venerdì 31 ottobre 2014
ERBE AROMATICHE E/O TERAPEUTICHE
ERBE AROMATICHE E/O TERAPEUTICHE
‘A RUTA ÒGNE MALE STUTA – ‘A MARVA D’ ÒGNE MALE TE SARVA – PRUTUSINO ÒGNE MENESTA
La ruta spegne (combatte) ogni male – La malva ti salva da ogni male. – Prezzemolo in ogni minestra.
Come avvenne in molte regioni dell’antico Reame napoletano (dalla Basilicata, alle Puglie, alle Calabrie) anche in Campania talune erbe come la ruta e la malva ed altre come il prezzemolo furono tenute in gran considerazione nell’inteso popolare sino a far generare dei proverbi che ne esaltavano le virtú. Parliamo rapidamente delle tre erbe in epigrafe: la ruta, la malva ed il prezzemolo.
La ruta è una pianta erbacea a fusto ramoso, alta fino a 80 cm, con foglie alterne, pennato-composte, divise in segmenti spatolati o lineari. I fiori, giallo-verdognoli, sono riuniti in corimbi apicali. Questa erba aromatica fu un tempo molto usata sia come insaporitore di vivande , sia per le sue numerose proprietà terapeutiche che l’inteso popolare estese al massimo sino a coniare l’espressione in epigrafe. In effetti ancóra oggi le foglie fresche della ruta possono essere usate con moderazione atteso che pare che la ruta sia un'erba velenosa e se consumata ad alte dosi possa nuocere gravemente alla salute. Per uso interno va dunque assunta a dosi molto basse -da due a cinque grammi per litro d'acqua- e sempre sotto stretto controllo medico.
per insaporire insalate, carni, pesci, oli e aceti aromatici. È pure molto usata per la preparazione di un tipo di liquore aromatico.
Proprietà terapeutiche: emmenagoghe (favorire la mestruazione), sedative, digestive, carminative (promuovere l’espulsione dei gas intestinali),vermifughe.Tenendo presente le suddette proprietà emmenagoghe venne usata da talune antiche levatrici di cattiva coscienza per procurare aborti.
Nei tempi passati si attribuiva alla ruta il potere di evitare il contagio della peste; oggi spargendo le foglie essiccate sui pavimenti, in prossimità delle fessure, si tengono lontani gli insetti grazie a una sostanza insetticida in esse è contenuta. Pare che il disegno del seme di fiori che compare sulle carte da gioco sia stato ispirato proprio dalla graziosa foglia della ruta.
L'erba della ruta fu ritenuta addirittura, nell’inteso popolare,erba contro la paura. Si metteva in tasca, appunto, quando si dovevano affrontare situazioni di paura e le case in cui cresceva erano ritenute privilegiate.
Quanto alla Malva, essa non è un’erba aromatica da usarsi in cucina, ma è essenzialmente una pianta medicinale: à fiori rosa violacei,appartiene alla famiglia delle Malvacee, e se ne usano le foglie, i fiori e la radice.
À proprietà emollienti, ammorbidenti, antinfiammatorie, calmanti, lassative, espettoranti, lenitive. È utile come impacco ed infuso per mucose irritate, gengive sanguinanti, congiuntiviti, ulcerazioni, foruncoli, ascessi, emorroidi, infiammazioni degli occhi, infiammazioni della gola, bocca, gengive, stomatiti, infiammazioni della pelle, piaghe, scottature, pruriti, infiammazioni intestinali, è anche sedativa del sistema nervoso.Svolge pure,come ò detto una leggera azione lassativa per la presenza di mucillagini ed è adatta nelle, gastriti, nelle enteriti, nelle coliti, nelle cistiti, nelle gengiviti, negli ascessi dentari e nelle infezioni oculari. I fiori di malva sono un rimedio efficace per favorire l'espettorazione e calmare la tosse, è lenitiva a livello delle mucose bronchiali.
• E veniamo infine al prezzemolo o alla latina Petroselinum sativum ( donde il partenopeo prutusino). Esso è una pianta aromatica erbacea appartenente alla famiglia delle Ombrellifere e originaria della Sardegna. L'altezza del fusto della pianta può variare dai 15 agli 80 cm e le sue foglie, di un bel colore verde brillante, possono essere piatte o arricciate a seconda della varietà di prezzemolo, anche se le foglie di entrambe le varietà mantengono una forma vagamente triangolare. La caratteristica principale di questa pianta aromatica è di essere usato in cucina praticamente ovunque : sia per insaporire i cibi, sia per le decorazioni. Il prezzemolo à inoltre la singolare capacità di ravvivare l'aroma di altre erbe e spezie e proprio per questo, tritato finemente, è utilizzato nella preparazione di salse, antipasti, primi piatti, secondi piatti di carne ma, in special modo (tritato finemente assieme all’aglio) nei secondi di pesce. Unica avvertenza: va consumato e utilizzato crudo per mantenerne il sapore; nei piatti caldi va sempre aggiunto a fine cottura. Il prezzemolo è dunque un’erba aromatica che non va mai cotta: con la cottura perde di aroma e può aumentare la forza di una eventuale spiacevole componente velenosa (il prezzemolo può infatti venir confuso con la velenosissima cicuta minore (Aethusa cynapium), detta anche falso prezzemolo per la sua somiglianza a questa pianta aromatica.Tale cicuta minore è utilizzata, opportunatamente diluita, in omeopatia per le coliche addominali. A scanso di equivoci, conviene non cuocere mai il prezzemolo, ma non evitarlo come fanno taluni sciocchi che non fidandosi del proprio ortolano si privano di questa insostituibile erba aromatica.
Pare che il prezzemolo fosse noto già nell'antichità e che i Greci lo utilizzassero non come aroma, ma come decorazione per tombe, aiuole e principalmente per i suoi poteri terapeutici : un vero toccasana, sembra, contro i disturbi dei reni, della vescica e contro il mal di denti, oltre che – se masticato a fresco – depurativo dell’alito di chi abbia ingerito aglio. I Romani, invece, lo utilizzavano essenzialmente in cucina e per confezionare ghirlande per gli ospiti dei banchetti. I vicini dei Romani, gli Etruschi, consideravano il prezzemolo una pianta dalle proprietà magiche e per questo ne facevano unguenti miracolosi. Per la sua particolarità di essere utilizzato, non solo in cucina, ma praticamente ovunque, il prezzemolo è stato lo spunto per un famoso detto, ironicamente ed icasticamente riferito a tutti gli individui che, invadenti, saccenti e presuntuosi con la loro fastidiosa presenza, corredata di inutile logorrea si appalesano dove non sono invitati e/o richiesti : "essere prutusino ògne menesta!”
In conclusione si può dire che le erbe come malva, ruta e prezzemolo, per le loro proprietà aromatiche e/o terapeutiche giustamente si meritarono la grande considerazione in cui le tennero i nostri antichi ed a mio avviso ancóra la meritano.
Raffaele Bracale
‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO
‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO
‘A monaca d’’o Bbammeniello: ¨Ògne nove mise, fasciatóre e savaniello!
Antichissima desueta espressione che tradotta letteralmente suona:La monaca del Bambin Gesú: ogni nove mesi fasce e sottofasce; espressione che fino a tutti gli anni cinquanta fu usata con sarcasmo nei confronti di spose eccessivamente prolifiche ed usata altresí, per traslato giocoso, nei confronti di chiunque che, per colpevole iperattività in qualsivoglia campo d’azione, necessitasse di aiuti continui. L’espressione nacque in ¨àmbito popolare con malevola cattiveria, chiamando in causa le pie Suore del Bambino Gesú, dell’omonimo Istituto Suore del Bambino Gesú sito in Napoli in san Giovanni Maggiore Pignatelli a ridosso dell’Università degli Studi in pieno centro storico; l’istituto era nato (per opera di un tal Nicola Barre dell’Ordine dei Minimi di s. Francesco di Paola, noto professore di teologia e Bibliotecario a Parigi) in Francia nel 1666,(con il fine dell’assistenza ed istruzione di bambini, ragazzi/e bisognosi) e solo nel 1906 era approdato in Italia,dapprima nel Bergamasco e poi si era esteso , rispondendo agli appelli della Chiesa Italiana, con molte comunità in Calabria , nelle periferie di Roma, nel centro storico di Napoli ed in diversi luoghi della regione campana , dove le pie suore stavano accanto ai bambini, alle famiglie in difficoltà , condividendo la vita delle persone semplici. e distinguendosi per la catechesi e l’ istruzione di tutti i ragazzi/e e facendosi amare per la loro presenza fattiva nei confronti di tutti coloro che ne avevano bisogno; tra coloro che si mostravano bisognosi di aiuto vi furono i primis le ragazze traviate che, per essere assistite, venivano spesso accolte nell’istituto (dove ricevevano accanto ad una migliore istruzione anche un avviamento ai lavori donneschi) e poiché moltissime di esse vi entravano da gravide, diventando madri nell’istituto, si diffuse l’infame credenza che i bimbi generati lo fossero stati, non dalle ragazze madri accolte nell’istituto, ma dalle stesse monache del Bambino Gesú e si coniò persino, con inusuale cattiveria,(per un popolo come il napoletano sempre paziente e comprensivo difronte ai casi della vita...), si coniò persino l’espressione in epigrafe con la quale si fa riferimento al continuo sciorinio di fasce e sottofasce imbandierate alle finestre dell’Istituto.
monaca s.f. suora, appartenente a un ordine monastico femminile; voce che è dal lat. tardo monacha(m), che è dal gr. monachè;
fasciatóre s. f. plurale di fasciatóra =fascia per neonato, striscia di tessuto robusto usata un tempo per avvolgere strettamente i neonati; quanto all’etimo si tratta di un deverbale di fasciare (dal lat. tardo fasciare ) aggiungendo al part. pass. fasciato il suff. ora/ura usato per ottenere dei sostantivi verbali;
savaniello/ savanella s. m.o f. sottofascia, topponcino, pannolino in cui avvolgere il bacino del neonato prima fasciarlo; quanto all’etimo si tratta di un derivato dello spagnolo sabanilla; da notare che la voce savaniello maschilizzazione dell’originaria savanella fu coniato per indicare un pannolino alquanto piú piccolo della corrispondente voce femm.le savanella che indicò un pannolino piú ampio secondo il noto criterio che, in napoletano, considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande etc.; fanno eccezione tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. ).
raffaele bracale
A MMANÉSE – A MMANNÉSE etc.
