico vardia derivata dall’antico alto tedesco wart.
corpo s. m.
1 (fis. , chim.) ogni sostanza che abbia caratteristiche peculiari e distintive: corpo solido, liquido, gassoso; corpi organici, inorganici | corpo semplice, quello la cui molecola è costituita da atomi dello stesso elemento | corpo composto, quello che può essere separato nei vari elementi che lo costituiscono
2 qualsiasi oggetto o cosa che occupi uno spazio: corpo rigido, elastico; la gravità, l'impenetrabilità dei corpi | dare corpo a qualcosa, realizzarla, concretarla | prendere corpo, prendere consistenza | i corpi celesti, gli astri | corpo del reato, (dir.) oggetto che è servito a compiere un reato o sul quale un reato è stato commesso | corpo estraneo, (med.) qualunque formazione solida penetrata nell'organismo | corpo morto, (mar.) grossa ancora o altro peso affondato collegato a un gavitello, usato come ormeggio. DIM. corpicciolo
3 l'organismo che costituisce la struttura fisica dell'uomo e degli animali: un corpo asciutto, atletico, slanciato; il corpo agile dei felini; avere cura del proprio corpo; i piaceri del corpo, quelli materiali, contrapposti a quelli spirituali | a corpo morto, pesantemente; (fig.) con accanimento, con ardore: buttarsi a corpo morto nel lavoro | avere in corpo, (fig.) avere dentro di sé: ha molta rabbia in corpo | darsi a qualcosa anima e corpo, (fig.) applicarvisi col massimo impegno | combattere, lottare (a) corpo a corpo, a diretto contatto fisico, a mani nude o all'arma bianca | corpo a corpo, nel pugilato e nella scherma, combattimento a distanza ravvicinata | guardia del corpo, persona addetta alla protezione fisica di un personaggio; | corpo di Bacco!, corpo di mille bombe!, (antiq.) esclamazioni che esprimono stupore o indignazione.
4 in partic., la parte di mezzo del corpo umano o degli animali, con esclusione della testa e degli arti: gli antichi guerrieri proteggevano il corpo con la corazza, la testa con l'elmo; un corpo troppo grosso si muoveva su delle gambe sottilissime | (estens. , fig.) la parte più compatta e consistente di qualcosa; l'elemento, il nucleo principale: il corpo di una bottiglia, di un edificio; il corpo di un discorso, la sua parte centrale | corpo idrico, in ecologia, massa d'acqua superficiale (lago, fiume, acqua costiera) o sotterranea (falda acquifera) con caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche sue proprie, costituente un ecosistema
5 (fam.) ventre: avere dolori di corpo; mettersi in corpo, ingerire; andare di corpo, defecare
6 cadavere, salma: seppellire un corpo
7 (anat.) denominazione di alcune strutture anatomiche: corpo pineale, luteo
8 gruppo di persone che costituisce un insieme organico: corpo insegnante, accademico, elettorale, diplomatico; corpo di ballo, l'insieme dei ballerini e delle ballerine di un teatro | Corpo mistico di Cristo, (teol.) la chiesa
9 unità militare: corpo d'armata, grande unità costituita da due o più divisioni; corpo di guardia, gruppo di militari incaricati della sorveglianza di un luogo; anche, il loro alloggio | specialità delle forze armate: il corpo degli Alpini; spirito di corpo, sentimento di attaccamento dei soldati al corpo di appartenenza; per estens., solidarietà tra i componenti di una categoria professionale, un'associazione, un gruppo e sim.
10 insieme di cose simili che formano un tutto omogeneo: corpo di case, di beni | vendita a corpo, (dir.) in cui il prezzo è stabilito con riferimento non alle misure del bene venduto, ma al suo complesso
11 raccolta completa e organica di più opere; corpus: il corpo degli scrittori latini
12 (mat.) in algebra, qualunque insieme per i cui elementi è definita una struttura di gruppo abeliano additivo e (escluso lo zero) di gruppo moltiplicativo
13 (tip.) misura della grandezza di un carattere che si esprime in punti tipografici: stampare in corpo 9.
Voce derivata dal lat. corpus 'corpo, organismo'; i tre sostantivi che seguono sono gli autentici sinonimi di quello in epigrafe nel significato spregiativo di chi esegue ciecamente gli ordini di un potente, oltre quello addirittura di sicario (s. m. chi uccide su mandato di altri; voce dal lat. sicariu(m), deriv. di sica, pugnale considerato a Roma tipico strumento degli omicidi a tradimento); vediamoli
gorilla, s. m. invar.
1 grande scimmia antropomorfa africana, con braccia lunghe e robustissime, folto pelo bruno-nerastro sul corpo e nero sul muso, piedi prensili (ord. Primati)
2 (fig.) uomo dall'aspetto scimmiesco o dalle maniere volgari e grossolane
3 (fig. spreg.ed è l’accezione che ci occupa) guardia del corpo, spec. di importanti personaggi del mondo politico e dello spettacolo: l'auto presidenziale era circondata dai gorilla; l’attrice era guardata a vista dai suoi gorilla.
Voce dal lat. scient. Gorilla, che è dal gr. Górillai pl.: adattamento greco di una voce africana con cui Annone, un viaggiatore cartaginese del sec. 5° a. C., dice nel suo Periplo di aver sentito chiamare certe donne selvagge e pelose dell’Africa, ripresa poi nel 1847 dall’esploratore e missionario americano T. S. Savage per designare alcune scimmie antropomorfe da lui scoperte nell’Africa centrale.
scherano, agg. e s. m. (lett.)
sgherro, sicario, birro, sbirro, bravo, bravaccio, cagnotto, giannizzero
voce dal got. *skaran «capitano» e, per scadimento semantico,anche «bandito»,«bravo»;«masnadiero»;;
sgherro s. m.
1 un tempo, uomo d'armi al servizio di un privato, generalmente prepotente e violento | faccia da sgherro, brutto ceffo
2 (spreg.) poliziotto, guardia armata: il dittatore era seguito da un codazzo di sgherri
come agg.vo (lett.) di sgherro: un giovinastro... riconoscibile... ad una sua camminata sgherra | alla sgherra, alla maniera degli sgherri.
Dal longob. skarrjo «capitano».
Giunti a questo punto passiamo ad illustrare le voci del napoletano che rendono spesso piú significativamente ed in maniera piú esatta quelle dell’italiano; per comodità d’esposizione ò preferito dividere le voci elencandole numericamente (*nr) sotto la voce di riferimento dell’italiano:
*1 alla voce scagnozzo dell’italiano corrispondono le voci napoletane
accoléto s. m.
1 (in primis voce eccl.) chi è insignito dell'accolitato, e in genere chi serve all'altare
2 (estens.spreg. ed è il nostro caso ) chi fa parte del sèguito di un personaggio o frequenta abitualmente un gruppo spesso con mansioni di prepotenza e di soperchierie;
la voce è dal lat. eccl. acoluthu(m),marcato sul gr. akólouthos 'compagno di vita','chi tiene la medesima via', deriv. di kéleuthos 'sentiero'
ammartenato a.vo m.le bravaccio, guappo | spec. nel Seicento, sgherro al servizio di un signore, da cui riceveva protezione e garanzia d'impunità: precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
cacciuttiello s.vo m.le al f.le cacciuttella (ma solo nella accezione che segue sub 1) 1 in primis cagnolino e per estensione, come nel caso che ci occupa,
2 seguace, sostenitore, accolito con compiti di aiuto e/o protezione alla medesima stregua d’un cane fidato.
La voce etimologicamente è un diminutivo (cfr. il suffisso iello) del s.vo cacciuotto dal lat. catulus incrociato con caccia + il suff. dim. uotto.
féroce agg.vo e s.vo m.le e solo m.le
come agg.vo: 1 crudele, disumano; atroce, spietato: ‘nu tiranno feroce ;; animo, sguardo feroce ' bestie feroci, grossi animali, spec. felini, che vivono allo stato selvaggio e aggrediscono l'uomo
2 terribile, violento: dolore, freddo feroce | (iperb.) insopportabile, grandissimo: noia, fame feroce | scherzo feroce, molto pesante
3 (ant.) di animo acceso, violento | (estens.) impavido, valoroso | (fig.) altero, sprezzante;
come s.vo m.le
1 sbirro, agente di polizia, guardia armata
2 uomo d'armi generalmente prepotente e violento, spesso inquadrato militarmente, al servizio di un privato.
La voce etimologicamente è dal lat. feroce(m), deriv. di ferus 'selvaggio, crudele'
Straviso s.vo m.le e solo m.le
1 in primis uomo di misere condizioni poi per ampliamento semantico il suo accolito cioè
2 uomo d'armi generalmente prepotente e violento, spesso inquadrato militarmente, al servizio gratuito di un privato di meschine condizioni;
voce deverbale di stravisà = deformare, travisare, sfregiare oppure denominale diretto da extra-visu(m)
*2 alla voce servo dell’italiano corrispondono le voci napoletane
Criato,s.vo m.le al f.le criata
con questi termini, per altro abbondantemente desueti ci si riferisce al/alla prestatore/trice d’opere domestiche in famiglie della piccola borghesia o genericamente ad uomo o donna di servizio, addetto/a ai lavori in casa in ispecie nella cucina o al servizio ai tavoli delle locande o bettole: insomma questi soggetti sono i medesimi nel tardo XVII sec. presero rispettivamente il nome di fante e fantesca; quanto all’etimo la voce a margine, per il maschile è voce derivata dall’iberico criado= servitore, famiglio, valletto; e criata ne è ovviamente la femminilizzazione; annoterò al proposito che anche nell’italiano antico con il medesimo etimo dallo spagnolo vi fu la voce creato=servo,valletto, famiglio ma non esistette la corrispondente creata: misteri della lingua italiana!
giacchetto agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
Servo in uniforme, famiglio di un personaggio militare;
voce derivata quale diminutivo, per degradazione semantica del nome proprio francese Jacques→jacquette= servitorello,garzone;
laccheo agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
1 famiglio di un nobile;
2servo in livrea che seguiva o precedeva a piedi il padrone in carrozza
2 (spreg.) persona servile; servo;
voce dal fr. laquais, con paragoge di una semimuta finale;
schiavuttiello agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
giovane inserviente, domestico, garzone spesso di origini straniere e di colorito olivastro;voce derivata quale diminutivo (cfr. il doppio dim. utto+iello→uttiello) del s.vo schiavo (in genere di carnagione scura) che è dal lat. mediev. sclavu(m), slavu(m), propr. '(prigioniero di guerra) ‘slavo';
settepanelle/settepanielle agg.vi e s.vi m.le e solo maschili; voce desueta:
servitorello di padrone povero o avaro, domestico che si contentava di ricevere oltre il pasto giornaliero, quale salario settimanale sette pezzi di pane: la panella o paniello(etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) sono ambedue un’ ampia pagnotta di forma rotondeggiante e del peso di ca 1 kg.da non confondere con la panella siciliana che è una focaccina condita di farina di ceci
settescorze, agg.vo e s,vo m.le e solo maschile pure questa voce ampiamente desueta: servitorello di padrone povero o avaro, domestico che iperbolicamente si contentava di ricevere in aggiunta ad un unico pasto giornaliero, quale salario settimanale sette scorze di formaggio avanzate ai pasti del proprio avaro padrone;
scorze s.vo f.le pl. di scorza s. f.
1 rivestimento del fusto e delle radici degli alberi: staccare una scorza di quercia | buccia grossa di alcuni frutti: ‘a scorza d’ ‘e castane; ‘na scorza ‘e limone(la scorza delle castagne; una scorza di limone).
2 (estens.) buccia grossa di formaggi duri
3 (estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti
4 (fig.) pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): tené ‘a scorza tosta (avere la scorza dura), sopportare bene le fatiche, gli strapazzi, i malanni
5 (fig.) aspetto esteriore, apparenza: nun guardate â scorza pecché tène ‘o core bbuono!(non badate alla scorza perché à il cuore buono). Voce dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle'.
votacantere/jettacantere agg.vo e s,vo m.le e/o f.le
letteralmente: vuota/buttapitali; servo/a di infimo ordine addetto/a alle incombenze piú umili quale quella di svuotare i vasi di comodo (càntare/càntere) usati dalla famiglia per le proprie deiezioni quotidiane; in sèguito quando fu dismesso l’uso dei càntare/càntere e subentrato quello dei cessi mutò anche il nome della serva addetta alle incombenze piú umili (ed ò parlato di serva e non di servo/a in quanto la mansione non fu piú maschile e/o femminile, ma solo femminile) ed alla voce a margine subentrò quella di zambracca= serva di infimo conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi. La voce originò dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (= accia) con la parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza.
Come anticipato letteralmente le voci votacantere/jettacantere sono l’agglutinazione rispettivamente del s.vo càntere/càntare o con la voce verbale vota = vuota (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vutà = vuotare e cfr. ultra ; oppure del s.vo càntere/càntare con la voce verbale jetta = butta (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito jettà = buttare, gettare dal lat. *iectare intensivo di iàcere=scagliar via;
càntere/càntare s.vo m.le pl. di càntero/càntaro alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea
2) - cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
A margine di tutto esamino due icastiche frasi e due duri insulti che chiamano in causa il càntaro/càntero. Cominciamo con le frasi:
1) Rompere ‘nu càntero = infrangere un vaso di comodo; frase usata per significare guastare un affare, deteriorare una faccenda; il collegamento semantico si coglie facilmente considerando che il guastare un affare, o il deteriorare una faccenda posson produrre degli effetti negativi quali quelli derivanti dalla rottura d’un vaso di comodo, di cui non ci si potrà piú servire per i proprî bisogni;
rompere v. tr.o intr.; come v. transitivo:
1 fare a pezzi, mandare in frantumi; spezzare, spaccare: 2 interrompere
3 non rispettare, non osservare; violare
4 (lett.) sconfiggere;
come v. intr.
1 interrompere i rapporti con qualcuno
2 naufragare, frangersi
3 (lett.) prorompere, erompere
4 (fam.) annoiare, seccare
5 detto di un fiume, allagare rompendo gli argini; straripare:
2) Vutà ‘o càntero = vuotare il vaso di comodo vale a dire: rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo ed il rinfacciare torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia torti subíti o spiacevolezze patite si affranca di qualcosa di sgradevole che fino al momento di liberarsene era stata tenuta come un peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi andati (cfr. alibi ‘a malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della famiglia.
Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.
Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare, girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).
E veniamo ai duri brucianti insulti che sono:
a) Piezzo ‘e càntero scardato! e b) Pezza ‘e càntero!
Sgombero súbito il campo da un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di classificarlo e considerarlo moralmente sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto, ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di un vaso da notte che per il lungo uso risulti sporco e sbreccato; dicevo è pur vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca, sozza, lorda e quindi da evitare, ma le voci usate piezzo e pezza non sono il maschile ed il femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:
piezzo s.vo m.le = pezzo, quantità, parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo
pezza s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo, ritaglio di tessuto (con etimo dal dal lat. med. pettia(m)); nella fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli, i cànteri usati quando cioè risultassero colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo l’operazione scatologica ed in tal caso però prendeva furbescamente il nome di ‘o liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.
Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo ‘e càntero
un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad litteram è: coccio di un piccolo vaso da notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola
scarda s.vo f.le che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative, vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo,dicevo noto che il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in esame assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce scarda (che attraverso il verbo scardare= sbreccare è anche alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio d’un piccolo vaso da notte!
Ruagno s.vo m.le = pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti scorrimenti o viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
*3 ed infine alle voci scherano/ sgherro dell’italiano corrispondono le voci napoletane
Acciaffatore s.vo m.le e solo maschile in primis 1 birro,guardia poi 2 (spreg.) poliziotto, agente ed infine 3 chi svolge privatamente indagini poliziesche, detective
ed estens. Chi al soldo d’un privato governa in maniera repressiva; la voce è un deverbale di acciaffà = catturare, arrestare (adattamento locale di ciuffare(denominale di ciuffo dal longob.*zupfa (ted. Zopf 'treccia, coda') )= afferrare, prendere rapidamente e con forza:
ammartenato di questa voce e della successiva ne ò già détto antea sub *1
accoléto
cientarme s.vo ed agg.vo m.le e solo maschile in primis 1 gendarme e per ampiamento semantico 2 guardia, agente, poliziotto, carabiniere ed infine 3 guardia armata al servizio di un privato;
vocedal fr. gendarme incrociato con ciento (cento), dalla loc. gens d'arme 'gente
féroce. Anche di questo agg.vo, s.vo ò già détto antea sub *1
E qui penso proprio di poter far punto convinto d’aver contentato mia nipote e qualche altro dei miei abituali ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
Sollecitato dalla richiesta d’una mia nipote,che non restò soddisfatta d’una spiegazione data nel corso d’una trasmissione televisiva con domande a premio, e mi chiese del termine in iscrizione, tratto questa vòlta la voce scagnozzo ed i suoi sinonimi dell’italiano e del napoletano sicuro di far cosa gradita non solo alla mia congiunta, ma pure a qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Premetto che i sinonimi in italiano della voce in esame lo sono in maniera molto imprecisa e/o generica, mente quelli del napoletano, al solito, sono piú precisi e circostanziati. Cominciamo dunque:
Scagnozzo s.vo m.le e solo maschile; 1 (in origine ed in primis antiq.) prete con pochi mezzi che si arrangia, senza dignità, a procurarsi del denaro facendo questue girovaghe o celebrando, per clienti non facoltosi, messe piane, funerali non solenni e sim.
