LA NEGAZIONE NUN/’UN/NU’/NUNN’ E
LA RELATIVA PIÚ USATA FRASEOLOGIA
(revisione)
Questa volta nell’intento di interessare i miei
consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste mie paginette tenterò di illustrare delle
tipiche espressioni della parlata napoletana costruite con la negazione NUN.
Ne faccio dapprima l’elenco e poi esaminerò frase per frase le
espressioni:
1)
Nunn’ accucchià niente
2)
Nunn’ accusà e nun cuntà
3)
Nunn’ avé niente a cche spàrtere
4)
Nun capirce dint’ê panne
5)
Nun ce stanno sante
6)
Nun c’è prereca senza sant’Austino
7)
Nunn’ è ccosa!
8)
Nunn’ è ppietto tuĵo
9)
Nunn’ essere doce ‘e sale
10)
Nun ce stanno fose ‘a appennere
11)
Nun vulé fà carte
12)
Nun fa/fà ascí ‘o ggrasso fora d’ ‘a pignata.
Prima di affrontare le singole
espressione mette conto chiarire uso e morfologia dell’avverbio di negazione.
nun/’un/nu’/nunn’ avv.di negazione[dal lat. non]
= non
1 serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a
rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette;nu’ ddicere fessarie; nu’ pparlaje pe tutt’ ‘o juorno(non venne; non dire sciocchezze; non parlò per tutto il giorno); nun ce sta nisciuno irre e òrre(non c'è alcun dubbio);’un c’è prubblema (non c'è problema);’un ce sta nisciuno(non c'è nessuno), | ch’è che nunn è(cosa è, cosa non è), (fam.)
tutto a un tratto, senza una ragione evidente:ch’è, che nunn è, fernette ‘e parlà e se ne jette (cosa è, cosa
non è, smise di parlare e se ne andò) | in espressioni ellittiche: no ca nun ce crero, ma(non che io non ci creda, ma...), non intendo dire
di non crederci, ma...;
2 (ant.) col valore di no: nun po’ serví po dicere ’e no,
si hê ditto ‘e sí pure ‘na vota sola!(non varrà poi dire di no, se avrai
détto di sì anche una volta sola)
3 nelle contrapposizioni, anche col verbo sottinteso: nunn è bbello, ma ‘ntelliggente(non è bello, ma intelligente); isso
fuje pe mme nun sulo ‘nu pate, ma pure n’amico(egli fu per me non solo un
padre, ma un amico) | in espressioni ellittiche: vène o nun vène;prufessore o nun prufessore(venga o non venga; professore o non professore) (ma
non quando non è ripetuto il primo elemento:vène
o no, prufessore o no( venga o no, professore o no))
4 nelle interrogative dirette e indirette che attendono una risposta
affermativa e nelle interrogative retoriche: nun avive ‘a partí stasera?(non
avresti dovuto partire stasera?); nunn è overo?( non è vero?); m’addimanno si nun fosse stato meglio a lassà perdere; comme facevo a
nun crerelo?(mi chiedo se non sarebbe
stato meglio rinunciare; come potevo non credergli?)