A MMANÉSE – A MMANNÉSE etc.
Questa volta mi intratterrò a parlare delle due locuzioni avverbiali in epigrafe che rendono le italiane a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata. Per la verità si tratta di due forme, ampiamente attestate dapprima nella forma a mmannése e poi quasi esclusivamente nella forma a mmanése forma nella quale perdura nel parlato popolare partenopeo. Si tratta, dicevo, di due forme leggermente diverse d’un’ unica locuzione che in origine – come chiarirò – fu a mmannése e solo in prosieguo di tempo sotto la patente influenza della voce mana divenne manése con la nasale scempia mantenendo invariato il significato di a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata.
Cominciamo súbito col chiarire che nell’ idioma napoletano la voce mannése non à nulla a che dividere con l’omografa ed omofona della lingua italiana; in italiano mannése è un aggettivo che viene riferito agli abitanti dell’isola di Man e connota in particolare una lingua che è appunto la lingua mannese o manx (chiamata anche Gaelg) che è una lingua goidelica parlata sull'Isola di Man,che è un’isola conosciuta anche come Mann o Manx (Isle of Man in inglese, Ellan Vannin o Mannin in mannese) ed è situata nel Mar d'Irlanda; sul piano politico, essa non fa parte del Regno Unito né dell'Unione Europea, ma è una dipendenza della Corona britannicaLa lingua che vi si parla è risalente al V secolo ed è derivante dall'antico irlandese; infatti non di rado viene chiamata gaelico mannese.
Tutt’altra cosa è il mannése della parlata napoletana dove è un sostantivo, non aggettivo masch. e vale carpentiere,falegname ma piú ancóra carradore,fabbricante di carri e carretti, artigiano che fabbrica o ripara carri e barocci; carraio con derivazione da un acc.vo lat. manuense(m) che diede il lat. volg. *manuese donde *mann(u)ese; per il raddoppiamento della nasale cfr. alibi crebui→ crebbi, venui→venni, stetui→stetti etc.
Affrontiamo il problema semantico e diciamo che tra la fine del 1700 ed i primi del 1800 in Napoli furono moltissimi gli artigiani che si dedicarono al mestiere di carradore, di fabbricante di carri e carretti,di riparatore di carri e barocci ed aprirono bottega in talune strade della città lasciandovi poi addirittura il nome: cfr. Carmeniello ai Mannesi, Crocelle ai Mannesi etc. Il fatto importante (per quel che ci occupa) fu che per quanto ampie o spaziose fossero le botteghe (e non lo erano!...) esse erano comunque insufficienti a contenere carri e/o carretti in lavorazione o riparazione con tutti i necessarî corollarî di ruote, pianali, sponde e stanghe ed un po’ tutti i carradori finirono per lavorare in istrada invadendo i marciapiedi antistanti le loro botteghucce ed ovviamente, per risparmiarsi la fatica di recarsi continuamente in bottega a procurarsi gli strumenti di lavoro (‘e fierre d’’a fatica), presero l’abitudine di tenerli tutti a portata di mano; da questo fatto nacque l’espressione tené a mmannése (id est: avere a portata di mano, alla maniera del mannése). In prosieguo di tempo e quasi certamente ad opera d’un qualche letterato fattosi influenzare dalla voce mana (mano)l’espressione popolare a mmannése divenne a mmanése con la nasale scempia mantenendo invariato il significato di a portata di mano, sottomano, a disposizione immediata. Ed ancóra oggi nel parlato partenopeo s’usa dire a mmanése ed inopinatamente l’espressione a mmannése cosí ricca di storia ed onesto lavoro artigianale è stata confinata in taluni vocabolarî d’antan.
Dispiace il dirlo, ma talvolta taluni letterati fanno danni alla lingua!
Raffaele Bracale
VARIE 8340
1.'A vecchia ê trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo ô ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
trapanaturo = aspo, bindolo per ammatassare dal greco try/panon, deriv. di trypân=girare, forare
2. Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in altoed in basso ;
asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco astrakon=coccio)
lavatore (lavatoi) (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare' erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
3. Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài né la forza, né la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter mai portare al termine ciò che intraprende.
4.'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
5.Jí cascia e turnà bauglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà. Cascia: etimologicamente dal latino capsa (da capio) attraverso uno spagnolo caja
Baúglio: etimologicamente deverbale metatetico del latino bajulare=portare s.m. = baúle, contenitore usato per portare merci o altro;altrove estensivamente gobba che insiste sul petto.
Stocco: etimologicamente dallo spagnolo/portoghese estoque =bastone
Baccalà: etimologicamente dallo sp. bacalao, e questo dal fiammingo kabeljauw.
6.Tu muscio-muscio siente e frusta lla, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta lla discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
7.'E denare so' comm'ê chiattille: s'attaccano ê cugliune.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune è pl. di cuglione(dal t. lat. coljone(m) per il class. coleone(m)) viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
Chiattille s.vo. m.le pl. di chiattillo= blatta, piattola (dal lat. blatta +suff. dim. illo: blattillo→chiattillo.
8.Hê 'a murí rusecato da 'e zzoccole e 'o primmo muorzo te ll'à da dà mammèta
Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre. Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola (dal t. lat. sorcula(m) che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare
9.Ma te fosse juto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il liccese= leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- ma non si sa bene come! - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
10. Fà 'e scarpe a quacched'uno.oppure farle ‘nu vestito
Letteralmente: Fare le scarpe a qualcuno.oppure confezionargli un vestito. Id est: conciar male, ridurre a cattivo partito qualcuno fino al punto di approntargli la morte. L'espressione deriva dall'usanza che si teneva a Napoli, per l'ultimo viaggio, - di fare indossare un vestito nuovo e/o di far calzare scarpe nuove ai morti in origine di un certo rango, poi a quelli appartenenti alla media borghesia ed infine a chiunque a qualunque ceto sociale appartenesse; vestito e scarpe nuovi erano conservati all'uopo dai familiari.
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VARIE 8339
1.'A VARCA CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la barca cammina, e la fava si cuoce.
Estensivamente: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato.
La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce.
Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente, in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi; oggi è usata quale invidioso commento da chi – guardando l’altrui benessere, assicurato dal progredire degli affari – lo commenta con la frase in esame pronunciata con malcelata invidia.
varca= barca ed estensivamente ogni natante piú o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v.
cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica;
fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m);
coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere.
2.‘A vita è ‘na cepolla ca s’ammonna chiagnenno
La vita è una cipolla che si monda piangendo
Id est: come la cipolla che quando la si monda o affetta fa lacrimare, cosí è la vita che nel suo dipanarsi quotidiano può indurre al pianto, atteso che è costellata di dispiaceri e fastidi.
3. ‘A capa (‘a cerevella) ‘e ll’ommo è ‘nu sfuoglio ‘e cepolla
La testa (il cervello) dell’uomo è una tunica di cipolla
Id est: come la cipolla à un sottile, inconsistente rivestimento che facilmente può rompersi ed essere eliminato, alla stessa stregua il cervello dell’uomo (inteso come essere umano, comprensivo cioè di uomini e donne) à un cervello quasi inconsistente e in quanto tale inaffidabile circa la validità delle idee prodotte.
4.‘A capa ‘e ll’ommo è comm’ â carcioffola
La testa (cioè la mente) dell’uomo è come un carciofo.
Id est: come il carciofo è formato da numerose brattee (comunemente détte foglie) cosí la testa dell’uomo(inteso come essere umano, comprensivo cioè di uomini e donne) produce numerose idee e/o pensieri che devono essere eliminati per giungere al cuore dell’intendimento umano, come per giungere al cuore del carciofo (che è la parte migliore e piú tenera) occorre eleminare le numerose brattee che lo involgono.Se ne ricava che l’essere umano muta continuamente di pensieri ed idee dimostrandosi inaffidabile circa la tenuta di princípi e volontà!
Cepolla s.vo f.le = cipolla pianta erbacea coltivata per il bulbo commestibile, composto di varie tuniche carnose (fam. Liliacee) | il bulbo stesso e, per estens., il bulbo di altre piante: cipolla bianca, rossa; frittata con le cipolle; togliere il velo alle cipolle, la prima squama sottilissima che ricopre il bulbo; la cipolla del giglio, del tulipano ' mangiare pane e cipolla, (fig.) pochissimo e male; essere molto povero. La voce napoletana è dritto per dritto dal t. lat. cepulla(m) diminutivo del class. cépa (cfr. il greco kepha= testa): in effetti in napoletano s’usa tautologicamente dire ‘na capa ‘e cepolla;
ammonna = monda voce verbale(3° p.sg. ind. pres.) dell’infinito ammunnà = mondare; ammunnà 1 pulire, nettare separando da ciò che nuoce o non si utilizza: ammunnà ‘o ggrano,(mandare il grano), separarlo dalla loppa; ammunnà ‘o riso (mondare il riso), estirpare le erbacce dalle risaie
2 (tosc. , lett.) togliere la buccia, l'involucro: ammunnà ‘e castagne (mondare le castagne); ammunnà ‘e cepolle ( mondare le cipolle). Il verbo napoletano è dal lat. mundare, (deriv. dell'agg. mundus 'mondo, pulito') con assimilazione progressiva nd→nn e protesi d’un rafforzativo ad→am per assimilazione regressiva (ad-mu→ammu);
chiagnenno = piangendo voce verbale (gerundio) dell’infinito chiagnere = piangere Il verbo napoletano è dal lat. plangere 'battere, battersi il petto': normale il passaggio del lat. pl+ voc. al nap. chi+ voc. (cfr. chiaja ←plaga, cchiú←plus , chianto←planctu(m) etc.)