2 (spreg.) chi esegue ciecamente gli ordini di un potente
3 (fig.) persona mediocre, priva di dignità o di capacità
Voce denominale di cagna addizionato in posizione protetica d’ una esse distrattiva, nonché d’un suffisso dispregiativo di sostantivi ozzo derivato di occio suffisso alterativo di aggettivi, dal lat. volg. -oceu(m), suffisso che di suo à valore diminutivo-vezzeggiativo (belloccio, grassoccio); la spiegazione semantica del collegamento di scagnozzo al s.vo cagna è da ricercarsi nel fatto che quei preti con pochi mezzi che si arrangiavano, senza dignità, a procurarsi del denaro facendo questue bussando alle porte di masserie e casolari spesso dovevano subire l’onta dell’inseguimento o dei latrati dissuasorî dei cani da guardia, o piú spesso delle feroci cagne; passiamo ai sinonimi della voce or ora esaminata; il piú ovvio e, come ò anticipato non troppo significante, in quanto generico è
servo, s.vo m.le [f. -a]
1 chi è privo di libertà, soggetto ad altri; schiavo (anche fig.)
2 termine, oggi in disuso, che indicava chi svolge servizi generici, spec. domestici, alle dipendenze di privati: gli mandò il suo servo | in formule di cortesia e di saluto ormai disusate: il vostro umilissimo servo; servo vostro!, a vostra disposizione
3 (estens.) chi si dedica con dedizione o devozione a qualcuno o qualcosa | servo di Dio, persona vissuta santamente e morta in fama di santità, per la quale sia stato introdotto il processo di beatificazione | servo dei servi di Dio, formula con cui si denomina il papa
4 nomi di appartenenti a ordini religiosi: Servi di Maria
5 servo muto, piccolo mobile, spostabile e maneggevole, sul quale si possono disporre ordinatamente gli indumenti quando ci si spoglia; mobiletto o tavolino a ripiani, collocabile presso la tavola da pranzo per prendervi o riporvi le stoviglie
¶ agg.vo (lett.)
1 schiavo (anche fig.): un popolo servo dello straniero
2 servile: vergin di servo encomio / e di codardo oltraggio (MANZONI Il cinque maggio).
Voce dal lat. servu(m)=schiavo; altro sinonimo sebbene impreciso(da considerare comunque solo nell’accezione sub 1) è
galoppino, s. m.
1 chi corre di qua e di là a sbrigare servizi per conto di altri (anche spreg.) | galoppino elettorale, chi va in giro a procacciare voti a un candidato o ad un partito;
2 cavallo che, durante l'allenamento dei cavalli trottatori, li affianca correndo al galoppo, al fine di stimolarli;
3 (mecc.) puleggia di piccolo diametro, a forma di rullo, che gira in folle e mantiene tesa una cinghia di trasmissione; Voce dal fr. galopin, deriv. di galoper 'galoppare' (in origine, nome di un personaggio che nelle chansons de gestes aveva i compiti di messo);
il sinonimo che segue solo estensivamente vale quelli fin qui esaminati, in quanto di suo varrebbe esclusivamente nell’accezione sub 1 :
tirapiedi; s. m. invar.
1 (in primis ant.) aiutante del boia; aveva il compito di aggrapparsi alle gambe degli impiccati, tirandoli per i piedi per affrettarne la morte, mentre nel caso di condannati alla decapitazione aveva il compito di accovacciarsi sulle gambe e piedi del condannato frenandone i movimenti per evitare che il reo scalciando si muovesse e rendesse piú difficile il lavoro del boia.
2 [anche f.] (per estensione spreg.) chi è addetto a mansioni di infimo ordine | chi serve una persona secondandone senza dignità tutti i desideri.
Voce composta da tira (voce verb. 3°pers. sg. ind. pres. dell’infinito tirare (dal lat. volg. *tirare, alterazione del class. trahere 'trarre') ed il pl. di piede
guardia del corpo, s.vo m.le e/o f.le formato dal s.vo guardia addizionato necessariamente dello specificativo del corpo: chi serve una persona secondandone senza ogni desiderio o ordine con il compito precipuo di assicurargli protezione fisica; (fig.) persona molto devota e fidata;
guardia s.vo f.le
1 il custodire, il vigilare: fare la guardia a qualcosa; fare buona, cattiva guardia; tenere sotto buona guardia; cane da guardia
2 turno obbligatorio di servizio di militari, sorveglianti, medici, infermieri: medico di guardia; essere, stare, montare di guardia; montare, smontare la guardia | corpo di guardia, l'insieme di soldati che partecipano allo stesso turno di vigilanza; anche il locale in cui essi si raccolgono | guardia medica, servizio medico permanente; anche, il luogo nel quale esso viene prestato
3 (ed è il caso che ci occupa) persona o gruppo di persone, spesso militari, cui è affidato un particolare servizio di custodia o di protezione; scorta: guardia armata, a cavallo; guardia d'onore, quella che scorta un personaggio d'alto grado in cerimonie ufficiali | cambio della guardia, cambio dei soldati alla fine di un turno di vigilanza; (fig.) sostituzione contemporanea di più persone che occupano posti importanti in un governo, una direzione, un'amministrazione di un'azienda ecc. | guardia del corpo, nucleo di forze di polizia o militari addetto alla protezione di personalità pubbliche o politiche; anche, chi è addetto alla protezione di un personaggio importante, gorilla | essere della vecchia guardia, (fig.) essere tra i più anziani e fedeli seguaci di un partito, di un movimento, di un'associazione ecc.
4 denominazione di corpi militari o civili che svolgono servizio di vigilanza, di protezione, di custodia; ciascuno degli appartenenti a tali corpi: guardia forestale, campestre, daziaria | guardia di finanza, corpo militare dello stato addetto a impedire e reprimere i reati finanziari e tributari e a sorvegliare le frontiere; finanziere | guardia svizzera, corpo militare mercenario addetto alla difesa della persona del papa e dei palazzi pontifici | guardia di pubblica sicurezza, nel vecchio ordinamento della polizia di stato, grado corrispondente a quello attuale di agente | guardia carceraria, agente di custodia | guardia giurata, privato che svolge attività di vigilanza nei confronti di beni e persone | guardia notturna, guardia giurata che svolge compiti di sorveglianza notturna
5 (fam.) agente di polizia, vigile urbano: chiamare le guardie; giocare a guardie e ladri
6 soprattutto nella scherma e nel pugilato, posizione di difesa: guardia alta, bassa; avere una guardia stretta, chiusa ' guardia destra, pugile mancino | mettersi, stare in guardia, assumere una posizione di difesa di fronte all'avversario; (fig.) prepararsi ad affrontare qualcosa che si teme | mettere qualcuno in guardia contro qualcosa, (fig.) avvertirlo dei pericoli cui va incontro | non abbassare la guardia, (fig.) non allentare la vigilanza | in guardia!, comando dato ai duellanti o ai pugili perché si mettano in posizione di difesa; usato anche come avvertimento
7 nella pallacanestro, ciascuno dei giocatori, spesso di statura relativamente bassa, che hanno il compito di portare in avanti il pallone
8 parte dell'elsa in cui si mette la mano impugnando la spada
9 l'altezza, segnata sull'argine di un fiume, che indica il limite cui l'acqua può giungere senza pericolo di alluvione: il Po è un metro sotto la guardia, il livello di guardia ' superare il livello di guardia, (fig.) raggiungere un livello pericoloso: la tensione ha superato il livello di guardia
10 (tip.) foglio di carta bianco che il legatore pone all'inizio di un libro, fra la copertina e il frontespizio, e alla fine di esso, fra l'ultima pagina e la copertina inferiore; risguardo; detto anche foglio, carta di guardia
11 (tecn.) dispositivo del telaio automatico che mantiene diritta la spola
12 la parte del morso che sta fuori della bocca del cavallo ed è fornita di anelli per l'attacco delle redini.
Voce dal gotico vardia derivata dall’antico alto tedesco wart.
corpo s. m.
1 (fis. , chim.) ogni sostanza che abbia caratteristiche peculiari e distintive: corpo solido, liquido, gassoso; corpi organici, inorganici | corpo semplice, quello la cui molecola è costituita da atomi dello stesso elemento | corpo composto, quello che può essere separato nei vari elementi che lo costituiscono
2 qualsiasi oggetto o cosa che occupi uno spazio: corpo rigido, elastico; la gravità, l'impenetrabilità dei corpi | dare corpo a qualcosa, realizzarla, concretarla | prendere corpo, prendere consistenza | i corpi celesti, gli astri | corpo del reato, (dir.) oggetto che è servito a compiere un reato o sul quale un reato è stato commesso | corpo estraneo, (med.) qualunque formazione solida penetrata nell'organismo | corpo morto, (mar.) grossa ancora o altro peso affondato collegato a un gavitello, usato come ormeggio. DIM. corpicciolo
3 l'organismo che costituisce la struttura fisica dell'uomo e degli animali: un corpo asciutto, atletico, slanciato; il corpo agile dei felini; avere cura del proprio corpo; i piaceri del corpo, quelli materiali, contrapposti a quelli spirituali | a corpo morto, pesantemente; (fig.) con accanimento, con ardore: buttarsi a corpo morto nel lavoro | avere in corpo, (fig.) avere dentro di sé: ha molta rabbia in corpo | darsi a qualcosa anima e corpo, (fig.) applicarvisi col massimo impegno | combattere, lottare (a) corpo a corpo, a diretto contatto fisico, a mani nude o all'arma bianca | corpo a corpo, nel pugilato e nella scherma, combattimento a distanza ravvicinata | guardia del corpo, persona addetta alla protezione fisica di un personaggio; | corpo di Bacco!, corpo di mille bombe!, (antiq.) esclamazioni che esprimono stupore o indignazione.
4 in partic., la parte di mezzo del corpo umano o degli animali, con esclusione della testa e degli arti: gli antichi guerrieri proteggevano il corpo con la corazza, la testa con l'elmo; un corpo troppo grosso si muoveva su delle gambe sottilissime | (estens. , fig.) la parte più compatta e consistente di qualcosa; l'elemento, il nucleo principale: il corpo di una bottiglia, di un edificio; il corpo di un discorso, la sua parte centrale | corpo idrico, in ecologia, massa d'acqua superficiale (lago, fiume, acqua costiera) o sotterranea (falda acquifera) con caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche sue proprie, costituente un ecosistema
5 (fam.) ventre: avere dolori di corpo; mettersi in corpo, ingerire; andare di corpo, defecare
6 cadavere, salma: seppellire un corpo
7 (anat.) denominazione di alcune strutture anatomiche: corpo pineale, luteo
8 gruppo di persone che costituisce un insieme organico: corpo insegnante, accademico, elettorale, diplomatico; corpo di ballo, l'insieme dei ballerini e delle ballerine di un teatro | Corpo mistico di Cristo, (teol.) la chiesa
9 unità militare: corpo d'armata, grande unità costituita da due o più divisioni; corpo di guardia, gruppo di militari incaricati della sorveglianza di un luogo; anche, il loro alloggio | specialità delle forze armate: il corpo degli Alpini; spirito di corpo, sentimento di attaccamento dei soldati al corpo di appartenenza; per estens., solidarietà tra i componenti di una categoria professionale, un'associazione, un gruppo e sim.
10 insieme di cose simili che formano un tutto omogeneo: corpo di case, di beni | vendita a corpo, (dir.) in cui il prezzo è stabilito con riferimento non alle misure del bene venduto, ma al suo complesso
11 raccolta completa e organica di più opere; corpus: il corpo degli scrittori latini
12 (mat.) in algebra, qualunque insieme per i cui elementi è definita una struttura di gruppo abeliano additivo e (escluso lo zero) di gruppo moltiplicativo
13 (tip.) misura della grandezza di un carattere che si esprime in punti tipografici: stampare in corpo 9.
Voce derivata dal lat. corpus 'corpo, organismo'; i tre sostantivi che seguono sono gli autentici sinonimi di quello in epigrafe nel significato spregiativo di chi esegue ciecamente gli ordini di un potente, oltre quello addirittura di sicario (s. m. chi uccide su mandato di altri; voce dal lat. sicariu(m), deriv. di sica, pugnale considerato a Roma tipico strumento degli omicidi a tradimento); vediamoli
gorilla, s. m. invar.
1 grande scimmia antropomorfa africana, con braccia lunghe e robustissime, folto pelo bruno-nerastro sul corpo e nero sul muso, piedi prensili (ord. Primati)
2 (fig.) uomo dall'aspetto scimmiesco o dalle maniere volgari e grossolane
3 (fig. spreg.ed è l’accezione che ci occupa) guardia del corpo, spec. di importanti personaggi del mondo politico e dello spettacolo: l'auto presidenziale era circondata dai gorilla; l’attrice era guardata a vista dai suoi gorilla.
Voce dal lat. scient. Gorilla, che è dal gr. Górillai pl.: adattamento greco di una voce africana con cui Annone, un viaggiatore cartaginese del sec. 5° a. C., dice nel suo Periplo di aver sentito chiamare certe donne selvagge e pelose dell’Africa, ripresa poi nel 1847 dall’esploratore e missionario americano T. S. Savage per designare alcune scimmie antropomorfe da lui scoperte nell’Africa centrale.
scherano, agg. e s. m. (lett.)
sgherro, sicario, birro, sbirro, bravo, bravaccio, cagnotto, giannizzero
voce dal got. *skaran «capitano» e, per scadimento semantico,anche «bandito»,«bravo»;«masnadiero»;;
sgherro s. m.
1 un tempo, uomo d'armi al servizio di un privato, generalmente prepotente e violento | faccia da sgherro, brutto ceffo
2 (spreg.) poliziotto, guardia armata: il dittatore era seguito da un codazzo di sgherri
come agg.vo (lett.) di sgherro: un giovinastro... riconoscibile... ad una sua camminata sgherra | alla sgherra, alla maniera degli sgherri.
Dal longob. skarrjo «capitano».
Giunti a questo punto passiamo ad illustrare le voci del napoletano che rendono spesso piú significativamente ed in maniera piú esatta quelle dell’italiano; per comodità d’esposizione ò preferito dividere le voci elencandole numericamente (*nr) sotto la voce di riferimento dell’italiano:
*1 alla voce scagnozzo dell’italiano corrispondono le voci napoletane
accoléto s. m.
1 (in primis voce eccl.) chi è insignito dell'accolitato, e in genere chi serve all'altare
2 (estens.spreg. ed è il nostro caso ) chi fa parte del sèguito di un personaggio o frequenta abitualmente un gruppo spesso con mansioni di prepotenza e di soperchierie;
la voce è dal lat. eccl. acoluthu(m),marcato sul gr. akólouthos 'compagno di vita','chi tiene la medesima via', deriv. di kéleuthos 'sentiero'
ammartenato a.vo m.le bravaccio, guappo | spec. nel Seicento, sgherro al servizio di un signore, da cui riceveva protezione e garanzia d'impunità: precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
cacciuttiello s.vo m.le al f.le cacciuttella (ma solo nella accezione che segue sub 1) 1 in primis cagnolino e per estensione, come nel caso che ci occupa,
2 seguace, sostenitore, accolito con compiti di aiuto e/o protezione alla medesima stregua d’un cane fidato.
La voce etimologicamente è un diminutivo (cfr. il suffisso iello) del s.vo cacciuotto dal lat. catulus incrociato con caccia + il suff. dim. uotto.
féroce agg.vo e s.vo m.le e solo m.le
come agg.vo: 1 crudele, disumano; atroce, spietato: ‘nu tiranno feroce ;; animo, sguardo feroce ' bestie feroci, grossi animali, spec. felini, che vivono allo stato selvaggio e aggrediscono l'uomo
2 terribile, violento: dolore, freddo feroce | (iperb.) insopportabile, grandissimo: noia, fame feroce | scherzo feroce, molto pesante
3 (ant.) di animo acceso, violento | (estens.) impavido, valoroso | (fig.) altero, sprezzante;
come s.vo m.le
1 sbirro, agente di polizia, guardia armata
2 uomo d'armi generalmente prepotente e violento, spesso inquadrato militarmente, al servizio di un privato.
La voce etimologicamente è dal lat. feroce(m), deriv. di ferus 'selvaggio, crudele'
Straviso s.vo m.le e solo m.le
1 in primis uomo di misere condizioni poi per ampliamento semantico il suo accolito cioè
2 uomo d'armi generalmente prepotente e violento, spesso inquadrato militarmente, al servizio gratuito di un privato di meschine condizioni;
voce deverbale di stravisà = deformare, travisare, sfregiare oppure denominale diretto da extra-visu(m)
*2 alla voce servo dell’italiano corrispondono le voci napoletane
Criato,s.vo m.le al f.le criata
con questi termini, per altro abbondantemente desueti ci si riferisce al/alla prestatore/trice d’opere domestiche in famiglie della piccola borghesia o genericamente ad uomo o donna di servizio, addetto/a ai lavori in casa in ispecie nella cucina o al servizio ai tavoli delle locande o bettole: insomma questi soggetti sono i medesimi nel tardo XVII sec. presero rispettivamente il nome di fante e fantesca; quanto all’etimo la voce a margine, per il maschile è voce derivata dall’iberico criado= servitore, famiglio, valletto; e criata ne è ovviamente la femminilizzazione; annoterò al proposito che anche nell’italiano antico con il medesimo etimo dallo spagnolo vi fu la voce creato=servo,valletto, famiglio ma non esistette la corrispondente creata: misteri della lingua italiana!
giacchetto agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
Servo in uniforme, famiglio di un personaggio militare;
voce derivata quale diminutivo, per degradazione semantica del nome proprio francese Jacques→jacquette= servitorello,garzone;
laccheo agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
1 famiglio di un nobile;
2servo in livrea che seguiva o precedeva a piedi il padrone in carrozza
2 (spreg.) persona servile; servo;
voce dal fr. laquais, con paragoge di una semimuta finale;
schiavuttiello agg.vo e s,vo m.le e solo maschile
giovane inserviente, domestico, garzone spesso di origini straniere e di colorito olivastro;voce derivata quale diminutivo (cfr. il doppio dim. utto+iello→uttiello) del s.vo schiavo (in genere di carnagione scura) che è dal lat. mediev. sclavu(m), slavu(m), propr. '(prigioniero di guerra) ‘slavo';
settepanelle/settepanielle agg.vi e s.vi m.le e solo maschili; voce desueta:
servitorello di padrone povero o avaro, domestico che si contentava di ricevere oltre il pasto giornaliero, quale salario settimanale sette pezzi di pane: la panella o paniello(etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) sono ambedue un’ ampia pagnotta di forma rotondeggiante e del peso di ca 1 kg.da non confondere con la panella siciliana che è una focaccina condita di farina di ceci
settescorze, agg.vo e s,vo m.le e solo maschile pure questa voce ampiamente desueta: servitorello di padrone povero o avaro, domestico che iperbolicamente si contentava di ricevere in aggiunta ad un unico pasto giornaliero, quale salario settimanale sette scorze di formaggio avanzate ai pasti del proprio avaro padrone;
scorze s.vo f.le pl. di scorza s. f.
