domenica 31 agosto 2014
LIBIDINOSO, LUSSURIOSO etc.
LIBIDINOSO, LUSSURIOSO etc.
Questa volta tenterò di rispondere adeguatamente ad un quesito dell’amico P.G. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) che mi à chiesto di chiarire esattamente quali siano i termini del napoletano che rendono quelli dell’italiano riportati in epigrafe.Mi accingo alla bisogna mettendo prima a fuoco portata, significato e valenza delle voci dell’italiano per poi illustrare quelle napoletane. Principiamo:
libidinoso/a agg.vo m.le o f.le che è preso/a, dominato/a da libidine, cioé forte desiderio sessuale o piú generalmente desiderio smodato | che esprime libidine, che è effetto di libidine; voce dal lat. libidinosu(m);
lussurioso/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le
a. Chi/che à il vizio della lussuria, che è dominato dalla lussuria,cioè abbandono ai piaceri del sesso; desiderio ossessivo e smodato di soddisfare tali piaceri: uomo lussurioso , donna lussuriosa; anche sost., un lussurioso, una lussuriosa; in partic., i lussuriosi, i peccatori carnali dell’Inferno e del Purgatorio dantesco (collocati rispettivam. nel 2° cerchio e nel 7° girone).
b. Pieno di lussuria, caratterizzato da lussuria: sguardi, pensieri lussuriosi; vita lussuriosa, trascorsa nella lussuria, abbandonandosi con intemperanza e viziosamente ai piaceri dei sensi.; voce dal lat. luxuriosu(m).
Le due voci esaminate sono d’uso corrente, mentre le successive due che prenderò in esame, quantuque sinonimi delle precedenti son d’uso letterario e perciò scarsamente utilizzate.
lascivo/a agg.vo m.le o f.le che à o dimostra lascivia cioè sensualità licenziosa; che è pieno/a di lascivia o induce alla lascivia; voce dal lat. lascivu(m);
lúbrico/a agg.vo m.le o f.le 1 (lett.) sdrucciolevole, scivoloso, viscido, sgusciante:
2 (fig.come nel caso che ci occupa) che offende il pudore; indecente, osceno/a, | di persona, che fa o dice cose oscene; voce dal lat. lubricu(m).
Rammento che correntemente, ma erroneamente la voce è usata come lbríco/a
In italiano non mi risulta esistano altri sinonimi, per cui passiamo al napoletano dove incontriamo:
carnalaccio/carnalazzo agg.vo m.le e solo m.le impudico, licenzioso, dedito ai piaceri della carne; voce derivata dal lat. tardo carnal(em) addizionato con accio/azzo
suffisso che continua il lat. -aceu(m), usato per formare sostantivi e aggettivi alterati con valore peggiorativo.
fojuto agg.vo m.le e solo m.le bella antica voce abbondantemente desueta, registrata peraltro dal solo insostituibile Raffaele D’Ambra che valse
1 eccitato sessuale (riferito ad animali e, in senso spreg. come nel caso che ci occupa , anche a persone)
2 (estens.) bramoso, smanianoso, insaziabile.
voce denominale di foja (eccitazione sessuale, frenesia, smania[ dal lat. furia(m)→fu(r)ia(m)→foja]; temo che moltissimi compilatori di lessici napoletani abbiano sorvolato sulla voce un po’ perché desueta ed un po’ perché avrebbero dovuto dilungarsi per distinguere la voce a margine dalla voce affatto, del tutto diversa fujuto che nel significato di scappato via è il part. pass. agg.to dell’infinito fují [ dal lat. tardo fugire→fují, per il class. fugere];
rattuso agg.vo m.le e solo m.le Pieno/a di foia, acceso/a di libidine, salace, lascivo, licenzioso,incline ed aduso al palpeggiamento furtivo; quanto all’etimo della voce sposo la tesi di chi( come l’amico Carlo Iandolo) vi legge un deverbale di (g)rattà [ nel senso estensivo di palpare,toccare tastare, palpeggiare] addizionato in funzione di suffisso dell’agg.vo uso = abituato a, solito [dal lat. usu(m), part. pass. di uti 'usare'], non convincendomi semanticamente l’idea di chi (cfr. Cortelazzo) ipotizzò una derivazione dal lat. raptus part. pass. di răpĕre= trascinar via;
verruto agg.vo m.le e solo m.le 1 bizzoso, capriccioso, stizzoso 2 aduso a capricci stizzosi, a stravaganze, a voglie irrazionali ed estensivamente (come nel caso che ci occupa) anche a quelle lussuriose, libidinose; per ciò che riguarda l’etimologia dell’agg.vo in esame bisogna rammentare che esso è stretto parente del s.vo verrizzo = bizza, capriccio ,stranezza, voglia irrazionale riferite o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci; il termine verruto o alibi verrezzuso, riferito ad un uomo fatto, sta ad indicare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come ò détto dal significato estensivo di verrizzo.Per concludere occorre precisare che anche l’etimologia del termine verrizzo donde il verruto che ci occupa, non è tranquillissima ; la maggior parte dei compilatori dei lessici , che accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto/etimo oscuro.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma la proposta paretimologia poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola verrizzo possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja/hizza = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena E tonica mutatasi nella evanescente E e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario per indicare un difetto (che comunque comportando una manifestazione d’ardore si intende maschile).Partendo da verr-izzo si è pervenuti a verr-uto addizionando la radice verr con il suff. uto
suffisso deriv. dal lat. -utu(m), usato per formare aggettivi che esprimono la natura o la forma caratteristica di una persona o di una cosa.
E qui giunto mi fermo convinto d’avere esaurito l’argomento, d’aver adeguatamente risposto al quesito dell’amico P.G. e sperando d’avere interessato i miei consueti ventiquattro lettori.
Satis est.
R.Bracale Brak
VARIE 4158
1.TENÉ 'A SÀRACA DINT' Â SACCA
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
2.NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à né l'autorità, né la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
3.NUN TENÉ PILE 'NFACCIA E SFOTTERE Ô BARBIERE
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che pur mancando degli elementi essenziali per fare alcunchè ci si erga ad ipercritico e spaccone, ottenendo quale risultato del proprio agire solo quello di infastidire e tediare il prossimo.
4.TENÉ 'E RRECCHIE PE FINIMENTO 'E CAPA.
Aver le orecchie quale guarnizione del capo. Détto per dileggio di chi sia tanto sordo da non udire alcunché.
5. TENÉ STAMPATO ‘NCUORPO nell’espressione: Te tengo stampato ‘ncuorpo!
Letteralmente Avere stampato nel corpo, nell’espressione: Ti porto stampato nel corpo! Détto iperbolicamente di cosa o piú spesso persona conosciuta quasi alla perfezione come se la cosa o persona di cui si parla fósse stata ricavata per calco sul/nel corpo di colui sulla cui bocca si coglie l’espressione in esame.Altrove per esprimere ad un dipresso il medesimo concetto s’usa affermare sempre per iperbole: Te saccio pile pile che ad litteram è: Ti conosco pelo per pelo; id est: Di te non mi è ignoto nulla, mi sei ben noto, conosco perfino il numero dei tuoi peli e non mi potrai sorprendere mai.Ancóra alibi sempre per esprimere ad un dipresso il medesimo concetto, ma in senso positivo s’usa dire: Te saccio comme a sette denaro appaiando alla piú importante,rilevante ed appetita carta del giuoco della scopa, un individuo che goda, nel bene, di vasta, significativa notorietà. Ed infine sempre per esprimere ad un dipresso il medesimo concetto, ma questa volta in senso negativo s’usa dire: Sî ccarta canusciuta che ad litteram è:Sei una carta ben nota, carta conosciuta; id est: Godi di pessima fama,ma non mi sorprenderai, sei facilmente riconoscibile, ogni tua azione è sempre ravvisabile, come lo è la carta segnata da un baro.
6.TENÉ 'A CÓRA ‘E PAGLIA.
Ad litteram: avere la coda di paglia. Lo si dice di chi, conscio di proprie manchevolezze, non avendo la coscienza pulita, si allarmi alla prima allusione sfavorevole, discolpandosi senza essere stato accusato apertamente, reagendo in maniera eccessiva a critiche o osservazioni anche larvate, nel timore che una sua ipotizzata, celata coda di paglia prenda fuoco. L’espressione nata in àmbito contadino à un’origine fiabesca. Si narra infatti che una giovane volpe era cascata disgraziatamente in una tagliola; riuscì a fuggire ma gran parte della coda le rimase nella tagliola. La poveretta si vergognava di farsi vedere con quel brutto mozzicone. Gli animali che la conoscevano ne ebbero pietà e le costruirono una coda di paglia. Tutti mantennero il segreto tranne un galletto che disse la cosa in confidenza a qualcuno e, di confidenza in confidenza, la cosa fu saputa dai padroni dei pollai, i quali accesero un po' di fuoco davanti ad ogni stia. La volpe, per paura di bruciarsi la coda, da quel momento evitò di avvicinarsi alle stie.E come la volpe si dice si comporti chi avendo qualcosa da nascondere,eluda la compagnia del prossimo e se ne tenga fuori mostrandosi di sentirsi sempre chiamato in causa anche per rispondere di fatti o accadimenti di cui non sia accusato apertamente,sempre nel timore che venga palesato il suo celato difetto (coda di paglia).Di analoga portata e significato è l’espressione che segue:
7. TENÉ ‘O MARIUOLO ‘NCUORPO
Ad litteram: Avere il ladro (la magagna) nel corpo; id est: portare celata dentro di sé una propria colpa nel timore che appalesandola si possa essere ingiustamente accusato di manchevolezze analoghe.
8. TENÉ ‘E BBELLIZZE D’ ‘A SCIGNA
Ad litteram: Avere le bellezze di una scimmia; id est:comportarsi cosí come una scimma. Espressione ironica usata a dileggio di chi pensi di essere avvenente, ma che in realtà non lo è e tenti, con scarso successo di imitare chi in realtà lo sia, tentando di copiarne l’incedere o il proporsi comportandosi ad un dipresso come fa la scimmia (animale affatto bello) la cui avvenenza e /o simpatia consiste soltanto nel fatto ch’esso tenta di imitare le movenze dell’uomo.
bellizze s.vo m.le pl. e solo pl. = cose belle, le bellezze, le qualità di ciò che è bello (ma non in senso morale); il valore estetico delle cose; voce adattamento al m.le pl. dal lat. volg.neutro pl.inteso prima f.le e poi m.le bellitia
scigna s.vo f.le sg 1scimmia, nome generico di mammiferi superiori, per lo piú arboricoli, con quattro o due estremità prensili, dentatura completa, occhi frontali, arti anteriori piú lunghi dei posteriori; si distinguono in catarrine e platirrine (ord. Primati)
2 (fig.) persona brutta, dispettosa e maligna: è ‘na vera scigna! | fà ‘a scigna a quaccuno, imitarlo in quello che fa, che dice; scimmiottarlo | 3 ubriacatura, sbornia: pigliarse ‘na scigna; voce dal lat. simia→simja, con un consueto passaggio di s+ vocale a sci: (vedi altrove semum→scemo) e mj→gn (come in ca(m)mjare→cagnà)
8. TENÉ ‘E BBELLIZZE D’ ‘O CIUCCIO Ad litteram: Avere le bellezze di un asino ; id est:non avere altra avvenenza che quella della giovinezza. Altra icastica e spressione ironica usata a dileggio di chi pensi di essere avvenente, ma che in realtà non lo è; a costui/costei si attribuisce un’unica grazia, quella della gioventú, la medesima che s’usa attribuire all’asino che (cfr. alibi) essendo animale da lavoro esprime, in termine di fatica, il meglio di sé soltanto quando è ancóra giovane e prestante e non ancóra stremato o ridotto a mal partito dal peso degli anni e dalla fatica (cfr. alibi: ‘o ciuccio ‘e Fechella).
9. PURE ‘E CUFFIATE VANNO ‘MPARAVISO
Anche i gabbati vanno in Paradiso
Locuzione proverbiale usata a mo’ di conforto dei corbellati per indurli ad esser pazienti e sopportare chi gratuitamente li affanna , atteso che anche per essi derisi ci sarà un gran premio: il Paradiso.
Cuffiate plurale di cuffiato =deriso, corbellato; etimol.: part.pass. di cuffià che è un denominale dell’arabo còffa=corbello.
10.PURE ‘E MMURE TENONO ‘E RRECCHIE
Anche i muri ànno orecchi
Fa d’uopo, quindi, se non si vuole far conoscere in giro le proprie idee o considerazioni usare, anche in casa un eloquio misurato e di basso volume evitando altresí di spettegolare o di dire cose pericolosamente compromettenti per sé o altri.
11. PURE LL’ONORE SO’ CCASTIGHE ‘E DDIO.
Anche gli onori sono castighi di Dio
Atteso che comportano comunque aggravio di lavoro ed aumento delle responsabilità.
12. PURE ‘NU CAUCIO ‘NCULO FA FÀ ‘NU PASSO ANNANTE
Anche un calcio in culo fa compiere un passo in avanti
Id est: per progredire nella vita, come nel lavoro, occorrono forti spinte, magari violente che vanno comunque accettate considerato i vantaggi che ne possono derivare.
13. PUR’IO TENGO ‘A MANO CU CINCHE DÉTE.
Anche io ò la mano con cinque dita.
Proverbio dalla duplice valenza; nella prima si adombra quasi un avvertimento minaccioso che significa: anche io sono dotato delle vostre medesime capacità operative,[comprese quelle di rubare] per cui fate attenzione a non misurarvi con me pensando di prevalere: potreste avere una brutta sorpresa! La seconda valenza sottindende una garbata protesta volendo significare: ò soltanto le vostre stesse capacità e/o possibilità; miracoli non ne posso fare: non chiedetemeli!
14. QUANNO ‘A CAPA PERDE ‘E SENZE SE NE STRAFOTTE PURE ‘E SUA ECCELLENZA!
Quando la testa perde il raziocinio se ne impipa anche di Sua Eccellenza
Id est: Quando, nella vita, si è in preda all’ira o alla follia non si à rispetto per nessuno, nemmeno per l’autorità.
15. QUANNO ‘A CUMETA ‘O VVO’, DALLE CUTTONE
Quando l’aquilone lo chiede, dagli spago
Al di là del suo concreto chiaro ed esatto significato, il proverbio vale:nella vita spesso è opportuno, se non necessario, assecondare le vanterie di chi si vanta ed è vanitoso, per tenerselo amico ed al fine di riceverne possibili futuri vantaggi.
16. QUANNO Â FEMMENA ‘O CULO LL’ABBALLA, SI NUN È PPUTTANA, DIAVULO FALLA!
Quando una donna ancheggia, se non è una meretrice ritienila tentatrice.
Le donne che sculettano o lo fanno di mestiere o provocatoriamente per trovar partito.
17. CHI TENE DEBBETO, TENE CREDITO
Chi à debito, à credito
Non si tratta, come potrebbe apparire di un ossimoro o di una affermazione gratuita; si tratta invece di un’esatta considerazione dedotta dall’osservazione del comportamento umano per il quale intanto una persona può essere oberata di debiti, in quanto ritenuta solvibile e quindi meritevole di credito.