cerevella = cervello s.vo f.le 1 (anat. , zool.) la massa piú voluminosa dell'encefalo contenuta nella scatola cranica dei vertebrati; è l'organo che presiede alle facoltà sensoriali, motorie, sensitive e intellettive | nell'uso com., l'encefalo stesso, spec. quando ci si riferisce a quello di bestie macellate: cervello di bue; fritto di cervello | bruciare, far saltare le cervella a qualcuno, ucciderlo con un colpo di arma da fuoco al capo
2 (estens.) testa, capo, in quanto sede del pensiero, dell'attenzione: dove avete il cervello? | avere il cervello nelle nuvole, essere perennemente distratto | mettere il cervello a partito, mettere giudizio | dare al cervello, di alcolici, ubriacare; di altre cose, far perdere il senso della realtà | cambiare il cervello a qualcuno, cambiare il suo modo di ragionare
3 (fig.) senno, intelletto, ingegno;
la voce cerevella è etimologicamente la femminilizzazione del lat. cerebellu(m), dim. di cerebrum 'cervello' con normale alternanza napoletana della v con la b (cfr. ad es. barca→varca, bocca→vocca, sventura→sbentura etc.) il passaggio al femminile di una voce maschile avviene spesso nel napoletano quando si voglia indicare con il femminile qualcosa di piú grande del corrispondete maschile (cfr. ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo ) ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ), etc. ) nella fattispecie per l’uomo o donna, che si pensa l’abbiano piú grande si dice infatti cerevella , mentre per la gallina che è notoriamente poco fornita di materia grigia, si dice cerviello.
ommo = uomo s.vo m.le da un nomin. latino (h)òmo con tipico raddoppiamento espressivo della labiale m, mentre la consonante diacritica d’avvio (h) un tempo aspirata, non viene presa in considerazione, né lascia traccia;
sfuoglio = tunica di taluni ortaggi, sfoglia; quest’ultima à varii significati:
1 lamina sottile: sfoglia d'oro, d'argento; le sfoglie di una cipolla.
2 strato di pasta all'uovo stesa e assottigliata col matterello: fare la sfoglia | pasta sfoglia, pasta dolce o salata, a base di burro e farina, che cuocendo si divide in strati leggeri
3 (region.) guaina della pannocchia del granturco, tunica di taluni ortaggi; la voce italiana sfoglia s.vo f.le è un derivato del lat. folium «foglio», per la forma appiattita con l’aggiunta di una s protetica di tipo durativo; uguale etimo à il napoletano sfuoglio che – con riferimento alla tunica di certi ortaggi (cfr. precedentemente sub cerevella) è pensato maschile giacché piú piccolo ad es. della sfoglia (strato di pasta all'uovo stesa e assottigliata col matterello), strato che in napoletano è reso con il sostantivo f.le pettula/pettola;con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con i medesimi termini, si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del matterello (e non mattarello che è un dialettismo romanesco) con il quale su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; per traslato, con i termini pettula/pettola , si indica una donnaccia o anche una donnetta ciarliera e petulante; quanto all’etimo di pettula/pettola occorre iniziare col dire che la radice pat che pure dà vita a parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti l’azione del distendere, allargare etc., non si può riferire alla pettola/pettula;ciò è in tutti i testi da me compulsati al riguardo.
Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno derivare da un acc. tardo latino: *petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la pettola della camicia!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la péttola/péttula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda.
capa s.vo f.le = capo, testa ed estensivamente intelligenza (cfr. tène ‘na bbella capa= è molto intelligente tène ‘a capa ‘ncapo= à una gran dose di razionalità); l’etimo è dal lat. capu(t) reso femminile probabilmente per le medesime ragioni di cui precedentemente sub cerevella;
comme avv.
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?; comme è gghiuto ‘o viaggio?; dimme comme staje; m’addimanno comme se farrà ' comme maje?( come stai?; come è andato il viaggio?; dimmi come stai; mi chiedo come si farà ' come mai?),, perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto?(come mai non è più partito?) | comm’è ca(com'è che...?), comme va ca ( come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme!?(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?, comme hê ditto?(come dici?, come hai detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme sarebbe a ddicere? (come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm'è, comme nun è (com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!(come no?!), certamente | comme ve canzate (come vi permettete?!, guardatevi bene dal permettervi
2 quanto (in prop. esclamative): comme chiove(come piove!); comme sî bbuono!(come sei buono!); comme me dispiace(come mi dispiace!) | e comme!?,
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): lle raccuntaje comme ll’amico fosse partuto(gli raccontò come l'amico sarebbe partito); nun t’adduone comme sî ffesso?!(non ti accorgi come sei stupido) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose(ecco come andarono le cose); ecco comme ce se po’ arruvinà(ecco come ci si può rovinare)
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è bbello comme me credevo(è bello come credevo); arrivarrà cchiú tarde ‘e comme aveva ditto(arriverà più tardi di come aveva annunciato); 6 sta a 3 come 10 sta a 5 | in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comm’ ô llatte(bianco come il latte); ‘a figlia è aveta comm’â mamma(la figlia è alta come la madre); poche so’ ffessi comme a tte!(pochi sono sciocchi come te); ‘e juorne comme ‘e notte(di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: i’ comme a io nun accettasse!(io come io, non accetterei), per quanto mi riguarda, per conto mio; mo comme a mmo(ora come ora), oje comme a oje(oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo: tu, comme arbitro nun hê ‘a fa preferenze!(tu, come arbitro, devi essere imparziale); fuje sciveto comme testemmonio(fu scelto come testimone); tutte ‘a vulevano comme mugliera(tutti la richiedevano come moglie); in coda di questo numero rammento che in napoletano nelle frasi comparative ellittiche del verbo, stabilendo una relazione di somiglianza o di identità,l’avverbio comme esige d’essere accompagnato dalla preposizione semplice a che fondendosi con un eventuali articoli determinativi che volta a volta seguissero, genera delle preposizioni articolate che graficamente vanno rese nel modo seguente:
ô = a + il – a + lo = al, - â =a + la = alla, - ê= a + i = ai - ê = a + le = alle
per cui ad es. l’espressione bianco come il latte in napoletano non si potrà rendere con janco comm’ ‘o llatte ma si dovrà rendere con janco comm’ ô llatte dove comm’ ô è uguale a come al
5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto comme tu hê vuluto(ò fatto come tu ài voluto); tutto è succieso comme speràvamo(tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lascia ‘e ccose accussí comme stanno(lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): nun è accussí tarde comme me credevo(non è così tardi come pensavo); tanto ll’une comme a ll’ate(tanto gli uni come gli altri ') comme (si), nello stesso modo che, quasi che: puortale rispetto comme (si) fosse pàteto(rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme si nun ll’avesse ditto(come non detto), per ritirare una precedente affermazione
cong.
appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje(come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nnutizzie se trasmettevano comme arrivavano(le notizie venivano comunicate come arrivavano);
s. m. invar. il modo, la maniera; la causa, il mezzo, spec. nelle loc. ‘o comme e ‘o pecché, ‘o cquanno e ‘o comme e sim.: spiegà‘o cquanno e ‘o comme; mo m’ hê ‘a dicere ‘o comme e ‘o pecché,; ora mi devi dire il come ed il perché.
carcioffola s.vo f.le carciofo; carcioffola è il nome con cui in Campania è chiamato il carciofo che à - come è noto - un'infiorescenza a capolino, per lo piú di colore verde tendente al grigio cenere; ci sono anche delle varietà tendenti al violetto. Le brattee, cioè le squame compatte che formano il capolino, possono avere spine oppure no. È proprio ciò che distingue i diversi tipi di carciofo.Essi variano altresí a seconda della dimensione tenuto presente che, mantenendo inalterato il gusto, ogni pianta produce un solo grosso fiore centrale e molti altri, piú piccoli, dai cosiddetti braccioli laterali.
Oggi le varietà spinose piú conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, quelli di Venezia e di Sardegna ed i violetti di Chioggia. UlteriorI varietà di carciofo spinoso sono il violaceo di Toscana, ed il carciofo spinoso campano che è verde-violaceo. Tra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto romanesco, comunemente conosciuto come mammola (con derivazione dal Lat. mammula(m), dim. di mamma 'mammella'; propr. 'piccola mammella', poi anche 'bambina' e 'piccolo fiore', quello di Catania, di Palermo e della Campania dove prende il nome di mammarella diminutivo della pregressa mammola attraverso un doppio suffisso r+ella.
Si tratta di un alimento dal sapore spiccato,molto gustoso, versatile in quanto si presta a molte preparazioni culinarie; à ottime proprietà salutari: i carciofi sono infatti considerati i protettori del fegato; in effetti grazie ad una particolare sostanza (la cinarina) contenuta nelle brattee , nello stelo e nell'infiorescenza, il carciofo svolge un'azione benefica sulla secrezione biliare, sulla funzionalità epatica, favorendo altresí la diuresi renale e regolarizzando le funzioni intestinali. I carciofi stimolano pure il flusso di bile; già studi del passato condotti sia su animali che su esseri umani, dimostrarono che i carciofi abbassano i livelli ematici di colesterolo e di trigliceridi, quantunque in realtà i principi attivi siano contenuti nelle brattee che solitamente non vengono mangiate, se non in parte. Sono molto ricchi di fibre e di minerali, mentre è relativamente basso il contenuto di sodio e di vitamine, se si eccettua la presenza di un po' di vitamina A e vitamina C. Possono essere mangiati da tutti ed a tutte le età perché alimento facilmente digeribile ed essendo molto ricco di fibra solubile aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso; il carciofo è infine altresí ricco di inulina, un polisaccaride che l'organismo metabolizza in modo diverso dagli altri zuccheri. In realtà l'inulina non viene utilizzata dall'organismo per la produzione di energia. Questo fatto rende i carciofi molto salutari per i diabetici, perché l'inulina migliora efficacemente il controllo dello zucchero ematico nei diabetici.