1 rivestimento del fusto e delle radici degli alberi: staccare una scorza di quercia | buccia grossa di alcuni frutti: ‘a scorza d’ ‘e castane; ‘na scorza ‘e limone(la scorza delle castagne; una scorza di limone).
2 (estens.) buccia grossa di formaggi duri
3 (estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti
4 (fig.) pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): tené ‘a scorza tosta (avere la scorza dura), sopportare bene le fatiche, gli strapazzi, i malanni
5 (fig.) aspetto esteriore, apparenza: nun guardate â scorza pecché tène ‘o core bbuono!(non badate alla scorza perché à il cuore buono). Voce dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle'.
votacantere/jettacantere agg.vo e s,vo m.le e/o f.le
letteralmente: vuota/buttapitali; servo/a di infimo ordine addetto/a alle incombenze piú umili quale quella di svuotare i vasi di comodo (càntare/càntere) usati dalla famiglia per le proprie deiezioni quotidiane; in sèguito quando fu dismesso l’uso dei càntare/càntere e subentrato quello dei cessi mutò anche il nome della serva addetta alle incombenze piú umili (ed ò parlato di serva e non di servo/a in quanto la mansione non fu piú maschile e/o femminile, ma solo femminile) ed alla voce a margine subentrò quella di zambracca= serva di infimo conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi. La voce originò dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (= accia) con la parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza.
Come anticipato letteralmente le voci votacantere/jettacantere sono l’agglutinazione rispettivamente del s.vo càntere/càntare o con la voce verbale vota = vuota (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vutà = vuotare e cfr. ultra ; oppure del s.vo càntere/càntare con la voce verbale jetta = butta (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito jettà = buttare, gettare dal lat. *iectare intensivo di iàcere=scagliar via;
càntere/càntare s.vo m.le pl. di càntero/càntaro alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea
2) - cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
A margine di tutto esamino due icastiche frasi e due duri insulti che chiamano in causa il càntaro/càntero. Cominciamo con le frasi:
1) Rompere ‘nu càntero = infrangere un vaso di comodo; frase usata per significare guastare un affare, deteriorare una faccenda; il collegamento semantico si coglie facilmente considerando che il guastare un affare, o il deteriorare una faccenda posson produrre degli effetti negativi quali quelli derivanti dalla rottura d’un vaso di comodo, di cui non ci si potrà piú servire per i proprî bisogni;
rompere v. tr.o intr.; come v. transitivo:
1 fare a pezzi, mandare in frantumi; spezzare, spaccare: 2 interrompere
3 non rispettare, non osservare; violare
4 (lett.) sconfiggere;
come v. intr.
1 interrompere i rapporti con qualcuno
2 naufragare, frangersi
3 (lett.) prorompere, erompere
4 (fam.) annoiare, seccare
5 detto di un fiume, allagare rompendo gli argini; straripare:
2) Vutà ‘o càntero = vuotare il vaso di comodo vale a dire: rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo ed il rinfacciare torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia torti subíti o spiacevolezze patite si affranca di qualcosa di sgradevole che fino al momento di liberarsene era stata tenuta come un peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi andati (cfr. alibi ‘a malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della famiglia.
Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.
Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare, girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).
E veniamo ai duri brucianti insulti che sono:
a) Piezzo ‘e càntero scardato! e b) Pezza ‘e càntero!
Sgombero súbito il campo da un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di classificarlo e considerarlo moralmente sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto, ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di un vaso da notte che per il lungo uso risulti sporco e sbreccato; dicevo è pur vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca, sozza, lorda e quindi da evitare, ma le voci usate piezzo e pezza non sono il maschile ed il femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:
piezzo s.vo m.le = pezzo, quantità, parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo
pezza s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo, ritaglio di tessuto (con etimo dal dal lat. med. pettia(m)); nella fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli, i cànteri usati quando cioè risultassero colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo l’operazione scatologica ed in tal caso però prendeva furbescamente il nome di ‘o liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.
Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo ‘e càntero
un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad litteram è: coccio di un piccolo vaso da notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola
scarda s.vo f.le che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative, vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo,dicevo noto che il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in esame assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce scarda (che attraverso il verbo scardare= sbreccare è anche alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio d’un piccolo vaso da notte!
Ruagno s.vo m.le = pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti scorrimenti o viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
*3 ed infine alle voci scherano/ sgherro dell’italiano corrispondono le voci napoletane
Acciaffatore s.vo m.le e solo maschile in primis 1 birro,guardia poi 2 (spreg.) poliziotto, agente ed infine 3 chi svolge privatamente indagini poliziesche, detective
ed estens. Chi al soldo d’un privato governa in maniera repressiva; la voce è un deverbale di acciaffà = catturare, arrestare (adattamento locale di ciuffare(denominale di ciuffo dal longob.*zupfa (ted. Zopf 'treccia, coda') )= afferrare, prendere rapidamente e con forza:
ammartenato di questa voce e della successiva ne ò già détto antea sub *1
accoléto
cientarme s.vo ed agg.vo m.le e solo maschile in primis 1 gendarme e per ampiamento semantico 2 guardia, agente, poliziotto, carabiniere ed infine 3 guardia armata al servizio di un privato;
vocedal fr. gendarme incrociato con ciento (cento), dalla loc. gens d'arme 'gente
féroce. Anche di questo agg.vo, s.vo ò già détto antea sub *1
E qui penso proprio di poter far punto convinto d’aver contentato mia nipote e qualche altro dei miei abituali ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
‘O NFINFERO
‘O NFINFERO
La parola in epigrafe costituí il titolo di una simpatica divertente canzone partenopea degli anni intorno al 1950, frutto della collaborazione di Giuseppe Cioffi (musica) e del figlio Luigi (parole) ed indicò, fino a quando durò nel parlato popolare, una sorta di millantatore ridicolo e vanesio, un bellimbusto un po’ guappo ed un po’ vigliacco, quanto non un picaro nell’accezione di mendicante d’amore; poi la parola sparí e l’ultima volta che l’udii fu negli ultimi anni del ‘960; fortuna che rimase la briosa canzonetta che ci offre materia di ricerca per numerose particolari parole in essa presenti e che non si ritrovano quasi piú sulla bocca dei napoletani, se non su quella di quei partenopei che ànno valicato la soglia dei sessanta anni. Esamino quelle di cui mi sovvengo, cominciando proprio da quella in epigrafe:
- nfinfero; segnalo súbito che la parola non va scritta, come pure erroneamente capitò di fare a Luigi Cioffi autore delle parole della suddetta canzonetta, con alcun segno d’aferesi iniziale e cioè: ‘nfinfero, ma semplicemente : nfinfero; infatti la enne d’avvio non sta per in→(‘n), ma è semplicemente la prostesi di una consonante eufonica alla parola finfero; del significato ò già detto; per l’etimologia ci troviamo nel campo delle ipotesi; infatti nessuno dei vocabolaristi partenopei a me noti e che ò potuto compulsare, si è voluto sbilanciare, rifugiandosi nel limbo pilatesco di un etimo incerto; la mia ipotesi è invece che la parola, alla medesima stregua dell’altrove esaminate fanfaro/fanfero, possa collegarsi all’antico sostantivo spagnolo fanfa= iattanza sia pure con il cambio della vocale a in i che con la u è la vocale piú chiusa e dunque intesa piú elegante in linea con il vanesio portamento del finfero/nfinfero rispetto a quello piú gradasso ed aperto del fanfaro/fanfero, parole in cui dura la apertissima vocale etimologica a di fanfa.
Continuo prendendo in esame il ritornello della canzonetta predetta, ritornello che suonando ad un dipresso cosí:
Venitelo a vedé,
mo passa ‘o nfinfero
cu ‘o cuollo ‘mpusumato
e ‘a capa a gliommero.
E se dà ll’aria ‘e ll’ommo ammartenato…,
ma nun è overo i’ ll’aggiu canusciuto:
è ‘nu bbuono guaglione,
veramente ch’è bbuono,
forze è ttre vvote bbuono,
troppo bbuono, troppo bbuono
pe chella llà!
offre il destro per illustrare alcune interessanti parole; e sono:
- ‘mpusumato: praticamente: indurito in quanto sottoposto ad una bagnatura (e successiva stiratura) in una soluzione di acqua ed amido, soluzione che in napoletano è ‘o bagno ‘e pósema; la parola pósema (che è esattamente l’amido e che diede lo ‘mposemato/’mpusumato = inamidato e dunque indurito da riferirsi in primis agli indumenti o a parte di indumenti come colletti e polsi di camicia da uomo stirati in modo da renderli rigidi, ma da riferirsi anche estensivamente a chi abbia ed inceda con atteggiamento impettito o anche sia agghindato in maniera eccessivamente ricercata) è da riferirsi etimologicamente al greco apòzema che indica, tal quale il derivato posema un quid bollito, filtrato, colato; l’amido, sostanza di riserva di molti vegetali, chimicamente analoga agli zuccheri che si presenta come una polvere o scaglie biancastre, in effetti è ottenuto per colatura e sedimentazione da particolari piante;
- gliommero o gliuommero : è esattamente – come dalla sua etimologia latina glomere(m) con evidente metaplasmo nel passaggio al maschile dall’orignario neutro glomus/meris - il gomitolo, ma nella fattispecie della canzonetta, significa una particolare pettinatura maschile nella quale il ciuffo principale della capigliatura, quello prospiciente la fronte, sia pettinato a mo’ di gomitolo con l’ausilio di olî o brillantine, di tal che l’uomo che fosse cosí pettinato ed impomatato si possa dire in napoletano alliffato che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto; rammenterò che la parola gliuommero fu usata anticamente anche per indicare un rotolo di monete di circa 100 pezzi di argento, oltreché (secoli 14° e 15°) delle composizioni poetiche di contenuto ameno (ne scrisse anche il Sannazaro(Napoli 1456-1530), poeta ed umanista italiano, che compose opere in lingua latina ed in volgare.) a mo’ di filastrocche semplici e scorrevoli i cui versi si dipanavano velocemente come il filo di un gomitolo;
- ammartenato : che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
- tre vvote bbuono: letteralmente: tre volte buono e cioè: cosí eccessivamente buono da risultare essere sciocco, stupido e credulone e non soltanto il mite,il mansueto, il bonario che, secondo l’etimologia latina bonu(m) dovrebbe connotare il buono.
Soffermiamoci ora sulle due strofe della predetta canzonetta, per vedere se ci offrono il destro di illustrar qualche altra interessante parola;
1° strofa
Chillo putesse stà
dinto â meglia vetrina,
chillo se po’ chiammà
cuollo tuosto e puzine…
e allora comme va ca Mariannina,
ca ‘e dinto a ‘stu quartiere era ‘a riggina,
cu ttanti ggiuvinotte,
tanti uommene deritte,
s’è misa proprio cu ‘stu guajo ‘e notte?
Venitelo a vedé etc.
2° strofa
Chillo se vo’ spassà
e va bbuó s’è capito,
e tu falle ‘o spassà,
quanno po s’è spassato
i’ afferro ‘o pupo e ‘o faccio ‘na ‘mmasciata:
lle dico: “ Giuvinò, cagnate strata!
Volete fare il gallo
cu cchella pullanchella?
Va lla, vatté, ca sî ‘nu pappavallo!
Venitelo a vedé… etc.
Le espressioni e parole piú significative che penso di poter segnalare sono:
po’ voce verbale (pote←pote(st)→po(te)→po’ = puó (3à ps. sg. ind. pres. dell’infinito puté = potere voce dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -e°ntis.
po e non po’ = poi avv. di tempo, direttamente dal lat. po(st) e rammento che in napoletano le cadute finali di consonanti non necessitano di segni diacritici(apostrofi o accenti) necessarî invece nella caduta di vere sillabe: (cfr. ciò che accade per mo =ora derivante per me – come alibi ò scritto - da mox e non da modo o ancóra in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle,
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
- cuollo tuosto e puzine letteralmente: colletto duro e polsini (inamidati) anticipando all’incirca ciò che sarà reiterato sotto la voce ‘mpusumato del ritornello; tuosto che già esaminai altrove di per sé sarebbe tostato in quanto part. passato del verbo tostare, frequentativo di torrere = disseccare, tostare e dunque indurire;
- uommene deritte letteralmente: uomini diritti(dal lat.:dirictu(m)p.p. di dirigere) nel significato estensivo di uomini accorti, scaltri, furbi e dunque capaci di assicurarsi le grazie femminili;
- guajo ‘e notte letteralmente: guaio (occorso) di notte; guajo etimologicamente da un antico tedesco wàwa =disgrazia, sventura ed in senso piú limitato: calamità, fastidio, impiccio; riferito al bellimbusto vanesio della canzonetta è da intendersi nell’icastico primario senso di disgrazia o sventura; un guaio è sempre una cosa disdicevole, ma il napoletano lo à reso addirittura insopportabile addizionandolo con lo specificativo temporale di notte, periodo del giorno certamente il meno adatto per porre riparo ad un ipotetetico guaio cui, se occorso di giorno, si potrebbe, forse, trovare un rimedio, ma accadendo di notte se ne vede accrescere (e di tanto!) il suo fastidioso impiccio, non offrendosi – stante il tardo orario – possibilità di antidoto;
- spassà: letteralmente: divertirsi, prendere un godimento tal quale quello derivante da un’intesa fisica o anche solo spirituale con una donna; nella cennata canzonetta lo spassà (etimologicamente da un latino expassare iterativo di expàndere= distendere l’animo; dal medesimo expassare son derivati spasso=divertimento,godimento, nonché spassuso che è non chi si diverte, ma chi fa divertire, chi rallegra gli altri) indica solo un piú limitato svagarsi importunando o infastidendo la donna di riferimento, se non l’amoreggiare senza la necessaria serietà di intenzioni, serietà di intenti che non è mai ipotizzabile nello nfinfero;
- pupo letteralmente indicherebbe(etimologicamente da un latino pupu(m) che à la medesima radice di puer, pusus e putus) il fanciullo,ma nell napoletano con la parola pupo si è soliti indicare un pupazzo, un fantoccio e segnatamente il manichino usato nelle vetrine dei negozi di abbigliamento per esporre gli abiti in vendita: famosissimo a Napoli ‘o pupo ‘e Martone : il fantoccio di Martone (antico negozio di abbigliamento per bambini/e) usato per indicare chi si mostri o inceda agghindato di tutto punto, ma manchi della necessaria scioltezza, risultando troppo rigido ed impacciato; qui la parola pupo è usata un po’ per sostenere quanto affermato nella prima strofa circa la cennata vetrina, un po’ per sottolineare la rigidezza impacciata del bellimbusto protagonista della canzonetta;
- ‘mmasciata: letteralmente: ambasciata, ma qui raccomandazione pressante etimologicamente attraverso un antico provenzale embaissada da un originario latino:ambaxus per ambactus = servo mandato in giro, in quanto messaggio portato da un servo;
- pullanchella: letteralmente: pollastrella, gallina molto tenera e giovane e, per traslato, anche giovane ragazza,innamorata di primo pelo ed addirittura,(ma non qui in questa canzonetta), anche giovane prostituta; etimologicamente pullanchella è un diminutivo vezzeggiativo di pullanca dal latino pullus =pollo, ma per il tramite dello spagnolo pullancón/a = pollastrona;
- pappavallo: letteralmente: pappagallo, ma qui – come anche nel toscano – nell’accezione che connota chi è solito infastire le donne per istrada; nella conzonetta in esame lo nfifero viene indicato come chi non abbia la necessaria valenza che gli permetta di fare il gallo e si debba contentare d’essere solo un fastidioso pappagallo; interessante l’etimologia di pappavallo che è pervenuto al napoletano non per adattamento fonetico del pappagallo toscano, ma dal turco papagâi attraverso lo spagnolo papagayo→papavayo con tipica mutazione della g in v come ad es. in gulio/vulio= voglia o al contrario della v in g come ad es in guappo che è dal latino vappa. o in vorpa/volpa→golpa che è dal latino vulpe(m) infatti è normale nel napoletano l’alternanza v→g (cfr. volpe/golpa – vunnella/gunnella – vulio/gulio etc.).
Raffaele Bracale
La parola in epigrafe costituí il titolo di una simpatica divertente canzone partenopea degli anni intorno al 1950, frutto della collaborazione di Giuseppe Cioffi (musica) e del figlio Luigi (parole) ed indicò, fino a quando durò nel parlato popolare, una sorta di millantatore ridicolo e vanesio, un bellimbusto un po’ guappo ed un po’ vigliacco, quanto non un picaro nell’accezione di mendicante d’amore; poi la parola sparí e l’ultima volta che l’udii fu negli ultimi anni del ‘960; fortuna che rimase la briosa canzonetta che ci offre materia di ricerca per numerose particolari parole in essa presenti e che non si ritrovano quasi piú sulla bocca dei napoletani, se non su quella di quei partenopei che ànno valicato la soglia dei sessanta anni. Esamino quelle di cui mi sovvengo, cominciando proprio da quella in epigrafe:
- nfinfero; segnalo súbito che la parola non va scritta, come pure erroneamente capitò di fare a Luigi Cioffi autore delle parole della suddetta canzonetta, con alcun segno d’aferesi iniziale e cioè: ‘nfinfero, ma semplicemente : nfinfero; infatti la enne d’avvio non sta per in→(‘n), ma è semplicemente la prostesi di una consonante eufonica alla parola finfero; del significato ò già detto; per l’etimologia ci troviamo nel campo delle ipotesi; infatti nessuno dei vocabolaristi partenopei a me noti e che ò potuto compulsare, si è voluto sbilanciare, rifugiandosi nel limbo pilatesco di un etimo incerto; la mia ipotesi è invece che la parola, alla medesima stregua dell’altrove esaminate fanfaro/fanfero, possa collegarsi all’antico sostantivo spagnolo fanfa= iattanza sia pure con il cambio della vocale a in i che con la u è la vocale piú chiusa e dunque intesa piú elegante in linea con il vanesio portamento del finfero/nfinfero rispetto a quello piú gradasso ed aperto del fanfaro/fanfero, parole in cui dura la apertissima vocale etimologica a di fanfa.