Brak
TENÉ 'E RRECCHIE 'E PULICANO
TENÉ 'E RRECCHIE 'E PULICANO
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano e ciò quantunque erroneamente ( come chiarirò di qui a poco) in un fraintendimento popolare, qualcuno pretenderebbe di tradurre: tenere le orecchie di pellicano. Chiarisco súbito che quest’ultima traduzione, checché ne dica il dr. Sergio Zazzera, non è né corretta né attendibile e ciò per due chiari motivi:
a) il pellicano (dal lat. tardo pelecanu(m), che è dal gr. pelekán –ânos) è un uccello nuotatore e pescatore dal becco enorme e fornito, nella parte inferiore, di un sacco per il deposito del cibo;à piume bianche, ali rosse e piedi palmati (ord. Pelecaniformi); nella tradizione iconografica e letteraria del medioevo, è simbolo di Cristo, perché si credeva nutrisse i propri piccoli con il suo stesso sangue, lacerandosi il petto con il becco; tale uccello è però comunque tanto sconosciuto alle latitudini partenopee che mai il popolo (quello che conia le espressioni idiomatiche…) avrebbe potuto prenderlo a riferimento in una espressione popolare;
b) non risulta in nessuna letteratura scientifica che il suddetto pellicano sia accreditato di avere udito finissimo da prendersi a modello.
c) è uccello che di solito, mi ripeto e preciso, non è presente alle nostre latitudini, ma vive negli Stati Uniti, Caraibi, Sudamerica, Isole Galapagos, Australia e basterebbe questo per escluderlo come riferimento di un’espressione popolare napoletana.
Torniamo alla espressione in epigrafe; essa locuzione dalla duplice valenza è usata vuoi per indicare chi sia dotato di udito finissimo , vuoi (piú spesso) per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, o per informarsi, oppure per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua appunto degli antichi esattori pubblici:i pubblicani (dal lat. publicanu(m), deriv. di publicum 'tesoro pubblico') di cui pulicano è – a mio avviso - un derivato per sincope: (pu(b)licanu(m)→pulicanu(m)→pulicano; gli antichi pubblicani erano quelli che nell'antica Roma, prendevano in appalto la riscossione delle imposte pubbliche
(estens. non com.) gabelliere, doganiere | (spreg.) persona interessata, avida di guadagno; come esattori di tasse i pubblicani dovevano tener le orecchie tese, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente, atteso che i pubblicani nel prendere in appalto la riscossione delle tasse versavano all’erario in anticipo tutto l’ammontare delle medesime tasse e poi dovevano affaccendarsi per recuperarle, maggiorandole del proprio utile, non lasciandosi sfuggire notizie su chi fosse tenuto a pagarle.A maggior supporto di ciò che vengo dicendo ricordo che come è del tutto improbabile che i napoletani conoscessero o abbiano conosciuto l’uccello pellicano estraneo alle latitudini partenopee, cosí è invece molto probabile che i napoletani (anche quegliantichissimi)abbiano conosciuto i pubblicani pubblici esattori romani, atteso che a far tempo dal 90 ed 89 a.C. Napoli fu municipio romano ed a Roma pagò i tributi. Successivante 1443 e ss. con l’entrata in Napoli di Alfonso d’Aragona (Napoli 1396 - † ivi 1458) ed inizio della dominazione aragonese, il posto dei pubblici esattori (pubblicani ) fu preso dagli arrendatori titolari dell’ arrendamento: nel Regno di Napoli, gabella o imposta la cui esazione era appaltata a privati; sia la voce arrendatore che ovviamente arrendamento son voci deverbali dello spagnolo arrendar 'appaltare'.
Rebus sic stantibus è molto piú esatto, contrariamente a quanto gli sprovveduti (Zazzera compreso e non me ne voglia…) intendono, che l’espressione in epigrafe non vada intesa come tenere le orecchie del pellicano, ma come tenere le orecchie del pubblicano.
E ciò, a mio avviso, penso di averlo ad abundantiam chiarito. raffaele bracale
TENÉ ‘NA BBELLA MANA A FFÀ ZEPPE
TENÉ ‘NA BBELLA MANA A FFÀ ZEPPE
Prendo spunto dalla lettura d’un articolo dell’amico A. M. (di cui per questioni di riservatezza mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome) per illustrare l’antica espressione partenopea in epigrafe usata in genere coniugata alla terza persona , espressione che l’amico riporta erroneamente come: Tené ‘na bbella mana a ffà zeppole stravolgendone conseguentemente significato e riferimento semantico. Infatti cosí come riportata dall’amico [che probabilmente, come dimostrerò, riporta un modo scorretto usato temporibus illis popolarmente(con bisticcio di lemmi tra zeppe e zeppole) in luogo dell’esatta espressione in epigrafe ]. L’espressione in esame esatta è quella riportata in epigrafe che è da tradursi: Avere una bella mano a far biette [cunei di legno o di metallo che serveno a rincalzare un mobile, a turare alla meglio un buco, o in genere a sostituire o surrogare qualche parte mancante] e va intesa in senso ironico e furbesco, atteso che è espressione riferita a dileggo di chi usi abitualmente metaforiche zeppe cioè puntelli giustificativi posti da chi intende rincalzare le proprie azioni o affermazioni palesemente zoppicanti e lo faccia in maniera continuativa,anche con argomentazioni non confacenti, con una buona dose di faccia tosta. Ben altro significato assume l’espressione quando venga stravolta in Tené ‘na bbella mana a ffà zeppole nel qual caso ci si intende riferire, sia pure ancòra ironicamente, a chi per abitudine è aduso ad esser scorretto e disonesto nei confronti degli altri, prendendo a modello un ipotetico pasticciere (ma non rosticciere) che scorretto e sleale lesini sul quantitativo d'impasto conferito nell’approntare le famose zeppole, che è un dolce in uso nella festività di san Giuseppe, dolce da non confondere con la preparazione rustica nota popolarmente sí come zeppulella, ma che in realtà è da chiamarsi, vedi ultra, correttamente pastacresciuta!
Quanto è bello, icastico e complesso l’idioma napoletano; basta aggiungere un semplice suffisso [qui il sg. f.le ola o il corrispondente pl. ole] ad un medesimo tema [qui zepp] per alterare un termine,mutando zepp-e in zepp-ole e con ciò stravolgere l’intero significato d’una espressione!
Per ciò che riguarda la voce verbale tene (3ª pers. sg. indicativo pres. dell’infinito tené)rimando alibi; qui mi soffermo sull’ agg.vo f.le
bella [ dal lat. bĕll-am «carina, graziosa»,del m.le bell-us da *due-nŭlus, dim. di duenos, forma ant. di bonus] che nell’espressione in esame non vale attraente, avvenente, benfatta, chi/che desta nell’animo, per lo piú attraverso i sensi della vista o dell’udito, un’impressione esteticamente gradevole, ma vale (con riferimento semantico all’originario significato dell’agg.vo bonus/bona) adeguata, appropriata, atta, capace (di), confacente, conforme, conveniente, giusta, idonea, opportuna.
La voce zeppola s.vo f.le, che in italiano, (con ogni probabilità con derivazione dal napoletano) indica esclusivamente quale sost. femm. (spec. pl.) una ciambella o frittella dolce tipica di alcune regioni dell'Italia meridionale, è presente nel lessico della parlata napoletana dove indica oltre che una tipica ciambella o frittella dolce (zeppola di san Giuseppe), anche una frittella rustica (‘a zeppulella) ed estensivamente un particolare difetto di pronuncia, una sorta di balbuzie che impedisce di esprimersi correttamente e chiaramente (tené ‘a zeppula ‘mmocca= avere la zeppola in bocca, come chi parlasse male masticando un pezzo di quella frittella(zeppola) dolce o rustica.
Chiarito però che con l’originaria voce zeppola deve intendersi la ciambella dolce, e che, a mio sommesso, ma deciso avviso, l’uso di zeppola per la frittella rustica è un semplice adattamento di comodo, e che per tale frittella rustica sarebbe piú esatto (come vedremo trattando alibi della preparazione di tale frittella) parlare di pasta cresciuta o pastacrisciuta come mi sembra piú acconcio scrivere agglutinando sostantivo ed aggettivo, dirò che quanto all’etimologia di zeppola (ciambella dolce) una non confermata scuola di pensiero fa riferimento ad un tardo latino *zipula(m) peraltro(si noti l’asterisco) non attestato, laddove io reputo invece che zeppula (letteralmente zeppola) sia voce che abbia una derivazione dal latino serpula→seppula→zeppula/zeppola e debba indicare innanzi tutto e quasi esclusivamente il caratteristico dolce partenopeo, in uso per la festività di san Giuseppe(19 marzo) , di pasta bigné disposta, con un sac a poche, a mo’ di ciambella, poi fritta due volte: la prima in olio bollente e profondo, la seconda nello strutto o (meno spesso) cotta al forno, spolverizzata di zucchero e variamente guarnita con crema pasticciera ed amarene candite; il dolce à origini antichissime quando intorno al 500 a.C. si celebravano a Roma le Liberalia, che erano le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e spezie e si friggevano profumate frittelle di frumento; le origini del dolce dicevo furon dunque antichissime , anche se pare che la ricetta attuale delle napoletane zeppole di san Giuseppe (peraltro già riportata in un suo famoso manuale di cucina da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino(2 settembre 1787 † 5 marzo 1859)) sia opera di quel tal Pasquale Pintauro(1815 ca) che fu anche, come vedemmo alibi, l’ideatore della sfogliatella, il quale rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento,ed ispirandosi ai consigli del Cavalcanti diede vita alle attuali zeppole arricchendo l’impasto di uova,strutto ed aromi vari e procedendo poi ad una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto; la tipica forma a ciambella della zeppola rammenta – ò detto - la forma di un serpentello (serpula) quando si attorciglia su se stesso da ciò è quasi certo che sia derivato il nome di zeppola ( morfologicamente nel napoletano è normale il passaggio di S a Z e l’assimilazione regressiva rp→pp).
zéppa s.vo f.le [voce di origine longob.]. – 1.in primis pezzo di legno che serve a rincalzare un mobile, o per turare alla meglio un buco, o in genere per sostituire o surrogare qualche parte mancante. 2. bietta, calzatoia, 3. fig. come nel caso che ci occupa puntello,rimedio improvvisato, pezza, taccone,toppa....
Satis est.
R.Bracale Brak
AVERE – TENERE – DOVERE
AVERE – TENERE – DOVERE
Questa volta, su precisa richiesta dell’amico dr. Salvatore C. (al solito, per questioni di riservatezza mi tocca evitare di indicare per esteso nome e cognome) tenterò di illustrare le voci verbali che rendono in napoletano quelle italiane in epigrafe. Al solito cominciamo col dire delle voci dell’italiano:
avere 1 possedere beni materiali, o anche doti morali, attributi, qualità, titoli e sim.; usato assol., essere ricco in senso materiale: avere due case, pochi soldi, molti libri; avere una bella voce, coraggio, buon cuore; avere un'intelligenza pronta; avere fortuna; avere una laurea; una famiglia che à molto | unito a un compl. oggetto che esprime un'estensione determinata di tempo, indica età, anzianità, oppure stabilisce quanto manca a una scadenza, al verificarsi di un evento: mia figlia à sedici anni; ò ancora una settimana di vacanze; à solo pochi giorni di vita, è nato da pochi giorni, oppure gli restano pochi giorni da vivere | se il compl. oggetto è riferito a persona, indica appartenenza affettiva o anche possesso carnale: à suo figlio e non cerca altri affetti; quell'uomo à avuto molte donne; in altri casi indica la relazione che il nome stesso esprime: à moglie e figli; abbiamo degli amici a Torino; à due segretarie e l'autista | in loc. partic.: avere qualcosa (molto) di qualcuno, di qualcosa, ricordarlo, rassomigliargli un po' (molto); avere qualcuno dalla propria, goderne gli appoggi, il favore; avere dello sciocco, del matto, del maleducato, essere un po', o parecchio, sciocco, matto, maleducato ecc.
2 quando la cosa o la persona che appartiene è determinata predicativamente, piú che indicarne l'appartenenza ne indica la particolare condizione o qualità: à i capelli bianchi; ò un cugino medico; à la macchina che non riesce a partire ' sono assimilabili a quest'uso talune loc. partic.: avere caro qualcuno, qualcosa, esservi affezionato; avere per certo qualcosa, ritenerla certa, esserne sicuro | con determinazioni di luogo, indica collocazione nello spazio: avevo mio fratello accanto; avevamo un albero davanti; à un neo sulla guancia
3 tenere: avere qualcosa in mano, in tasca; à sempre il cappello in testa
4 contenere, comprendere: Roma à piú di tre milioni di abitanti; l'Italia à venti regioni
5 indossare, portare addosso: aveva un abito molto elegante
6 conseguire, ottenere; ricevere; entrare in possesso: avere un incarico, un premio; avere notizie da qualcuno; à avuto due anni di carcere; avrà una parte dell'eredità
7 acquistare, comperare; percepire, riscuotere: à avuto quel mobile per poco; à avuto dieci milioni dalla vendita del terreno
8 sentire, provare; soffrire: avere simpatia per qualcuno; avere voglia di fare qualcosa; avere fame, freddo; avere un peso sullo stomaco
9 in talune loc. il significato del verbo è precisato dal sostantivo che lo segue: avere una notte insonne, passare; avere una vita difficile, vivere; avere luogo, avvenire; avere parte, partecipare; avere timore, temere; avere sembianza, sembrare | talora il sostantivo che determina il significato è introdotto da a o in: avere a mente, ricordare; avere a cuore, essere interessato; avere in animo, essere intenzionato
10 seguito da da (antiq. a) ed un infinito, vale dovere: ò da lavorare tutto il giorno; non ci aveva ad andare; Questo matrimonio non s'à da fare, né domani né mai (MANZONI P. S. I) | il concetto di dovere è implicito in talune loc. costituite da avere e un sostantivo, che si riferiscono a un'azione che si svolgerà nel futuro: avere gli esami, dover sostenerli; avere una riunione, dovere parteciparvi
11 costruito con da e il verbo all'infinito, può anche esprimere la possibilità di compiere un'azione: avere poco da vivere; non avere da mangiare
12 seguito dall'infinito introdotto da a, à valore fraseologico: temo che abbia a essere un insuccesso, che sia, che possa essere; ebbe ad ammalarsi per il dolore, si ammalò | avere, averci (a) che fare con qualcuno, essere in rapporto con qualcuno; vedersela | avere (a) che dire con qualcuno, litigare, avere dei contrasti | non avere (a) che fare, (a) che vedere con qualcuno o qualcosa, non aver somiglianza, rapporto, relazione ||| v. intr. [aus. avere] (antiq. , lett.) con le particelle pronominali ci e vi, solo nella terza persona sing. e pl., equivale a esserci: non v'à motivo; non v'ànno persone.
Quanto all’etimo il verbo avere deriva dal lat. habere.