A margine rammento che con il termine carciofo con linguaggio furbesco si indica una persona sciocca, incapace; tuttavia sono sconosciute le ragioni di questo strano collegamento semantico tra un ottimo, gustoso alimento quale è il carciofo ed una persona sciocca o incapace. Quanto all’etimo la voce carcioffola è una forma diminutiva (cfr. il suff. ola ← olus/ola) di carciofo che risale all’arabo kharshuf.
Raffaele Bracale
giovedì 30 ottobre 2014
VARIE 8338
1.SI 'O VALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA.
Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
2.À PERZO 'E VUOJE E VVA ASCIANNO 'E CCORNA.
Letteralmente: À perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi cerchi pretesti per litigare comportandosi come chi avendo [per propria insipienza] perduto cose di valore, ne reclami almeno piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
3.PURE LL'ONORE SO' CASTIGHE 'E DDIO.
Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
4.MADONNA MIA FA' STÀ BBUONO A NNIRONE
Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone. È l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso (anche se cattivo), piuttosto che l'imbelle democratico; con altra interpretazione, piú caustica, si ritiene che il popolo preferisca tenere in salute l'uomo forte e deciso (anche se cattivo),nel timore che, nel caso di decesso, lo sostitusca uno peggiore.
5.PE TTRECCALLE 'E SALE, SE PERDE 'A MENESTA.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle era una delle piú piccole monete divisionali napoletane pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale.Il cavallo oppure callo fu una moneta di pochissima importanza coniata in rame in piú valori (uno, due, tre, quattro, cinque, nove) dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito dal tornese), era la dodicesima parte di un grano napoletano. Dal 1814 passò, invece, a rappresentare la decima parte di un grano napoletano con un controvalore in lire italiane di 436 centesimi per cui il treccalle valeva appena 1 lira e 38 centesimi, una cifra veramente irrisoria!
6.S'È AUNITO 'O STRUMMOLO TIRITEPPE E 'A FUNICELLA CORTA.
Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e ballonzolante e lo spago corto. Id est: ànno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio.La voce tiriteppe (talora riportata come tiriteppola) è la riproduzione onomatopeica del rumore prodotto, nel suo vorticare da una trottolina scentrata e ballonzolante che non prilli secondo norma.
7.LL'AUCIELLE S'APPARONO 'NCIELO I 'E CHIAVECHE 'NTERRA.
Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. È la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunella sulla terra. Il termine: chiaveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale il termine originario fem.le: chiaveca [s.vo f.le [ dal lat. pop. *clavĭca, rifacimento di clavaca (in glosse), , per il lat. class. cloāca]. che è la cloaca, la fogna; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano per i napoletani, gli uomini detti chiaveche.Rammento che nell’espressione I [derivato dall’iberico Y] è una congiunzione usata, per evitare l’allitterazione, al posto della congiunzione E davanti all’art. m.le o f.le ‘E (gli/le) e solo davanti all’art. ‘E.
8.'E CIUCCE S'APPICCECANO I 'E VARRILE SE SCASSANO.
Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sopportano i soldati. Cosí va il mondo: la peggio l'ànno sempre i piú deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana à tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo pagano gli Achei...).
9. Â VVESSENTERÍA, NUN S' À DDA STREGNERE 'O FETICCHIO.
Letteralmente: Alla diarrea non si deve (opporre) il restringimento dell'ano. Id est: Non ci si deve opporre al naturale fluire delle cose, anzi, al contrario, occorre sapersi adattare alle circostanze, anche le piú spiacevoli.
10.'O TRUMMETTA D’’A VICARIA
Letteralmente: il trombetto della Vicaria. Id est: il propalatore di notizie, il divulgatore non desiderato di faccende altrui. In senso ironico: chi non sappia mantenere un segreto. La locuzione prende l'avvio da un personaggio veramente esistito in Napoli durante il periodo viceregnale, allorché - in mancanza di altri mezzi mediatici - per diffondere i pubblici bandi ci si serviva appunto di un banditore che girava la città e, fermandosi ad ogni cantonata, dava lettura dell'atto da comunicare dopo lo squillo di una tromba che serviva per richiamare l'attenzione degli astanti. Il trombetto è detto della Vicaria perché dalla Vicaria (sede dei tribunali della città) cominciava il suo lavoro il banditore.
11.A CCAROCCHIE, A CCAROCCHIE PULICENELLA ACCEDETTE Â MUGLIERA.
Letteralmente: con ripetuti colpi in testa, Pulcinella uccise la moglie. Id est: i risultati si ottengono perseguendoli giorno dopo giorno anche con reiterate piccole azioni. La carocchia è un colpo assestato sul capo con la mano chiusa a pugno mossa dall'alto verso il basso e con la nocca del medio protesa in avanti a formare un cuneo. Un singolo colpo non produce gran danno, ma ripetuti colpi possono anche ferire una persona e lasciare il segno.
12. GUAGLÚ, LEVÀTE 'O BBRITO!
Letteralmente: ragazzi, togliete il vetro... Id est: Ragazzi togliete di mezzo i bicchieri. È il comando che proprietari delle bettole o cantine dove si mesceva vino a pagamento, rivolgevano ai garzoni, allorchè si avvicinava l'ora di chiusura dell'esercizio, affinché ritirassero i bicchieri e le bottiglie usati dagli avventori. Per traslato, la frase viene usata quando si voglia far capire che si è giunti alla fine di qualsivoglia operazione e non si è intenzionati a cominciarne altra.
13. 'A CORA È 'A CCHIÚ BRUTTA 'A SCURTECÀ.
Letteralmente: la coda è la cosa peggiore da scarnificare. Id est: il finale di un'azione è il piú duro da conseguire, perché un po' per stanchezza, un po' per sopraggiunte difficoltà non preventivate, i maggiori ostacoli si incontrano alla fine delle operazioni intraprese. In fondo, anche i latini asserivano la medesima cosa quando dicevano: in cauda venenum (il veleno è nella coda).
14. 'O VALLO NCOPP' Â ‘MMUNNEZZA.
Letteralmente: il gallo sull'immondizia. Cosí, a buona ragione, viene definito dalla cultura popolare partenopea, il presuntuoso, il millantatore, colui che - senza particolari meriti, ma per mera fortuna o per naturale fluire del tempo - abbia raggiunto una piccola posizione di preminenza, e di lassú intenda fare il buono e cattivo tempo, magari pretendendo di far valere il proprio punto di vista, proprio come un galletto che, asceso un cumulo di rifiuti, ci si sia posto come su di un trono e, pettoruto, faccia udire i suoi chicchirichí.
15.ASPETTA, ASENO MIO, CA VÈNE 'A PAGLIA NOVA.
Letteralmente: Attendi (a sdraiarti), asino mio, ché è in arrivo la paglia nuova. È una locuzione usata quando si voglia indicare la inutilità di un'attesa o ironicamente quando si voglia minacciare qualcuno di un'imminente vendetta.Nella fattispecie il padrone dell’asino sa che non gli procurerà strame fresco e si prende gioco della bestia minacciandolo di percosse se non continuerà il lavoro e si abbandonerà al riposo.
16.'A GATTA QUANNO SENTE 'ADDORE D''O PESCE, MACCARUNE NUN NE VO’ CCHIÚ.
Letteralmente: la gatta quando avverte l'odore del pesce, di maccheroni non ne vuole piú. Id est: Quando l'uomo à la possibilità di metter le mani su quanto c'è di meglio, non si contenta piú dell'eventuale succedaneo, ma ambisce al meglio, in senso sia teorico che pratico.
17. A -CHI CHIAGNE FOTTE A CCHI RIDE.
B - 'O PICCIO RENNE
Letterealmente: A - Chi piange frega chi ride. B - Il pianto rende. Le due locuzioni appalesano gli ottimi risultati che si possono ottenere con la politica del pianto e del lamento che a lungo andare producono frutti per coloro che la perseguono e mettono in atto
18.CU LL'EVERA MOLLA OGNEDUNO S'ANNETTA 'O CULO!
Letteralmente: con l'erba morbida, ognuno si pulisce il sedere. Id est: chi dimostra di non aver nerbo e/o carattere diventa succube di chiunque ed è destinato, nella vita, ad essere soccombente in qualsiasi occasione e ad essere usato a piacimento degli altri.
19. SANTU MANGIONE È 'NU GRANNE SANTO.
Letteralmente: San Mangione è un gran santo. La locuzione fa riferimento ad un ipotetico, ma non per questo inesistente, San Mangione, ritenuto dal popolo napoletano il santo protettore dei corrotti e dei concussori, santo potentissimo capace di fare 14 grazie al giorno, addirittura una in piú di quel sant'Antonio da Padova, gran taumaturgo accreditato di 13 grazie al giorno.Con l'affermazione in epigrafe si appalesa la disincantata maniera di guardare alla realtà che è propria del napoletano, che - per averlo provato sulla propria pelle - è convinto che la corruzione e non altro, governi l'universo.
20.PE VULIO 'E LARDO, VASA 'NCULO Ô PUORCO.
Letteralmente: per desiderio di lardo, bacia il sedere del maiale. Lo si dice sarcasticamente a dileggio di chi, pur di ottenere anche un'inezia, è disposto alle piú disonorevoli azioni.
Brak
VARIE 8337
1 -TENÉ 'A CAZZIMMA
Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile.
Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo:
d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe.
2 -TENÉ 'A CIMMA 'E SCEROCCO
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
3 -TENÉ 'E CAZZE CA CE ABBALLANO PE CCAPA
Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini.
4 -TENÉ 'A MAGNATORA VASCIA
Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica, e ciò non per proprii meriti, ma per cause derivanti dall’appartenenza a famiglia facoltosa, o per esser sodali di amici e/o parenti munifici e comportarsi irresponsabilmente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese.
5 -TENÉ 'A NEVE DINT'Â SACCA
Ad litteram: tenere la neve in tasca ma meglio nel sacco. Detto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente una meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca.Va da sé che trattasi di un’espressione iperbolica attesa la impossibilità di poter realmente portare in tasca della neve o ghiaccio (basterebbe infatti il solo calore del corpo, per farli sciogliere…).