5 si usa pleonasticamente in alcune locuzioni: è cchiú facile ‘e chello ca tu nun cride(è più facile di quel che tu non creda);nunn appena( non appena), appena che; | in talune frasi
esclamative ed in senso antifrastico: ‘e
buscie ca nun m’à ditto!(le bugie che
non mi à detto!); ‘e fessarie
ca nun hê fatto(le sciocchezze che non
ài fatto!) | quando il verbo a cui si riferisce è retto da
congiunzioni o locuzioni come fino a cche, pe ppoco, a meno
che, salvo che, ‘a fora ‘e che e sim.: t’aspettofino
a cche nunn arrive( ti attenderò
finché non arriverai); pe
ppoco nun è caduto(per poco non è
caduto
6 in litote, preposto a un
aggettivo, un sostantivo o un avverbio: è
stata ‘na facenna nun facile (è stata
un'impresa non facile), difficile; nun poche ‘a penzano comme a nnuje(non pochi la pensano come noi), parecchi; aggiu faticato nun poco…(ò lavorato non poco), molto; nun sempe(non sempre), raramente; nun
senza fatica(non senza fatica),
con notevole fatica;
rammento che il medesimo, originario avv. di negazione nun può esser reso secondo le
occorrenze con altre morfologie:aferizzato, di solito in principio di frase[con
indicazione dell’aferesi], ‘un: ‘un me faccio capace(non me ne convinco) ‘un
‘o ssaccio!(non lo so)’un me dicere niente(non dirmi nulla) ‘un ‘o saccio!(non
lo conosco),apocopato nu’
che però (secondo il principio che la
caduta finale di una o piú consonanti non necessita di una indicazione
diacritica) si potrebbe anche rendere semplicemente nu Tuttavia è
preferibile adottare la morfologia nu’
poi che nel napoletano scritto si potrebbe ingenerare confusione
tra l’art. indeterminativo ‘nu/’no e la negazione nun= non che talvolta viene
apocopata in nu da rendersi perciò nu’ (facendo un’eccezione rispetto
alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba
[ovviamentevocalica], non necessitano di
segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’
per evitarne la confusione con
l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘)
d’aferesi e ciò in barba a troppi
moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è
improvvidamente invalso il malvezzo di
rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico
alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che
è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio
di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o
appesantisse la pagina scritta, laddove
invece,il non segnarlo, a mio avviso,
è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure
Di Giacomo,F. o V. Russo, E.De
Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del
resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non
potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti
del tutto, mentre i pochissimi esistenti,
(Galiani, Oliva, Serio) peraltro spesso
in contrasto sulle soluzioni proposte
furono malamente diffusi, né
potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani
e pertanto, spesso, imprecisi
e/o impreparati. Ancóra ricordo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione
scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e
male e quelli che invece avevano un’
adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi
etc. spessissimo la usarono
maldestramente[soprattutto il Di Giacomo ed il Nicolardi] adattando
le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che
invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale
e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere,e valga una volta per
sempre, a mio avviso nel napoletano scritto gli articoli indeterminativi vanno
sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo
è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! Esempi di questo nun→nu(n)→nu’
usato per solito davanti a consonante e/o in frasi esclamative possono
essere: e nu’ sta bene!(non sta
fatto bene!), statte zitto, nu’ pparlà sempe tu!(taci, non parlar sempre tu!);
si à infine la forma rafforzata nunn’
usata davanti a parole comincianti per a, o,e ed alla voce verbale hê; tale forma nunn è un calco del lat. nonn(e)→nunn’ e pertanto esige il segno diacritico dell’elisione,
anche – eccezionalmente - davanti alla acca di hê: nunn’ ‘o ddicere! (non dirlo!)nunn’ ‘e ssiente? (non le/li senti?) nunn’
hê capito niente! (non ài compreso nulla!).
Qui giunti cominciamo ad esaminare le
frasi elencate antea:
1.NUNN’ ACCUCCHIÀ NIENTE
Letteralmente Non accoppiare nulla, id est non sapere o non
riuscire mai a concludere nulla di positivo, non essere mai in grado di far
collimare pensiero ed azione giungendo a risultati concreti. L’espressione è
usata appunto nei confronti di chi impreparato, inetto ed incapace non possa
mai addivenire concretamente ad un risultato frutto dell’unione di una
esatta teoria con la operosa pratica.Il
verbo accucchià = accoppiare, unire mettere insieme è un
denominale del s.vo cocchia(da un lat. volg. cop(u)la(m)→copla(m)→cocchia con
il tipico passaggio del gruppo pl a chi, come in pluere→chiovere, plaga→chiaja, platea→chiazza, plumbeum→chiummo,
plattu-m→chiatto etc. ) = coppia attraverso
un ipotizzato *adcopulare→accoplare→accucchiare.
2.NUNN’ ACCUSÀ E NUN CUNTÀ
Letteralmente Non accusare e non contare da intendersi non
essere all’altezza di dichiarare (il proprio
giuoco,o le proprie idee), né essere all’altezza di trarre partito dal proprio
operato (conteggiando il proprio punteggio totalizzato nel gioco o dando conto,
elencandolo, di ciò che si sia stati
capaci di produrre con la propria azione).