Anche il napoletano à il verbo avere/avé ( ugualmente dal lat. habere.) ma nel napoletano è usato quasi esclusivamente come verbo ausiliare; in tutte le accezioni (con eccezione della costruzione, mantenuta pure nel napoletano, con il verbo avere seguito da da ed un infinito, vale dovere:à dda magnà, deve mangiare) precedentemente elencate relativamente al verbo avere dell’italiano, in napoletano viene usato il verbo tenére/tené ( che è dal lat. Lat. teníre, corradicale di tendere 'tendere'; a sua volta il verbo (oltre le accezioni suddette) mantiene in napoletano, con eccezione di quelle indicate in appresso da 6 a 10 e quelle relative alla forma riflessiva, le medesime accezioni dell’italiano e cioè: 1 avere qualcosa con sé e stringerla in modo da non lasciarla cadere o sfuggire; reggere: tenere in mano un bastone (tené ‘nu bastone ‘mmano); tenere in braccio un bimbo(tené ‘nu criaturo ‘mbraccio); teneva un sacco sulle spalle(teneva ‘nu sacco ‘ncopp’ê spalle) | tenere il sacco a qualcuno (tené ‘o sacco a quaccheduno), esserne complice | tenere l'anima con i denti, (tené ll'anema cu ‘e diente, (fig.) essere molto malato, stare per morire |
2 mantenere qualcosa o qualcuno in una posizione o in una condizione particolare: tenere le mani in tasca, il cappotto abbottonato, il cappello in testa; tenere la finestra aperta, i libri in ordine; tenere bene i vestiti; tenere il vino al fresco; tenere una vivanda in caldo | tenere stretto, stringere ' tenere qualcosa da conto, conservarla con cura ' tenere qualcosa a mente, a memoria, ricordarla | tenere una pratica sospesa, non evaderla | tenere qualcuno in sospeso, non dargli una risposta definitiva | tenere d'occhio qualcuno, qualcosa, sorvegliarlo | tenere le mani a posto, non percuotere, non toccare, non infastidire | tenere la lingua a posto, non parlar male di o a qualcuno | tenere qualcosa, qualcuno in pugno, (fig.) averlo in proprio potere | tenere a bada qualcuno, dominarlo | tenere buono qualcuno, mantenerselo amico per timore o per calcolo | tenere qualcuno informato, al corrente, informarlo | tenere qualcuno come un cane, trattarlo come un cane | tenere un piede in due staffe, (fig.) barcamenarsi tra due situazioni che dovrebbero essere incompatibili, cercando di trarre profitto da entrambe o di uscirne senza danno
3 mantenere: tenere una nota, (mus.) prolungarne il suono con la voce o con uno strumento; tenere la destra (o la sinistra), procedere lungo il lato destro (o sinistro) di una strada; tenere la rotta, navigare mantenendo la rotta; tenere il mare, di nave, o anche di persona, sopportare bene il mare mosso; l'automobile tiene bene la strada, non sbanda; tenere il posto, occuparlo e conservarlo; tenere il filo del discorso, non divagare | osservare: tenere una regola, la parola; tenere fede a un giuramento; sai tenere un segreto? | tenere le distanze, (fig.) trattare con distacco, far sentire a un inferiore la differenza di grado
4 possedere: non tengo una lira; tengo famiglia
5 conservare qualcosa in proprio possesso, nelle proprie mani, per sé; avere: questo libro non mi serve piú, tienilo; tenere una baby-sitter, averla alle proprie dipendenze | esercitare, gestire, amministrare: tenere una carica pubblica; tenere una trattoria in centro, un banco lotto; tenere il banco, nei giochi di carte, accettare le puntate degli altri giocatori; tenere banco, (fig.) primeggiare in una conversazione tra piú persone | (lett.) ottenere, raggiungere: e tiene un premio / ch'era follia sperar (MANZONI Il cinque maggio)
6 trattenere: lo abbiamo tenuto a pranzo, a dormire da noi; la malattia l'à tenuta a letto tre mesi | non lasciar sfuggire, non dare sfogo; trattenere: tenere il pianto, il riso
7 occupare: le truppe sbarcate tenevano saldamente la spiaggia; il quadro teneva tutta la parete | (poet.) dominare: Tien quelle rive altissima quiete (LEOPARDI La vita solitaria 33)
8 contenere: il fiasco tiene due litri; la platea tiene ottocento spettatori
9 stimare, giudicare: lo tenevo per un amico sincero; tenere qualcuno in molto conto, in poca considerazione; tenere per fermo, per certo qualcosa, esserne convinto | tenere qualcuno in conto, in concetto di, considerare come: Dante teneva Virgilio in conto di maestro
10 organizzare, fare: tenere una conferenza, una lezione | tenere consiglio con qualcuno, consigliarsi con lui | tenere compagnia a qualcuno, passare del tempo insieme a qualcuno per distrarlo, per non farlo annoiare ecc. ||| v. intr. [aus. avere]
1 di una chiusura, di un recipiente, non lasciar uscire il liquido: il rubinetto, il serbatoio non tiene
2 resistere, far buona presa: la corda, i ganci tengono bene; l'àncora tiene | detto di pianta, allignare: un terreno in cui l'olivo non tiene | tenere duro, resistere a oltranza
3 tenere dietro, seguire (anche fig.): le sue lezioni sono cosí difficili che gli allievi non gli tengono dietro
4 parteggiare: tenere dalla parte dei contribuenti | tenere per, a una squadra, fare il tifo per essa
5 dare importanza a qualcosa o a qualcuno (usato anche con la particella pron. intensiva): è uno che tiene alle apparenze; ci tengo molto che tu superi gli esami
6 (non com.) assomigliare a qualcosa o a qualcuno: tiene dal padre; un fenomeno che tiene del miracoloso ||| tenersi v. rifl.
1 attaccarsi, aggrapparsi (spec. con le mani): tienti stretto al manubrio
2 mantenersi in una data condizione o posizione; seguire una data direzione: tenersi in piedi; tenersi pronto, aggiornato; tenersi a destra, a galla | tenersi sulle sue, trattare gli altri con distacco; non dare confidenza a nessuno | tenersi al vento, (mar.) procedere con la nave tenuta il piú possibile sottovento; (fig.) mettersi dalla parte del piú forte | tenersi al largo, (mar.) navigare tenendosi lontano dalla costa | tenersi al largo da qualcuno, qualcosa, (fig.) evitarlo prudentemente
3 trattenersi: mi tenni a stento dal ridere
4 stimarsi, giudicarsi: si tiene un grande uomo; si teneva onorato dell'incarico | anche assol. : chi si tiene è tenuto
5 attenersi: tenersi ai patti, alle regole, alle prescrizioni del medico; tenersi ai fatti, limitarsi all'esposizione dei fatti, senza aggiungere opinioni personali ||| v. rifl. rec. tenersi l'un l'altro: si tenevano per mano.
In particolare il napoletano à alcune frasi tipiche costruite con il verbo tenere:
1)tené a stecchetto= mantenere in economia forzata di cibo, di beni e quant’altro – lesinare; l’espressione prende il via dal modo parsimonioso con cui venivano cibati gli uccellini, imbeccati di piccolissime quantità di cibo mantenuti sull’estremità d’uno stecchetto di legno;
stecchetto s. m. = piccola assicella di legno; etimologicamente si tratta del diminutivo maschile (vedi il suff. etto) di stecco = ramoscello sfrondato e secco; bastoncino sottile e appuntito; (fig.) si dice pure di persona molto magra; la voce stecco è dal longobardo stek= bastone; rammento che in napoletano si registra pure la voce stecchetta di uguale significato ed etimo, ma diminutivo femminile (vedi il suff. etta) di stecco riferito ad un ramoscello sfrondato e secco, ad bastoncino sottile e appuntito leggermente piú grosso di un eventuale stecchetto, secondo il noto criterio che in napoletano si considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno eccezione tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. ).
2)tené ‘mmano nell’esortazione tiene ‘mmano!= aspetta, non precipitare nell’azione quasi che l’azione che si stia per eseguire, possa esser cosa da trattenere con le mani;
3)tené mente nell’esortazione di tono dispiaciuto rivolta a qualcuno da cui si chieda o ci si attenda una compartecipazione emotiva: tiene mente!=poni mente, osserva, guarda un po’ciò che succede!; ben diversa la successiva espressione che recita
4)tené a mmente nell’esortazione tiene a mmente!=ricorda esattamente (ciò che dico/ciò che avviene), non dimenticartene: un giorno potrei chiamarti a testimone di tutto ciò che sto dicendo o che sta accadendo.
Rammento infine che con il part. presente agg.le plur. di tené e cioè con teniente plur. di tenente = tenente,anzi con l’iterativo teniente,teniente ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia e nell’iterazione quasi superlativa teniente teniente vale molto pronti, quasi duretti come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente tenente e teniente sono, come ò detto, il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
E veniamo al verbo dovere v. tr. [pres. io dèvo o dèbbo (ant. o poet. dèggio), tu dèvi (ant. o poet. dèi), egli dève (ant. o poet. dè, dèe, dèbbe), noi dobbiamo, voi dovéte, essi dèvono o dèbbono (ant. o poet. dèono, dènno, dèggiono); fut. io dovrò ecc. ; pass. rem. io dovéi o dovètti, tu dovésti ecc. ; congiunt. pres. io dèva o dèbba (antiq. o poet. dèggia), noi dobbiamo, voi dobbiate, essi dèvano o dèbbano (antiq. o poet. dèggiano); cond. pres. io dovrèi ecc. ; manca l'imperativo o è poco usato nelle forme tu devi, egli deve,noi dobbiamo, voi dovete,loro devono; regolari le altre forme dal tema dov-. Come verbo indipendente, si coniuga con l'ausiliare avere; come verbo servile, con l'ausiliare richiesto dal verbo cui si accompagna (p. e. ò dovuto studiare, son dovuto andare), ma talvolta con eccezioni,poco giustificabili, specialmente settentrionali (ò dovuto andare)]
1 avere l'obbligo, la necessità, la convenienza: devi pagare entro domani; dovetti partire; la sentinella non deve abbandonare il suo posto; dovresti pulire la casa | doversi aspettare qualcosa, disporre degli elementi sufficienti per prevedere che una data cosa accada: te lo dovevi aspettare! | devi, dovete sapere che... , formula con cui si incomincia il racconto di un antefatto, si fa una premessa e sim. | comportarsi come si deve, bene, educatamente, in modo corretto; una persona come si deve, per bene, onesta; un lavoro fatto come si deve, secondo le buone regole del mestiere;
2 avere bisogno di fare qualcosa; ritenere opportuno o appropriato: per sentirmi bene, devo dormire molto; vieni, devo parlarti subito; dovresti mangiare di piú
3 stare per, essere in procinto di; avere deciso di fare qualcosa: devo scendere a comperare il giornale; dovevamo fare un lungo viaggio
4 essere necessario: deve piovere, altrimenti le piante seccheranno | la cosa doveva andare cosí, era inevitabile, fatale che si concludesse in questo modo
5 essere probabile, possibile: oggi dovrebbe essere una bella giornata; dev'essere successo quello che mi aspettavo | sembrare, avere l'apparenza: dev'essere una persona istruita
6 in frasi interrogative, esclamative, enfatiche o ipotetiche, può avere valore pleonastico: ma perché dovete sempre discutere?; che debba sempre essere cosí sfortunato?
7 essere tenuto a dare, per legge o per ragioni morali; avere l'obbligo di pagare, restituire; essere debitore (anche fig.): ti devo mille lire; gli dobbiamo infinita riconoscenza; mi devi una spiegazione; dobbiamo a lui se ora siamo a questo punto | dovere avere, essere creditore di qualcosa: quanto devo avere ancora da te?
8 derivare: il Monte Bianco deve il suo nome alle nevi perenni da cui è ricoperto | in forma passiva o pronominale, avere origine: il guasto è dovuto a un corto circuito; a lui si deve questa teoria, questa interpretazione, egli ne è l'autore.
Nel napoletano il verbo dovere manca ed è supplito dalla costruzione con il verbo avere seguito dalla preposizione ‘a (da) e dall’infinito connotante l’azione dovuta: ad es. aggio ‘a purtà ‘sta lettera (devo portare questa lettera), hê ‘a cammenà cchiú chiano! (devi camminare piú lentamente!); la medesima costruzione è usata pure in funzione di futuro che benché sia un tempo esistente nelle coniugazioni dei verbi napoletani è pochissimo usato, per cui ad es. la frase dell’italiano: domani andrò dal barbiere è resa in napoletano con dimane aggi’’a jí a d’’o barbiere piuttosto che con dimane jarraggio a d’’o barbiere e talvolta altrove con il presente in funzione di futuro dimane vaco a d’’o barbiere.
E con ciò penso di avere adeguatamente risposto allaprecisa richiesta dell’amico dr. Salvatore C. e forse d’avere interessato qualcunio dei miei 24 lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale
sabato 30 agosto 2014
SANT’ANTUONO ‘o rumito
SANT’ANTUONO ‘o rumito
Questa volta per alcune ricerche linguistiche, prenderò le mosse (come già feci alibi) da un’altra poesia scelta fra quelle che compongono il poemetto ‘Mparaviso (1891) di Ferdinando Russo (Napoli 1866 †1927); la poesia che prenderò in esame è intitolata (erroneamente, come chiarirò) S.Antonio. Eccone il testo completo:
Sant'Antonio
Accussí chiacchiarïanno
nuje ggiràvamo p' 'o cielo.
-Tutto chesto ca te dico , sta’ sicuro,
ch'è vVangelo!
Viene 'a cca, scinne ‘sti ggrare,
jammuncenne ‘int' ô ciardino;
nce assettammo sott' ô ffrisco...
Vuó ‘nu miezu litro 'e vino?
Va’ dicenno, te piacesse
cchiú na presa 'e marzaletta?
’Nfaccia a cchesto, stammo bbuone!
Cca nc'è robba ca se jetta!
Io, c'acalo sempe 'a capa
’nnanze â rrobba pe mangià,
rispunnette: - ‘A marennella
me garbizza, santo Pa’! -
Bravo mo! Accussí te voglio!
E, franchezza pe franchezza,
si m'aspiette tre minute
me farraje ‘na gentilezza;
viene, assèttate ‘nu poco,
ch 'io mo torno: saglio e scengo;
pe ttramente ca t' 'o ddico
corro ‘ncoppa, vaco e vengo!
E me rummanette sulo
mmiezo ê ffrasche, sott' ê mmura.
Io, ntramente me guardavo
'a bbellezza d' 'a verdura,
sento, arreto a ccierti ffrasche,
poche passe ‘nnanze a mme,
’nu remmore. M'avutaje
chianu chiano, pe vvedé.
’Nu purciello chiatto chiatto,
’mbruscenannose, veneva,
e cchiú appriesso ‘nu Rumito
s' 'o guardava e s' 'a redeva.
Era 'o puorco 'e chillo Santo
ca se chiamma Sant'Antonio,
che facette magnà a mmorze
'e ddenocchie d' 'o demmonio.
Me susette, e c' 'o cappiello
lle facette nu saluto.
'O Rumito me guardaje;
po' dicette: -' A do' sî asciuto?
Comm' hê fatto ‘stu penziero?
Figliu mio, va’, tornatenne!
Trova a n'angelo, e dincello
ca te ‘mpresta quatto penne...
-Sant' Antò, ma i' so' venuto
pe vedé no pe rrestà!
Quanno moro, arrassusia,
me vedite 'e riturnà...-
-E sperammo ca ‘stu juorno
fosse propeto luntano!
Nuje cca ‘ncoppa nce seccammo
de restà cu 'e mmano ‘mmano!
Si sapisse, amico caro,
comme stammo affïatate! ...
Vaje pe ddí meza parola,
e sso' cciento scuppettate!