Questa riportata è la spiegazione che normalmente e popolarmente si dà dell’espressione e non è una spiegazione del tutto erronea: in realtà però piú precisamente la fretta e la dinamicità sottese nell’espressione son quelle dei cosiddetti nevari cioè degli addetti al trasporto della neve che prelevata nei mesi invernali in altura (Vesuvio, Somma, Faito, Matese e monti dell’Avellinese) veniva dapprima conservata in loco in grotte sottorranee dove gelava e poi all’approssimarsi dell’estate, stipata in sacche di iuta veniva trasporta velocemente a dorso di mulo nelle città e paesi per rinfrescare l’acqua e fornire la materia prima per la confezione dei gelati.
Da tanto si ricava che il termine sacca sta ad indicare non solo la tasca di un abito, quanto e qui piú acconciamente (con derivazione da un lat. parlato *sacca(m) femminilizzazione del classico lat. saccu(m), che è dal gr. sákkos, di orig. fenicia), un grosso recipiente di tela spesso cerata lungo e stretto, aperto in alto, usato per conservare o trasportare materiali incoerenti, o comunque sciolti. Il passaggio dal maschile sacco al femminile sacca si rese necessario perché – come ò piú volte annotato - in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella.Nella fattispecie la sacca di iuta era piú grossa d’un sacco di tela.
6 -TENÉ 'A PAROLA SUPERCHIA
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'ambito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
superchia agg.vo f.le del maschile supierchio = eccedente, superflua/o, eccessiva/o (dal lat. volg. *superculu(m), deriv. di super 'sopra' ).
7 -TENÉ 'A PÓVERA 'NCOPP' Ê RECCHIE
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - soltanto - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea, ,che usavano per agghindarsi gli antichi dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmenello (pederasta passivo); ques’ultimo, nel gergo della parlesia malavitosa fu detto anche fegàto/fecàto (chiara corruzione per semplificazione di fregato = posseduto carnalmente.
8 - TENÉ 'A PUZZA SOTT' Ô NASO
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
9 - TENÉ A UNO APPISO 'NCANNA o altrove PURTÀ A UNO APPISO 'NCANNA
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o altrove portare uno appeso alla gola Locuzioni simili, ma di significato opposto: positivo il primo e negativo il secondo; l’espressione di valenza positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; in quella di valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
10 -TENÉ A QUACCUNO APPISO ALL'URDEMO BUTTONE D''A VRACHETTA
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
11 -TENÉ A QUACCUNO 'NCOPP' Ê PPALLE
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
12 -TENÉ 'A SARÀCA DINT' Â SACCA o anche TENÉ 'A QUAGLIA SOTTO
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche averela quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe súbito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
13 -TENÉ 'A SCIORTA 'E CAZZETTA: JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
14 -TENÉ 'A SCIORTA D''O PIECORO CA NASCETTE CURNUTO E MURETTE SCANNATO
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
15 -TENÉ 'A SALUTE D''A CARRAFA D''A ZECCA
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, (la cui capacità era di litri 0,727) ampolla che marcata, tarata e conservata presso la Regia Zecca Napoletana era la unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
Brak
VARIE 8336
1. 'A NAVE CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,data dalla continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche,e fa dipendere il sostentamento dal cammino della nave per cui è piú opportuno tradurre (Quando) la nave va, la fava cuoce,id est: se gli affari progrediscono, il sostentamento è assicurato!
2. NCE VONNO QUATTO LASTE E 'O LAMPARULO.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è rappresentato da una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si gloria di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente e praticamente inutilizzabile.
3. JIRSENE CU 'NA MANA ANNANZE E N'ATA ARRETO.
Letteralmente: andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove aveva eseguito la cessio bonorum – in napoletano: zitabona -, aveva cioè poggiato le nude natiche su di una colonnina (posta innanzi al tribunale della Vicaria) a dimostrazione di non aver piú niente. La locuzione perciò significa e si usa per indicare chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di dichiararsi fallito o perdente e di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.
4. A - MIETTE MANO Â TELA
B - ARRICIETTE 'E FIERRE
Le due locuzioni indicano l'incipit ed il termine di un'opera e vengono usate nelle precise circostanze da esse indicate, ma sempre con un valore di sprone; sub A: metti mano alla tela, ossia, prepara la tela ché è giunto il momento di cominciare il lavoro. sub B: metti a posto i ferri, è giunta l'ora di lasciare il lavoro.
5. ESSERE 'NU/’NA SECATURNESE.
Letteralmente: essere un/una sega-tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo in cui circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
6. ESSERE 'NA MEZA PUGNETTA.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stanti le ridottissime capacità fisiche, intellettive e morali di cui si è provvisti, essendo (per furbesca iperbole) solo il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero. Il s.vo f.le pugnetta che indica appunto la masturbazione maschile, è una voce gergale costruita sul s.vo lat. pugnu-m addizionato di un suff. dim. f.le –etta.
7. ESSERE 'NA GALLETTA 'E CASTIELLAMMARE.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
8. 'E CURALLE – oppure ‘O CURALLARO - LL'À DDA FÀ 'O TURRESE.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese oppure il corallaio è lavoro da torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.
9. MO T''O PPIGLIO 'A FACCIA 'O CUORNO D''A CARNACOTTA
Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute già atte ad essere consumate o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di significare che ci si trovi nell'impossibilità di aderire alle richieste.
10. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
11. DICETTE 'O SCARRAFONE: PO’ FFÀ CCHIOVERE 'GNOSTIA COMME VO’ ISSO, MAJE CCHIÚ NIRO POZZO ADDEVENTÀ...
Disse lo scarafaggio: (il Cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
12. ABBACCA ADDÒ VENCE.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani.
13. DIO PERDONA, SANGIUANNE NO! Letteralmente: Dio perdona, il compare/padrino no! Ammonimento/avvertimento usato nei confronti soprattutto di minori, ma talora anche di adulti per tenerli avvisati a non comportarsi mai male con alcuno, ma in primis con il proprio compare/padrino di battesimo o cresima perché – nell’inteso popolare – il compare/padrino (sangiuanne) per solito è molto piú severo del Padreterno che, grandemente misericordioso, è aduso al perdono cosa estranea invece al compare/padrino (sangiuanne) con il quale bisogna sempre comportarsi bene. Come si evince da quanto détto, con il termine sangiuanne non si fa riferimento al san Giovanni apostolo, ma al san Giovanni Battista precursore del Cristo sia pure solo per mutuarne il nome proprio che agglutinato con l’apposizione “san” vien degradato semanticamente sino a farne un s.vo comune per indicare il compare/padrino di battesimo e/o cresima in memoria del fatto che san Giovanni Battista precursore del Cristo Lo battezzò sulle rive del Giordano.Il fatto poi che il compare/padrino (sangiuanne) venga inteso severissimo trova il suo fondamento nel reale comportamento di san Giovanni Battista precursore del Cristo che fu rigido, inclemente, duro, aspro, inflessibile, intransigente già con se stesso predicando la penitenza e vivendo in un deserto dove si cibava di locuste e miele selvatico.
Brak
ATALANTA – NAPOLI (29/10/14) 1 A 1 ‘A VEDETTE ACCUSSÍ
ATALANTA – NAPOLI (29/10/14) 1 A 1
‘A VEDETTE ACCUSSÍ
Sto’ smarrezzato (avvilito) guagliú! ‘Ncazzato e smarrezzato!E nun ce pozzo credere e ‘mmece ce aggi’’a credere: ce ànnu cantato, ce ànnu menato ‘a favetta e cce ànnu cuovete!Ajeressera a bBergamo n’ati dduje punte perze e mmenate malamente a mmare addó vincenno se fósse pututo apprufittà d’’a scunfitta d’’a juve, d’’a sampedoria e dell’udinese e d’’o pareggio d’’o milanno pe metterce ô terzo posto ca mo comme a mmo è ‘o mmeglio ca putimmo fà... E ‘mmece chi t’’o ddà? Chi t’’o ddà? Pariggiaimo sulamente e nnun fovemo capace ‘e sfruttà ll’accasiona avuta cchiú o meno ô nuvantesimo cu ‘nu ricore sacrusanto guadagnato ‘a Zapata, ma sbagliato dô Pipita. Pe nun parlà d’ati stuche (gol) fallute dê nuoste. Sto’ smarrezzato (avvilito) guagliú! Cca, doppo d’’a sbrasata fatta cu ‘o Verona, ce ànnu cantato, ce ànnu menato ‘a favetta e ce ànnu cuovete! Nun se po’ spiecà ‘e n’ata manera! E sàpato ce ll’àmm’’a vedé cu ‘a Roma ca à vinciuto e s’è ppiazzata cu ‘a juve ‘ncimma â crassifica.Abbiàmmo a ffà ‘e ccorne!
Passammo ê ppaggelle:
RAFAEL 5,5 – Nun tenette quase niente ‘a fà, ma oramaje nun riesce a ddà tranquillità â tràsera (difesa), pecché nun è attrezzato p’’e miracule. ‘Ncopp’ô stuco (gol) ‘e Denísso ca ancòra êv’’a signà ‘ncampiunato, sfarme (colpe) particulare nun ne tenette, ma nun pozzo fà a mmeno ‘e arricurdà ‘nu paro asciute a scampule ‘e mele cotte, pe ffurtuna ca ll’Atalanta nun ce credette!
MAGGIO 5,5 – Cu Cagliecónno ca ajeressera nun fove a ll’arribba (top) pure isso faticaje a ttruvà ‘a pusizziona e cquanno appressuraje (spinse) nun trovanno umunía (sintonia) cu ‘o spagnuolo abbiaje a cruzzà (crossare) a bbienetenne senza truvà mesura.
ALBIOL 4,5 - Ll’Atalanta nun trasette maje dint’â camma ‘e ricore cuana, ma una ‘e chelli grame vote ca succedette ‘o spagnuolo se perdette a Denísso ca nn’apprufittaje e cu ‘na cabbesera (colpo di testa) ‘ntuffo purtaje ‘nvantaggio ‘e padrune ‘e casa. Nun è ppussibbile: uno viecchio e scafato cierti ffessarie nun ll’à dda fà e nun s’à dda fà piglià da attacche ‘e cannavarite acuta.