Continuo prendendo in esame il ritornello della canzonetta predetta, ritornello che suonando ad un dipresso cosí:
Venitelo a vedé,
mo passa ‘o nfinfero
cu ‘o cuollo ‘mpusumato
e ‘a capa a gliommero.
E se dà ll’aria ‘e ll’ommo ammartenato…,
ma nun è overo i’ ll’aggiu canusciuto:
è ‘nu bbuono guaglione,
veramente ch’è bbuono,
forze è ttre vvote bbuono,
troppo bbuono, troppo bbuono
pe chella llà!
offre il destro per illustrare alcune interessanti parole; e sono:
- ‘mpusumato: praticamente: indurito in quanto sottoposto ad una bagnatura (e successiva stiratura) in una soluzione di acqua ed amido, soluzione che in napoletano è ‘o bagno ‘e pósema; la parola pósema (che è esattamente l’amido e che diede lo ‘mposemato/’mpusumato = inamidato e dunque indurito da riferirsi in primis agli indumenti o a parte di indumenti come colletti e polsi di camicia da uomo stirati in modo da renderli rigidi, ma da riferirsi anche estensivamente a chi abbia ed inceda con atteggiamento impettito o anche sia agghindato in maniera eccessivamente ricercata) è da riferirsi etimologicamente al greco apòzema che indica, tal quale il derivato posema un quid bollito, filtrato, colato; l’amido, sostanza di riserva di molti vegetali, chimicamente analoga agli zuccheri che si presenta come una polvere o scaglie biancastre, in effetti è ottenuto per colatura e sedimentazione da particolari piante;
- gliommero o gliuommero : è esattamente – come dalla sua etimologia latina glomere(m) con evidente metaplasmo nel passaggio al maschile dall’orignario neutro glomus/meris - il gomitolo, ma nella fattispecie della canzonetta, significa una particolare pettinatura maschile nella quale il ciuffo principale della capigliatura, quello prospiciente la fronte, sia pettinato a mo’ di gomitolo con l’ausilio di olî o brillantine, di tal che l’uomo che fosse cosí pettinato ed impomatato si possa dire in napoletano alliffato che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto; rammenterò che la parola gliuommero fu usata anticamente anche per indicare un rotolo di monete di circa 100 pezzi di argento, oltreché (secoli 14° e 15°) delle composizioni poetiche di contenuto ameno (ne scrisse anche il Sannazaro(Napoli 1456-1530), poeta ed umanista italiano, che compose opere in lingua latina ed in volgare.) a mo’ di filastrocche semplici e scorrevoli i cui versi si dipanavano velocemente come il filo di un gomitolo;
- ammartenato : che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
- tre vvote bbuono: letteralmente: tre volte buono e cioè: cosí eccessivamente buono da risultare essere sciocco, stupido e credulone e non soltanto il mite,il mansueto, il bonario che, secondo l’etimologia latina bonu(m) dovrebbe connotare il buono.
Soffermiamoci ora sulle due strofe della predetta canzonetta, per vedere se ci offrono il destro di illustrar qualche altra interessante parola;
1° strofa
Chillo putesse stà
dinto â meglia vetrina,
chillo se po’ chiammà
cuollo tuosto e puzine…
e allora comme va ca Mariannina,
ca ‘e dinto a ‘stu quartiere era ‘a riggina,
cu ttanti ggiuvinotte,
tanti uommene deritte,
s’è misa proprio cu ‘stu guajo ‘e notte?
Venitelo a vedé etc.
2° strofa
Chillo se vo’ spassà
e va bbuó s’è capito,
e tu falle ‘o spassà,
quanno po s’è spassato
i’ afferro ‘o pupo e ‘o faccio ‘na ‘mmasciata:
lle dico: “ Giuvinò, cagnate strata!
Volete fare il gallo
cu cchella pullanchella?
Va lla, vatté, ca sî ‘nu pappavallo!
Venitelo a vedé… etc.
Le espressioni e parole piú significative che penso di poter segnalare sono:
po’ voce verbale (pote←pote(st)→po(te)→po’ = puó (3à ps. sg. ind. pres. dell’infinito puté = potere voce dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -e°ntis.
po e non po’ = poi avv. di tempo, direttamente dal lat. po(st) e rammento che in napoletano le cadute finali di consonanti non necessitano di segni diacritici(apostrofi o accenti) necessarî invece nella caduta di vere sillabe: (cfr. ciò che accade per mo =ora derivante per me – come alibi ò scritto - da mox e non da modo o ancóra in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle,
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
- cuollo tuosto e puzine letteralmente: colletto duro e polsini (inamidati) anticipando all’incirca ciò che sarà reiterato sotto la voce ‘mpusumato del ritornello; tuosto che già esaminai altrove di per sé sarebbe tostato in quanto part. passato del verbo tostare, frequentativo di torrere = disseccare, tostare e dunque indurire;
- uommene deritte letteralmente: uomini diritti(dal lat.:dirictu(m)p.p. di dirigere) nel significato estensivo di uomini accorti, scaltri, furbi e dunque capaci di assicurarsi le grazie femminili;
- guajo ‘e notte letteralmente: guaio (occorso) di notte; guajo etimologicamente da un antico tedesco wàwa =disgrazia, sventura ed in senso piú limitato: calamità, fastidio, impiccio; riferito al bellimbusto vanesio della canzonetta è da intendersi nell’icastico primario senso di disgrazia o sventura; un guaio è sempre una cosa disdicevole, ma il napoletano lo à reso addirittura insopportabile addizionandolo con lo specificativo temporale di notte, periodo del giorno certamente il meno adatto per porre riparo ad un ipotetetico guaio cui, se occorso di giorno, si potrebbe, forse, trovare un rimedio, ma accadendo di notte se ne vede accrescere (e di tanto!) il suo fastidioso impiccio, non offrendosi – stante il tardo orario – possibilità di antidoto;
- spassà: letteralmente: divertirsi, prendere un godimento tal quale quello derivante da un’intesa fisica o anche solo spirituale con una donna; nella cennata canzonetta lo spassà (etimologicamente da un latino expassare iterativo di expàndere= distendere l’animo; dal medesimo expassare son derivati spasso=divertimento,godimento, nonché spassuso che è non chi si diverte, ma chi fa divertire, chi rallegra gli altri) indica solo un piú limitato svagarsi importunando o infastidendo la donna di riferimento, se non l’amoreggiare senza la necessaria serietà di intenzioni, serietà di intenti che non è mai ipotizzabile nello nfinfero;
- pupo letteralmente indicherebbe(etimologicamente da un latino pupu(m) che à la medesima radice di puer, pusus e putus) il fanciullo,ma nell napoletano con la parola pupo si è soliti indicare un pupazzo, un fantoccio e segnatamente il manichino usato nelle vetrine dei negozi di abbigliamento per esporre gli abiti in vendita: famosissimo a Napoli ‘o pupo ‘e Martone : il fantoccio di Martone (antico negozio di abbigliamento per bambini/e) usato per indicare chi si mostri o inceda agghindato di tutto punto, ma manchi della necessaria scioltezza, risultando troppo rigido ed impacciato; qui la parola pupo è usata un po’ per sostenere quanto affermato nella prima strofa circa la cennata vetrina, un po’ per sottolineare la rigidezza impacciata del bellimbusto protagonista della canzonetta;
- ‘mmasciata: letteralmente: ambasciata, ma qui raccomandazione pressante etimologicamente attraverso un antico provenzale embaissada da un originario latino:ambaxus per ambactus = servo mandato in giro, in quanto messaggio portato da un servo;
- pullanchella: letteralmente: pollastrella, gallina molto tenera e giovane e, per traslato, anche giovane ragazza,innamorata di primo pelo ed addirittura,(ma non qui in questa canzonetta), anche giovane prostituta; etimologicamente pullanchella è un diminutivo vezzeggiativo di pullanca dal latino pullus =pollo, ma per il tramite dello spagnolo pullancón/a = pollastrona;
- pappavallo: letteralmente: pappagallo, ma qui – come anche nel toscano – nell’accezione che connota chi è solito infastire le donne per istrada; nella conzonetta in esame lo nfifero viene indicato come chi non abbia la necessaria valenza che gli permetta di fare il gallo e si debba contentare d’essere solo un fastidioso pappagallo; interessante l’etimologia di pappavallo che è pervenuto al napoletano non per adattamento fonetico del pappagallo toscano, ma dal turco papagâi attraverso lo spagnolo papagayo→papavayo con tipica mutazione della g in v come ad es. in gulio/vulio= voglia o al contrario della v in g come ad es in guappo che è dal latino vappa. o in vorpa/volpa→golpa che è dal latino vulpe(m) infatti è normale nel napoletano l’alternanza v→g (cfr. volpe/golpa – vunnella/gunnella – vulio/gulio etc.).
Raffaele Bracale
lunedì 30 gennaio 2012
RICUTTARO.
RICUTTARO.
Da sempre il lenocinio è stato praticato da piccoli furfantelli e/o camorristi; temporibus illis (fine ‘800) i piccoli furfanti e/o camorristi erano arrestati e spesso finivano sotto processo con minaccia di pena certa; durante tali processi furfanti e camorristi erano difesi da avvocati che (se non appartenenti alla camorra) esigevano congrue parcelle. All’uopo provvedevano i compagni (piccoli furfanti e/o camorristi) dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra i piccoli commercianti e bottegai che aprivano i loro esercizi o nel rione in cui operavano i furfanti/camorristi finiti sotto processo o anche nelle strade adiacenti il tribunale o le carceri. Tale questua finalizzata fu detta ‘a recoveta (la raccolta); da recoveta a recotta il passo è breve ed ancora di piú lo è da recotta a recuttaro/ricuttaro di modo che con l’espressione fà ‘a recotta (fare la ricotta) non si significò produrre il tipico gustoso latticino ricavato dal latte vaccino o piú opportunamente di pecora, ma si indicò l’azione di coloro che facessero quella vessatoria raccolta rammentata , e giacché poi quei medesimi raccoglitori spesso si dedicavano al lenocinio e sfruttamento della prostituzione, furono indicati con la voce ricuttaro/recuttaro voci che estensivamente furono ed ancora sono in uso nel napoletano per indicare chiunque sfrutti qualcuno in qualsiasi campo.
Raffaele Bracale
Da sempre il lenocinio è stato praticato da piccoli furfantelli e/o camorristi; temporibus illis (fine ‘800) i piccoli furfanti e/o camorristi erano arrestati e spesso finivano sotto processo con minaccia di pena certa; durante tali processi furfanti e camorristi erano difesi da avvocati che (se non appartenenti alla camorra) esigevano congrue parcelle. All’uopo provvedevano i compagni (piccoli furfanti e/o camorristi) dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra i piccoli commercianti e bottegai che aprivano i loro esercizi o nel rione in cui operavano i furfanti/camorristi finiti sotto processo o anche nelle strade adiacenti il tribunale o le carceri. Tale questua finalizzata fu detta ‘a recoveta (la raccolta); da recoveta a recotta il passo è breve ed ancora di piú lo è da recotta a recuttaro/ricuttaro di modo che con l’espressione fà ‘a recotta (fare la ricotta) non si significò produrre il tipico gustoso latticino ricavato dal latte vaccino o piú opportunamente di pecora, ma si indicò l’azione di coloro che facessero quella vessatoria raccolta rammentata , e giacché poi quei medesimi raccoglitori spesso si dedicavano al lenocinio e sfruttamento della prostituzione, furono indicati con la voce ricuttaro/recuttaro voci che estensivamente furono ed ancora sono in uso nel napoletano per indicare chiunque sfrutti qualcuno in qualsiasi campo.
Raffaele Bracale
“BBELLA E BBONA” & ALTRO
“BBELLA E BBONA” & ALTRO
bbella e bbona agg.vi f.li = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. *bonam=buona – questa voce per solito sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione formata apparentemente da due agg.vi m.li, ma chè è invece un’espressione avverbiale temporale; l’espressione è bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa di genere maschile, esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma è, come ò anticipato un’ espressione avverbiale con valenza temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso, senza che niente lo lasciasse presagire, in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è mmiso a cchiovere. Rammento in coda che per esprimere il medesimo concetto di fatto improvviso accaduto inopinatamente nel bel mezzo di altri accadimenti che non lo lasciavano presagir, s’usa l’espressione avverbiale con valenza temporale â ‘ntrasatta che è dritto per dritto dal lat. intra res actas→(i)ntra(re)sacta(s)→’ntrasatta =tra cose in corso di opera.
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bbella e bbona agg.vi f.li = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. *bonam=buona – questa voce per solito sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione formata apparentemente da due agg.vi m.li, ma chè è invece un’espressione avverbiale temporale; l’espressione è bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa di genere maschile, esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma è, come ò anticipato un’ espressione avverbiale con valenza temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso, senza che niente lo lasciasse presagire, in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è mmiso a cchiovere. Rammento in coda che per esprimere il medesimo concetto di fatto improvviso accaduto inopinatamente nel bel mezzo di altri accadimenti che non lo lasciavano presagir, s’usa l’espressione avverbiale con valenza temporale â ‘ntrasatta che è dritto per dritto dal lat. intra res actas→(i)ntra(re)sacta(s)→’ntrasatta =tra cose in corso di opera.
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VARIE 1593
1 -TENÉ 'A CAZZIMMA
Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile.
Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo:
d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe.
2 -TENÉ 'A CIMMA 'E SCEROCCO
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
3 -TENÉ 'E CAZZE CA CE ABBALLANO PE CCAPA
Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini.
4 -TENÉ 'A MAGNATORA VASCIA
Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica, e ciò non per proprii meriti, ma per cause derivanti dall’appartenenza a famiglia facoltosa, o per esser sodali di amici e/o parenti munifici e comportarsi irresponsabilmente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese.
5 -TENÉ 'A NEVE DINT'Â SACCA
Ad litteram: tenere la neve in tasca ma meglio nel sacco. Detto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente una meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca.Va da sé che trattasi di un’espressione iperbolica attesa la impossibilità di poter realmente portare in tasca della neve o ghiaccio (basterebbe infatti il solo calore del corpo, per farli sciogliere…).
Questa riportata è la spiegazione che normalmente e popolarmente si dà dell’espressione e non è una spiegazione del tutto erronea: in realtà però piú precisamente la fretta e la dinamicità sottese nell’espressione son quelle dei cosiddetti nevari cioè degli addetti al trasporto della neve che prelevata nei mesi invernali in altura (Vesuvio, Somma, Faito, Matese e monti dell’Avellinese) veniva dapprima conservata in loco in grotte sottorranee dove gelava e poi all’approssimarsi dell’estate, stipata in sacche di iuta veniva trasporta velocemente a dorso di mulo nelle città e paesi per rinfrescare l’acqua e fornire la materia prima per la confezione dei gelati.
Da tanto si ricava che il termine sacca sta ad indicare non solo la tasca di un abito, quanto e qui piú acconciamente (con derivazione da un lat. parlato *sacca(m) femminilizzazione del classico lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia), un grosso recipiente di tela spesso cerata lungo e stretto, aperto in alto, usato per conservare o trasportare materiali incoerenti, o comunque sciolti. Il passaggio dal maschile sacco al femminile sacca si rese necessario perché – come ò piú volte annotato - in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella.
6 -TENÉ 'A PAROLA SUPERCHIA
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'ambito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
superchia agg.vo f.le del maschile supierchio = eccedente, superflua/o, eccessiva/o (dal lat. volg. *superculu(m), deriv. di super 'sopra' ).
7 -TENÉ 'A PÓVERA 'NCOPP' Ê RECCHIE
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - soltanto - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea, ,che usavano per agghindarsi gli antichi dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmenello (pederasta passivo).
8 - TENÉ 'A PUZZA SOTT' Ô NASO
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
9 - TENÉ A UNO APPISO 'NCANNA o anche PURTÀ A UNO APPISO 'NCANNA
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
10 -TENÉ A QUACCUNO APPISO ALL'URDEMO BUTTONE D''A VRACHETTA
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
11 -TENÉ A QUACCUNO 'NCOPP' Ê PPALLE
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
12 -TENÉ 'A SARÀCA DINT' Â SACCA o anche TENÉ 'A QUAGLIA SOTTO
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche averela quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe súbito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
13 -TENÉ 'A SCIORTA 'E CAZZETTA: JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
14 -TENÉ 'A SCIORTA D''O PIECORO CA NASCETTE CURNUTO E MURETTE SCANNATO
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
15 -TENÉ 'A SALUTE D''A CARRAFA D''A ZECCA
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, (la cui capacità era di litri 0,727) ampolla che marcata, tarata e conservata presso la Regia Zecca Napoletana era la unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
Brak
Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile.
Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo:
d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe.
2 -TENÉ 'A CIMMA 'E SCEROCCO
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
3 -TENÉ 'E CAZZE CA CE ABBALLANO PE CCAPA
Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini.
4 -TENÉ 'A MAGNATORA VASCIA
Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica, e ciò non per proprii meriti, ma per cause derivanti dall’appartenenza a famiglia facoltosa, o per esser sodali di amici e/o parenti munifici e comportarsi irresponsabilmente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese.