È ‘na vernia! Chillo ‘ngrogna,
chillo arraglia, chillo abboffa,
chi buttizza, chi ‘mmezzèa,
chi te mbroglia e chi te scoffa!
Po... ‘Na mmidia, ‘na schiattiglia,
ch'è ‘na cosa da crepà!
Cca so' ttutte cape allerte!
Vonno tutte cummannà!
Santa Chiara mena zeppe
contro a ssanta Catarina!
Sant' Agnese furfecéa,
santa Rosa se stingina;
santu ‘Ggnàzzio 'o giesuvito,
nun t' 'o puozze maje sunnà!
Nun parlammo ‘e santu Vito,
pecché chillo... fa abballà!
- Cosicché... cca è ttale e cquale
comme abbascio?… - dicett'io.
-Tiene sale int' â cucozza!
Tale e cquale, figliu mio !
Che te cride ca sultanto
’ncopp’ â terra addó staje tu
se cumbinano ‘sti ccose?
Uh Giesú, Giesú, Giesú!
Tu mo saje ca tengo 'o puorco,
se po’ ddí da che sso’ nnato!?
Embè, siente, si me cride:
nun avevano tentato
de luvarme ll'animale?
Neh, ched'è? Ca deva ‘mpicce!
S'avutaje santu Nicola:
-Va’, facimmone sacicce!
Lla fuje tutto santu Rocco,
ca pecché nun tene 'o cane,
va adderitto add' 'o Signore
pe lLe fà tuccà cu 'e mmane .
ll'ingiustizia ca nce steva!:
Pecché 'o puorco e 'o cane no?
Ma si 'o cane s'arraggiava?
Aggio tuorto, neh, guaglió?
Siente appriesso! ' A preferenza,
tutta quanta! (chesto è fforte!)
ll 'à dda avé santa Cicilia
pecché sona ' o pianefforte !
Te figure, ‘int' â cuntrora,
quanno 'e sante vicchiarielle
se vurriano, a nnomme 'e dDio,
fa ‘nu muorzo 'e sunnariello?
Proprio tanno, chella pazza
accummencia a zzulfiggià
cu 'a puntella d’’a Traviata,
cu 'o murzillo 'e Ruy-Bla!
Pe ttramente po te cride
ch’ à fernuto, che robb'è?
Bu-bu-bú!... tta-ttà!... T'accide
cu nu vàlzero ' e Sciopè !
Tu vaje ‘ncopp' add' 'o Signore?
Nce l'avvise? E cchell’è ppeggio!...
È figliola, àve raggione,
tene 'o ggenio, 'o core lieggio,
a la fine a cchi fa male?
Accussí se po’ spassà. .."
E va bbuono, votta lloco!
Vo' sunà? Falla sunà!
Meno male, frate mio,
ca fernesce a scassa-scassa
pecché ncopp' ô pianefforte
mo ce metteno ‘na tassa!
Jammo appriesso: Sant'Ivone,
prutettore d' 'e pagliette?
Uh fratiello mio carnale,
che ‘mbruglione! Ma, a ppanette!
Sempe ‘mmiezo, affaccennato,
se ‘ntrumette e pparla sempe!
Pe te fà ‘nu pasticciotto
nun te lassa manco 'o tiempo
ca tu dice: Avummaria !
T'à parlato? e tt'à ‘mbrugliato!
Uh, che naso muscariello!
E se sape! È n'avvucato! .
Chesto è nniente! San Clemente
è geluso 'e San Pascale,
Sant'Eliggio è ‘nu canzirro,
Sant'Emilio è n'animale...
-Chiano chiano! dicett'io,
vui che càncaro accucchiate !?
Site sante tutte quante,
e sti ffromme ve tirate? !
-Chesti ffromme? Peggio ancora!
Cca se tratta 'e menà 'e mmane!
E ssi no, sciascione mio ,
è na vita manco ê cane!
’A Madonna, sultant'Essa,
va e sse mette contr’â legge!
Essa sola è bbona 'e core,
te dà luce e tte prutegge! !
Tutt' 'e ggrazzie ca lLe cirche
t' 'e fa tutte e ll'aute ancòra!
Essa sola è cumm' ô sole,
te rischiara e t'accalora!
Dice buono 'o ditto 'e vascio,
quando parla della donna!
Una bbona, nce ne steva,
e 'a facetteno Madonna!
L'auto riesto, caro mio,
ne puó ffà ‘nu bbellu fascio!
Quann'è doppo, o l'abbrusciammo,
o 'o mmenammo 'a copp'abbascio!...
Si sapisse ' e fattarielle
ca succedono! 'E ppalate !
Comme va ca Santu Pietro
nun ancòra t'’à cuntate?
-Chillo nun à avuto tiempo,
ma si torna, l'aggi’’a dí
ca dicesse quacche ccosa. ..
-Mo, si aspiette, accummenc'i'!
Evito la traduzione completa, sembrandomi il napoletano usato da F. Russo tranquillamente intelleggibile, e mi riservo di chiarire assieme alle singole parole meno note, le eventuali locuzioni piú complicate.
Comincio però con il chiarire perché ò parlato di errore in riferimento al titolo dato alla poesia; dalla lettura della composizione si evince chiaramente che il santo protagonista della medesima è un santo eremita; orbene il S. Antonio ( il cui nome è dal greco antos= fiore) eremita che è poi Sant'Antonio Abate chiamato anche Sant'Antonio il Grande, Sant'Antonio d'Egitto, Sant'Antonio del Fuoco, Sant'Antonio del Deserto o Sant'Antonio l'Anacoreta (251?-356), fu eremita egiziano, considerato l'iniziatore del Monachesimo cristiano e il primo degli Abati in quanto a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale abbà, si consacrano al servizio di Dio. La sua vita ci è stata tramandata dal suo amico e discepolo Sant'Atanasio (a Napoli: sant’Attanasio). È ricordato nel Calendario dei santi il 17 gennaio, ma la Chiesa Copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde nel loro calendario al 22 del mese di Tobi. Questo santo è noto e ricordato a Napoli con il nome di Sant’Antuono;con il nome invece di sant’Antonio è noto e ricordato a Napoli il santo predicatore Sant'Antonio di Padova, al secolo Fernando Bulhão (Lisbona, 15 agosto 1195 -† Padova, 13 giugno 1231) che fu un frate francescano, santo e dottore della Chiesa cattolica , che gli tributa da secoli una fortissima devozione.
Prima agostiniano a Coimbra (1210), poi (1220) francescano, viaggiò molto vivendo prima in Portogallo quindi in Italia. Nel 1221 incontrò, alla Porziuncola, san Francesco d'Assisi, che lo inviò all'eremo di Montepaolo, presso Forlí, dove iniziò la sua attività di predicatore. Professore di teologia e nello stesso tempo predicatore, combatté l'eresia catara, specialmente in Francia, con estremo vigore e notevole successo. Fu trasferito poi a Bologna e quindi a Padova, città di cui è patrono. Morí all'età di 36 anni in concetto di santità. Per la mole di miracoli attribuitegli venne canonizzato a un anno dalla morte da papa Gregorio IX. Pio XII, che nel 1946 ha annoverato sant'Antonio tra i dottori della Chiesa cattolica, gli ha dato il titolo di dottore evangelico, in quanto nei suoi scritti e nelle prediche che ci sono giunte era solito sostenere le sue affermazioni con citazioni del Vangelo.
Il giovane Ferdinando Russo confuse i due santi ed assegnò al santo eremita, protagonista della poesia in luogo del corretto nome Antuono, l’errato nome di Antonio (certo per rimare con il sostantivo demonio presente nei versi successivi!)
Considero perciò la cosa una licenza poetica e procedo oltre prendendo in esame le varie parole;
rumito = eremita, solitario,chi conduce una vita austera e isolata dal mondo. ; sost. ed aggettivo masch. sing. etimologicamente dal lat. tardo *eremitu(m), che è dal gr. eccl. erímítís, deriv. di érímos= appartato;
accussí = avv.: cosí, in tal modo; da un latino ad+cum+sic con assimilazione regressiva ms>ss.
chiacchiarïanno = chiacchierando voce verbale: gerundio dell’infinito chiacchiarïà = chiacchierare, parlottare con etimo da radice onomatopeica chiacchià riproducente il parlottio.
Vangelo tal quale l’italiano vangelo, aferesi di un originario Evangelo che è il racconto della vita, morte, resurrezione e dottrina di Gesú Cristo | il testo scritto che tramanda tale racconto: vangeli canonici, quelli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, che sono stati riconosciuti come autentici dalla tradizione cristiana e perciò inclusi nel canone del Nuovo Testamento; vangeli apocrifi, quelli a carattere prevalentemente leggendario che non sono stati inclusi nel canone del Nuovo Testamento | il libro che contiene materialmente tale testo: giurare sul vangelo, Evangelo/vangelo etimologicamente dal lat. tardo evangeliu(m), adattamento del gr. cristiano euanghélion; propr. 'buona novella'’buon messaggio’, comp. di eu- 'bene, buono' e un deriv. di ánghelos ;'messaggero' (cfr. angelo);
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome che però si rende con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
scinne =scendi voce verbale (2° pers. sing. imperativo, ma anche alibi 2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito scénnere = scendere; etimologicamente riduzione del latino descendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; normale in napoletano l’assimilazione nd>nn e l’ulteriore chiusura della é tonica in i;
grare= gradini, scalini la voce a margine risulta essere il plurale (reso femminile) del singolare maschile grado / graro o anche raro con tipica semplificazione mediterranea di gr>r( come ad es. gruosso> ruosso= grosso) e rotacizzazione della d>r; etimologicamente grado / graro è dal latino gradu(m)= scalino;
jammo-cenne o jammo-ncenne o pure jammu-ncenne = andiamocene voce verbale( con addizione delle particelle pronominali ce e ne; da notare l’epentesi eufonica della n posta innanzi al cene finale che diviene addirittura cénne con raddoppiamento espressivo della n di ne) (2° pers. plur. (imperativo) esortativo) dell’infinito jí = andare; etimologicamente dal latino ire. Rammenterò che il verbo jí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sing.) si serve del basso latino *vadicare (con sincope dell’intera sillaba di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va;
ffrisco = fresco,recente di per sé è un aggettivo, ma qui, sostantivato, vale frescura e con altra valenza, riferito ad un uomo (ommo frisco) è uomo valente, pimpante; etimologicamente deriva da un antico francone frisk;
presa = presa; di per sé è un aggettivo ( derivato dal part. passato femm.le del verbo prendere, ma qui, sostantivato,vale assunzione di una modica quantità di cose quali tabacco o liquori ( ad es.:‘na presa ‘e tabbacco = una pizzicata di tabacco da fiuto; ‘na presa d’ànnese= un bicchierino, un gottino di anice; rammenterò che in napoletano la voce a margine è l’unica mutuata dal verbo latino prehendere e prendere; per tutti gli altri tempi e modi il napoletano non usa derivazioni di prehendere e prendere, ma usa il verbo piglià che è da un lat. volg. *piliare, prob. dal class. pilare 'rubare, saccheggiare';
marzaletta diminutivo di marsala tipico vino gustoso profumato, ad alta gradazione alcolica, di colore giallo intenso tendente al marrone, prodotto nei dintorni della omonima città siciliana: marsala all'uovo, con aggiunta di tuorlo d'uovo; è vino non da pasto, ma essenzialmente da dessert in ispecie nella versione all'uovo;
rrobba ca se jetta letteralmente: roba che si butta, ma non perché sia cattiva, ma in quanto ce ne sta tale e tanta abbondanza, da poterne utilizzare ad iosa e magari liberarsene senza remore; rrobba = roba (sostantivo generico che può indicare qualsiasi oggetto o insieme di oggetti e nella fattispecie vale: alimenti, vettovaglie etimologicamente, come già dissi altrove, è dal germanico rauba 'bottino, preda' e 'veste'; jetta voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito jttà/jettà = buttare, gettare, etimologicamente dal lat. volg. *iectare, per il class. iactare, intens. di iacere 'scagliar via';
Io, c'acalo sempe 'a capa ’nnanze â rrobba pe mangià = letteralmente io che abbasso sempre il capo davanti la roba da mangiare id est: accetto sempre da mangiare; e pare infatti che F.Russo soffrisse di conclamato diabete, che – in età matura – lo portò alla tomba;acalo= abbasso voce verbale (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito acalà= chinare, abbassare con etimo dal lat. tardo *ad+calare, dal gr. chalân 'allentare' dove l’ad è un rafforzamento popolare; ‘nnanze forma aferetica di annanze avv. e prep. = davanti; l’etimo è dal basso latino *in+antea;
marennella = merendina diminutivo di marenna; e cioè spuntino che si fa nel pomeriggio, fra il pranzo e la cena o pure quando se ne abbia voglia e/o necessità; anche, il cibo che si mangia in tale occasione; la voce marenna etimologicamente deriva da un lat. merenda, propr. neutro pl.,poi inteso femminile del gerund. di meríre 'meritare'; propr. 'cose da meritare' con tipica apertura della sillaba atona e consueta assimilazione progressiva nd>nn; talvolta,in napoletano, spec ialmente quando lo spuntino si sostanzia in due semplici fette di pane con inframmezzato del companatico la voce a margine è sostituita con ‘mpustarella derivante da un in (illativo)+ il latino positam con un suffisso femm. ella che sostantivizza il part. pass. positam che è da ponere= porre, mentre l’in d’avvio, che davanti all’esplosiva p si aferizza in ‘m,indica appunto che il companatico è posto dentro il pane;
me garbizza = mi garba, mi va a genio; me = a me, mi forma complementare atona del pron. pers. io, si usa come compl. ogg. e come compl. di termine, in posizione sia enclitica sia proclitica etimologicamente deriva dal lat. mí, acc.; garbizza = garba,piace voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito garbizzare = garbare, andare a genio, piacere; il verbo garbizzare non piú in uso sostituito dal piú ovvio piacé = piacere (me piace in luogo di me garbizza ) fu verbo denominale del sostantivo garbo che etimologicamente forse pare derivi dall'ar. qālib 'modello, sagoma'con successivo adattamento di significato;
saglio e scenno/scengo = salgo e scendo voci verbali usate in coppia per indicare una rapida azione consistente nell’ascendere e discendere senza por tempo in mezzo: saglio (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito sàgliere o saglí= salire, ascendere etimologicamente dal latino salire; scenno/scengo(1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito scennere = scendere; per l’etimologia vedi antea;
pe tramente – ‘ntramente (locuzioni avverbiali di tempo) =nel mentre che, intanto che, nel frattempo che; locuzione temporale avverbiale derivata dal latino: dum- intèrea divenuta dom-mentre poi drommente ed infine tramente, usata per indicare la contemporaneità di due azioni di cui l'una si verifichi nel mentre sia in corso l'altra. Va da sé che non vi sia differenza tra le forme pe tramente o ‘ntramente dove la prima è addizionata della preposizione pe (per) in funzione temporale e la seconda è addizionata, addirittura in posizione protetica della preposizione in donde ‘n;
vaco e vengo = vado e vengo voci verbali usate in coppia per indicare la rapidità dell’azione consistente nell’ andare e venire senza por tempo in mezzo: vaco(1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito jí = andare; ò già detto antea sia dell’etimo che della particolarità della coniugazione;
vengo (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vení = venire, tornare da etimologicamente dritto per dritto dal latino venire che è probabilmente da una radice osco-umbra: va, van, ven addizionata all’infinito ire;
arreto o areto = (avv.di luogo) dietro,parte posteriore opposta al davanti; esattamente arreto è dietro con derivazione dal latino ad+retro con tipica assimilazione regressiva dr>rr e dissimilazione totale della r nella sillaba finale; invece areto (seppure spesso usato in napoletano in luogo di arreto) esattamente è di dietro derivazione dal latino a+retro; anche qui si verifica la dissimilazione che riduce retro a reto e spesso l’avverbio (giusta l’etimo) è scritto oltre che areto anche ‘a reto (da dietro);