KOULIBALY 6 - Avette poco ‘a fà, ma fove pruvvidenziale a anticipà a dDenísso quanno chisto servuto da Maxi Moralèzzo, êsse pututo fà ‘o dubblato (raddoppio) atalantese ‘ncopp’a ll’uno a zzero.
GHOULAM 6 – Se facette vedé raramente a ll’epata uffenziva (in fase offensiva) e ffove ‘nu peccato,pecché ògne vvota ca ll’algerino s’affacciaje annante ‘a tràsera (difesa) atalantese jette dint’ê chiavette; dô père suojo partette ‘o bbassurero (suggerimento) ca Cagliecònno sprecaje malamente!
(dô 90° Duván ZAPATA 6,5 Trasette e facette sentí súbbeto ‘o piso suojo cunquistannose ‘nu ricore, ca però ‘o Pipita se facette parà! ).
INLER 5,5 – Cu ‘a tràsera (difesa) atalantese nchiusa ‘o turco napulitano, braduso (lento) e cumplicato (macchinoso) faticaje a truvà ll’istiglia (verticalizzazione) justa.
David LÓPEZ 5,5 – Êsse avuto aiutà a Inlerro a ddà tassezza (velocità) a ll’azione, ma spisso fenette pe bluccarese cu ‘a palla ‘mmiez’ê piere frenanno ll’azziona uffenziva! (dô 75° JORGINHO 5, Piezzo e ppejo, scarte fruscio e ppiglie primiera: fósseno servute cchiú giometrie a ccentrocampo per ccercà ‘o stuco (gol), ma ‘o brasiliano non se vedette e nun se sentette.)
MERTENS 6 - Bbello a mmità.Ô primmo ajone (nel primo tempo) se capette a mmaraviglia cu mMarekiaro, crianno pure quacche ppericulo ‘a luntano pe Sportiello. A ll’arrancua (nella ripresa) però quanno s’êsse avuto ‘a mettere ‘o pero ‘ncopp’a ll’accelleratore ‘o bbelga se stutaje sbaglianno diverze pasiglie (passaggi) e cquacche ppusizziunamento. S’abbuscaje pure ‘nu cartellino jalizzo (giallo) pe simulazziona, ma nun s’’o mmeretaje pecché Stendardo overamente ll’êva tirato p’’a maglia e stiso addó ca Damato vedette o vulette vedé ‘na cosa pe n’ata; Aggiu ditto ca se stutaje però ô finale s’appicciaje n’ata vota e sfresaje (sfiorò) ‘o doje a uno.
HAMŠÍK 5,5 – Comme a mMertènso jucaje sulo ‘o primmo ajone ( primo tempo); a ll’arrancua (nella ripresa) nun se capette pecché rummanette fremmo e tuccaje sí o no tre pallune dint’ê primme vinte minute.(dô 65° INSIGNE 6,5 – Trasette e ppruvaje a ccagnà ‘a faccia d’’o fullè (della gara) dànno cchiú ttassezza (velocità) a ll’attacco d’’o Napule e rennennose periculuso cu cquacche cruzzo (cross) tagliato dâ trecquarte e cu cquacche cunchiusiona ‘a fora; ‘a cosa meglia fove chella ‘e custringere a cCigarini a ppigliarese ‘o siconno cartellino jalizzo [giallo]).
CALLEJÓN 5 – Che peccato! Serata no ‘e ll’ècchese Rialmadríddo ca fove svugliato e ‘mpriciso: avette subbeto ‘ncopp’ô pere a ccinquanta centimetre dâ linia ‘e porta sguarnita, ‘a palla ‘e ll’uno a uno e ffove crestiano, nun saccio comme, ‘e menarla ‘ncopp’ô travesagno (traversa) fallenno ‘na granna accasione;p’ ‘o riesto nun riuscette maje a ttruvà ‘a chésema justa (il varco giusto).
HIGUAÍN 6 Media ‘nfra otto e quatto: otto p’avé cu ‘na magaria miso dinto ‘o pallone d’’o pareggio e cquatto p’esserse fatto parà ‘o ricore ca ô nuvantesimo c’êsse pututo dà ‘e tre ppunte.
All. Rafael BENÍTEZ 6- ‘Sta vota, me pare, ca a ddon Rafele nun se ponno tirà ‘e rrecchie pe ‘stu pareggio: ‘o Napule facette ‘nu bbellu primmo ajone padrone d’’o campo e d’’a manovra, ma ll’ attaccante sbagliajeno pure ‘e ppalle-stuche (palle gol) cchiú ffesse. Pe gghionta ‘e ruotolo po Albiòllo cu ‘nu zzarro esaggerato cuncedette a ll'Atalanta l'unica accasiona e Denísso nun sbagliaje. ‘A riazione fove cratista (ottima) e ‘o Napule se fósse mmeretato ‘e vencere isso e ‘o ddio suojo, ma ‘o pareggio arrivaje troppo tarde e ‘o ‘o rigore prucurato ‘a Zapata ô finale e ca ce avesse pututo dà tre ppunte ‘mpurtante p’’o terzo posto, fove sciupato dô Pipita. Che se po’ ddicere a ddon Rafele? Niente! Forze sulo ca êsse avuto avé cchiú curaggio e sustituí a cCagliecònno ca nun fove ‘nserata, e êsse avuto lassà tirà ‘o ricore dicisivo a n’ato.
arbitro DAMATO 4,5 Vecchia carta canusciuta st’avvocato ‘e Barletta(e comme a ppugliese quase certamente tifoso juventino) è ‘nu chiafeo, fúceto e sciacqualattuca(incapace) e ati vvote addirittura vennuto!Turnato a diriggere ‘o Napule doppo paricchiu tiempe dê ‘nguacchie fatte precedentemente ‘ndanno d’ ‘o Napule, tentaje ‘e tutto pe dà fastidio ê cuane mettennose pe ‘mmiez’ê piere d’ ‘e napulitane custrette a scartà primma a isso e ppo ê jucature atalantise e nun vedenno ‘o juoco viulento e pruvucatorio d’ ‘e delinquente ‘e Colantuono, ausaje dduje pise e ddoje mesure; pe gghionta ‘e ruotolo nun siscaje, comme aggiu ditto, ‘nu ricore sacrusanto ‘ncuollo a Mertenso e addirittura ll’ammunette pe simulazziona... Dicimmo ca nun ‘o siscaje pe nun fà fà n’ata bbrutta fijura ô Pipita ca forze ll’êsse sbagliato.
E cu cchesto ve saluto e si dDi’ vo’ ve dongo appuntamento a ddummeneca ca vène. Staveti bbe’
R. Bracale Brak
mercoledì 29 ottobre 2014
DITALONI SAFRONATI CON CREMA DI RUCOLA
DITALONI SAFRONATI CON CREMA DI RUCOLA
ingredienti e dosi per 4 persone
4 etti di ditaloni rigati,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v. p, s. a f.,
2 etti di pancetta affumicati in cubetti das un cm. di spigolo,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
sale doppio un pugno,
3 bustine di zafferano,
pepe decorticato macinato a fresco q.s.,
2 etti di provola affumicata in cubetti di ½ cm di lato,
1 etto di pecorino grattugiato finemente,
Per la crema di rucola
12 fascetti di rucola piccante,
1/2 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
il succo filtrato di un limone non trattato,
1/2 etto di gherigli di noci,
½ etto di pinoli tostati,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Cominciare con l’approntare una morbida e spumosa crema di rucola mondando e lavando la rucola e tagliandone via i gambi troppo lunghi e meno teneri.
Una volta asciugata metterla in un mixer con lame da umido , con sale, pepe, 1/2 bicchiere olio d’oliva e.v.p. s. a f.,, un cucchiaio di aglio tritato ed il succo di un limone, frullare ed aggiungere a seguire proseguendo la frullatura i gherigli di noci ed i pinoli che, a nostro piacimento, avremo tostato piú o meno leggermente in una padella con un filino d’olio; tenere da parte la crema di rucola ottenuta.
Lessare al dente i ditaloni in abbondate (8 litri) acqua salata (pugno di sale doppio).Frattanto porre a fuoco sostenuto una capace padella con l’olio e farvi stufare la cipolla dorata, aggiungere la pancetta e farla rosolare a fiamma viva per cinque minuti; sgrondare bene i ditaloni e trasferirli nella padella con il fondo approntato, aggiungere un paio di cucchiai di crema di rucola e far saltare a fuoco vivissimo i dtaloni per circa cinque minuti, aggiungendo lo zafferano, stemperato con poca acqua di cottura della pasta e la dadolata di provola; cospargere con il pecorino, incoperchiare e lasciare stufare a mezza fiamma per circa 10 minuti. Approntare quattro fondine calde e distribuirvi a specchio la residua crema di rucola, impiattiare porzionati ditaloni stufati,cospargere con abbondante pepe decorticato e servire caldi fornelli questi gustosissimi, golosi ditaloni. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
VARIE 8335
ESPRESSIONI(47)
1.‘E RIPPE O ‘E RAPPE e DI RIFFE O DI RAFFE
Comincianmo col dire súbito che non è possibile tradurre letteralmente (se non in parte) in italiano l’espressione in quanto formata con due termini di cui solo il secondo e cioè rappe trova corrispondenza nei lessici italiani nelle voci: grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise di stoffe; il primo termine rippe non trova alcuna corrispondenza nei vocabolarî italiani in nessuna voce,né potrebbe trovarla, trattandosi di voce ricavata nel napoletano per bisticcio ed allitterazione con la successiva rappe (etimologicamente dal longobardo *krapfo→(k)rap(f)o→rappo/rappa= uncino). Ciò precisato do la spiegazione dell’espressione; essa è nata partendo proprio dal termine rappe legandovi, per stabilire una relazione , un fantasioso rippe ; l’espressione à però un suo compiuto significato che si può rendere con: in ogni modo, con qualsiasi espediente
in una maniera precisa o anche scorretta e cioè: sia che con la nostra azione scorretta (‘e rappe) si producano grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise, sia che invece si agisca in maniera corretta( ‘e rippe), occorrerà raggiungere lo scopo, puntando dritto al fine da raggiungere in ogni caso, magari alla carlona o – per dirlo in pretto napoletano – alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc.