Locuzione mutuata dal giuoco delle carte détto tressette. Apro un
parentesi per dire che nel tressette è previsto che ad inizio di gioco i
componenti possano a turno dichiarare l’ eventuale possesso di un certo numero di carte
favorevoli, dichiarazione che comporta il vantaggio di avere dei punti
aggiuntivi da sommare a quelli totalizzati con le prese;questo dichiarare è
détto nel gergo del gioco: accusare.
Ciò mi à indotto a ritenere il gioco del tressette (che molti reputano un gioco
interessante e difficoltoso ed invece
non è nè l’uno, nè l’altro fondato com’è
sulla fortuna che ti elargisce carte che
se giocate decentemente e non proprio sconsideratamente ti assicurano la
vittoria indipendentemente dalla bravura o capacità gestionale che se ne
abbia...) ciò mi à indotto, dicevo, a
ritenere piuttosto stupido, (se confrontato ad es. allo scopone scientifico), tale gioco [il
tressette] nel quale un giocatore non solo sia favorito dalla sorte ricevendo
carte favorevoli, ma ne tragga anche partito con un punteggio aggiuntivo!
Chiudo la parentesi e torno alla locuzione che è riferita in primis ad un giocatore non
solo incapace di aprire il gioco
dichiarando valide carte in suo possesso, ma tanto inesperto da addirittura
confondersi nella sommatoria del punteggio realizzato; la locuzione è altresí usata sarcasticamente nei confronti di chiunque che inetto, incapace, incompetente, inesperto e maldestro sia del tutto privo di capacità
operative risultando in ògni occasione un soggetto che non valga nulla o non
sia stimato o non abbia alcuna autorità.
il verbo
accusà vale 1)incolpare,
imputare, rimproverare, biasimare, colpevolizzare, tacciare; ma anche 2) come nel caso che ci occupa manifestare,
dichiarare, mostrare; è voce dal lat. accusare,
comp. di ad e causari 'addurre come pretesto';
il verbo cuntà/cuntare vale 1) numerare progressivamente una
serie di cose o persone per calcolarne la quantità: cuntà ‘e ccarte, ‘e punte(contare
le carte, i punti) | cuntà
‘ncopp’ê ddete(contare sulle dita),
(fig.) si dice quando ciò che si conta è in numero molto scarso |
cuntà ‘e juorne, ll’ ore, ‘e minute, (contare i giorni, le
ore, i minuti), (fig.) aspettare con impazienza qualcosa e
desiderare quindi ardentemente che passi il tempo che manca al suo
raggiungimento o compimento
2 (assol.) dire i numeri in ordine progressivo; per estens., fare
le più semplici operazioni aritmetiche: cuntà
nfi’ a ddiece(contare fino a dieci);
nun sapé manco cuntà(non saper neppure contare) | cuntà ‘nu bocserro(contare un pugile), (sport) contare i secondi durante
i quali egli è a terra
3 (fig.) limitare, lesinare: cuntà
‘e sorde â mugliera (contare il denaro
alla moglie)
4 mettere nel conto, considerare: mia
figlia s’è spusata: sulo p’ ‘a festa âmmu spiso vinte meliune, senza cuntà ‘o
riesto! (mia figlia è sposata: solo
per la festa abbiamo speso venti milioni, senza contare il riesto!)
5 avere, annoverare, vantare: conta quinnece anne ‘e servizzio (conta quindici anni di
servizio)
6 (fam.) dire, raccontare: cóntace
chello ch’è ssuccieso(contaci quel che
è successo) | cuntarla grossa(contarla grossa), raccontare una
bugia molto grossa
7 proporsi, ripromettersi: conto
‘e partí dimane(conto/penso di partire
domani)
8 (ant.) stimare, valutare |||
v. intr. [aus. avere]
1 valere, avere autorità, stimare, valutare: nun cuntà niente(non valere
niente)
2 confidare, fare
assegnamento: ‘ncuollo a cchillo nun se
po’ cuntà(non si può contare su di lui).
voce dal lat.
computare→com(pu)tare→contare, comp. di cum 'insieme' e putare
'calcolare'
3.NUNN’ AVÉ NIENTE A CCHE SPÀRTERE
Letteralmente Non avere alcunché da
dividere (con altri). Locuzione da intendersi sia nel senso
materiale: Non avere nulla da
suddividere (con nessuno)atteso che si è del tutto padroni del proprio, ma
piú spesso in quello morale Non avere nulla
in comune (con chicchessia)atteso
che il soggetto di cui si parla è molto diverso (sia in senso positivo che in
quello negativo) da tutti gli altri, da non potersi confondere con chicchessia.
il verbo spàrtere vale distribuire, ripartire, suddividere,
dividere, separare. voce dal lat. partire e partiri, deriv.
di pars partis 'parte' con protesi di una s intensiva, cambio di
coniugazione e ritrazione della tonica.