remmore o rummore e talvolta demmore = rumore, fruscio, risonanza, fenomeno acustico dovuto a vibrazioni irregolari, che produce spesso un fastidio o una sensazione sgradevole; etimologicamente dal lat. rumòre(m) con consueto raddoppiamento popolare della m nella sillaba tonica;
chianu chiano = piano piano (locuzione avverbiale modale ricavata dalla reiterazione dell’aggettivo di grado positivo chiano)che vale pianissimo atteso che in napoletano il superlativo degli aggettivi non si fa con l’ausilio di suffissi quali: issimo o errimo, ma appunto attraverso la iterazione dell’aggettivo di grado positivo; di per sé chiano è piano con derivazione dal lat. planus con il consueto passaggio di pl a chi come abbiamo già visto molte altrte volte;
chiatto chiatto = grassissimo; come abbiamo visto or ora anche qui la iterazione dell’aggettivo di grado positivo, serve a formare un superlativo; l’aggettivo in esame è chiatto = grasso con etimo dal greco plat_s con raddoppiamento popolare della t e consueto passaggio (come per il latino) di pl a chi;
‘mbruscenannose = trascinandosi avanti, stropicciandosi; voce verbale (gerundio) con l’aggiunta in posizione enclitica del pron. se dell’infinito ‘mbruscenà = trascinare, stropicciare con etimo dal latino *in (illativo) + pro-scinare>*improscinare> *imbroscinare> ‘mbroscinare=’mbruscenà;
‘mpresta = dà in prestito voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘mprestà = dare in prestito con etimo dal latino in (illativo) +
praestare, (comp. di prae 'davanti' e stare 'stare'; propr. 'stare innanzi, essere al di sopra' e quindi 'assicurare, garantire');
arrassusia = lontano sia! locuzione avverbiale esclamativa formata dall’aggettivo arrasso e dal congiuntivo ottativo sia; etimologicamente arrasso deriva dall’arabo arah/arasa = lontano;
affïatate= chi è in intesa, in affiatamento (voce verbale part. pass. plurale) dell’infinito affïatà = stare d’ intesa, in affiatamento; qui la voce a margine è però chiaramente da intendersi in senso ironico, antifrastico; nel prosieguo della poesia, infatti F.Russo pone sulla bocca di sant’ Antuono una sequela di maldicenze sul conto di svariati santi tale da lasciare intendere che il dichiarato affiatamento è in realtà inesistente; dalla maldicenza è fatta salva la sola Madonna! il verbo affïatà risulta essere un denominale del lat. afflatu(m), deriv. di afflare 'soffiare, spirare';
scuppettate = colpi di fucile plurale di scuppettata che è il colpo di scuppetta (fucile) da intendersi anche in senso traslato di aggressione orale, cattiveria gratuita, maldicenza etc.; la scuppetta donde scuppettata/e etimologicamente è un derivato del lat. scloppu(m), di orig. onom con dissimilazione della liquida e l’aggiunta di un suffisso diminutivo etta;
vernia = chiasso,disordine, trambusto ed addirittura oscenità, ma non nel caso della poesia dove è intesa confusione; etimologicamente è voce derivata da un neutro plur. latino, poi inteso femm. sing. *vernia aggettivo sostantivato di verna (schiavo nato in casa) e dunque: cose da schiavo; dalla voce verna deriva anche l’italiano vernacolo il parlare che è proprio di un luogo, di una regione, di un ristretto ambito;(in origine il linguaggio degli schiavi) ; in partic., il linguaggio popolare considerato in ciò che lo differenzia dalla lingua letteraria (il termine si usa soprattutto per indicare le parlate regionali e à valore piú ristretto rispetto a dialetto, anche se comunemente viene adoperato come sinonimo di questo quando ci si riferisce alla moderna letteratura dialettale;
‘ngrogna = ingrugna, assume atteggiamento minaccioso; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito ‘ngrugnà = ingrugnare, assumere atteggiamento minaccioso; il verbo risulta derivare da un in (illativo)+ lat. tardo gruniu(m), prob. da grunnire 'grugnire' quasi: atteggiare il volto a mo’ di grugno che è il muso delle bestie;
arraglia raglia, fa il verso dell’asino il che – in senso traslato - sta per blaterale, farsi udire a sproposito; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito arraglià che risulta derivare da un ad + lat. volg. *ragulare, di orig. onom. indicante appunto il verso dell’asino;
abboffa sbuffa, gonfia le gote emettendo il fiato con forza in segno di fastidio, noia e disprezzo; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito abbuffà = sbuffare, gonfiare che risulta derivare da un ad +
bufo/onis > abbufo>abbuffo> abbuffà= gonfiare/si a mo’ di rospo;
buttizza punge, percuote con le parole, botta nascostamente; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito buttezzïà infatti piú correttamente il verbo andrebbe coniugato: buttezzejo, buttezzije, buttezzeja etc. ; quasi certamente al poeta occorreva un trisillabo buttizza ed italianizzò quasi in buttizza il quadrisillabo buttezzeja; ma era giovane ed alle prime armi: perdoniamolo! etimologicamente il verbo buttezzïà risulta forgiato su di un fr. ant. boter, che è dal francone *botan = colpire;
‘mmezéa istiga, sobilla voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito ‘mmezzïà; ed in effetti, come abbiamo visto per il precedente buttizza, anche la voce verbale a margine avrebbe dovuto piú correttamente essere: ‘mmezzeïa secondo la coniugazione ‘mmezzejo, ‘mmezzije, ‘mmezzeïa etc. ma anche in questo caso, quasi certamente al poeta occorreva un trisillabo e ‘mmezzeïa è invece un quadrisillabo, per cui si prese la licenza poetica (che gli perdoniamo) di coniare la voce a margine, intendendo l’infinito ‘mmezzià e non ‘mmezzïà; ora sia che si tratti di ‘mmezzià sia che si tratti di e ‘mmezzïà, ambedue le forme derivano da un latino volgare *in (illativo) +malitiare (denominale di malitia) nel senso di spingere ad agire deliberatamente contro l'onestà, la virtú, la giustizia etc. con consueta semplificazione dell’ in d’avvio che aferizzato si assimila alla successiva m dando ‘mm; meno perseguibile m’appare l’ipotesi etimologica che vede una derivazione da un lat. volgare *in+vitiare(denominale di vitium) e questo quantunque altrove in+v dia in napoletano ‘mm (ad. es. invidia = ‘mmidia) troppo lontani trovo infatti isignificati di vitium (errore) e di malitia (astuzia, furbizia, scaltrezza, espediente, stratagemma, trucco, accorgimento, sottigliezza);
‘mbroglia imbroglia, briga voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito ‘mbruglià = imbrogliare, brigare, confondere etc. etimologicamente ‘mbruglià deriva da un in (illativo) + un fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', prob. deriv. di brou 'brodo' e in senso pegg. 'schiuma, fango' con il consueto passaggio dell’in d’avvio a ‘m davanti alla esplosiva labiale b;
scoffa slomba, storpia verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito scuffà = dilombare, storpiare, percuotere sui fianchi e/o lombi anche in senso generale figurato di usar violenza (se non fisica, verbale!); etimologicamente il verbo scuffà è da un latino volgare *excuffare modellato forse sul long. huf = anca donde anche il napoletano uffo ed il calabrese uoffu = osso lombare;
‘mmidia invidia, sentimento di cruccio astioso per la felicità, la fortuna, il benessere altrui: etimologicamente la voce napoletana deriva dal latino invidia(m), deriv. di invidus 'invidioso' Dal lat. invidu(m), deriv. di invidíre 'guardare di mal occhio', comp. di in ( distrattivo,negativo)' e vidíre 'guardare, vedere'( da notare che in napoletano l’in d’avvio à dato (unito alla successiva v) ‘mm forse tenendo presente l’alternanza del napoletano v/b; poiché in davanti alla b dà ‘mb o ‘mm ci si è comportati alla medesima maniera per la in davanti alla v; si può tuttavia addirittura sospettare, nella formazione della voce ‘mmidia, un primo passaggio del latino invidia(m) ad inbidia con la tipica alternanza partenopea v/b e da inbidia seguendo la normale regola che in davanti alla b dà ‘mb o ‘mm si sia approdati a ‘mmidia;
schiattiglia invidia erosiva, livore,rabbia tali da far (sia pure figuratamente) scoppiare; la voce è un deverbale di schiattà ( che è scoppiare, e deriva da una S detrattiva + chiatto (cioè smetter d’esser grasso, sgonfiarsi) per il tramite di un neutro plurale (poi inteso femminile) schiattília (cose che fanno scoppiare d’invidia);
cape allerte teste ritte, alzate per significare l’atteggiamento duro, attento, teso di chi sia sempre incline al comando e lo dimostri anche fisicamente non perdendo mai di vista, la situazione che lo occupi, cosa che potrebbe avvenire se invece di avere la testa alta la si avesse chinata; di per sé allerte è una forma aggettivale (femm. plur.) ricostruita sulla loc. avverbiale all’erta agglutinata in allerta (ritto, all’impiedi, attento) erta femm. di erto è aggettivo sostantivato da un lat. volg. *írctu(m)/ta(m), forma analogica di part. pass. da *ergere, per il class. eríctus/ta, part. pass. di erigere 'ergere, erigere’;
mena zeppe parla male di qlc. letteralmente: lancia zeppe, biette, stecchi; mena è voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito menà= buttare, lanciare e piú spesso lanciar contro; etimologicamente è da un lat. tardo minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'; zeppe cunei di legno o di altro materiale usato per otturare fessure o per dare stabilità a mobili traballanti; rialzo di legno o di sughero sotto sandali e zoccoli.
Elenco adesso súbito qui di seguito tutti i nomi dei santi chiamati in causa nel suo racconto dal… pettegolo, maldicente sant’Antuono:
s.Chiara: Conquistata dall'esempio di San Francesco, la giovane Chiara, della nobile e ricca famiglia degli Offreducci, sette anni dopo lo raggiunse alla Porziuncola. Fondò l'Ordine femminile delle «povere recluse di San Damiano» (chiamate in seguito Clarisse) di cui fu nominata badessa e di cui Francesco dettò una prima Regola. Chiara scrisse poi la Regola definitiva chiedendo ed ottenendo da Gregorio IX il «privilegio della povertà». Per aver contemplato, in una Notte di Natale, sulle pareti della sua cella il presepe e i riti delle funzioni solenni che si svolgevano a Santa Maria degli Angeli, è stata scelta da Pio XII quale protettrice della televisione. Erede dello spirito francescano, si preoccupò di diffonderlo, distinguendosi per il culto verso il SS. Sacramento che salvò il loro convento dai Saraceni; etimologicamente Chiara è dal latino clara= trasparente, illustre; protrettrice delle stiratrici.
s. Catarina = Caterina che, dal greco, è donna pura. Nata a Siena nel 1347 Caterina non va a scuola, non à maestri. I suoi tentarono di convincerla al matrimonio fin da quando lei aveva 12 anni. E lei rifiutò sempre. chiedendo solo, ed ottenendo una stanzetta che sarà la sua cella di terziaria domenicana (o Mantellata, per l'abito bianco e il mantello nero). La stanzetta divenne cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti piú istruiti di lei. Li chiameranno Caterinati. Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa ed a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. A Roma si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d'Italia con Francesco d'Assisi.AProtrettrice dei corrieri. di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell'attuale piazza Navona. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio, altri nel 304 durante la
sant’Agnese che, dal greco, è donna casta, pura nacque a Roma da genitori cristiani, di una illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Quando era ancora dodicenne, scoppiò una persecuzione e molti furono i fedeli che, per timore, s'abbandonarano alla defezione. Agnese, che aveva deciso di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu allora esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell'odierna piazza Navona. Un uomo, che tentò di avvicinarla, cadde morto prima di poterla sfiorare, ma altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni; fu allora barbaramente sgozzata con un colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell'iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, e la si colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall'imperatore Decio, oppure nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano.
s. Rosa dal nome del fiore. Per il vero nella devozione dei fedeli ci sono tre sante che portano il medesimo nome Rosa da Lima, Rosa da Viterbo e recentissimamente (2006) una Rosa Venerini, ma al tempo di F. Russo la maggior devozione dei fedeli andava a s. Rosa da Lima, molto piú nota di s. Rosa da Viterbo e perciò reputo che il Russo si riferisca a Rosa da Lima nel suo poemetto e nella poesia che vengo esaminando. Ella nacque a Lima il 20 aprile 1586, decima di tredici figli. Il suo nome di battesimo era Isabella. Era figlia di una nobile famiglia, di origine spagnola. Quando la sua famiglia subí un tracollo finanziario. Rosa si rimboccò le maniche e aiutò in casa anche nei lavori materiali. Sin da piccola aspirò a consacrarsi a Dio nella vita claustrale, ma rimase vergine nel mondo. Il suo modello di vita fu santa Caterina da Siena. Come lei, vestí l'abito del Terz'ordine domenicano, a vent'anni. Allestí nella casa materna una sorta di ricovero per i bisognosi, dove prestava assistenza ai bambini ed agli anziani abbandonati, soprattutto a quelli di origine india. Dal 1609 si richiuse in una cella di appena due metri quadrati, costruita nel giardino della casa materna, dalla quale usciva solo per la funzione religiosa, dove trascorreva gran parte delle sue giornate a pregare ed in stretta unione con il Signore. Ebbe visioni mistiche. Nel 1614 fu obbligata a trasferirsi nell'abitazione della nobile Maria de Ezategui, dove morí, straziata dalle privazioni, tre anni dopo. Era il 24 agosto 1617.meo.
santu ‘Ggnazzio = sant’Ignazio grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All'abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per piú di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i suoi celebri Esercizi Spirituali. L'attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po'in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesú. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morí. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. Come si può ricavare dal nome di Compagnia dato alla sua fondazione di consacrati Ignazio di Loyola non dismise mai completamente il suo carattere bellicoso al segno che ancora oggi i componenti la Compagnia di Gesú si dicono soldati; protettore dei militari; rammenterò a margine ed a chiarimento che in napoletano la voce gesuita dal nome appunto dei Gesuiti usato in senso traslato, vale come aggettivo: falso,insincero, doppio in ragione del fatto che i componenti la Compagnia di Gesú, ampiamente versati in molti studi eccellendo in quelli di filosofia e/o teologia, spesso son soliti argomentare con ragionamenti farciti di sillogismi che possono prestare il fianco ad esser ritenuti capziosi o arzigogolati e perciò affetti di doppiezza, falsità ed insincerità.