Di riffe o di raffe
In coda ed a margine di tutto quanto ò scritto circa l’espressione napoletana: ‘e rippe o ‘e rappe (in ogni modo, con qualsiasi espediente) ricordo che in molti altri linguaggi regionali (Lazio, Marche, Toscana, Emilia etc.) ed piú in generale in tutto il territorio nazionale esiste l’espressione di riffe o di raffe che à all’incirca la medesima valenza dell’espressione partenopea e sta per in ogni modo, con qualsiasi espediente,ed anche con le buone o le cattive.
Ciò che vien da chiedersi è se le espressioni siano le stesse con morfologia alquanto diversa ed in caso positivo chi àbbia la primogenitura dell’espressione. Orbene giacché non esistono scritti di riferimento che possano attestare con sicurezza priorità natali, connubi e/o derivazioni fono-morfologiche e semantiche tra le due espressioni, non mi resta che ipotizzare qualcosa affidandosi alla logica ed al D.E.I. il solo che registri la voce riffa (deducendola la prima volta nel 1729 da Fagiuoli: Giovan Battista Fagiuoli (Firenze, 24 giugno 1660 – † ivi 1742) scrittore, poeta e drammaturgo italiano.))come agg.vo f.le di riffo ( litigioso, rissoso, prepotente). A voler dunque stare a credere al D.E.I. la voce negativa nell’espressione di riffe o di raffe dovrebbe essere riffe da intendersi non piú come agg.vo pl. f.le, ma come s.vo pl. f.le = litigi, risse, prepotenze e come voce negativa dovrebbe essa indicare le cattive della spiegazione con le buone o le cattive e conseguentemente la voce raffe dovrebbe essere voce positiva e valere le buone costringendoci, per esser precise a spiegare di riffe o di raffe = con le cattive ocon le buone e non con le buone o le cattive. Almeno la logica questo farebbe sospettare; epperò, epperò nel medesimo D.E.I. si trova registrata la voce raffa (anonimamente nel XIV sec.)= furto s.vo f.le deverbale di raffare verbo piú diffuso come arraffare= rubare (dal tedesco hraffo= strappo via) che costringerebbe a ritenere anche raffe pl. di raffa voce negativa e non positiva di talché di riffe o di raffe meriterebbe d’esser spiegata non con le buone o le cattive o con le cattive o le buone ma con le cattive o le cattive cosa che però non darebbe senso alla congiunzione disgiuntiva o . D’altro canto atteso che sia la voce riffe che la voce raffe nell’italiano non sono attestate altrove se non nell’espressione in esame mi permetto di dissentire dal D.E.I. e segnatamente dal prof. Carlo Battisti che curò le voci sotto la lettera R e ritenere che l’espressione in esame di riffe o di raffe non sia nata costruendola con voci esaminate (riffe = prepotenza e raffe = furto), ma che sia pervenuta dapprima nelle regioni limitrofe (Lazio) o vicine (Marche) e poi in tutto l’idioma nazionale quale calco adattato(p→f) della napoletana ‘e rippe o ‘e rappediventando nell’italiano di riffe o di raffe con la sostituzione dell’esplosiva labiale p con la consonante fricativa labiodentale sorda f forse ritenuta piú elegante ed adatta alla lingua nazionale, della popolaresca rumorosa p.
2.E PPOVERA VIGNA MIA, CHI COGLIE E MMAGNA!
L’espressione esclamativa in esame, da intendersi quasi ad litteram: Povera vigna mia (preda di) chi raccoglie e mangia (senza averne diritto) è un’espressione di rammarico che olim veniva colta sulle labbra di chi dovesse dolersi di veder le proprie sostanze reali [beni, denaro] o figurate [tempo, dedizione,affetto e/o amore] sprecate, se non dilapidate da congiunti prossimi o remoti o preda di profittatori ed opportunisti quando non speculatori ed addirittura avvoltoi, sciacalli adusi a trarre vantaggio dalla bontà o insipienza altrui al segno di spoliarlo saccheggiando e razziando nei suoi beni veri o figurati.
Va da sé che la locuzione nacque in àmbito georgico, rurale, rusticano, rustico con riferimento a tutti coloro che profittando di poter facilmente accedere in una vigna incustodita ne godessero dell’uva ivi ladronescamente raccolta.
pòvera agg.vo f.le =malagiata, meschina, misera, ridotta a mal partito voce dal lat. pop. pauper -a -um, per il class. pauper -ĕris, composto di paucus "poco" e parĕre "procacciare, produrre"; propr. "che produce poco" (detto, in origine, della terra).
vigna s.vo f.le =1 (in primis) terreno coltivato a viti, vigneto,pergola, pergolato. 2 (per metinomia anche) uva.
voce dal lat. vīnea, der. di vinum "vino".
còglie voce verbale 3ª p.sg. ind. pres. dell’inf. cògliere 1(in primis)tirare via dal terreno o da una pianta un frutto, spiccare, staccare, svellere dal terreno, sradicare,prendere, raccogliere. 2(figurato) trarre giovamento da una circostanza favorevole, da un'occasione, approfittare (di), avvantaggiarsi (di), giovarsi (di), sfruttare. voce dal lat. collĭgĕre.
magna voce verbale 3ª p.sg. ind. pres. dell’inf. magnare/magnà alimentarsi (con), assumere, cibarsi (di), ingerire, nutrirsi (di), assumere cibo, pappare, rifocillarsi (con), sfamarsi (con), sostentarsi...Etimologicamente forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
3. ‘E FIGLIE PRIMMA SE PORTANO ‘MBRACCIA, PO PE MMANO E PPO ‘NCOPP’Ê SPALLE!
Icastico monito partenopeo che guarda disincantatamente alla realtà qutidiana nella quale i figli dapprima si portano in braccio (quando siano piccolissimi), poi per mano (perché imparino a camminare) ed infine sulle spalle (da adulti, quando non riuscendo a far fronte ai problemi materiali e/o morali dell’esistenza, facciano ricorso all’aiuto dei genitori che si devono sobbarcare questa fatica che è poi la piú gravosa.
4.
4.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE alibi VIERDE VIERDE
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
teniente è il plur. di tenente = tenente(part. pres. del verbo tenere e non omofono ed omografo grado militare), e con l’iterativo teniente,teniente ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia e nell’iterazione quasi superlativa teniente teniente vale molto pronti, quasi duretti come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente tenente e teniente sono, come ò detto, il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'; anche con l’iterativo quasi superlativo vierde vierde (verdi verdi) ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia risultando cioé quasi acerba (verde) e non... matura; vierde ( dal Lat. viri°de(m), deriv. di virìre 'verdeggiare') agg.vo = verde, giovanile, immaturo e qui pronto, quasi duro.
5.'E MACCARUNE SE MAGNANO GUARDANNO 'NCIELO!
Sempre in tema di consigli teorici e pratici sul modo di assumere i maccheroni rammento l’antichissimo:
'E maccarune se magnano guardanno 'ncielo! Id est: i maccheroni si mangiamo tenendo il viso rivolto verso l’alto (con la bocca spalancata). E ciò ovviamente per favorire l’immissione nella medesima bocca di una piccola porzione di pasta che olim veniva prelevata dal piatto, tenuto in grembo,senza aggomitolarla con una forchetta ma con l’ausilio di pollice indice e medio, sollevata verso l’alto e di lí calata nella bocca. Ò parlato di espressione/consiglio antichissima perché essa nacque tra la fine del ‘700 ed i princípi dell’ ‘800 e tenne campo fino a tutto il 1870 quando con l’invasione piemontarda (coadiuvata dalle bande garibaldesche) e la fine del Reame delle Due Sicilie si dismise l’abitudine di mangiare per istrada la pasta venduta da maccaronari girovaghi che servivano di preferenza pasta a trafila lunga e sottile (vermicelli) lessata al dente, cosparsa di pecorino e pepe e consegnata a gli avventori in piccoli piatti di banda stagnata; tale pietanza dal costo di due grani fu détta ‘o doje allattante(in bianco) in quanto pasta semplicemente lessata; dopo l’avvento del masnadiero nizzardo accanto al doje allattante si prese a servire a richiesta una pasta non piú semplicemente lessata e guarnita di formaggio e pepe, ma condita altresí con una cucchiaiata di salsa di pomidoro e tale pietanza fu détta ‘o tre ccalibbarde in riferimento al rosso delle camície (in origine camisacci da lavoro usati dagli operai nei macelli d’Argentina)indossate, quale divisa, dalle bande garibaldesche ed il costo di détta pietanza fu appunto di tre grani.
Il grano napoletano fu una moneta di modicissimo valore corrispondente a 4,365 lire italiane;nel medesimo periodo vi fu una moneta détta tornese che corrispondeva al valore di due grani cioè a 8,73 lire italiane per cui con solo un tornese ci si poteva sfamare con un piatto di pasta in bianco, mentre con appena dieci lire ed ottanta si poteva consumare un piatto di vermicelli con sugo di pomidoro.
màgnano voce verbale 3ªpers. pl. ind. pres. dell’infinito magnare/magnà = mangiare etimologicamente magnare/magnà è forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
6. CCA SOTTO NUN CE CHIOVE!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto quelli di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
7. 'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con sarcasmo e/o dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere pretestuose che non portano a nulla di concreto.
8.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorché l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, almeno fino a che la scienza con i suoi marchingegni sòliti non provi il contrario, una sola cosa impossibile: la gravidanza maschile.
9.ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che partissero per primi coloro che andavano alla pesca del corallo.
10.AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
11. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.Altrove con identico significato si dice: Vulé fottere e sbattere ‘e mmane. Td est: voler coire sbattendo le mani cosa impossibile soprattutto per l’uomo nella posizione détta del missionario.