5 -TENÉ 'A NEVE DINT'Â SACCA
Ad litteram: tenere la neve in tasca ma meglio nel sacco. Detto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente una meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca.Va da sé che trattasi di un’espressione iperbolica attesa la impossibilità di poter realmente portare in tasca della neve o ghiaccio (basterebbe infatti il solo calore del corpo, per farli sciogliere…).
Questa riportata è la spiegazione che normalmente e popolarmente si dà dell’espressione e non è una spiegazione del tutto erronea: in realtà però piú precisamente la fretta e la dinamicità sottese nell’espressione son quelle dei cosiddetti nevari cioè degli addetti al trasporto della neve che prelevata nei mesi invernali in altura (Vesuvio, Somma, Faito, Matese e monti dell’Avellinese) veniva dapprima conservata in loco in grotte sottorranee dove gelava e poi all’approssimarsi dell’estate, stipata in sacche di iuta veniva trasporta velocemente a dorso di mulo nelle città e paesi per rinfrescare l’acqua e fornire la materia prima per la confezione dei gelati.
Da tanto si ricava che il termine sacca sta ad indicare non solo la tasca di un abito, quanto e qui piú acconciamente (con derivazione da un lat. parlato *sacca(m) femminilizzazione del classico lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia), un grosso recipiente di tela spesso cerata lungo e stretto, aperto in alto, usato per conservare o trasportare materiali incoerenti, o comunque sciolti. Il passaggio dal maschile sacco al femminile sacca si rese necessario perché – come ò piú volte annotato - in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella.
6 -TENÉ 'A PAROLA SUPERCHIA
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'ambito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
superchia agg.vo f.le del maschile supierchio = eccedente, superflua/o, eccessiva/o (dal lat. volg. *superculu(m), deriv. di super 'sopra' ).
7 -TENÉ 'A PÓVERA 'NCOPP' Ê RECCHIE
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - soltanto - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea, ,che usavano per agghindarsi gli antichi dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmenello (pederasta passivo).
8 - TENÉ 'A PUZZA SOTT' Ô NASO
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
9 - TENÉ A UNO APPISO 'NCANNA o anche PURTÀ A UNO APPISO 'NCANNA
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
10 -TENÉ A QUACCUNO APPISO ALL'URDEMO BUTTONE D''A VRACHETTA
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
11 -TENÉ A QUACCUNO 'NCOPP' Ê PPALLE
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
12 -TENÉ 'A SARÀCA DINT' Â SACCA o anche TENÉ 'A QUAGLIA SOTTO
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche averela quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe súbito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
13 -TENÉ 'A SCIORTA 'E CAZZETTA: JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
14 -TENÉ 'A SCIORTA D''O PIECORO CA NASCETTE CURNUTO E MURETTE SCANNATO
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
15 -TENÉ 'A SALUTE D''A CARRAFA D''A ZECCA
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, (la cui capacità era di litri 0,727) ampolla che marcata, tarata e conservata presso la Regia Zecca Napoletana era la unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
Brak
VARIE 1592
1 -TENÉ 'A VOCCA SPORCA
Ad litteram:tenere la bocca sporca Detto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
2 - TENÉ 'E CHIRCHIE ALLASCATE
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
3 -TENÉ 'E GGHIORDE
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
4 -TENÉ 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ P''A CAPA
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum (corrotto poi in lapis quadrellatum), seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione in epigrafe.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca ( ca. 1790) di quando furono commercializzate le matite, ne discende che l'ipotesi è da scartare.
5 - TENÉ 'E PPALLE QUADRATE
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici.
6 -TENÉ 'E PECUNE
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume.
7 -TENÉ 'E PAPPICE 'NCAPA
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
8 - TENÉ 'E PPIGNE 'NCAPO
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
9 -TENÉ 'E RRECCHIE 'E PULICANO
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
10 - TENÉ 'E RRECCHIE PE FINIMENTE 'E CAPA
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
brak
Ad litteram:tenere la bocca sporca Detto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
2 - TENÉ 'E CHIRCHIE ALLASCATE
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
3 -TENÉ 'E GGHIORDE
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
4 -TENÉ 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ P''A CAPA
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum (corrotto poi in lapis quadrellatum), seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione in epigrafe.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca ( ca. 1790) di quando furono commercializzate le matite, ne discende che l'ipotesi è da scartare.
5 - TENÉ 'E PPALLE QUADRATE
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici.
6 -TENÉ 'E PECUNE
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume.
7 -TENÉ 'E PAPPICE 'NCAPA
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
8 - TENÉ 'E PPIGNE 'NCAPO
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
9 -TENÉ 'E RRECCHIE 'E PULICANO
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
10 - TENÉ 'E RRECCHIE PE FINIMENTE 'E CAPA
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
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GENOA – NAPOLI (29/01/12) 3 A 2LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
GENOA – NAPOLI (29/01/12) 3 A 2
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Nun ce simmo, guagliù! Nun ce simmo e nun ce simmo! Che ghiurnata nera, guagliú chellad’ajere!Accumminciajemo proprio cu sette parme ‘e capiteme-a-mmé ‘stu ggirone ‘e ritorno..., accumminciajemo ciovè turnanno ‘a Marassi senza manco ‘nu punticiello. Ma i’ m’aspettavo, me ll’aspettavo e nn’avette ‘a cunferma quanno tiranno ‘e somme avette addizziunà ca ‘o Napule ‘ncopp’ a nuvantacinche minute nne jucaje sí e nno diece! Êsse jucato, nun dico assaje, ‘na mez’ora ‘nu punto â casa ce ‘o putevamo purtà! ‘Mmece capitaje ca pe uttantacinche minute ‘o Napule nun ghiucaje o ‘o ffacette senza ggenio e cu ‘e ccosce mosce... pe nun dicere po d’ ‘a jurnata no ‘e De Sanctis, d’ ‘o solito Cannavaro scadente(ca comme sta miso fisicamente assumiglia a Falstaff(o)) e de Marekiaro ca se jette annascunnenno pe tutt’ ‘a partita e cquanno (‘ncopp’ô doje a zzero p’ ‘o Ggenoa) lle capitaje ‘o pallone bbuono p’arapí n’ata vota ‘a rencontra se magnaje ‘a rredda, depositanno muollo muollo ‘o pallone ‘mmano a Ffrey. ‘Nzomma facenno ‘e cunte sott’ô lampione ajere perdettemo ati punte e cu ‘a scunfitta d’ajere oramaje se chiarette ca cu ‘a difesa ca tenimmo nun ghiammo a nnisciuna parte; rifrettimmo bbuono ca sulo ll’urdimi scuatre ô funno d’ ‘a classifica tenono ‘nu rennimiento pejo d’ ‘o nuosto! È inutile ripetere ca cu ‘na difesa accussí, ‘mperniata ‘ncopp’ô frato d’ ‘o guappo d’ ‘a Luggetta, ‘mperniata ‘ncopp’a uno ca marca sempe ê spalle ‘e pponte avverzarie, ca ‘e capa nun ne piglia maje una, ca sbaglia sistematicamente tutt’ ‘e ppúgge (tutti i rilanci), mettenno a disaggio sistematicamente ‘e cumpagne..., cu ‘na difesa accussí cuncertata nun se po’ cumpetere cu ‘e primme quatto d’ ‘o campiunato... anze i’ dico ca si se va avanti ‘e ‘sta manera,ancòra tre o quatto partite e ‘o Napule se trova a lluttà ‘nzona retrocessione! Rendimmoce cunto ca paricchi jucature mancano d’alliciento (di motivazione) e ‘o primmo ‘e tutte è proprio Marekiaro, ca oramaje cammina p’ ‘o campo, se va annasconnenno, aiza póvera e spisso sbaglia ll’uccasione prupizzie (e sperammo ca nun ‘o facesse a pposta!...); oramaje sulo DeLa nun à capito ancòra ca si ‘o guaglione se ne vuleva o se nne vo’ jí aveva e à dda essere libbero ‘e se nne jí,pecché tenerselo pe fforza nun giova a nnisciuno e sserve sulo a arruvinà tutt’ ‘a facenna e â fine chi nne pava ‘e cunzeguenzie è tutt’ ‘a scuatra e nuje aute tifuse!,P’ ‘o riesto po c'è assaje ‘a rivisiunà (da rivedere). Ancòra ‘na vota ‘o turnover(ro) se dimustraje ‘nu fallimento e cchesto nun assolve a Mazzarri, anze nn’aggrava ‘a pusizzione. È isso o no ca dicide ‘o mercato d’ ‘o Napule? Songo tre anne ca nun azzecca n’acquisto, ‘a fora ‘e Cavani; ‘a scuatra è cumposta, ancòra,p’otto unnicesime cu gghiucature ‘e ll’ebbreca ‘e Marino; d’ ‘e tre nuove sulo Cavani è risultato cratisto , Dossena è ‘nu fallimento tutale e fóss’ora ‘e ruttamarlo, e da Inler(ro),ca ajere nun ce stette, stammo ancòra aspettanno ca facesse vedé chi è, sempe ca Mazzarri riesce a lle dà ‘a pusizziona justa! E cchesto pe nun parlà d’ ati acquiste fallimentare, prontamente rijalate , o mannate eternamente a scarfà ‘a panca! ‘E nomme? E che v ‘e ddico a ffà! ‘E cunuscimmo tutte e è inutile ripeterle...; resta ‘o fatto ca p’ apararse ‘o prozo Mazzarri è custretto ad affidarsi ê ssolite ffacce ca ‘e rippe o ‘e rappe ll’assicurano ‘nu rennimento metriuso (mediocre) ma, allimmeno ce sparagnano chilli trabbusciamiente (quei tracolli) sufferute (subíti) cu Cchievo, Parma, Catania, Cesena, Bologna e ajere cu ‘o Genoa. Ripeto: è o nun è isso ‘o respunzabbile d’ ‘o mercato? À dimustrato assaje d’essere nigado (un incapace) e si nun vence ‘a Coppa Italia e nun supera ‘o turno ‘nCiampionsa, nn’ à dda essere cacciato a ccauce ‘nculo e ssi è pussibile à dda resarcí ‘a suggità pe tutt’ ‘e rammagge barate (danni economici) prucurate.Se facesse ‘a bbalicia e se nne jesse purtannose appriesso Cannavaro, Dossena e quaccun’ato Sperammo mo ca miercurí cu ‘o Cesena ‘ncasa riuscimmo a tturnà a vvencere cunvincentemente.Miercurí, cu Lavezzi squalificato e - pe furtuna! - cu ‘o capitano ‘nfurtunato, vedimmo si Mazzarri riesce a sistimà ‘a difesa a mmestiere facenno arrepusà a Campagnaro(mettenno a Fernandez(o)), spustanno Britos(so) a ccentro e chiammanno n’ata vota Aronica; e ppo vedimmo si tene ‘o cuorio ‘e levà a Marekiaro allinianno (schierando) Vargas, Cavani e Pandev dô primmo minuto! E passammo ê ppaggelle:
DE SANCTIS 5 Suffrette pecché ‘a difesa luvarda fuje overamente scuncertante (imbarazzante), ma isso ce mettette ‘o ssuĵo: ‘ncopp’â primma rredda se facette truvà (nun se sape ‘o pecché) ttre mmetre annante â linia ‘e porta e ncopp’â siconna rredda nun facette manco ‘a mossa ‘e ascí ‘ncopp’ a Ggilardino; sulo ncopp’â terza rredda forze nun tenette nisciuna respunzabbilità. Cumplessivamente ‘na jurnata no!
CAMPAGNARO 5 È ‘a tiempo ca ‘o toro argentino êsse ‘a risciatà ‘nu poco e ll’atalossa (prestazione) quase deludente d’ajere ne fuje ‘na cunferma.
CANNAVARO 3,5 Pesadiglio pauruso (incubo spaventoso) ‘a seirista (pessima) atalossa(prestazione) ‘e culo’echiummo ca, assaje ‘mpresuttuto, ncopp’â primma rredda cunzentette a nun me ricordo chi ‘e dà tranquillamente ‘e capa ‘a palla a Ppalacio ca futtette a De Santis (ca steva piglianno accunte tre metre fora d’ ‘a linia ‘e porta) e ncopp’â siconna rredda se perdette a Ggilardino secutannolo inutilmente (e Ggilardino ‘e chisti nun è nu fruvolo ‘e guerra (fulmine di guerra); a pparte po ca sbagliaje cchiú ‘e ‘nu ‘ntervento fino a cquanno stette ‘ncampo.
(Dô 45° MAGGIO 5,5 – Sufferette e cquanto ‘a sfita cu Sculli; ll’unica cosa bbona fuje ‘o cruzzo p’ ‘a rredda ‘e Cavani).
BRITOS 4,5 ‘Nu poco meglio quanno se difennette a cquatto, ma se vede ca nun sta ‘nfromma e cumminfatte arrancaje cchiú ‘e ‘na vota.
ZUNIGA 4, 5 Cercaje ‘e cumbinà coccosa ‘ncopp’â curzia, ma aizaje póvera e facette sulo fuosse ‘nterra, nun preoccupanno maje ll’avverzarie.
(Dô 57° CAVANI 6,5 Pure si trasette troppo tarde riuscette a ddà ‘na speranzella ê suoje, ma quanno ‘o tiempo nun abbastaje cchiú!)
DZEMAILI 6,5 Tutto summato l’atalossa d’ ‘o svizzero nun fuje deludente: currette e s’affannaje senza sparagnarse maje; sbagliaje sulo cocche vvota perdenno ‘o pallone, ma ce mettette sempe ‘na pezza cu ccuorio, cegna e ssanco friddo. Tiraje pericolosamente ‘nu paro ‘e vote e poco mancaje ca nun signasse ‘a rredda d’ ‘o pareggio.
GARGANO 6,5 Sbagliaje ‘nu paro ‘e passagge ‘mpurtante, ma p’ ‘o riesto currette e luttaje assaje; se ‘mmentaje ‘na granna faglia (un grande lancio) pe Lavezzi e ffuje ll'unico a cercà (pure si nun è ccosa soja) nu poco ‘e urganizzazzione ‘e juoco.
DOSSENA 5 Sempe cchiú ‘mpresuttuto, quase comm’ô capitano e ssempe cchiú braduso, nun ‘ncarraje ‘nu cruzzo decente rijalanno spisso ‘o pallone â difesa d’ ‘e crifune.Me sto’ chiagnenno a Vvitale rijalato ô Bbologna!
HAMSIK 4 Svagato e ppoco prisente pe tutt’ ‘a partita, quanno ll’arrivaje ‘o pallone bbuono ch’êsse pututo riaprí ‘a rencontra (partita),neh isso che te fa? Ll’appujaje doce doce ‘mbraccia a Ffrey... E dicimmo ca nun ‘o facette a pposta, ma i’ tenco ‘nu bruttu suspetto! P’ ‘o riesto niente ‘a arricurdà.Aggio ‘a ‘mpressione ca chisto sta facenno ‘o scemo pe se nne jí! Pe mme è mmeglio ca miercurí Mazzarri nun ‘o convoca!
LAVEZZI 5,5 Cercaje ‘e sfruttà ‘a velocità soja, ma ajere ‘e difenzure d’ ‘e crifune fujeno cane ‘e presa e riuscettero a cuntenerlo pe bbona parta d’ ‘a rencontra (partita). Muntaje ‘ncattedra sulo ô finale signanno ‘na rredda overo bbella.
PANDEV 5,5 – Lle venette servuto ‘na sola palla pulita e isso ‘a stette pe mettere dinto ê primme minute ‘e juoco; p’ ‘o riesto d’ ‘a rencontra s’appannaje e ‘e cumpagne nun lle dettero ‘na mana atatta (adeguata).
(Dô 73° VARGAS 5,5 Tuccaje pochi pallune e se dimustraje d’essere ancòra troppo tenneriello p’ ‘o campiunato ttaliano; ma ‘o vulesse vedé ‘ncampo dô primmo minuto!)
MAZZARRI 4 Certo, è commoto criticà quanno ‘o fatto è scuro, ma purtroppo, ‘ncampiunato ‘o Napule joca malamente ‘a ‘nu poco ‘e tiempo: è previsibbile, poco flessibbile, rijala spisso ‘nu tiempo a ll’avverzarie e se lassà dà ‘ncuollo senza reaggí sott’ô colpo. ‘O motulo nun è ssempe adatto, specie ‘ndifesa, pe ll’uommene a disposizzione, pe nun dicere ‘e chi è stracquo (Campagnaro), fora posizione (Inler(ro), senza ggenio (Marekiaro) e ‘mprusuttute (Cannavaro e Dossena) ‘E ddoje rredde signate nun servono a mettere ‘na fronna ‘e fica ‘ncopp’a ll’atalossa seirista d’ ‘a scuatra ca à dda essere assolutamente mudificata miercurí ca vène.
l’arbitro ROCCHI 4‘Sta meza cazetta, cummerciante (ma nun se sape ‘e che...) fiurentino ca ati vvote (me ricordo ‘e ‘nu san Zziro, cu ‘o Milan(no))aveva ggià spezzato ‘e passe napulitane, ajere aumentaje ‘a ddosa d’ ‘o ‘o debbeto ca tene cu nnuje: ’a terza rredda d’ ‘o Ggenoa fuje abbimmata (viziata) da ‘na falta ‘ncuollo a Mmaggio, ca aveva ‘nticipato chillo d’ ‘o Genoa ca ‘o stennette. Ademasso po (Inoltre) Jankovic s’êva jttà fora pecché, doppo ll'ammunizzione ca s’abbuscaje pe ffalta ‘ncuollo a Ccampagnaro nce steva ‘nu siconno cartellino jalizzo pecché retissantemente trattenette a Dossena.
Rocchi ‘nzomma ajere facette paricchi fullune sempe ‘ndanno d’ ‘e napulitane dimustrannose arbitro senza attenzione.