san Vito martire il nome è dal latino: forte, virile, che à in sé la vita;
Per il vero non si conosce la sua effettiva origine, anche se una Passio che però non à nessun valore storico, lo fa nascere in Sicilia da padre pagano e lo vuole incarcerato da giovanissimo, per sette anni perché cristiano. L'unica notizia attendibile su di lui è che visse in Lucania. Popolarissimo nel medioevo, egli fu inserito nel gruppo dei Ss. Ausiliatori, i santi la cui intercessione veniva considerata molto efficace in particolare occasioni e per sanare determinate malattie. Egli veniva invocato per scongiurare la lettargia, il morso di bestie velenose o idrofobe e la còrea . nome generico di malattie del sistema nervoso che si manifestano con movimenti bruschi e involontari spec. del viso e degli arti; la principale è la corea di Sydenham, nota pop. come ballo di san Vito.In proposito la leggenda racconta che Vito, da bambino, abbia guarito il figlio di Diocleziano, suo coetaneo, ammalato di epilessia e forse a ciò si deve il fatto di avere assegnato il nome del santo a tal tipo di infermità.
santu Rocco laico e pellegrino; il nome deriva dal tedesco e significa: grande, forte, prestante; Le lelele fonti su di lui sono poco precise e rese piú oscure dalla leggenda. Si vuole che in pellegrinaggio diretto a Roma dopo aver donato tutti sui beni ai poveri, si sarebbe fermato ad Acquapendente, dedicandosi all'assistenza degli ammalati di peste e facendo guarigioni miracolose che diffusero la sua fama. Peregrinando per l'Italia centrale si dedicò ad opere di carità e di assistenza promuovendo continue conversione. Sarebbe morto in prigione, dopo essere stato arrestato presso Angera da alcuni soldati perché sospettato di spionaggio. Invocato nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi naturali, il suo culto si diffuse straordinariamente nell'Italia del Nord, legato in particolare al suo ruolo di protettore contro la peste.L’iconografia lo rappresenta con il baculo e la conchiglia del pellegrino ed accompagnato sempre da un cane;
san Nicola vescovo, il cui nome derivante dal greco significa: vincitore del popolo nacque a Pàtara, Asia Minore (attuale Turchia),ca.250†Mira,AsiaMinore, ca. 326
Proveniva da una famiglia nobile. Fu eletto vescovo per le sue doti di pietà e di carità molto esplicite fin da bambino. Fu considerato santo anche da vivo. Durante la persecuzione di Diocleziano, pare sia stato imprigionato fino all’epoca dell’Editto di Costantino. Fu nominato patrono di Bari, e la basilica che porta il suo nome è tuttora meta di parecchi pellegrinaggi. San Nicola è il leggendario Santa Claus dei paesi anglosassoni, e il NiKolaus della Germania che a Natale porta i doni a bambini.
È il protettore di Bambini, Ragazzi e ragazze, Scolari, Farmacisti, Mercanti, Naviganti, Pescatori, Profumieri;
santa Cicilia santa Cecilia vergine e martire con il nome derivante dalla famiglia romana di appartenenza; Cecilia è una delle sette donne martiri di cui si fa menzione nel Canone Romano. Ad essa è dedicata una basilica in Trastevere a Roma (sec.IV). Il suo culto si diffuse dovunque prendendo l'avvio da una 'Passio nella quale viene esaltata come modello di vergine cristiana. Piú tardiva è l'interpretazione del suo ruolo di ispiratrice e patrona della musica e del canto sacro. (fatto dovuto, probabilmente ad una cattiva interpretazionedi una lapide tombale dove un candentibus organis (strumenti incandescenti, con i quali forse ricevette il martirio) fu letto canentibus organis(strumenti del canto) interpretazione fallace ripresa anche in un passo della leggendaria Passio, in cui si dice che mentre gli organi suonavano, ella cantava nel suo cuore soltanto per il Signore;
sant’Ivone sant’ Yves Hélory de Kermartin Dalla sua morte, avvenuta il 19 maggio 1303, non vi fu in Bretagna un santo piú popolare di lui, ebbe sin da allora un culto straordinario, diffuso specialmente dai marinai brettoni, in tutti i luoghi ove sbarcavano, perfino in Canada; s. Yves dei brettoni era il loro santo nazionale.
Nacque nel castello di Le Minihy presso Tréguier il 17 ottobre 1235; Yves Hélory de Kermartin era figlio di un modesto gentiluomo, fu allevato piamente da sua madre, fino ai 14 anni, quando partí per Parigi insieme al suo precettore Giovanni di Kerhoz, che in seguito diverrà suo discepolo.
Studiò teologia ed altro per dieci anni alla scuola di s. Bonaventura, poi si spostò ad Orleans per studiare diritto, si affermò nelle due città come studente serio, dolce, caritatevole, incline alla pietà e alla purezza.
A 27 anni passò al servizio dell’arcidiacono di Rennes, come ufficiale di giustizia ecclesiastica, ma dopo un po’ il suo vescovo lo chiamò presso di sé per la stessa carica, consacrandolo sacerdote malgrado Yves si sentisse indegno.
Nel tribunale divenne il rifugio, l’avvocato di tutte le cause dei poveri ed infelici, istituendo per primo il patrocinio gratuito; il suo castello divenne un ospizio per i mendicanti ed i poveri della regione.
Il grande fervore di santità che lo animava, lo spinse a predicare sempre piú spesso (si racconta che un venerdí santo predicò esaurito, fino a sette volte); lasciò la sua bella veste di ufficiale giudiziario e indossò il camice di stoppa e la tunica dei contadini, diede ai poveri la sua unica sottana, dormí sulla paglia e sulla nuda terra.
Ebbe anche l’incarico dal suo vescovo di curare la parrocchia di Tredez e nel 1292 quella di Louannec, che sollevò dalle misere condizioni spirituali in cui si trovavano; non tralasciò la predicazione nelle altre parrocchie, dove si recava a piedi portando con sé solo la Bibbia e il Breviario.
Nel 1298 si ritirò nel suo castello di Kermartin, dove nel piú grande squallore, morí il 19 maggio 1303. La sua fama di santità era cosí grande, che la folla si spartí i pezzi delle sue misere vesti, per farne delle reliquie e già da quel giorno il popolo, il clero, le autorità, i duchi Giovanni III e Carlo di Montfort, il re di Francia Filippo di Valois, reclamavano la sua canonizzazione che avvenne però molto piú tardi ; il nome di Ivo o Ivone probabilmente diminutivo di Giovanni è di origine celtica e significa ’legno di tasso’, albero sacro dei celti; il nome ebbe uno sviluppo particolare in Francia, estendendosi anche in Italia nella versione appunto di Ivo, Ivone, Ivonne. ; è patrono di avvocati e legulei ed a Napoli dei paglietta ( termine che, dal nome del tipico copricapo indossato, indica gli avvocati di basso profilo, cavillosi, impreparati e forse imbroglioni;
san Clemente papa e martire il cui nome con derivazione dal latino sta per buono, indulgente, generoso fu (Papa dal 88 al 97.
Clemente, quarto vescovo di Roma dopo Pietro, Lino e Anacleto, è ricordato nel Canone Romano. La lettera da lui indirizzata ai Corinzi per ristabilire la concordia degli animi, appare come uno dei piú antichi documenti dell'esercizio del primato. Lo scritto testimonia il Canone dei libri ispirati e dà preziose notizie sulla liturgia e sulla gerarchia ecclesiastica. Accenna anche alla gloriosa morte degli apostoli Pietro e Paolo e dei protomartiri romani nella persecuzione di Nerone; mancano notizie precise sul suo martirio; secondo una tradizione del IV secolo, sarebbe stato affogato con un’ancora al collo in Crimea, suo luogo d’esilio, per ordine di Nerva. Ma gli Atti relativi sono giudicati leggendari.Protettore dei barcaioli.
san Pascale è san Pasquale Baylon religioso francescano, cui il popolo napoletano, in particolare le donne, è molto devoto (Torre Hermosa (Aragona), 16 maggio 1540 † Villa Real (Valenza), 17 maggio 1592 )
Nacque il 16 maggio 1540, nel giorno di Pentecoste, a Torre Hermosa, in Aragona. Di umili origini, sin da piccolo venne avviato al pascolo delle greggi. Durante il lavoro si isolava spesso per pregare. A 18 anni chiese di essere ammesso nel convento dei francescani Alcantarini di Santa Maria di Loreto, da cui venne respinto, forse per la giovane età. Tuttavia non si perse d'animo, venendo ammesso al noviziato il 2 febbraio 1564. L'anno successivo, emise la solenne professione come fratello laico non sentendosi degno del sacerdozio. Nel 1576 il ministro provinciale gli affidò il compito, estremamente pericoloso, di portare documenti importanti a Parigi, rischiando di essere ucciso dai calvinisti. L'impegno venne comunque assolto in modo proficuo. Tutta la sua vita fu caratterizzata da un profondo amore per l'Eucaristia che gli valse il titolo di teologo dell'Eucaristia. Fu anche autore di un libro sulla reale presenza di Cristo nel pane e nel vino. Morí nel convento di Villa Real, presso Valencia il 17 maggio 1592, domenica di Pentecoste. Fu canonizzato da Alessandro VIII nel 1690. Nel 1897 Leone XIII lo proclamò patrono dei Congressi eucaristici, mentre il popolo napoletano lo ritiene patrono delle nubili;
sant’Eligio vescovo. Il nome francese (di cui Eligio è la trasposizione italiana) fu Elois che dall’ebraico sta per nobile guida, mentre dal latino sta per eletto
Eligio nacque a Chaptelat (presso Limoges in Francia) intorno al 590. Una leggenda racconta che gli si presentò il diavolo vestito da donna: e lui, Eligio, rapido lo agguantò per il naso con le tenaglie. Questa colorita leggenda è raffigurata in due cattedrali francesi (Angers e Le Mans) e nel duomo di Milano, con la vetrata di Niccolò da Varallo, dono degli orefici milanesi nel Quattrocento. L'Eligio storico, figlio di gente modesta, deve aver ricevuto tuttavia un'istruzione, perché venne assunto come apprendista dall'orefice lionese Abbone, che dirige pure la zecca reale. Sotto Clotario, Eligio va a dirigere la zecca di Marsiglia e intanto continua a fare l'orefice. Col nuovo re Dagoberto I (623-639) viene chiamato a corte e cambia mestiere: il sovrano ne fa un suo ambasciatore, per missioni di fiducia. Altri incarichi se li prende da solo: per esempio, riscattare a sue spese i prigionieri di guerra, fondare monasteri maschili e femminili. Morto il re, sceglie la vita religiosa, e il 13 maggio 641 viene consacrato vescovo di Noyon-Tournai dove s'impegna nella campagna di evangelizzazione (e ri-evangelizzazione) nel Nord della Gallia, nelle regioni della Mosa e della Scelda, nelle terre dei Frisoni. Muore nel 660. È patrono di fabbri, gioiellieri e maniscalchi e proprio rammentando che è patrono di questi ultimi F. Russo lo fa definire ingiuriosamente canzirro (che come vedremo è propriamente il mulo) non potendolo definir cavallo che è comunque ritenuto animale nobile; nel 660
sant’Emilio in realtà sant’Emiliano martire(probabilmente originario dell’Emilia, donde il nome) presso Dorostoro in Mesia,dove s’era recato a predicare il Vangelo disobbedí agli editti di Giuliano l’Apostata ed alle minacce del suo vicario Catulino, rovesciò l’altare degli idoli ed impedí il sacrificio e per questo fu dunque gettato nella fornace, conseguendo cosí la palma del martirio. Non risulta che sia un santo molto conosciuto o venerato dal popolo napoletano, né risultano leggende legate al suo nome, per cui proprio non riesco a spiegarmi come mai F. Russo lo abbia preso in considerazione attribuendogli tout court e gratuitamente l’epiteto di animale!
santu Pietro ovviamente san Pietro apostolo papa e martire; Simone (che Gesú chiamò Pietro) è uno dei dodici apostoli di Gesú, per esattezza il primo ad essere chiamato insieme a suo fratello Andrea, quando erano pescatori e vivevano in Galilea.
Della sua vita si può leggere nei Vangeli, ma poco sappiamo della sua morte avvenuta nel I° secolo sebbenenumerose siano le fonti che affermano che anche gli apostoli Pietro e Paolo subirono il martirio in Roma, durante la persecuzione di Nerone . L'anno esatto del martirio non è noto.Originario di Bethsaida in Galilea, Principe degli Apostoli, ricevette da Gesú Cristo la suprema Pontificia Potestà da trasmettersi ai suoi Successori. Risiedette prima in Antiochia, quindi, a quanto riferisce il Cronografo dell’anno 354, per anni 25 a Roma, dove subí il martirio o nel 64 o nel 67. Sia l’antica che l’attuale basilica vaticana furono costruite sulla camera sepolcrale del Principe degli Apostoli. Accanto alla tomba di Pietro vennero inumati i primi santi pontefici. "Pietro prega per i santi uomini cristiani sepolti vicino al tuo corpo", cosí la scritta vicino alla tomba. La Confessio beati Petri è tuttora sotto l’altare papale, ritrovamento annunciato al mondo da Pio XII con suo messaggio radiofonico nella Vigilia di Natale del 1950. In un reliquiario della basilica vaticana si conserva un suo dito. La reliquia della testa è presso quella lateranense.
Il 29 giugno a Roma si celebra il natale dei santi Apostoli Pietro e Paolo, i quali patirono nello stesso anno e nello stesso giorno sotto Nerone Imperatore. Il primo di questi, nella medesima Città, crocifisso col capo rivolto verso la terra, e sepolto nel Vaticano presso la via Trionfale, è celebrato con venerazione da tutto il mondo; l'altro, decapitato e sepolto sulla via Ostiense, è venerato con pari onore. Rammenterò, per chiudere, che nel racconto evangelico Gesú Cristo promise di dare a (san) Pietro le chiavi del Regno dei Cieli e ciò si tradusse, nell’immaginario popolare partenopeo e nella poesia di F.Russo, l’assegnare a san Pietro il compito di portinaio, custode del Paradiso.
Esaurita l’elencazione dei santi richiamati nella poesia in esame, prima di tornare alle parole e locuzioni un accenno a tre altre voci di cui, due opere musicali ed un nome di musicista famoso; abbiamo:
Traviata opera in tre atti di G. Verdi, tratta da La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio - dramma teatrale andato in scena a Parigi il 2 febbraio 1852 - venne rappresentata al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853. Francesco Maria Piave ne scrisse il libretto; Gaetano Mares fu direttore d'orchestra e primo violino. Gli interpreti principali dell'opera furono: Fanny Salvini-Donatelli (soprano), Violetta Valery; Lodovico Graziani (tenore), Alfredo Germont; Felice Varesi (baritono), Giorgio Germont; Francesco Dragone (baritono), Barone Douphol. Il 6 marzo del 1853 sul palcoscenico del Teatro la Fenice di Venezia l’opera subí un clamoroso insuccesso da attribuire a numerosi fattori: i cantanti furono inadatti alle parti, compresa la protagonista che non era certo una donna di prima forza, l’ambientazione contemporanea voluta da Verdi a tutti i costi, ma non apprezzata dal pubblico, l’audacia del soggetto e la novità della partitura.