Piscià = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
gghí = andare; forma collaterale di jí che è dal lat. ire. fottere/ffottere = 1coire, congiungersi carnalmente possedere sessualmente; (assol.) avere rapporti sessuali | va' a farti fottere!, lo stesso che 'va' all'inferno, al diavolo'
2 (fig.) imbrogliare, raggirare, rubare:m’ànnu futtuto!( mi ànno fottuto) sono stato derubato ||| fotterse v. intr. pron. (volg.) infischiarsi di qualcuno o di qualcosa (usato per lo piú nella forma fottersene): se ne fotte ‘e chello ca fa (se ne infischia di ciò che fa.) il verbo napoletano è dritto per dritto dal lat. volg. *fottere, per il class. futuere
12. VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e si avverte allora l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
buscía (al pl. buscíe ) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia/menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
13. FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto piú di una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
14.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
15.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono... Una curiosità: Un tempo vi fu chi usava dire e forse piú acconciamente, come chiarirò: Attacca ‘o ciuccio addó va ‘o varrone id est: Lega l’asino sul lato del carro dove la stanga principale tende ad inclinare (affinché faccia acconciamente da bilancino e secondi la fatica del cavallo o mulo che sopportano il peso principale); successivamente visto che l’espressione non era intesa pienamente se non da gli addetti ai lavori di trasporto, essa fu mutata in quella assonante in esame che comunque ne stravolse alquanto il significato originario che connotava un esatto consiglio pratico ed efficiente.
16.A ‘NU PASSO DÔ CULO MIO, FOTTE CHI VO’!
Letteralmente: Ad un passo dal mio sedere, coisca chi vuole! Significativa locuzione esclamativa da intendersi: Faccia chiunque ciò che vuole, prendendosi il divertimento che piú gli aggrada purché agisca ad una distanza di sicurezza dal mio fondoschiena e non mi coinvolga (soprattutto come parte soccombente) in ciò che fa; id est: assicuro a chi voglia la sua libertà di azione,sino alla sodomia, alla truffa ed all’imbroglio purché mi tenga fuori dai suoi comportamenti e non mi danneggi!
passo s.vo m.le passo: 1 ciascuno dei movimenti alterni che si compiono camminando; 2 la distanza che si può coprire con un passo, assunta anticamente come unità di misura di lunghezza; per estens.come nel caso che ci occupa, breve distanza:
Voce dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'stendere, aprire';
dô = preposizione articolata corrispondente alla preposizione dal dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni; morfologicamente è formata dall’agglutinazione di da +l’articolo ‘o analogamente alla prep. art. ô formata dall’agglutinazione di a +l’articolo ‘o;
vo’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano, cosa che non è! Il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
fotte voce verbale (3ª p. sg. ind. pr., ma anche – come qui - congiuntivo pr. dell’ infinito fottere = coire, sodomizzare, possedere sessualmente; avere rapporti sessuali ma anche figuratamente: imbrogliare, raggirare deriva dal latino volg. *futtere, per il class. futuere.
Brak
FIOSSO & ALTRO
FIOSSO & ALTRO
Anche questa volta mi trovo a raccogliere un garbato invito del mio caro amico A.M.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che,memore ch’io abbia piú volte affermato che il napoletano sia se non piú preciso e circostanziato dell’italiano,certamente piú icastico mi à chiesto di esemplificare quella mia affermazione, cosa che faccio mettendo a confronto le voci italiane menagramo e fiosso con le corrispettive napoletane nell’intento di dimostrare appounto quanto il napoletano sia piú icastico e preciso dell’ italiano. Cominciamo con il termine menagramo s.vo ed ag.vo m.le e f.le Genericamente persona alla quale, soprattutto per il suo aspetto triste e tetro, si attribuisce (per superstizione o con intento scherz.) il potere di portare sfortuna; iettatore, iettatrice: voce etimologicamente composta di menare,(dal lat. minare) nel sign. di 'portare', e gramo (dal germ. *gram 'affanno, cordoglio'), cioè 'cose grame', misere, infelici; si tratta piú precisamente di una voce d’area lombarda, trasmigrata nell’italiano.
Alla voce menagramo il napoletano, piú acconciamente oppone il termine
crestariello/cestariello s.vo m.le di doppia morfologia[ al f.le -rella] 1 in primis gheppio, sparviero,falco grillaio 2 per traslato, come nel caso che ci occupa menagramo, iettatore( semanticamente in riferimento all’acutissima vista del rapace, capace di individuare di lontano la preda, come accade per il menagramo che anche di lontano, con una semplice guardata, riesce a colpire la malcapitata vittima dei suoi sguardi); si tratta etimologicamente di una voce derivata da un ant. francese cresserel a sua volta da un lat. med.le cristula. (cfr. D.E.I.).
E veniamo al secondo esempio; in italiano l’arco del piede, la parte della suola della scarpa che si congiunge al tacco e, in corrispondenza dell’arco del piede, rimane leggermente sollevata da terra è détto fiosso s.vo m.le dal lat. volg. *flŏssu(m), deriv. di fŏssŭla, dim. di fossa «fossa» come se quella parte fósse una fossetta.
Quanto piú icastico e preciso il napoletano che chiama fammice quella parte stretta del piede tra tallone e pianta, cioè quella parte della suola della scarpa, in mezzo fra il tacco e la pianta. e deriva il termine fammice dal lat. famex= ammaccatura atteso che il fiosso del piede è in realtà piú che una fossetta, quasi un’ammaccatura dell’arto inferiore.
Non mi pare ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico A.M. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
IETTATORE, MENAGRAMO & DINTORNI
IETTATORE, MENAGRAMO & DINTORNI
Anche questa volta mi trovo a raccogliere una garbata provocazione del mio caro amico A.M.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che,memore ch’io abbia piú volte affermato che il napoletano sia se non piú preciso e circostanziato dell’italiano,certamente piú icastico mi à sfidato ad elencare ed a parlare delle eventuali voci del napoletano che rendano piú acconciamente quelle italiane dell’epigrafe e dei loro sinonimi . Come ò già détto alibi e qui ripeto il caro amico – come diciamo dalle mie parti - m’ à rattato addó me prore (letteralmente: mi à grattato dove mi prude, id est: mi à sollecitato sul mio terreno preferito) per cui raccolgo pure questo guanto di sfida cominciando, come è mio solito, con l’esaminare dapprima le voci dell’italiano:
iettatore s.vo m.le [ al f.le -trice] persona che si ritiene eserciti influssi malefici; si tratta etimologicamente di una voce che l’italiano à marcato sul napoletano jettatore(che è un deverbale del lat. *iectare intensivo di iacere)
menagramo s.vo ed ag.vo m.le e f.le Persona alla quale, soprattutto per il suo aspetto triste e tetro, si attribuisce (per superstizione o con intento scherz.) il potere di portare sfortuna; iettatore, iettatrice: voce etimologicamente composta di menare,(dal lat. minare) nel sign. di 'portare', e gramo (dal germ. *gram 'affanno, cordoglio'), cioè 'cose grame', misere, infelici; si tratta piú precisamente di una voce d’area lombarda, trasmigrata nell’italiano.
malaugurio s.vo ed ag.vo m.le e f.le cattivo augurio; presagio infausto,détto di persona che si crede rechi sventura; voce etimologicamente composta da mal(o)+augurio (dal lat. auguriu(m) 'presagio').
Questi le sole parole, s.vi od agg.vi, usabili in italiano per indicare colui/colei che abbia il potere di portare sfortuna; piú preciso, circostanziato ed icastico il napoletano dove troviamo
jettatore/ghiettatore s.vo m.le [ al f.le -trice] Persona a cui si attribuisce il potere, anche con la sola presenza e contro la sua stessa volontà, di esercitare la iettatura, cioè di portare sfortuna, di far succedere guai: trattasi della medesima voce sulla quale è stata marcato il s.vo italiano iettatore; per l’etimo rimando a quanto ò già scritto; faccio qui però notare quanto sia piú accorta la grafia partenopea che in luogo della vocale i d’avvio usa la semiconsonante j atta a sostituire graficamente il digramma gh usato alternativamente in talune voci soprattutto verbali ( cfr. jammo/ghiammo – jenno/ghienno – jucà/ghiucà – jetteca/ ghietteca etc.) crestariello/cestariello s.vo m.le di doppia morfologia[ al f.le -rella] 1 in primis gheppio, sparviero,falco grillaio 2 per traslato, come nel caso che ci occupa menagramo, iettatore( semanticamente in riferimento all’acutissima vista del rapace, capace di individuare di lontano la preda, come accade per il menagramo che anche di lontano, con una semplice guardata, riesce a colpire la malcapitata vittima dei suoi sguardi); si tratta etimologicamente di una voce derivata da un ant. francese cresserel a sua volta da un lat. med.le cristula. (cfr. D.E.I.);
uocchiesicche oppure uocchie sicche Ad litteram:occhi seccati, o - meglio - seccanti,cioè: occhi capaci di seccar, prosciugare coloro contro cui vengon rivolti(ossia arrecar danno a qualcuno sino a prosciugarne i succhi vitali). Cosí, vengono chiamati i menagramo, gli jettatori, tutti coloro che con i loro sguardi sono ritenuti capaci di grandemente danneggiare qualcuno, non con azioni proditorie, ma semplicemente guardandolo.Si tratta di un sostantivo ottenuto attraverso l’agglutinazione funzionale del s.vo uocchie (pl. di uocchio dal lat. ŏculu(m)→uoclu(m)→uocchio) + l’agg.vo sicche (pl. di sicco dal lat. siccu(m).
seccia di per sé s.vo f.le, ma usato anche al m.le senza mutamenti morfologici; 1in primis mollusco marino dei cefalopodi, commestibile, a forma di sacco ovale e depresso, con bocca munita di tentacoli e provvisto di conchiglia interna; 2 per traslato come nel caso che ci occupa iettatore, malaugurio pericoloso capace (a mo’ d’una seppia che è solita, ma per difesa, lanciare spruzzi d’ un suo nero di cui è provvista con la sua azione malevola e proditoria di offuscare,scurire, rabbuiare l’esistenza di colui/colei contro cui agisca.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A.M. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
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