E fermammoce cca. Si ‘o Signore ce ‘o fa vedé ce sentimmo ggiovedí ca vène, speranno ca miercurí ssera ‘o Napule torna a vvencere!
Bbona salute!
R.Bracale Brak
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Nun ce simmo, guagliù! Nun ce simmo e nun ce simmo! Che ghiurnata nera, guagliú chellad’ajere!Accumminciajemo proprio cu sette parme ‘e capiteme-a-mmé ‘stu ggirone ‘e ritorno..., accumminciajemo ciovè turnanno ‘a Marassi senza manco ‘nu punticiello. Ma i’ m’aspettavo, me ll’aspettavo e nn’avette ‘a cunferma quanno tiranno ‘e somme avette addizziunà ca ‘o Napule ‘ncopp’ a nuvantacinche minute nne jucaje sí e nno diece! Êsse jucato, nun dico assaje, ‘na mez’ora ‘nu punto â casa ce ‘o putevamo purtà! ‘Mmece capitaje ca pe uttantacinche minute ‘o Napule nun ghiucaje o ‘o ffacette senza ggenio e cu ‘e ccosce mosce... pe nun dicere po d’ ‘a jurnata no ‘e De Sanctis, d’ ‘o solito Cannavaro scadente(ca comme sta miso fisicamente assumiglia a Falstaff(o)) e de Marekiaro ca se jette annascunnenno pe tutt’ ‘a partita e cquanno (‘ncopp’ô doje a zzero p’ ‘o Ggenoa) lle capitaje ‘o pallone bbuono p’arapí n’ata vota ‘a rencontra se magnaje ‘a rredda, depositanno muollo muollo ‘o pallone ‘mmano a Ffrey. ‘Nzomma facenno ‘e cunte sott’ô lampione ajere perdettemo ati punte e cu ‘a scunfitta d’ajere oramaje se chiarette ca cu ‘a difesa ca tenimmo nun ghiammo a nnisciuna parte; rifrettimmo bbuono ca sulo ll’urdimi scuatre ô funno d’ ‘a classifica tenono ‘nu rennimiento pejo d’ ‘o nuosto! È inutile ripetere ca cu ‘na difesa accussí, ‘mperniata ‘ncopp’ô frato d’ ‘o guappo d’ ‘a Luggetta, ‘mperniata ‘ncopp’a uno ca marca sempe ê spalle ‘e pponte avverzarie, ca ‘e capa nun ne piglia maje una, ca sbaglia sistematicamente tutt’ ‘e ppúgge (tutti i rilanci), mettenno a disaggio sistematicamente ‘e cumpagne..., cu ‘na difesa accussí cuncertata nun se po’ cumpetere cu ‘e primme quatto d’ ‘o campiunato... anze i’ dico ca si se va avanti ‘e ‘sta manera,ancòra tre o quatto partite e ‘o Napule se trova a lluttà ‘nzona retrocessione! Rendimmoce cunto ca paricchi jucature mancano d’alliciento (di motivazione) e ‘o primmo ‘e tutte è proprio Marekiaro, ca oramaje cammina p’ ‘o campo, se va annasconnenno, aiza póvera e spisso sbaglia ll’uccasione prupizzie (e sperammo ca nun ‘o facesse a pposta!...); oramaje sulo DeLa nun à capito ancòra ca si ‘o guaglione se ne vuleva o se nne vo’ jí aveva e à dda essere libbero ‘e se nne jí,pecché tenerselo pe fforza nun giova a nnisciuno e sserve sulo a arruvinà tutt’ ‘a facenna e â fine chi nne pava ‘e cunzeguenzie è tutt’ ‘a scuatra e nuje aute tifuse!,P’ ‘o riesto po c'è assaje ‘a rivisiunà (da rivedere). Ancòra ‘na vota ‘o turnover(ro) se dimustraje ‘nu fallimento e cchesto nun assolve a Mazzarri, anze nn’aggrava ‘a pusizzione. È isso o no ca dicide ‘o mercato d’ ‘o Napule? Songo tre anne ca nun azzecca n’acquisto, ‘a fora ‘e Cavani; ‘a scuatra è cumposta, ancòra,p’otto unnicesime cu gghiucature ‘e ll’ebbreca ‘e Marino; d’ ‘e tre nuove sulo Cavani è risultato cratisto , Dossena è ‘nu fallimento tutale e fóss’ora ‘e ruttamarlo, e da Inler(ro),ca ajere nun ce stette, stammo ancòra aspettanno ca facesse vedé chi è, sempe ca Mazzarri riesce a lle dà ‘a pusizziona justa! E cchesto pe nun parlà d’ ati acquiste fallimentare, prontamente rijalate , o mannate eternamente a scarfà ‘a panca! ‘E nomme? E che v ‘e ddico a ffà! ‘E cunuscimmo tutte e è inutile ripeterle...; resta ‘o fatto ca p’ apararse ‘o prozo Mazzarri è custretto ad affidarsi ê ssolite ffacce ca ‘e rippe o ‘e rappe ll’assicurano ‘nu rennimento metriuso (mediocre) ma, allimmeno ce sparagnano chilli trabbusciamiente (quei tracolli) sufferute (subíti) cu Cchievo, Parma, Catania, Cesena, Bologna e ajere cu ‘o Genoa. Ripeto: è o nun è isso ‘o respunzabbile d’ ‘o mercato? À dimustrato assaje d’essere nigado (un incapace) e si nun vence ‘a Coppa Italia e nun supera ‘o turno ‘nCiampionsa, nn’ à dda essere cacciato a ccauce ‘nculo e ssi è pussibile à dda resarcí ‘a suggità pe tutt’ ‘e rammagge barate (danni economici) prucurate.Se facesse ‘a bbalicia e se nne jesse purtannose appriesso Cannavaro, Dossena e quaccun’ato Sperammo mo ca miercurí cu ‘o Cesena ‘ncasa riuscimmo a tturnà a vvencere cunvincentemente.Miercurí, cu Lavezzi squalificato e - pe furtuna! - cu ‘o capitano ‘nfurtunato, vedimmo si Mazzarri riesce a sistimà ‘a difesa a mmestiere facenno arrepusà a Campagnaro(mettenno a Fernandez(o)), spustanno Britos(so) a ccentro e chiammanno n’ata vota Aronica; e ppo vedimmo si tene ‘o cuorio ‘e levà a Marekiaro allinianno (schierando) Vargas, Cavani e Pandev dô primmo minuto! E passammo ê ppaggelle:
DE SANCTIS 5 Suffrette pecché ‘a difesa luvarda fuje overamente scuncertante (imbarazzante), ma isso ce mettette ‘o ssuĵo: ‘ncopp’â primma rredda se facette truvà (nun se sape ‘o pecché) ttre mmetre annante â linia ‘e porta e ncopp’â siconna rredda nun facette manco ‘a mossa ‘e ascí ‘ncopp’ a Ggilardino; sulo ncopp’â terza rredda forze nun tenette nisciuna respunzabbilità. Cumplessivamente ‘na jurnata no!
CAMPAGNARO 5 È ‘a tiempo ca ‘o toro argentino êsse ‘a risciatà ‘nu poco e ll’atalossa (prestazione) quase deludente d’ajere ne fuje ‘na cunferma.
CANNAVARO 3,5 Pesadiglio pauruso (incubo spaventoso) ‘a seirista (pessima) atalossa(prestazione) ‘e culo’echiummo ca, assaje ‘mpresuttuto, ncopp’â primma rredda cunzentette a nun me ricordo chi ‘e dà tranquillamente ‘e capa ‘a palla a Ppalacio ca futtette a De Santis (ca steva piglianno accunte tre metre fora d’ ‘a linia ‘e porta) e ncopp’â siconna rredda se perdette a Ggilardino secutannolo inutilmente (e Ggilardino ‘e chisti nun è nu fruvolo ‘e guerra (fulmine di guerra); a pparte po ca sbagliaje cchiú ‘e ‘nu ‘ntervento fino a cquanno stette ‘ncampo.
(Dô 45° MAGGIO 5,5 – Sufferette e cquanto ‘a sfita cu Sculli; ll’unica cosa bbona fuje ‘o cruzzo p’ ‘a rredda ‘e Cavani).
BRITOS 4,5 ‘Nu poco meglio quanno se difennette a cquatto, ma se vede ca nun sta ‘nfromma e cumminfatte arrancaje cchiú ‘e ‘na vota.
ZUNIGA 4, 5 Cercaje ‘e cumbinà coccosa ‘ncopp’â curzia, ma aizaje póvera e facette sulo fuosse ‘nterra, nun preoccupanno maje ll’avverzarie.
(Dô 57° CAVANI 6,5 Pure si trasette troppo tarde riuscette a ddà ‘na speranzella ê suoje, ma quanno ‘o tiempo nun abbastaje cchiú!)
DZEMAILI 6,5 Tutto summato l’atalossa d’ ‘o svizzero nun fuje deludente: currette e s’affannaje senza sparagnarse maje; sbagliaje sulo cocche vvota perdenno ‘o pallone, ma ce mettette sempe ‘na pezza cu ccuorio, cegna e ssanco friddo. Tiraje pericolosamente ‘nu paro ‘e vote e poco mancaje ca nun signasse ‘a rredda d’ ‘o pareggio.
GARGANO 6,5 Sbagliaje ‘nu paro ‘e passagge ‘mpurtante, ma p’ ‘o riesto currette e luttaje assaje; se ‘mmentaje ‘na granna faglia (un grande lancio) pe Lavezzi e ffuje ll'unico a cercà (pure si nun è ccosa soja) nu poco ‘e urganizzazzione ‘e juoco.
DOSSENA 5 Sempe cchiú ‘mpresuttuto, quase comm’ô capitano e ssempe cchiú braduso, nun ‘ncarraje ‘nu cruzzo decente rijalanno spisso ‘o pallone â difesa d’ ‘e crifune.Me sto’ chiagnenno a Vvitale rijalato ô Bbologna!
HAMSIK 4 Svagato e ppoco prisente pe tutt’ ‘a partita, quanno ll’arrivaje ‘o pallone bbuono ch’êsse pututo riaprí ‘a rencontra (partita),neh isso che te fa? Ll’appujaje doce doce ‘mbraccia a Ffrey... E dicimmo ca nun ‘o facette a pposta, ma i’ tenco ‘nu bruttu suspetto! P’ ‘o riesto niente ‘a arricurdà.Aggio ‘a ‘mpressione ca chisto sta facenno ‘o scemo pe se nne jí! Pe mme è mmeglio ca miercurí Mazzarri nun ‘o convoca!
LAVEZZI 5,5 Cercaje ‘e sfruttà ‘a velocità soja, ma ajere ‘e difenzure d’ ‘e crifune fujeno cane ‘e presa e riuscettero a cuntenerlo pe bbona parta d’ ‘a rencontra (partita). Muntaje ‘ncattedra sulo ô finale signanno ‘na rredda overo bbella.
PANDEV 5,5 – Lle venette servuto ‘na sola palla pulita e isso ‘a stette pe mettere dinto ê primme minute ‘e juoco; p’ ‘o riesto d’ ‘a rencontra s’appannaje e ‘e cumpagne nun lle dettero ‘na mana atatta (adeguata).
(Dô 73° VARGAS 5,5 Tuccaje pochi pallune e se dimustraje d’essere ancòra troppo tenneriello p’ ‘o campiunato ttaliano; ma ‘o vulesse vedé ‘ncampo dô primmo minuto!)
MAZZARRI 4 Certo, è commoto criticà quanno ‘o fatto è scuro, ma purtroppo, ‘ncampiunato ‘o Napule joca malamente ‘a ‘nu poco ‘e tiempo: è previsibbile, poco flessibbile, rijala spisso ‘nu tiempo a ll’avverzarie e se lassà dà ‘ncuollo senza reaggí sott’ô colpo. ‘O motulo nun è ssempe adatto, specie ‘ndifesa, pe ll’uommene a disposizzione, pe nun dicere ‘e chi è stracquo (Campagnaro), fora posizione (Inler(ro), senza ggenio (Marekiaro) e ‘mprusuttute (Cannavaro e Dossena) ‘E ddoje rredde signate nun servono a mettere ‘na fronna ‘e fica ‘ncopp’a ll’atalossa seirista d’ ‘a scuatra ca à dda essere assolutamente mudificata miercurí ca vène.
l’arbitro ROCCHI 4‘Sta meza cazetta, cummerciante (ma nun se sape ‘e che...) fiurentino ca ati vvote (me ricordo ‘e ‘nu san Zziro, cu ‘o Milan(no))aveva ggià spezzato ‘e passe napulitane, ajere aumentaje ‘a ddosa d’ ‘o ‘o debbeto ca tene cu nnuje: ’a terza rredda d’ ‘o Ggenoa fuje abbimmata (viziata) da ‘na falta ‘ncuollo a Mmaggio, ca aveva ‘nticipato chillo d’ ‘o Genoa ca ‘o stennette. Ademasso po (Inoltre) Jankovic s’êva jttà fora pecché, doppo ll'ammunizzione ca s’abbuscaje pe ffalta ‘ncuollo a Ccampagnaro nce steva ‘nu siconno cartellino jalizzo pecché retissantemente trattenette a Dossena.
Rocchi ‘nzomma ajere facette paricchi fullune sempe ‘ndanno d’ ‘e napulitane dimustrannose arbitro senza attenzione.
E fermammoce cca. Si ‘o Signore ce ‘o fa vedé ce sentimmo ggiovedí ca vène, speranno ca miercurí ssera ‘o Napule torna a vvencere!
Bbona salute!
R.Bracale Brak
domenica 29 gennaio 2012
DIFESA DEL NAPOLETANO
DIFESA DEL NAPOLETANO
Confesso di non sopportare certi sciocchi, paludati signori che si ostinano, in nome di una malintesa eleganza, a pretendere dai figlioli o da altri congiunti di esprimersi in un italiano piú o meno corretto, lasciando da parte il napoletano ( che io per lunghissimo tempo definii lingua e che solo da poco , su consiglio dell’amico prof. Carlo Iandolo, insigne glottologo, ò preso a definire parlata o idioma , per non incorrere nelle ire di qualche paludato professore universitario) quel napoletano che essi (quei taluni sciocchi, paludati signori) considerano un volgare, riduttivo dialetto malamente inteso come linguaggio minore tributario della lingua ufficiale(dimenticando che la parola dialetto deriva dal lat. tardo dialecto(n) , che è dal gr. diálektos ='lingua', deriv. di dialéghesthai 'conversare') e non invece parlata autonoma, spesso a ampia diffusione regionale, figlia del tardo latino e di quello volgare, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli in tutto il meridione, non diventato lingua nazionale solo per la protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni scrittori e/o poeti toscani!
1) Quello che non riesco a deglutire è che il fiorentino, sia diventato lingua nazionale peraltro (se non ricordo male,e non ricordo male!) rubando a piene mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali:tutti riconoscono che l'italiano moderno è infatti, come spesso accade con le lingue nazionali, un dialetto che è riuscito, per motivi a volte incomprensibili, a far carriera; ad imporsi, cioè, come lingua ufficiale di una regione molto piú vasta di quella originaria. Alla base dell’italiano si trova infatti il fiorentino letterario usato nel Trecento da Dante (1265 -†1321), Petrarca(1304 -†1374), e Boccaccio(1313 -†1375), ed influenzato dalla lingua siciliana letteraria elaborata in origine dalla Scuola siciliana di Giacomo da Lentini (1230-†1250) e dal modello latino.) pervenendo alle nostre latitudine anche per il tramite degli invasori lombardo- piemontesi, soppiantando o almeno tentando di soppiantare (senza riuscirvi) la ns. parlata autoctona costruita nobilmente, come del resto il fiorentino,e tutti gli altri linguaggi locali dell’Italia, verosimilmente sul latino volgare (parlato dal popolo, volgo) parlato in età classica (e non direttamente dal latino illustre, che fu la lingua usata dai letterati dell'epoca).Non riesco a digerire questa faccenda e mi chiedo cosa abbia piú del napoletano, l’italiano se si esclude la proditoria diffusione voluta dai Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di ministri, filosofi e professori che per anni ànno imposto a schiere di poveri indifesi ragazzi Divine Commedie e Promessi Sposi, Libri Cuore etc. a colazione, pranzo e cena!
2) L’italiano (ch’io considero – nun ve mettite a rirere…la lingua straniera che parlo e scrivo correntemente accanto al francese scolastico che un mio amico parigino, dopo piú di cinquant’anni, m’à costretto a ripigliare in mano) è stato insomma in buona parte la lingua degli invasori, né bisogna dimenticare che alle ns. latitudini anche tra la cosiddetta alta borghesia, mai fu accettata del tutto… Ricordiamoci che tra il 1915 ed il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a difendere i sacri ( la retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone nordiche…) confini d’Italia, parlavano il napoletano e non riuscendo a capire gli ordini dati in italiano finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando le cuoia per una patria sentita tale solo nella pomposità interessata di E.A.Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta(Napoli 1884 - † ivi 1961)e della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati graduati partenopei che avessero tradotto gli ordini dall’italiano al napoletano, forse meno mamme e spose e sorelle napoletane, lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e pugliesi avrebbero pianto i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del Carso ed altre impervie alture estranee alle loro terre d’origine!
3)Non sono infine molto d’accordo su quanto affermato dal prof. Nicola De Blasi che tempo fa insistí nel dimostrare (?) ed affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli "capitale" del regno meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle altre regioni del Sud, che continuarono a conservare ed attuare un proprio sistema linguistico;invece ancóra mo, se si va ad indagare nei linguaggi di Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie si possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto nomine!) forse con le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini,tentò di rifarsi una verginità, sprovincializzandosi nella speranza forse di passare un giorno dalla Federico II ad università piú prestigiose (Luiss, Bocconi etc.).