Solo un anno dopo però, presentata al Teatro San Benedetto, sempre a Venezia, l’opera riscuote successo, grazie al cast di cantanti e all’ambientazione settecentesca che assecondava i gusti del pubblico del tempo.
la trama:
Violetta Valery, giovane e bella donna molto in vista negli ambienti mondani parigini, conosce durante una festa Alfredo Germont: i due si innamorano e decidono di vivere insieme, in una casa di campagna, lontani dalla confusione e dalla vita brillante della città. Mentre Alfredo è assente, giunge suo padre, Giorgio Germont, il quale, nel corso di un drammatico colloquio con Violetta, le chiede di troncare la sua relazione con il figlio poiché tale rapporto costituisce motivo di disonore per tutta la famiglia Germont. Violetta, pur con grande dolore, compie il sacrificio richiestole, abbandona Alfredo e torna a Parigi, dove riprende a frequentare numerose feste e diviene l'amante del Barone Douphol. Anche Alfredo raggiunge Parigi e, proprio durante un trattenimento in casa di comuni amici, incontra nuovamente Violetta e la insulta pubblicamente, gettandole ai piedi, in segno di disprezzo, una borsa piena di denaro. Nel finale dell'opera, Violetta, malata di tubercolosi e senza speranza, giace nel suo letto e invoca il ritorno e il perdono di Alfredo. Questi, al quale il padre à rivelato nel frattempo il sacrificio della giovane, accorre al capezzale di Violetta. I due ricordano i bei giorni felici trascorsi insieme e progettano di lasciare Parigi per tornare alla serena vita in campagna. Ma la fine è ormai prossima, e Violetta morirà tra le braccia dello straziato Alfredo.
Ruy-Bla è esattamente il RuyBlas opera di Filippo Marchetti (1831-1902)
libretto di Carlo d’Ormeville, dalla tragedia omonima di Victor Hugo
Dramma lirico in quattro atti
Prima:
Milano, Teatro alla Scala, 3 aprile 1869
Personaggi:
Don Sallustio de Bazan, marchese di Finlans e primo ministro del re (Bar); Ruy Blas, suo valletto (T); Donna Maria di Neubourg, regina di Spagna (S); Don Pedro de Guevarra, conte di Camporeal e governatore di Castiglia (T); Don Ferdinando de Cordova, marchese di Priego e sovrintendente generale delle imposte (B); Don Guritano, conte d’Onato e gran maggiordomo (B); Donna Giovanna de la Gueva, duchessa di Albuquerque e prima dama della regina (Ms); Don Manuel Arias, gran scudiero (B); Casilda, altra dama della regina (A); dame, nobili, membri del consiglio segreto, guardie
Acquistata dall’editore Lucca, che con Marchetti intendeva contrapporsi alla supremazia del binomio Ricordi-Verdi, quest’opera venne rappresentata con grande successo in piú di cinquanta teatri italiani ed esteri nel volgere di pochi anni. Se alla ‘prima’ restò in cartellone per due sole sere, e per di piú a fine stagione, schiacciata da La forza del destino di Verdi, alla sua ripresa scaligera (1873) venne replicata ventuno volte, conseguendo un primato superato solo da Aida .
Don Sallustio ordisce un piano di vendetta contro la regina di Spagna, che lo aveva esiliato per essersi rifiutato di sposare Donna Giovanna, da lui sedotta. Sallustio si serve per i suoi scopi del valletto Ruy Blas, già innamorato della regina, introducendolo a corte sotto mentite spoglie nobiliari. Il valletto guadagna i favori della regina, viene nominato primo ministro, creato duca e ammesso nell’ordine del Toson d’oro. A questo punto Don Sallustio palesa a Donna Maria l’inganno: ella si è disonorata dando il suo cuore a un servo. Ripudiato dall’amata, Ruy Blas uccide in duello il suo padrone e si avvelena, un atto che gli guadagnerà il perdono della regina.
D’Ormeville rielaborò la tragedia di Hugo – incentrata sulla critica politica e sociale – focalizzando l’attenzione sull’antitesi tra i due protagonisti: l’ignobile aristocratico e il virtuoso plebeo; ne sortí un libretto un po’ prolisso, con cui Marchetti dovette fare i conti. La drammaturgia dell’opera occhieggia al grand-opéra meyerbeeriano quanto a sontuosità scenica (si vedano i finali del primo e del terzo atto), ma si inserisce pienamente nella tradizione verdiana di maniera: a parte le precise analogie con Don Carlos e Ballo in maschera , tutto il lavoro risente della lezione di Verdi nell’adozione del declamato espressivo, nell’articolazione complessa delle arie in episodi psicologicamente distinti, nell’uso di motivi orchestrali connettivi per la conduzione di scene e dialoghi. Pur difettando forse nella caratterizzazione psicologica dei personaggi e nel rilievo necessario a connotare le diverse situazioni drammatiche, l’opera fece presa sul pubblico per la novità del soggetto in sé, per la facilità musicale, per il riuscito connubio tra convenzione e serietà accademica; in effetti, in un periodo caratterizzato dalla massiccia influenza del grand-opéra , Ruy Blas si distinse per i suoi modi misurati. La componente spettacolare è contenuta e discreta, lo sfoggio cerimoniale è ridotto e non appesantisce neppure il finale del terzo atto (che contiene un divertissement ); sobrio è anche il ricorso alla couleur locale spagnola (si veda la ballata in stile andaluso di Donna Giovanna “C’era una volta una duchessa”, che riprende la ‘canzone del velo’ del Don Carlos ). La vena elegiaca di Marchetti connota i momenti di trasognata estasi, con una delicata scrittura orchestrale – prova ne sia il duetto amoroso “O dolce voluttà” (Donna Maria, Ruy Blas), perla della partitura – e infonde accenti di sincero pathos, come nella scena della morte del protagonista; sotto questo profilo Marchetti segna un punto di transizione verso la linea che sarà tracciata da Catalani e da Puccini.
Sciopè è ovviamente la trasposizione dialettale di Chopin; Frédéric François Chopin nacque l'1 marzo 1810 (la data del 22 febbraio - benché indicata nell'atto ufficiale - è considerata meno probabile) a Żelazowa Wola, vicino a Varsavia e morí il 17 ottobre 1849 a Parigi. Il suo nome era Fryderyk Franciszek Chopin, ma adottò la variante francese "Frédéric-François" quando a venti anni lasciò la Polonia, per non tornarvi mai piú.
È considerato il piú grande compositore polacco ed uno dei piú grandi pianisti di tutti i tempi. Fu tra i rappresentanti principali del Romanticismo e venne chiamato il poeta del pianoforte. Tuttavia nella sua musica convergono elementi di derivazione classica: l'equilibrio tra le parti, l'estrema precisione della scrittura, la perfezione stilistica.
Le origini del suo linguaggio musicale si trovano in primo luogo in alcuni compositori preromantici, allora molto noti, come Johann Nepomuk Hummel, John Field e Maria Szymanowska, che gli trasmisero l'inclinazione all'inquietudine e al pessimismo e, sul piano strettamente musicale, la tendenza ad ampliare le possibilità della modulazione ed il gusto per l'architettura tripartita del Lied.(Lied, singolare di lieder è un tipico canto o musica strumentale tedesca che ebbe la massima espressione nel periodo romantico .)
La musica di Chopin è profondamente influenzata anche dal dialetto musicale polacco: la musica popolare del suo paese. Infine, le sue melodie traspongono sul pianoforte l'ampio respiro e il morbido fraseggio del melodramma italiano
Ritorniamo all’esame di parole e/o locuzioni.
furfecea = dà colpi di forbici, tagliuzza nel senso traslato di spettegolare sul conto di qlc, punzecchiare, criticare; voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito furfecïà; come abbiamo visto anche per altri verbi il cui infinito termina con l’ ïà la coniugazione piú corretta sarebbe dovuta essere furficeïa da furficeïo, furficïe etc., ma probabilmente al poeta occorse un quadrisillabo e si prese una licenza poetica; etimologicamente denominale di forfece = forbici da un acc. lat. fòrfice(m);
stingina o stencena = (si)abbandona allo spavento con (finti, procurati) svenimenti e/o contorcimenti; voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito stingenïà o stencenïà = spaventar(si), svenire, contorcer(si); anche in questo caso ci troviamo nella medesima situazione del verbo precedente con la coniugazione che piú correttamente sarebbe dovuta essere stingeneïa da stingeneïo, stingenïe,etc. ma il trisillabo a margine risultò forse piú acconcio alle occorrenze del poeta che si prese un’ennesima licenza poetica, usandolo in luogo del piú corretto stingeneïa;etimologicamente il verbo a margine risulta essere un denominale di stingine/stencine che con derivazione ed adattamento dal longobardo skinko>stingo/stenco vale spavento, contorcimento, svenimento;
sunnà letteralmente sognare, ricevere in sogno; voce verbale infinito; nell’economia della situazione descrittiva della poesia, estensivamente significa anche: contrattare, avere a che spartire nel senso che con il santo di riferimento Ignazio il gesuita, stante il suo pessimo carattere è piú opportuno non aver nulla a che dividere neppure in sogno! Etimologicamente la voce sunnà è forse da un lat. volg. *somnare se non da somnjare (che è da somniu(m) ) come farebbe sospettare il consueto passaggio di nj>nn come nel greco neanja-s > nenna;
abballà = ballare ( con riferimento alle tipiche convulsioni motorie da chi è affetto da corea) ; voce verbale infinito; etimologicamente la voce abballà è da un tardo latino ad+ballare>abballare/à = danzare, esultare, ma anche vacillare, dimenarsi;
abbascio = giú, verso il basso; etimologicamente forse dalla loc.*ad basso, sul modello di un antico fr. à bas; tipico il passaggio ss>sci/scj;
cucozza letteralmente è la zucca, ma per traslato è il capo, la testa e
secondo che la persona cui ci si riferisce sia poco o molto intelligente la si accredita di avere ‘na cucozza vacante (zucca vuota ) o di avere sale ‘int’ â cucozza (sale nella zucca); vediamo le etimologie: cucozza dal tardo latino cucutia(m); vacante part. presente del verbo vacare dal lat. vacare= esser vuoto, mancante;
‘mpicce plurale di ‘mpiccio = fastidio, intrigo, disturbo soprattutto nell’espressione dà ‘mpicce= infastidire, disturbare; etimologicamente la voce ‘mpiccio risulta un deverbale derivato attraverso un francese empêcher che è dal latino impedicare che è da pèdica= lacciuolo per i piedi;
sacicce = salcicce; plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare';
s’arraggiava = in senso estensivo: si arrabbiava, si adirava, si incolleriva ; in senso letterale (che è quello di riferimento nella poesia in esame) si ammalava di rabbia; voce verbale riflessiva (3° pers. sing. imperf. ind.) dell’infinito arraggiarse; etimologicamente denominale di un tardo latino ad+rabja(m) per il class. rabies con il consueto passaggio di bj>ggi;
chesto è fforte = letteralmente ciò è forte id est: ciò è un argomento o una situazione fastidiosi e palesemente iniqui che forzano la realtà; chesto = pronome neutro ed altrove agg. dimostrativo: questa cosa, ciò con derivazione dal lat. (ec)cum-istu(d); fforte aggettivo, avverbio e talvolta (come nel caso in esame) aggettivo sostantivato derivato dal latino forte(m) e vale robusto, vigoroso, prestante e qui: fastidioso, iniquo, duro da sopportare;
preferenzia = preferenza e cioè il determinarsi a favore di una persona o cosa, piuttosto che di un altro; la voce a margine come quella italiana, sono deverbali del latino præferire che è da un piú antico præferre; la voce napoletana si è forse servita per attingere al latino, del tramite del fr. préférer;
cuntrora = ora postprandiale, destinata – a Napoli – ad un salutare riposo;
rammenterò che un tempo a Napoli il pranzo si consumava tra le ore 14.00 e le 15.00 per cui il riposo postprandiale si protraeva tra le 15.00 e le 16.00; dismessa l’abitudine di pranzare tra le 14.00 e le 15.00, il riposo lo si fa appena si sia finito di desinare e lo si protrae ad libitum; etimologicamente e letteralmente cuntrora vale ora contraria, anzi,dal latino hora contra, ora inadatta con riferimento a quel lasso di tempo che, soprattutto nelle stagioni calde, risultando esser non adatto (contra) all’applicazione ad un lavoro, viene usato per il riposo ;
vicchiarielle = vecchietti, di età avanzata; plurale di vicchiariello diminutivo(vedi suffisso riello/e) di viecchio etimologicamente da un acc. lat. vetulu(m) che diede il tardo lat. veclu(m) (diminutivo di vetus)>viecchio con la vocale tonica e che metafonicamente dittonga in ie, mentre nel diminutivo si chiude e>i;
muorzo ‘e sunnariello =letteralmente: boccone di sonno e cioè sonnellino, breve sonno; muorzo = morso, boccone sostantivo derivato da un acc. lat. morsu(m) part. pass. sostantivato di mordere; sunnariello sostantivo diminutivo (vedi suffisso riello) di suonno (sonno, sogno) dal lat. somnu(m) con tipica dittongazione uo metafonetica, dittongazione che nel composto diminutivo cade per lasciar posto alla sola chiusa u ( come per la e>i della voce precedente;
tanno avv. di tempo allora, in quel momento, a quel punto con etimo dal latino tande(m) = finalmente con normale esito nd>nn;
zulfiggià = solfeggiare, ma qui: strimpellare, eseguire al pianoforte; per il vero la voce verbale a margine non è vocabolo in uso nel napoletano e probabilmente possiamo parlare di un neologismo ( che peraltro non ò trovato in nessun altro autore napoletano, e nemmeno altrove usato dallo stesso Russo) marcato per corruzione sull’italiano solfeggiare denominale di solfa solfeggio efig. suono insistente e noioso; discorso o vicenda che si ripete fino alla noia;
puntella letteralmente piccola punta, ma qui: breve brano, pezzetto dell’opera musicale citata; la voce a margine è il diminutivo (vedi suff. ella) del sostantivo ponta con la tipica chiusura (vd. i diminutivi precedenti) della vocale tonica o>u; ponta che è esattamente l'estremità assottigliata e aguzza di qualsiasi cosa o oggetto, etimologicamente è dal tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere';
murzillo letteralmente piccolo morso, bocconcino, ma qui: breve brano, pezzetto dell’opera musicale citata; ; la voce a margine è il diminutivo (vedi suff. illo) della voce muorzo a cui rimando (vedi precedentemente in: muorzo ‘e sunnariello;
accide letteralmente uccide, ma qui: infastidisce, annoia etc. voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito accidere = uccidere con etimo da un lat. volgare *accídere per il class. ob-caedere cui si affiancò un ad-caedere>accedere>accidere;
valzero riproduzione dialettale della voce originale valzer che è dal ted. Walzer, deriv. di walzen, propr. 'spianare', con allusione al fatto che i ballerini danzavano strisciando i piedi e dunque quasi spianando il suolo; da notare la tipica paragoge (dal lat. tardo paragoge(m), dal gr. paragoghé, comp. di para 'presso, accanto ' e agoghé 'il portare, il mettere'; propr. 'il mettere accanto'); l’aggiunta cioè di uno o piú fonemi non etimologici in fine di parola; in napoletano tali fonemi sono vocali quando la parola cui si operi l’aggiunta, termini – come in questo caso – per consonante e spesso vi è anche il raddoppiamento della consonante finale ( vd. ad es. bbarre = bar, tramme=tram) ;
lieggio = leggero, spensierato aggettivo che piú spesso si trova nella forma leggio con etimo dal lat. volg. *leviu(m) per il class. levis – e; la dittongazione della sillaba d’avvio nella forma a margine, lascia sospettare che un tempo vi fosse una forma metafonetica diminutiva lieggiulillo che abbia poi lasciato un lieggio in luogo di leggio;
accussí = cosí, in tal guisa avverbio di modo derivato dal latino ad+cum+si(c) con assimilazione regressiva m-s> ss;
spassà voce verbale infinito = spassare, divertire, rallegrar(si) con etimo che reputo da un latino s (distrattiva)+ passare (intensivo di pati= patire) e dunque levar(si) dal patire, svagar(si), piuttosto che da un pur proposto lat. volgare expassare intensivo di expandere= rillassar l’animo (?)