4.NUN
CE CAPÍ DINT’Ê PANNE
Letteralmente Non entrar nei propri panni
Espressione iperbolica da intendersi figurativamente
e da riferirsi a chi sia cosí gioioso o soddisfatto d’alcunché al segno
d’apparire di non esser contenuto nei
propri abiti essendo quasi lievitato per una gioia o una soddisfazione impreviste
ed improvvise che abbiano determinato iperbolicamente una crescita, un
aumento della sua massa corporea che finisce per debordare dagli abiti.
il verbo capí/càpere vale 1 comprendere, afferrare con la mente;
2 giustificare o perdonare
almeno in parte;
3 come nel caso che ci occupa penetrare, esserci spazio
d’accoglienza;
voce dal Lat. capere, con
cambio di coniugazione nella morfologia capí;
dint’ê preposizione articolata = nei ma anche alibi nelle;
per una compiuta esposizione rimando
alibi al mio articolo Le preposizioni articolate nel napoletano.
5.NUN CE STANNO NÈ SSANTE, NÈ MMARONNA
Letteralmente Non ci son né santi, né
Madonna (bastevoli a...) Icastica espressione che in maniera direi piú
contenuta (in quanto rispettosamente chiama in causa solo i santi e/o la
Vergine )richiama quella della lingua nazionale Non c’è barba di Padreterno
di analogo senso per significare, riferita ad un pervicace, caparbio, testardo
che nessuno, neppure se si trattasse dei santi o della Madonna e di un loro
intervento, potrebbe far recedere il testardo da un incaponimento,
un’ostinazione,una cocciutaggine, un puntiglio, un capriccio, una fisima quasi
mai razionali.
sante pl. dell’agg.vo sostantivato santo
1 (teol.come nel caso che ci occupa) che è degno
di venerazione religiosa; che è dotato di santità;
2 giusto, onesto, buono, pio,
3 si dice di cose universalmente rispettate, verso cui si à
grandissimo ossequio
4 si usa in alcune locuzioni con valore puramente rafforzativo: faticà tutt’ ‘o santu juorno(lavorare tutto il santo giorno);
5(fam.) usato in esclamazioni di disappunto, inquietudine,
sorpresa: santa pacienza!; santu dDio
quant’ è tardi!(santa pazienza!;
santo Dio, quant'è tardi!)
voce
dal lat. sanctu(m)→san(c)tu(m), propr. part. pass. di sancire
'sancire'.
mmaronna/maronna
= LaMadonna (etimologicamente
dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si
dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in
Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal
popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il
termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a
Madonna che con la tipica
rotacizzazione osco-mediterranea D→R: ‘a Maronna; segnalo
qui che, essendo il napoletano (se si
eccettuano le vocali finali (sempre) o pretoniche (spesso) semimute…) essendo il napoletano
linguaggio che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna
quando vi sia scritto Madonna, né ad. es. rinto se vi è scritto dinto – piere
se vi è scritto piede etc. ; purtroppo
spesso i miei conterranei (forse per sciatteria ed impreparazione…) incorrono
in questo errore… e transeat per gli incolti e gli sprovveduti, ma è imperdonabile
per molti addetti ai lavori o sedicenti
tali chi si dicono colti, preparati e
versati nel napoletano ed incorrono nel medesimo strafalcione.
6.NUN C’È
PRERECA SENZA SANT’AUSTINO.