Difendo perciò a spada tratta il napoletano e mi auguro che prima o poi chi cumanna ‘a quatriglia prenda una decisione storica e si decida a fare insegnare l’idioma partenopeo almeno nel merdione, in tutte le scuole d’ogni ordine e grado affidandone l’insegnamento non a strascinafacenne incolti e presuntuosi né ai soliti noti amici degli amici, ma ad appassionati e preparati studiosi sia pure estranei ai palazzi del potere.
Hoc est in votis!
Raffaele Bracale
Confesso di non sopportare certi sciocchi, paludati signori che si ostinano, in nome di una malintesa eleganza, a pretendere dai figlioli o da altri congiunti di esprimersi in un italiano piú o meno corretto, lasciando da parte il napoletano ( che io per lunghissimo tempo definii lingua e che solo da poco , su consiglio dell’amico prof. Carlo Iandolo, insigne glottologo, ò preso a definire parlata o idioma , per non incorrere nelle ire di qualche paludato professore universitario) quel napoletano che essi (quei taluni sciocchi, paludati signori) considerano un volgare, riduttivo dialetto malamente inteso come linguaggio minore tributario della lingua ufficiale(dimenticando che la parola dialetto deriva dal lat. tardo dialecto(n) , che è dal gr. diálektos ='lingua', deriv. di dialéghesthai 'conversare') e non invece parlata autonoma, spesso a ampia diffusione regionale, figlia del tardo latino e di quello volgare, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli in tutto il meridione, non diventato lingua nazionale solo per la protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni scrittori e/o poeti toscani!
1) Quello che non riesco a deglutire è che il fiorentino, sia diventato lingua nazionale peraltro (se non ricordo male,e non ricordo male!) rubando a piene mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali:tutti riconoscono che l'italiano moderno è infatti, come spesso accade con le lingue nazionali, un dialetto che è riuscito, per motivi a volte incomprensibili, a far carriera; ad imporsi, cioè, come lingua ufficiale di una regione molto piú vasta di quella originaria. Alla base dell’italiano si trova infatti il fiorentino letterario usato nel Trecento da Dante (1265 -†1321), Petrarca(1304 -†1374), e Boccaccio(1313 -†1375), ed influenzato dalla lingua siciliana letteraria elaborata in origine dalla Scuola siciliana di Giacomo da Lentini (1230-†1250) e dal modello latino.) pervenendo alle nostre latitudine anche per il tramite degli invasori lombardo- piemontesi, soppiantando o almeno tentando di soppiantare (senza riuscirvi) la ns. parlata autoctona costruita nobilmente, come del resto il fiorentino,e tutti gli altri linguaggi locali dell’Italia, verosimilmente sul latino volgare (parlato dal popolo, volgo) parlato in età classica (e non direttamente dal latino illustre, che fu la lingua usata dai letterati dell'epoca).Non riesco a digerire questa faccenda e mi chiedo cosa abbia piú del napoletano, l’italiano se si esclude la proditoria diffusione voluta dai Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di ministri, filosofi e professori che per anni ànno imposto a schiere di poveri indifesi ragazzi Divine Commedie e Promessi Sposi, Libri Cuore etc. a colazione, pranzo e cena!
2) L’italiano (ch’io considero – nun ve mettite a rirere…la lingua straniera che parlo e scrivo correntemente accanto al francese scolastico che un mio amico parigino, dopo piú di cinquant’anni, m’à costretto a ripigliare in mano) è stato insomma in buona parte la lingua degli invasori, né bisogna dimenticare che alle ns. latitudini anche tra la cosiddetta alta borghesia, mai fu accettata del tutto… Ricordiamoci che tra il 1915 ed il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a difendere i sacri ( la retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone nordiche…) confini d’Italia, parlavano il napoletano e non riuscendo a capire gli ordini dati in italiano finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando le cuoia per una patria sentita tale solo nella pomposità interessata di E.A.Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta(Napoli 1884 - † ivi 1961)e della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati graduati partenopei che avessero tradotto gli ordini dall’italiano al napoletano, forse meno mamme e spose e sorelle napoletane, lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e pugliesi avrebbero pianto i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del Carso ed altre impervie alture estranee alle loro terre d’origine!
3)Non sono infine molto d’accordo su quanto affermato dal prof. Nicola De Blasi che tempo fa insistí nel dimostrare (?) ed affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli "capitale" del regno meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle altre regioni del Sud, che continuarono a conservare ed attuare un proprio sistema linguistico;invece ancóra mo, se si va ad indagare nei linguaggi di Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie si possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto nomine!) forse con le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini,tentò di rifarsi una verginità, sprovincializzandosi nella speranza forse di passare un giorno dalla Federico II ad università piú prestigiose (Luiss, Bocconi etc.).
Difendo perciò a spada tratta il napoletano e mi auguro che prima o poi chi cumanna ‘a quatriglia prenda una decisione storica e si decida a fare insegnare l’idioma partenopeo almeno nel merdione, in tutte le scuole d’ogni ordine e grado affidandone l’insegnamento non a strascinafacenne incolti e presuntuosi né ai soliti noti amici degli amici, ma ad appassionati e preparati studiosi sia pure estranei ai palazzi del potere.
Hoc est in votis!
Raffaele Bracale
varie 1591
1.Chi tène mali ccerevelle, tène bboni ccosce...
Chi à cattivo cervello, deve avere buone gambe, per sopperire con il moto alle dimenticanze o agli sbagli derivanti dal proprio cattivo intendere.
2.Mettere 'o ppepe 'nculo â zòccola.
Letteralmente:introdurre pepe neli’ano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora ci si serviva in primis, come mezzo di trasporto, delle navi , capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci, attratti dalle granaglie, solcassero i mari grossi topi ( in napoletano zoccole al sg zoccola dal lat. sorcula diminutivo di sorex), che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero nell'ano delle bestie e poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in luogo di metter pace in una disputa,si diverte e gode ad attizzare il fuoco della discussione fra terzi...
3.Pure 'e pulice tenono 'a tosse...
Anche le pulci tossiscono - Id est: anche le persone insignificanti tossiscono, ossia vogliono esprimere il proprio parere.Espressione usata a sarcastico commento delle risibili azioni di chi mancando di forza e/o argomenti voglia ugualmente farsi notare esprimendo (ovviamente a sproposito) pareri o giudizi in ordine ad accadimenti cui assistano o passivamente partecipino.
4.Dice bbuono 'o ditto 'e vascio/ quanno parla della donna: “una bbona ce ne steva/ e 'a facettero Madonna...”
Ben dice il detto terrestre allorché parla della donna: “Ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna...” Id est: La donna, in quanto tale, è un essere inaffidabile - La quartina, violentemente misogina è tratta dal poemetto 'MPARAVISO del grande poeta Ferdinando Russo
5.Dicere 'a messa cu 'o tezzone.
Celebrare la messa con un tizzone ardente(in mancanza di ceri...)Id est: quando c'è un dovere da compiere, bisogna farlo quale che siano le condizioni in cui ci si trovi, adattandosi alle circostanze. La locuzione è usata a sapido commento di situazioni in cui regni l’inopia…
6.Jammo, ca mo s'aiza!
Muoviamoci ché ora si leva(il sipario)! - Era l'avviso che il servo di scena dava agli attori per avvertirli di tenersi pronti , perché lo spettacolo stava per iniziare. Oggi lo si usa per esortare all’azione in modo generico nell'imminenza di una qualsiasi attività per la quale occorre prepararsi.
7.Chello è bbello 'o prutusino, va 'a gatta e nce piscia ‘a coppa...
Il prezzemolo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge sopra - Amaro commento di chi si trova in una situazione già di per sé precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora maggiormente...
8.Quanno vide 'o ffuoco a' casa 'e ll'ate, curre cu ll'acqua a' casa toja...
Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura.
9.Giorgio se ne vò jí e 'o vescovo n' 'o vo’ mannà.
Giorgio intende andar via e il vescovo vuole cacciarlo. L'icastica espressione fotografa un rapporto nel quale due persone intendono perseguire il medesimo fine, ma nessuno à il coraggio di prendere l'iniziativa, come nel caso del prelato e del suo domestico...
10.Fa mmiria ô tre 'e bastone.
Fa invidia al tre di bastoni- Ironico riferimento ad una donna che abbia il labbro superiore provvisto di eccessiva peluria, tale da destare addirittura l'invidia del 3 di bastoni, che nel mazzo di carte napoletano è rappresentato da un mascherone di uomo provvisto di esorbitanti baffi a manubrio, mascherone sovrastante l'incrocio di tre nodosi randelli.
11.Si 'a fatica fosse bbona, 'a facessero 'e prievete.
Se il lavoro fosse una cosa buona lo farebbero i preti(che per solito non fanno niente. Nella considerazione popolare il ministero sacerdotale è ritenuto cosa che non implica lavoro.
12. Avimmo cassato n' atu rigo 'a sott' ô sunetto.
Letteralmente: Abbiamo cancellato un altro verso dal sonetto, che - nella sua forma classica - conta appena 14 versi. Cioè: abbiamo ulteriormernte diminuito le nostre già esigue pretese. La frase è usata con senso di disappunto tutte le volte che mutano in peggio situazioni di per sé non abbondanti...
13.È gghiuto 'o caso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
È finito il cacio di sotto ed i maccheroni al di sopra. Cioè:La situazione si è voluta in maniera contraria alle attese e/o alla loicità; si è rivoltato il mondo.Normalmente infatti il cacio grattugiato dovrebbe guarnire dal di sopra una portata di maccheroni, non farle da strame.
14. À fatto marenna a sarachielle.
À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa.In senso esteso: non à ottenuto dalla propria azione i risultati sperati…
15. Fà ll'arte 'e Michelasso: magnà, vevere e gghí a spasso.
Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente...
16.So' ghiute 'e prievete 'ncopp'ô campo
Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:un tempo, quando era loro concesso i preti erano comunque costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco...
17.Nun vulè nè tirà, nè scurtecà...
Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità; locuzione mutuata dall’atteggiamento di taluni operai conciatori di pelli quando non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla scuoiatura.
18. Purtà'e fierre a sant' Aloja.
Recare i ferri a Sant'Eligio. Alla chiesa napoletana di sant'Eligio ( nei pressi di piazza Mercato) i vetturini da nolo solevano portare, per ringraziamento, i ferri dismessi dei cavalli ormai fuori servizio.Per traslato l'espressione si usa con riferimento furbesco agli uomini che per raggiunti limiti di età, non possono piú permettersi divagazioni sessuali...
19.'O Pataterno 'nzerra 'na porta e arape 'nu purtone.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
20. Nun tené pile 'nfaccia e gghí a sfottere ô barbiere
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che pur mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si voglia ergere e ci si erge ad ipercritico e spaccone.
brak
Chi à cattivo cervello, deve avere buone gambe, per sopperire con il moto alle dimenticanze o agli sbagli derivanti dal proprio cattivo intendere.
2.Mettere 'o ppepe 'nculo â zòccola.
Letteralmente:introdurre pepe neli’ano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora ci si serviva in primis, come mezzo di trasporto, delle navi , capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci, attratti dalle granaglie, solcassero i mari grossi topi ( in napoletano zoccole al sg zoccola dal lat. sorcula diminutivo di sorex), che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero nell'ano delle bestie e poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in luogo di metter pace in una disputa,si diverte e gode ad attizzare il fuoco della discussione fra terzi...
3.Pure 'e pulice tenono 'a tosse...
Anche le pulci tossiscono - Id est: anche le persone insignificanti tossiscono, ossia vogliono esprimere il proprio parere.Espressione usata a sarcastico commento delle risibili azioni di chi mancando di forza e/o argomenti voglia ugualmente farsi notare esprimendo (ovviamente a sproposito) pareri o giudizi in ordine ad accadimenti cui assistano o passivamente partecipino.
4.Dice bbuono 'o ditto 'e vascio/ quanno parla della donna: “una bbona ce ne steva/ e 'a facettero Madonna...”
Ben dice il detto terrestre allorché parla della donna: “Ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna...” Id est: La donna, in quanto tale, è un essere inaffidabile - La quartina, violentemente misogina è tratta dal poemetto 'MPARAVISO del grande poeta Ferdinando Russo
5.Dicere 'a messa cu 'o tezzone.
Celebrare la messa con un tizzone ardente(in mancanza di ceri...)Id est: quando c'è un dovere da compiere, bisogna farlo quale che siano le condizioni in cui ci si trovi, adattandosi alle circostanze. La locuzione è usata a sapido commento di situazioni in cui regni l’inopia…
6.Jammo, ca mo s'aiza!
Muoviamoci ché ora si leva(il sipario)! - Era l'avviso che il servo di scena dava agli attori per avvertirli di tenersi pronti , perché lo spettacolo stava per iniziare. Oggi lo si usa per esortare all’azione in modo generico nell'imminenza di una qualsiasi attività per la quale occorre prepararsi.
7.Chello è bbello 'o prutusino, va 'a gatta e nce piscia ‘a coppa...
Il prezzemolo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge sopra - Amaro commento di chi si trova in una situazione già di per sé precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora maggiormente...
8.Quanno vide 'o ffuoco a' casa 'e ll'ate, curre cu ll'acqua a' casa toja...
Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura.
9.Giorgio se ne vò jí e 'o vescovo n' 'o vo’ mannà.
Giorgio intende andar via e il vescovo vuole cacciarlo. L'icastica espressione fotografa un rapporto nel quale due persone intendono perseguire il medesimo fine, ma nessuno à il coraggio di prendere l'iniziativa, come nel caso del prelato e del suo domestico...
10.Fa mmiria ô tre 'e bastone.
Fa invidia al tre di bastoni- Ironico riferimento ad una donna che abbia il labbro superiore provvisto di eccessiva peluria, tale da destare addirittura l'invidia del 3 di bastoni, che nel mazzo di carte napoletano è rappresentato da un mascherone di uomo provvisto di esorbitanti baffi a manubrio, mascherone sovrastante l'incrocio di tre nodosi randelli.
11.Si 'a fatica fosse bbona, 'a facessero 'e prievete.
Se il lavoro fosse una cosa buona lo farebbero i preti(che per solito non fanno niente. Nella considerazione popolare il ministero sacerdotale è ritenuto cosa che non implica lavoro.
12. Avimmo cassato n' atu rigo 'a sott' ô sunetto.
Letteralmente: Abbiamo cancellato un altro verso dal sonetto, che - nella sua forma classica - conta appena 14 versi. Cioè: abbiamo ulteriormernte diminuito le nostre già esigue pretese. La frase è usata con senso di disappunto tutte le volte che mutano in peggio situazioni di per sé non abbondanti...
13.È gghiuto 'o caso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
È finito il cacio di sotto ed i maccheroni al di sopra. Cioè:La situazione si è voluta in maniera contraria alle attese e/o alla loicità; si è rivoltato il mondo.Normalmente infatti il cacio grattugiato dovrebbe guarnire dal di sopra una portata di maccheroni, non farle da strame.
14. À fatto marenna a sarachielle.
À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa.In senso esteso: non à ottenuto dalla propria azione i risultati sperati…
15. Fà ll'arte 'e Michelasso: magnà, vevere e gghí a spasso.
Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente...
16.So' ghiute 'e prievete 'ncopp'ô campo
Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:un tempo, quando era loro concesso i preti erano comunque costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco...
17.Nun vulè nè tirà, nè scurtecà...
Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità; locuzione mutuata dall’atteggiamento di taluni operai conciatori di pelli quando non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla scuoiatura.
18. Purtà'e fierre a sant' Aloja.
Recare i ferri a Sant'Eligio. Alla chiesa napoletana di sant'Eligio ( nei pressi di piazza Mercato) i vetturini da nolo solevano portare, per ringraziamento, i ferri dismessi dei cavalli ormai fuori servizio.Per traslato l'espressione si usa con riferimento furbesco agli uomini che per raggiunti limiti di età, non possono piú permettersi divagazioni sessuali...
19.'O Pataterno 'nzerra 'na porta e arape 'nu purtone.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
20. Nun tené pile 'nfaccia e gghí a sfottere ô barbiere
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che pur mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si voglia ergere e ci si erge ad ipercritico e spaccone.
brak
VARIE 1590
1.È FFERNUTA 'A ZEZZENELLA!
Letteralmente: è terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami!
La voce zezzenella è un s.vo f.le collaterale di zezzella s.vo f.le diminutivo di zizza= mammella (dal lat. titta(m)→zizza.
2.È MMUORTO 'ALIFANTE!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussieguo , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...
3.CHI SE FA PUNTONE, 'O CANE 'O PISCIA 'NCUOLLO...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro, il cane gli minge addosso. E'l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere
4.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHIST' ACCUNTO...
Letteralmente: Tròvati chiuso e perditi questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si stia per compiere, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
5.È MMEGLIO A ESSERE PARENTE Ô FAZZULETTO CA Â COPPOLA.
Conviene esser parente della donna piuttosto che dell' uomo. In effetti, formandosi una nuova famiglia, è tenuta maggiormente in considerazione la famiglia d'origine della sposa che quella dello sposo.
6.ÒGNE STRUNZO TENE 'O FUMMO SUJO.
Letteralmente: Ogni stronzo sprigiona un fumo. Id est:ogni sciocco à modo di farsi notare
7. CUNSIGLIO 'E VORPE, RAMMAGGIO 'E GALLINE.
Lett.:consiglio di volpi, danno di galline. Id est: Quando confabulano furbi o maleintenzionati, ne deriva certamente un danno per i piú sciocchi o piú buoni. Per traslato: se parlottano tra di loro i superiori, gli inferiori ne subiranno le conseguenze.
8.CHIACCHIERE E TABBACCHERE 'E LIGNAMMO, 'O BBANCO NUN NE 'MPEGNA.