votta lloco = lascia correre; letteralmente butta lí; votta = butta nel senso di lascia cadere; voce verbale (2° p.sing. imperativo) dell’infinito vuttà = buttare etimologicamente dal fr. ant. bouter, provenz. botar, di orig. germ con solita alternanza partenopea b/v; lloco = lí, in quel luogo/in questo luogo avverbio di luogo derivato dal latino *(i)llo (lo)co con aferesi ed aplologia í (caduta di una sillaba all'interno di una parola che dovrebbe presentare, in base alla sua etimologia, due sillabe consecutive identiche o simili (p. e. mineralogia per mineralologia));
fernesce a scassa-scassa letteralmente: finisce in malora e cioè: la faccenda non si concluderà bene; fernesce voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ferní = finire, terminare con etimo dal latino finire denom. di finis; scassa-scassa sost. di valore giocoso = rottura definitiva, malora, rovina coniato con l’iterazione (per indicar la gran rovina, la defenitiva rottura; ricordo che in napoletano l’iterazione di un aggettivo di grado positivo ne aumenta la grandezza, facendone un superlativo;) del part. pass. femm. del verbo tardo latino s (intensiva) + quassare frequentativo di quatere;
‘ncopp’ ô sopra il, sul; espress. avv.le di luogo formata con la prep. impropria ‘ncoppa + la prep. art. ô ( al, allo) ‘ncoppa = sopra sta per in (illativo)+ coppa dall’acc. tardo latino cuppa(m) per il class. cupa(m); da rammentare come in italiano si abbia sopra il/la, sopra lo nel napoletano si à sopra al, sopra allo, ed alla medesima stregua si avranno come al, come alla/allo diversamente del corrispettivo come il/la;
pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta che di per sé è femminile ed al plurale va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro;
‘mbruglione aggettivo e sostantivo: truffatore, lestofante, impostore, furfante, farabutto, voce deverbale di ‘mbruglià formato da un in (illativo) + il fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', prob. deriv. di brou 'brodo' e in senso pegg. 'schiuma, fango';
a ppanette letteralmente a (mo’ delle) pagnottelle e cioè di molta consistenza; di per sé la panetta (di cui panette è plurale) è una tronfia, greve pagnottella dolce ricca di burro e farcita di uva passita un tempo data in premio ai ragazzini; panetta deriva da un ant. franc. panet (diminutivo di pane) non dimentichiamo però che nel gergo teatrale la voce panetta vale applauso a scena aperta e dunque l’espressione ‘mbruglione a ppanette piú che imbroglione di molta consistenza, potrebbe anche significare imbroglione da applauso a scena aperta, cioè imbroglione tanto grande da meritarsi in premio qualche panetta ma tra le due ipotesi non correrebbe eccessiva differenza! Tra le due ipotesi( imbroglione di molta consistenza ed imbroglione da applauso a scena apertameritevole di premio) comunque da persona di teatro (sia pure amatoriale) quale fui e continuo ad essere, preferisco l’ipotesi che collega panette all’applauso a scena aperta.Rammento che la voce a margine è riportata con la geminazione dell’esplosiva d’avvio[ppanette] in quanto qui la voce panette è preceduta dalla preposizione a,che è da a(d)→a e comporta appunto la geminazione della consonante iniziale della parola che la segue ;
affaccennato aggettivo affaccendato, molto occupato, part. pass. dell’infinito affaccennà = occupar(si), dar(si) da fare denominale con etimo da un ad + facienda (gerundivo latino neutro plur. = cose da farsi con tipica assimilazione regressiva df→ff e progressiva nd→nn;
‘ntrumette intromette voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ntrumetter(se); che dal latino intromittere, comp. di intro 'dentro' e mittere 'mandare'= immischiarsi, ingerirsi in qualcosa; impicciarsi; tipica nel passaggio al napoletano la chiusura della o di intro che diventa u e l’aferesi della i iniziale;
pasticciotto letteralmente dolce di pasta frolla e creme, attenuativo (vedi il suff. otto) di pasticcio che è lat. volg. *pastici°u(m), deriv. di pa°sta 'pasta’, ma qui sta per fastidioso impiccio (procurato a qualcuno), seccatura, grattacapo, , bega, grana;
naso muscariello letteralmente naso fine, sottile, acuto, da damerino attributo di chi riesca a percepire qualunque odore e cioè subodori ogni situazione pericolosa in modo che riesce ad eludere; muscariello corrisponde all’incirca all’italiano moscardino mollusco marino commestibile simile a un piccolo polpo, o impasto di muschio e spezie che anticamente si teneva in bocca per profumare l'alito, ed infine: zerbinotto, damerino che è l’accezione che si attaglia alla voce a margine; muscariello etimologicamente deriva, quale diminutivo (vedi suff. iello) da moscado, forma ant. di moscato (nel sign. di 'muschio'), con influsso di moscardo uno sparviere il cui nome deriva da mosca, per la presenza di piccole macchie sulle penne del petto;
avvucato avvocato, uomo di legge con etimo dal lat. advocatu(m), part. pass. di advocare 'chiamare presso';anche per la voce a margine, come abbiamo visto precedentemente per altre, in napoletano la o si chiude in u;
canzirro mulo, bardotto; nella fattispecie la voce a margine, come ò accennato precedentemente, è riferita a sant’ Eligio che in terra, fu anche maniscalco e forse sarebbe stato piú pertinente riferirgli il termine cavallo, piuttosto che mulo, ma un poco perché la voce/epiteto: cavallo (animale inteso nobile ed intelligente) non connota un’offesa, al contrario di mulo (animale inteso testardo e stupido, anche se gran lavoratore) F.Russo accreditò sant’ Eligio d’essere un testardo mulo, in napoletano canzirro con etimo dal greco kanthélios, forse incrociato con l’arabo hinzir;
cancaro letteralmente è cancro, con derivazione da un tardo latino *cancaru(m) per il class. cancer = granchio; vale, quale esclamazione di meraviglia, stizza, disapprovazione e sim., gli italiani: diàmine, càttera, capperi tutte forme eufemistiche usate in luogo di altre voci sacre o volgari; quella a margine sostituisce la becera: cazzo e nella fattispecie sta per enormità
accucchiate letteralmente: accoppiate e cioè: mettete insieme, profferite voce verbale (2° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito accucchià= accoppiare, unire, mettere insieme, concludere con derivazione da un latino volgare *ad-copulo>ad-coppulo>accoppulo>accopplo>accocchio;
fforme plurale di forma che letteralmente è la forma e cioè il modello ligneo sul quale i calzolai sistemano i tomai e le suole delle scarpe in lavorazione per dar loro e mantenerle in, appunto, adeguata forma; nel traslato estensivo della poesia stanno per generici, proditori proiettili che vicendevolmente, per offendersi si tirano contro i santi sia pure figuratamente; l’etimo di forma è dal lat. forma(m), che deriva, per metatesi, dal gr. morphé;
menà ‘e mmane letteralmente buttare le mani e cioè percuotersi ma pure, altrove: sbrigarsi, affrettarsi; il verbo menare/menà di per sé à varî significati: gettare, lanciare, buttare, sospingere,percuotere ed un etimo che è da un tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'; mane plurale di mana con etimo dal lat. manu(m) sono ovviamente le mani plur. di mano che anche in italiano anticamente fu mana;
sciascione sost. ed aggettivo uomo, ragazzo placido e tranquillo spesso anche in carne; etimologicamente è un deverbale di sciascïà = godere a fondo di qualcosa, bearsi con gusto, tranquillità ed abbandono; dal latino volg. *iacíare forma intensiva di iacere;
è ‘na vita manco ê cane è una vita (da non augurare) neppure ai cani nel senso di un’esistenza gravosa per la difficoltà dei rapporti interpersonali;manco avv. neppure, nemmeno, neanche con etimo dal lat. mancu(m) 'manco, mutilo', quindi 'difettoso, manchevole';
Madonna Madonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna che con la tipica rotacizzazione mediterranea D>R: ‘a Maronna;
prutegge protegge voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pruteggere = difendere, aiutare, favorire, con etimo dal latino protegere, comp. di pro- 'a favore' e tegere 'riparare'; tipica la chiusura di o>u nella sillaba d’avvio ed il raddoppiamento popolare della gutturale g nella sillaba implicata;
grazzie plurale di gràzzia o anche ràzzia = grazia, favore, benevolenza, soccorso concesso da Dio all’uomo etimologicamente gràzzia è dal lat. gratia(m), deriv. di gratus 'gradito, grato' con tipico raddoppiamento popolare della z nella sillaba finale; è pure tipicamente popolare la forma ràzzia in luogo di gràzzia (con aferesi della gutturale d’avvio) specialmente nell’espressione â ràzzia vosta! = al vostro piacimento!, secondo il vostro buon volere!
;Dice bbuono 'o ditto 'e vascio quanno parla della donna: una bbona ce ne steva e 'a facettero Madonna...
Ben dice il detto di giú (terrestre) allorché parla della donna: ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna... Id est: La donna è un essere inaffidabile, quando non addirittura cattivo da cui tenersi alla larga: l’unica eccezione è la Madre di Cristo. Ci troviamo in presenza di un tipico atteggiamento misogino d’inizio del ventesimo secolo che F.Russo mostra di far suo, quantunque, al contrario fosse accreditato di apprezzare, seppure dal solo versante fisico, le donne; da notare come l’aggettivo bbuono/bbona che etimologicamente vengono dal latino bonu(m)/bona(m) àbbiano in napoletano varî significati, la gran parte attinenti alla qualità : conforme al bene; onesto, moralmente positivo, che à mitezza di cuore; mansueto, bonario,di qualità, di valore, rispettabile, ragguardevole, detto di persona: abile, capace; detto di cosa: utile, efficace, efficiente e tutto ciò sia riferito al maschile che al femminile; specificatamente poi al femminile e riferito all’aspetto esteriore di una donna, bbona vale: prosperosa, procace, appetibile: è chiaro però che non è questo il senso di riferimento del bbona della frase; talvolta poi bbuono/bbona non si riferisce alla qualità, ma alla quantità come quando si dica: sta bbuono/bbona malato/a, che non sono – come pure potrebbero apparire – degli ossimori, ma valgono sta molto malato/a;
ditto = detto, proverbio, modo di dire, motto di spirito; in origine la voce a margine è un part. passato (poi sostantivato) dell’infinito dicere/dí= dire con etimo come per l’italiano dal latino dicere, di cui conserva la sillaba centrale (ce) andata soggetta a sincope nell’italiano;
vascio vale avverbio (nella forma ‘e vascio = di giú, da basso, spesso opposta a ‘a coppa = di sopra o nella loc. avverbiale ‘a copp’abbascio= da sopra, in basso) o aggettivo vascio= basso, corto di statura o anche sostantivo vascio= basso, locale a pianterreno, adibito a Napoli in taluni vicoli della città vecchia, ad improprie abitazioni civili dove vivono in pericolosa promiscuità, stante l’esiguità dello spazio vitale, interi nuclei familiari formati da adulti e bambini/e, vecchi e giovani, uomini e donne! La voce a margine, intesa avverbio, aggettivo o sostantivo, etimologicamente è dall’acc. latino bassu(m) tipico il passaggio di ss+vocale a sci come ad es.: cosciau + cons. quindi auto che con successivo suono di transizione eufonico dà àvuto/àveto;
fascio altra voce mutuata dall’italiano, in quanto in pretto napoletano si avrebbe avuto mazzo; la voce fascio, con derivazione dal latino fasce(m) è una quantità di oggetti di forma lunga e sottile, raccolti e legati insieme in modo da poter essere trasportati con facilità, ma anche estensivamente insieme di cose (per lo piú, fogli, carte e sim.) ammucchiati e tenuti insieme, ed in questa poesia – addirittura!: insieme di persone da… eliminare o bruciandole o precipitandole giú;
abbrusciammo = bruciamo, incendiamo, diamo fuoco; voce verbale (1° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito abbruscià = bruciare, ardere, dare al fuoco con etimo da un tardo latino *ad- brusjare> abbrusjare>abbrusciare/abbruscià; raro, ma non insolito il passaggio sj>sci;
menammo = buttiamo, lanciamo, precipitiamo ; voce verbale (1° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito menà di cui ò già detto precedentemente, come ò già detto (vedi antea) di
‘a copp’abbascio = dall’alto in basso;
palate= percosse violente, assestate originariamente con un palo (donde il nome); un congruo numero di tali percosse e /o colpi dati in un’unica soluzione vien detto in napoletano aternativamente paliata oppure paliatone voci in cui è riconoscibile l’epentesi vocalica di una I durativa che comporta la dittongazione IA della sillaba LA, epentesi necessaria per distinguere il termine paliatone dalla voce palatone [accrescitivo masch. della voce palata sg. della voce a margine] voce che indica tutt’altro e cioè : un gran filone di pane di circa 2 kg.di peso; del resto anche utilizzando la voce paliata corredata dell’epentesi durativa serví a distinguerla dalla voce palata che non identificava la percossa violenta, assestata originariamente con un palo (donde il nome), ma con diversa accezione e derivazione indicava ed indica il filone di pane di circa 1 kg. quello stesso che occupa per quasi tutta la sua lunghezza, la pala lignea usata per infornare la palata; il palatone l’occupa per intero e la palatella (filoncino di circa 500 gr.) per un quarto; palatella, palata,palatone con la cocchia ed il paniello sono, ad un dipresso, le pezzature classiche del pane partenopeo;
accummenci’ i’ = comincio io, do principio, incomincio; accummencio è voce verbale (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito accummincià= cominciare, iniziare Lat. volg. ad+ *comintiare, comp. di cum 'con' e initiare 'iniziare' dove l’ad è un rafforzativo popolare secondo il percorso adcomintiare>accomintiare>accumminciare>accummincià;
fattarielli = fatterelli, raccontini, episodî cominciamo col dire che la voce a margine è il plur. di fattariello (diminutivo, (vedi i suff. ar-iello) di fatto(accadimento, cosa avvenuta) part. pass. sing. masch. sostantivato dell’infinito fare/fa; anche in italiano oltre la voce fatterello esiste la voce fattarello, ma è ritenuta, a mio avviso ingiustamente, meno corretta di fatterello, come si à natarella e noterella, noderello e nodarello e per tutte si preferisce la versione con l’ er, piuttosto che quella con l’ar nella sciocca convinzione che la chiusa e meglio si addica all’italiano della aperta a intesa dialettale!
Ma dei fattarelli raccontati da F.Russo ci occuperemo altrove; per intanto qui faccio punto.
Raffaele Bracale 27/10/2006
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