Letteralmente: Non v'è predica
senza sant'Agostino Come si sa, sant'Agostino(
Tagaste,
13 novembre 354 –†
Ippona,
28 agosto 430), filosofo, teologo
e
vescovo d' Ippona, è uno dei piú
famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non
usi citare i dottissimi scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe
viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa -
soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò
non desiderate.
prereca s.vo f.le = 1predica,
omelia, sermone, quaresimale, orazione sacra (spec. in occasioni solenni),
panegirico (per la glorificazione di un santo) ma anche
2 paternale, ramanzina, filippica,
fervorino, predicozzo (scherz.),
rimprovero, richiamo, ammonizione, ammonimento, sgridata; (gen.come nel caso che ci occupa)chiamata in causa, addebito; voce
deverbale del lat. praedicare →praericare
7.NUNN’ È CCOSA!
Letteralmente Non è cosa, gesto, azione, lavoro, opera (da praticare,
perseguire etc.) Icastica espressione che si usa in tutte quelle occasioni in cui non si
ritenga opportuno non dar corso ad
azioni, operazioni quali che siano in quanto stimate non convenienti,
inopportune, inappropriate, incongrue, svantaggiose
per chi le dovesse mettere in opera
laddove si tratta di azioni/operazioni da lasciar
perdere in quanto il gioco non vale la candela. In italiano s’usa
l’analogo Non è il caso!
cosa
s.vo
f.le
1 termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o
astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che
riceve determinazione dal contesto del discorso o dello scritto;
2 in senso più ristretto,
oggetto materiale;
3 fatto, avvenimento,
situazione;
4 ciò che si vede, si pensa, si ascolta,si dice;
5 come nel caso che ci occupa gesto, azione, lavoro, opera.
voce dal lat.volg. causa
«causa», che sostituí il lat.
class. res.
8.NUNN’ È PPIETTO TUĴO!
Letteralmente: Non è (per il) petto tuo! Icastica
espressione, analoga alla precedente ma con un marcato carattere quasi di
dileggio e/o d’offesa in quanto è espressione che si usa rivolgere
sarcasticamente ad un idividuo che, ritenuto
incapace di poter mai concludere
alcunché di positivo,né di giungere a risultati concreti in quanto impreparato,
inetto ed incapace dimostri di non possedere né la prestanza fisica, né le capacità
mentali (adombrate l’una e le altre sotto il termine petto) per poter addivenire
concretamente ad un risultato; per il soggetto destinatario dell’espressione
ògni situazione, avvenimento,questione o problema, gesto, azione,
lavoro, opera son ritenuti superiori alle sue capacità e dunque tutto esula
dalle sue possibilità operative.
pietto s.vo m.le
1
la parte anteriore del tronco umano, compresa tra il collo e l'addome;
2 le mammelle della donna, il
seno;
3 (fig.come nel caso
che ci occupa) cuore, animo, capacità; 4 la parte del corpo degli
animali corrispondente al petto umano;
5 parte di un vestito che
copre il petto: giacca a unu pietto; giacca a doppio pietto, giacca
pietto e bavaro(giacca a un petto; giacca a doppio petto, giacca
petto e bavero); voce
lat.
pĕctu(s)→piettu(s)→pietto 'petto, animo'.
9.NUNN’ ESSERE DOCE ‘E SALE
Letteralmente: Non è dolce di sale! Incisiva
espressione usata soprattutto
rivolgendola a professori, genitori eccessivamente severi o piú in generale a
tutti coloro che si dimostrino scostanti, scorbutici, scontrosi,
intrattabili pur senza giungere ad esser
maleducati, villani o sgarbati;
di costori s’usa dire che siano tanto
aspri o pungenti o piccanti tal quali una pietanza che troppo salata risulti sgradevole, spiacevole, disgustosa, laddove
una contenuta salatura l’avrebbe resa piú dolce al palato e quindi gradita,
gradevole, piacevole.
10.NUN CE STANNO FÓSE ‘A APPENNERE
Letteralmente: Non ci sono fusi (tanto difettosi ) da (potersi) appendere (al
vestito).Antichissima locuzione (già presente nel D’Ambra) incisiva, efficace,
chiara, viva, mordace, graffiante di esclusiva pertinenza femminile. Di per sé
l’espressione in generale vale non
ci sono difetti ma in senso piú circoscritto ed esatto è espressione con la quale si fa riferimento all’onestà dei
costumi di un donna ed alla totale
assenza in lei di colpe, manchevolezze ,
mancanze,sia fisiche che morali, insomma una donna tanto priva di difetti da essere accreditata di essere cosí sana, pudica,
virtuosa, irreprensibile, integerrima, costumata, morigerata da non concedere neppure
figurati appigli sul proprio vestito cui attaccare fallici fusi, cioè di non
dare ad alcun uomo modo o maniera di circuirla per poterne attinger le grazie.