Letteralmente: chiacchiere e tabacchiere di legno non sono prese in pegno dal banco. Il banco in questione era il Monte dei Pegni sorto a Napoli nel 1539 per combattere la piaga dell'usura. Da esso prese vita il Banco di Napoli, fiore all'occhiello di tutta l'economia meridionale, Banco che è durato sino all'anno 2000 quando, a completamento dell'opera iniziata nel 1860 da Cavour e Garibaldi e da casa Savoia, non è stato fagocitato dal piemontese Istituto bancario San Paolo di Torino. La locuzione proclama la necessaria concretezza dei beni offerti in pegno, beni che non possono essere evanescenti come le parole o oggetti non preziosi. Per traslato l'espressione si usa nei confronti di chi vorrebbe offrirci in luogo di serie e conclamate azioni, improbabili e vacue promesse.
9.FEMMENE E GRAVUNE: STUTATE TÉGNONO E APPICCIATE CÒCENO.
Letteralmente: donne e carboni: spenti tingono e accesi bruciano. Id est: quale che sia il loro stato, donne e carboni sono ugulmente deleterii.
10. VENÍ ARMATO 'E PIETRA POMMECE, CUGLIE CUGLI E FIERRE 'E CAZETTE.
Letteralmente: giungere munito di pietra pomice, aghi sottili e ferri(piú doppi)da calze ossia di tutto il necessario ed occorrente per portare a termine qualsivoglia operazione cui si sia stati chiamati. Id est: esser pronti alla bisogna, essere in condizione di attendere al richiesto in quanto armati degli strumenti adatti.
11. JÍ STOCCO E TURNÀ BACCALÀ.
Letteralmente: andare stoccafisso e ritornare baccalà. La locuzione viene usata quando si voglia commentare negativamente un'azione compiuta senza che abbia prodotto risultati apprezzabiliIn effetti sia che lo si secchi-stoccafisso-, sia che lo si sali-baccalà- il merluzzo rimane la povera cosa che è.
12.ESSERE LL'URDEMU LAMPIONE 'E FOREROTTA.
Letteralmente:essere l'ultimo fanale di Fuorigrotta. Id est: Non contare nulla, non servire a niente. La locuzione prese piede verso la fine dell' '800 quando l'illuminazione stradale napoletana era fornita da fanali a gas in numero di 666; l'ultimo lampione (fanale) contraddistinto appunto col numero 666 era situato nel quartiere di Fuorigrotta, zona limitrofa di Napoli, per cui il fanale veniva acceso per ultimo, quando già splendevano le prime luci dell' alba e la di lui utilità veniva ad essere molto limitata.
13.JÍ TRUVANNO A CRISTO DINTO A LA PINA.
Letteralmente: cercare Cristo nella pigna. Id est:impegnarsi in una azione difficoltosa,lunga e faticosa destinata a non aver sempre successo. Anticamente il piccolo ciuffetto a cinque punte che si trova sui pinoli freschi era detto manina di Cristo, andarne alla ricerca comportava un lungo lavorio consistente in primis nell'arrostimento della pigna per poi cavarne gli involucri contenenti i pinoli, procedere alla loro frantumazione e giungere infine all'estrazione dei pinoli contenuti;spesso però i singoli contenitori risultavano vuoti e di conseguenza la fatica sprecata.
14.QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, PRIMMA O DOPPO VAJE CU 'O CULO 'NTERRA.
Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio
15.'E FATTE D' 'A TIANA 'E SSAPE 'A CUCCHIARA.
Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza.
Brak
Letteralmente: è terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami!
La voce zezzenella è un s.vo f.le collaterale di zezzella s.vo f.le diminutivo di zizza= mammella (dal lat. titta(m)→zizza.
2.È MMUORTO 'ALIFANTE!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussieguo , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...
3.CHI SE FA PUNTONE, 'O CANE 'O PISCIA 'NCUOLLO...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro, il cane gli minge addosso. E'l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere
4.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHIST' ACCUNTO...
Letteralmente: Tròvati chiuso e perditi questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si stia per compiere, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
5.È MMEGLIO A ESSERE PARENTE Ô FAZZULETTO CA Â COPPOLA.
Conviene esser parente della donna piuttosto che dell' uomo. In effetti, formandosi una nuova famiglia, è tenuta maggiormente in considerazione la famiglia d'origine della sposa che quella dello sposo.
6.ÒGNE STRUNZO TENE 'O FUMMO SUJO.
Letteralmente: Ogni stronzo sprigiona un fumo. Id est:ogni sciocco à modo di farsi notare
7. CUNSIGLIO 'E VORPE, RAMMAGGIO 'E GALLINE.
Lett.:consiglio di volpi, danno di galline. Id est: Quando confabulano furbi o maleintenzionati, ne deriva certamente un danno per i piú sciocchi o piú buoni. Per traslato: se parlottano tra di loro i superiori, gli inferiori ne subiranno le conseguenze.
8.CHIACCHIERE E TABBACCHERE 'E LIGNAMMO, 'O BBANCO NUN NE 'MPEGNA.
Letteralmente: chiacchiere e tabacchiere di legno non sono prese in pegno dal banco. Il banco in questione era il Monte dei Pegni sorto a Napoli nel 1539 per combattere la piaga dell'usura. Da esso prese vita il Banco di Napoli, fiore all'occhiello di tutta l'economia meridionale, Banco che è durato sino all'anno 2000 quando, a completamento dell'opera iniziata nel 1860 da Cavour e Garibaldi e da casa Savoia, non è stato fagocitato dal piemontese Istituto bancario San Paolo di Torino. La locuzione proclama la necessaria concretezza dei beni offerti in pegno, beni che non possono essere evanescenti come le parole o oggetti non preziosi. Per traslato l'espressione si usa nei confronti di chi vorrebbe offrirci in luogo di serie e conclamate azioni, improbabili e vacue promesse.
9.FEMMENE E GRAVUNE: STUTATE TÉGNONO E APPICCIATE CÒCENO.
Letteralmente: donne e carboni: spenti tingono e accesi bruciano. Id est: quale che sia il loro stato, donne e carboni sono ugulmente deleterii.
10. VENÍ ARMATO 'E PIETRA POMMECE, CUGLIE CUGLI E FIERRE 'E CAZETTE.
Letteralmente: giungere munito di pietra pomice, aghi sottili e ferri(piú doppi)da calze ossia di tutto il necessario ed occorrente per portare a termine qualsivoglia operazione cui si sia stati chiamati. Id est: esser pronti alla bisogna, essere in condizione di attendere al richiesto in quanto armati degli strumenti adatti.
11. JÍ STOCCO E TURNÀ BACCALÀ.
Letteralmente: andare stoccafisso e ritornare baccalà. La locuzione viene usata quando si voglia commentare negativamente un'azione compiuta senza che abbia prodotto risultati apprezzabiliIn effetti sia che lo si secchi-stoccafisso-, sia che lo si sali-baccalà- il merluzzo rimane la povera cosa che è.
12.ESSERE LL'URDEMU LAMPIONE 'E FOREROTTA.
Letteralmente:essere l'ultimo fanale di Fuorigrotta. Id est: Non contare nulla, non servire a niente. La locuzione prese piede verso la fine dell' '800 quando l'illuminazione stradale napoletana era fornita da fanali a gas in numero di 666; l'ultimo lampione (fanale) contraddistinto appunto col numero 666 era situato nel quartiere di Fuorigrotta, zona limitrofa di Napoli, per cui il fanale veniva acceso per ultimo, quando già splendevano le prime luci dell' alba e la di lui utilità veniva ad essere molto limitata.
13.JÍ TRUVANNO A CRISTO DINTO A LA PINA.
Letteralmente: cercare Cristo nella pigna. Id est:impegnarsi in una azione difficoltosa,lunga e faticosa destinata a non aver sempre successo. Anticamente il piccolo ciuffetto a cinque punte che si trova sui pinoli freschi era detto manina di Cristo, andarne alla ricerca comportava un lungo lavorio consistente in primis nell'arrostimento della pigna per poi cavarne gli involucri contenenti i pinoli, procedere alla loro frantumazione e giungere infine all'estrazione dei pinoli contenuti;spesso però i singoli contenitori risultavano vuoti e di conseguenza la fatica sprecata.
14.QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, PRIMMA O DOPPO VAJE CU 'O CULO 'NTERRA.
Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio
15.'E FATTE D' 'A TIANA 'E SSAPE 'A CUCCHIARA.
Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza.
Brak
VARIE 1589
1.FA’ COMME T’ È FFATTO, CA NUN È PPECCATO.
Ad litteram: Rendi ciò che ti è fatto, ché non è peccato Id est: render pan per focaccia non è peccato, per cui si è autorizzati anche a vendicarsi dei torti subìti, usando i medesimi sistemi; locuzione che, stranamente per la morale popolare napoletana, adusa ad attenersi, quasi sempre, ai dettami evangelici si pone agli antipodi dell’evangelico: porgi l’altra guancia, ma in linea con l’antico principio romano: vim, vi repellere licet (è giusto respingere la forza con la forza).
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2.‘E SCIABBULE STANNO APPESE E ‘E FODERE CUMBATTONO.
Ad litteram: le sciabole stanno inoperosamente al chiodo ed i foderi combattono Id est: chi dovrebbe combattere o - fuor di metafora - operare fattivamente, nicchia e si defila, lasciando che altri prendano il suo posto; locuzione usata nei confronti di tutti coloro che per inettitudine o negligenza non compiono il proprio dovere, delegandolo pretestuosamente ad altri.
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3.FOSSE ANGIULO ‘A VOCCA TOJA!
Ad litteram: sia (di) angelo la tua bocca Locuzione che viene usata con un sostrato scaramantico ottativo, quando - fatti segno di un augurio - ci si augura altresí che quanto profferito si realizzi certamente e a breve tenendo la bocca di colui che ci à fatto l’augurio come bocca di veritiero messaggero ( ciò etimologicamente significa il termine angiolo) per cui - ritenuto proveniente da bocca di autentico messaggero - ciò che ci viene augurato si è certi che si realizzerà concretamente o - almeno - lo si spera .
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4.FRIJERE ‘O PESCE CU LL’ACQUA.
Ad litteram: friggere il pesce con l’acqua; locuzione usata per significare situazioni di così marcata indigenza da non potersi permettere l’uso dell’olio per friggere il pesce e doversi accontentare dell’acqua per compiere l’operazione con risultati evidentemente miseri, non essendo chiaramente l’acqua l’elemento adatto alla frittura; per traslato la locuzione è usata per significare qualsiasi situazione in cui predomini l’indigenza se non l’inopia più marcata.
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5.FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE*.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ più cruenta, ma decisamente più plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... *fucetola= beccafico dal lat.ficedula(m)
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6.ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA.
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi o adulti ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
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7.ESSERE ‘E TENTA CARMUSINA.
Ad litteram: essere di tinta cremisi (rossiccia) id est: essere inaffidabile come il colore cremisi che anticamente, prodotto con metodi artigianali ed empirici, era di scarsa consistenza e poco sopportava le ingiurie del tempo; con altra valenza la locuzione sta ad indicare sia le persone di malaffare di cui diffidare e da cui tenersi alla larga, sia le persone ad esse equiparate e si ricollega al fatto che al tempo dei romani le prostitute erano aduse a vestirsi di rosso, a truccarsi con il carminio e ad indossare vistose parrucche fulve.
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8.ESSERE ‘NU VOCCAPIERTO ‘E SAN GIUANNE.
Ad litteram: essere un bocca aperta di san Giovanni. Espressione riferita a tutti coloro che sono pettegoli e linguacciuti al segno di tener sempre la bocca aperta per riferire fatti ed avvenimenti che, per altro, non li riguardano e non sarebbero perciò tenuti a propalare. Qualcuno erroneamente pensa che la locuzione si riferisca agli abitanti di san Giovanni a Teduccio, zona periferica di Napoli, abitanti ritenuti ( però gratuitamente ), linguacciuti e pettegoli; la località invece è da considerarsi solo perché in contrada Leucapetra adiacente la detta zona esistette un tempo una sontuosa villa fatta edeficare nel 1535 da Bernardino Martirano, segretario del regno ( Cosenza
1490,† Portici (NA) 1548) villa sulle cui pareti esterne erano collocati grandissimi mascheroni apotropaici rappresentanti dei volti con occhi spiritati ed a bocca spalancata.
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9.ESSERE MASTO A UNU FUOGLIO.
Ad litteram: esser maestro ad un solo foglio. Locuzione che si usa a mo’ di dileggio nei confronti di coloro che son ritenuti o si autoritengono maestri, ma siano di limitatissime conoscenze e di competenze molto ristrette, ai quali è inutile chiedere che vadano al di là di ciò che essi stessi propongano o facciano, come si diceva di un tal violinista, bravissimo esecutore, quasi virtuoso, ma di un unico pezzo, violinista che si scherniva davanti alla richiesta di eseguire altri brani musicali.
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10.ESSERE CCHIÙ FFESSO ‘E LL’ACQUA CAURA.
Ad litteram: essere più sciocco dell’acqua calda. Così si dice di chi sia, per innata insipienza o acclarata stupidità, talmente sciocco e vuoto ed insignificante al punto di non aver alcun gusto e/o sapore al pari di una pentola d’caqua riscaldata cui difettino ogni aggiunta di aromi e/o condimenti e pertanto sia incolore ed insapore.
Brak
Ad litteram: Rendi ciò che ti è fatto, ché non è peccato Id est: render pan per focaccia non è peccato, per cui si è autorizzati anche a vendicarsi dei torti subìti, usando i medesimi sistemi; locuzione che, stranamente per la morale popolare napoletana, adusa ad attenersi, quasi sempre, ai dettami evangelici si pone agli antipodi dell’evangelico: porgi l’altra guancia, ma in linea con l’antico principio romano: vim, vi repellere licet (è giusto respingere la forza con la forza).
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2.‘E SCIABBULE STANNO APPESE E ‘E FODERE CUMBATTONO.
Ad litteram: le sciabole stanno inoperosamente al chiodo ed i foderi combattono Id est: chi dovrebbe combattere o - fuor di metafora - operare fattivamente, nicchia e si defila, lasciando che altri prendano il suo posto; locuzione usata nei confronti di tutti coloro che per inettitudine o negligenza non compiono il proprio dovere, delegandolo pretestuosamente ad altri.
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3.FOSSE ANGIULO ‘A VOCCA TOJA!
Ad litteram: sia (di) angelo la tua bocca Locuzione che viene usata con un sostrato scaramantico ottativo, quando - fatti segno di un augurio - ci si augura altresí che quanto profferito si realizzi certamente e a breve tenendo la bocca di colui che ci à fatto l’augurio come bocca di veritiero messaggero ( ciò etimologicamente significa il termine angiolo) per cui - ritenuto proveniente da bocca di autentico messaggero - ciò che ci viene augurato si è certi che si realizzerà concretamente o - almeno - lo si spera .
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4.FRIJERE ‘O PESCE CU LL’ACQUA.
Ad litteram: friggere il pesce con l’acqua; locuzione usata per significare situazioni di così marcata indigenza da non potersi permettere l’uso dell’olio per friggere il pesce e doversi accontentare dell’acqua per compiere l’operazione con risultati evidentemente miseri, non essendo chiaramente l’acqua l’elemento adatto alla frittura; per traslato la locuzione è usata per significare qualsiasi situazione in cui predomini l’indigenza se non l’inopia più marcata.
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5.FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE*.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ più cruenta, ma decisamente più plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... *fucetola= beccafico dal lat.ficedula(m)
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6.ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA.
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi o adulti ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
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7.ESSERE ‘E TENTA CARMUSINA.
Ad litteram: essere di tinta cremisi (rossiccia) id est: essere inaffidabile come il colore cremisi che anticamente, prodotto con metodi artigianali ed empirici, era di scarsa consistenza e poco sopportava le ingiurie del tempo; con altra valenza la locuzione sta ad indicare sia le persone di malaffare di cui diffidare e da cui tenersi alla larga, sia le persone ad esse equiparate e si ricollega al fatto che al tempo dei romani le prostitute erano aduse a vestirsi di rosso, a truccarsi con il carminio e ad indossare vistose parrucche fulve.
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8.ESSERE ‘NU VOCCAPIERTO ‘E SAN GIUANNE.
Ad litteram: essere un bocca aperta di san Giovanni. Espressione riferita a tutti coloro che sono pettegoli e linguacciuti al segno di tener sempre la bocca aperta per riferire fatti ed avvenimenti che, per altro, non li riguardano e non sarebbero perciò tenuti a propalare. Qualcuno erroneamente pensa che la locuzione si riferisca agli abitanti di san Giovanni a Teduccio, zona periferica di Napoli, abitanti ritenuti ( però gratuitamente ), linguacciuti e pettegoli; la località invece è da considerarsi solo perché in contrada Leucapetra adiacente la detta zona esistette un tempo una sontuosa villa fatta edeficare nel 1535 da Bernardino Martirano, segretario del regno ( Cosenza
1490,† Portici (NA) 1548) villa sulle cui pareti esterne erano collocati grandissimi mascheroni apotropaici rappresentanti dei volti con occhi spiritati ed a bocca spalancata.
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9.ESSERE MASTO A UNU FUOGLIO.
Ad litteram: esser maestro ad un solo foglio. Locuzione che si usa a mo’ di dileggio nei confronti di coloro che son ritenuti o si autoritengono maestri, ma siano di limitatissime conoscenze e di competenze molto ristrette, ai quali è inutile chiedere che vadano al di là di ciò che essi stessi propongano o facciano, come si diceva di un tal violinista, bravissimo esecutore, quasi virtuoso, ma di un unico pezzo, violinista che si scherniva davanti alla richiesta di eseguire altri brani musicali.
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10.ESSERE CCHIÙ FFESSO ‘E LL’ACQUA CAURA.
Ad litteram: essere più sciocco dell’acqua calda. Così si dice di chi sia, per innata insipienza o acclarata stupidità, talmente sciocco e vuoto ed insignificante al punto di non aver alcun gusto e/o sapore al pari di una pentola d’caqua riscaldata cui difettino ogni aggiunta di aromi e/o condimenti e pertanto sia incolore ed insapore.
Brak
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