Normalmente un fuso ben costrutto è un arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle estremità, che nella
filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola, arnese
privo di asperità, sporgenze o ganci con cui poterlo appuntare o sospendere ed
è perciò un arnese privo di difetti, come priva di difetti è una donna che non
conceda appigli sulle sue vesti a
figurati fusi maschili.
fósa s.vo pl. f.le del m.le fuso s.vo m.le [dal lat. fūsus] (pl. fuse e fosa: fuse
pl. del sg. fuso; fose pl. con valore
collettivo ). – 1.in sé ed in primis Arnese di legno dalla caratteristica
forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate (dette cocche), usato
nella filatura per produrre mediante rotazione la torsione del filo e intorno
al quale il filo stesso si avvolge;
2 per traslato furbesco membro
maschile, verga, asta
11.NUN VULÉ FÀ CARTE
Cominciamo con il dire che
l’espressione è mutuata ovviamente dal giuoco delle carte e che l’espressione è
da tradursi con Non voler distribuire le
carte e non con un inconferente Non
voler fabbricare le carte come – inorridendo – mi occorse di cogliere
sulle labbra di uno spocchioso, ma sprovveduto docente universitario, sedicente
cultore esperto [a sentir lui] di proverbi e/o locuzioni partenopee. In effetti
l’espressione fare le carte è usata anche fuor
dell’àmbito napoletano e vale distribuire
le carte o talora, se riferito ad un/una cartomante, sta per leggere
le carte, ma in nessun caso fabbricare
le carte Tanto premesso partendo
come détto dall’esatta traduzione Non
voler distribuire le carte è facile cogliere che con l’espressione ci si
riferisce ad un soggetto che prepotente ed arrogante non intende mai assumersi
il còmpito di cartaro,sia cioè restio a farsi carico di svolgere il còmpito che invece in ògni giuoco di carte
deve essere svolto per avvicendamento da
tutti i giocatori,; il soggetto di cui dico invece pretenderebbe di esser
sempre servito di carte, piuttosto che farle,
per poter aprire il giuoco a suo piacimento e non esser costretto (da cartaro) a chiuderlo accodandosi al
giuoco altrui. In tal senso colui che non vuol far carte è il soggetto che in
ogni occasione non intende addivenire ad alcuna proposta e si dimostra riottoso ad accodarsi alle altrui
idee o iniziative,recalcitrante persino a discuterne; è il soggetto che
presuntuoso e supponente si pone davanti la realtà contigente con la boria di
avere lui le soluzioni adatte ad ògni tipo di problema mostrandosi indocile all’accoglimento
di proposte che abbiano fatto altre persone e senza distinguere se si tratti di
cattive o di buone, di perseguibili o campate in aria. Vengono da altri? Ed
allora, per il saccente che non vuol far carte, non sono accettabili e non
mette conto neppure discuterne!
In senso esteso infine l’espressione in epigrafe si attaglia a
qualsiasi persona sia restia ad addivenire ad alcunché; per cui ad es. nu’ vvo’ fà carte una ragazza che
rifiuti le avances di un corteggiatore, nun
vo’ fà carte un genitore che rifiuti
di soddisfare le richieste pecuniare d’un figliolo, nun vo’ fà carte una mamma che opponga un rifiuto al desiderio d’
una figliola che vorrebbe un abito nuovo, nu’
vvo’ fà carte una moglie che respinga l’istanza di preparare un’elaborata
pasta al forno o che opponga alle richieste del coniuge, un improvviso mal di
capo e cosí via.
12.NUN FA/FÀ ASCÍ ‘O GGRASSO FORA DÂ
PIGNATA. Letteralmente l’espressione si traduce con : Non
fa/fare uscire il grasso fuor dalla pignatta. Passando al campo applicativo
preciso che la locuzione à un doppio significato:
1) in primis essa vale una sorta
di constatazione osservando l’atteggiamento di qualcuno/a che sia molto
misurato/a nei consumi, tanto accorto/a e/o
parsimonioso/a da evitare qualsiasi spreco al segno di non permettere
che il condimento in cottura trabocchi
per eccessivo bollore dalla pentola e tale accezione è quella esatta allorché il
fa dell’espressione è la 3ª pers. sg. indicativo presente dell’infinito fà.
2)Tutt’altro significato prende
l’espressione allorché il fa’ dell’espressione è la 2ª pers. sg. imperativo
dell’infinito fà. In tal caso la
locuzione diventa non una costatazione, ma quasi un ordine perentorio a non far
traboccare il condimento dalla pentola di pertinenza. Tuttavia mentre nel caso
sub 1) la locuzione può essere tranquillamente intesa nel senso letterale con
riferimento alla avvedutezza e/o parsimonia di chi si adopera per evitare che
si cada nell’eccesso facendo traboccare il condimento o conferito in maniera
sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua cottura, nel caso
sub 2) con l’uso dell’imperativo l’espressione non si deve intendere come un consiglio/ordine a non
far traboccare il condimento o conferito
in maniera sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua
cottura,ma deve intendersi in senso traslato
come consiglio/ordine dato ad un familiare di non lasciar trapelare all’esterno [dandoli
in pasto ai terzi] i fatti e/o i problemi di famiglia che vanno rigorosamente
tenuti segreti e sotto il controllo di chi compone la famiglia.Ed ancóra
l’espressione sub 2) in un suo sotteso significato metaforico vale: adoperarsi per non permettere che le risorse
familiari travalichino i sacrosanti confini della famiglia per essere destinate
ad estranei e/o a parenti non molto prossimi.
Giunti qui , prendiamone in esame
alcune parole:
‘o ggrasso letteralmente il grasso= condimento ricavato
dalla sottocute del maiale; ovviamente qui è usato nel senso traslato ed
estensivo di risorsa economica; la
voce a margine è un sost. neutro (la gran parte degli alimenti in napoletano è
di genere neutro) derivato dal lat. volg. grassu(m), da crassus
'grasso', forse per incrocio con grossus 'grosso';
ascí = uscire, venir
fuori, debordare voce verb. infinito dal lat. volg. parlato *axire marcato su exire,
comp. di ex- 'fuori' e ire 'andare';
fora avv. di luogo= fuori, all'esterno di qualcosa, non in esso; anche, lontano da
esso; voce derivato dal lat. fora(s)
collaterale di fŏri(s) donde
l’italiano fuori.
la voce pignata/pignato s.vo
f.le/m.le nell’unico significato di pentola di coccio bassa, ma capace riprende
forse per adattamento la voce toscana pignatta→pignata
s. f. , che anticamente fu anche: pignatto→pignato s. m. nei significati di
1) pentola molto capace, per lo piú di terracotta | (fam.)
qualunque tipo di pentola. dim. pignattella, pignattina, pignattino
(m.)
2) sorta di mattone forato impiegato nella costruzione dei solai. Tutto
ciò sempre che non sia vero il contrario e cioè che un/una originario/a pignato/a partenopei non siano diventati
pignatto e pignatto nell’italiano;
L’etimo è incerto; forse da un deriv. del lat. pinguis
'grasso', col sign. di 'recipiente per conservare il grasso, la sugna;con una
lettura metatetica di pinguis→pignuis addizionato
di apta→atta donde *pignatta (adatta a contenere il
grasso).
Tuttavia un'altra scuola di pensiero ( alla
quale mi piace aderire!) pensa ch'essa voce pignata
possa derivare dal latino pineata(olla)in quanto il coperchio
della pignata termina e terminava quasi
sempre a mo' di pigna (in latino pinea
donde pineata→pignata).
E cosí penso d’aver convenientemente interessato i
miei consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste mie paginette e d’esser riuscito ad illustrare alcune tipiche espressioni della parlata napoletana
costruite con la negazione NUNper cui reputo di poter
mettere il punto fermo con il consueto satis est, rinviando alibi per altre
espressioni con la voce pignata.
Satis est.
Raffaele Bracale