giovedì 16 ottobre 2014

VARIE 8290

1.ABBIARSE A CCURALLE. Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo. 2. AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE. Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne. 3. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA. Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire contemporaneamente due risultati utili, ma incompatibili fra di essi. 4. VE DICO 'NA BUSCÍA. Vi dico una bugia. E' il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e allora si avverte l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia... 5. FÀ 'O FRANCESE. Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe. 6.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA. Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti. 7. 'O PURPO S' À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA. Letteralmente: il polpo va fatto cuocere con la sola acqua di cui è pieno. La locuzione si usa quando si voglia commentare l'inutilità degli ammonimenti, dei consigli et similia, che non vengono accolti perché il loro destinatario, è di dura cervice e non intende collaborare a recepire moniti e o consigli che allora verranno da lui accolti quando il soggetto si sarà autoconvinto della opportunità di accoglierli. 8. ACQUA 'A 'NNANZE E VVIENTO 'A RETO... Letteralmente: Acqua da davanti e vento da dietro. È il malevolo augurio con cui viene congedato una persona importuna e fastidiosa cui viene indirizzato l'augurio di essere attinto di faccia da un violento temporale e di spalle da un impetuoso vento che lo spingano il piú lontano possibile. 9.ABBUFFÀ 'A GUALLERA. Letteralmente: gonfiare l'ernia. Id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno al punto di procurargli una metaforica enfiagione di un'ipotetica ernia. Si consideri però che in napoletano con il termine "guallera"(dall’arabo wadara) si indica oltre che l'ernia anche il sacco scrotale, ed è ad esso che con ogni probabilità fa riferimento questa locuzione. 10.TENÉ 'E GGHIORDE. Letteralmente: essere affetto da giarda, malattia che colpisce giunture ed estremità di taluni animali; le parti colpite si gonfiano impedendo una corretta andatura. La locuzione è usata nei confronti di chi appare pigro, indolente e scansafatiche quasi avesse difficoltà motorie causate da enfiagione delle gambe che appaiono come contratte ed attanagliate da nodi. In turco, con il termine jord si indica il tipico doppio nodo dei tappeti - da jord a gghiorde il passo è breve. 11.FARSE CHIOVERE 'NCUOLLO. Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze. 12.FÀ 'O CALAVRESE. Fare il calabrese,comportarsi come un calabrese ossia non mantenere la parola data, esser mendace e spergiuro..., atteggiamento tipico del calabrese che (non per cattiva abitudine, ma per paura) in un rapporto contrattuale [temendo di essere ingannato o vessato dalla controparte] – viene meno a quanto pattuito, per non incorrere in un cattivo mercato. 13.FARSE 'A PASSIATA D''O RRAÚ. Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale. 14.STÀ SEMPE 'NTRIDICE. Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo; ora poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che viene fuori l'espressione con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti... 15.ASPETTÀ CU LL'OVE 'MPIETTO. Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia; ugualmente quelle contadine erano solite porsi tra i seni le uova dei filugelli per affrettarne la schiusa e con essa la nascita di nuovi bachi che incrementassero la produzione di seta. 16.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE. La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento. 17.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rasségnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione nel quotidiano del militaresco: gli ordini non si discutono... 18.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari. teniente è il plur. di tenente = tenente(part. pres. del verbo tenere e non omofono ed omografo grado militare), e con l’iterativo teniente,teniente ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia e nell’iterazione quasi superlativa teniente teniente vale molto pronti, quasi duretti come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente tenente e teniente sono, come ò detto, il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'. 19.QUANNO 'A FEMMENA VO’ FILÀ, L'ABBASTA 'NU SPRUOCCOLO. Letteralmente: quando una donna vuol filare le basta uno stecco - non à bisogno cioè di aspo o di fuso.Id est: la donna che vuole raggiungere uno scopo, una donna che voglia qualcosa, è pronta ad usare tutti i mezzi pur di centrare l'obbiettivo, non si ferma cioè davanti a nulla... Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r. 20.'NU MACCARONE, VALE CIENTO VERMICIELLE. Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce realmente alla pietanza in sè. Sotto la figura del maccherone nella locuzione infatti 0 si adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità. 21.PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE 'NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE! Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga; a maggior cordoglio poi gli si augura di non trovare farmacie aperte in cui reperire medicamenti e/o linimenti ed imbattersi in medici affetti da ernie inguinali e pertanto lenti al soccorso. 22. AJE VOGLIA ‘E METTERE RUMMA: ‘NU STRUNZO NUN ADDIVENTA MAJE BBABBÀ È inutile aggiungere rum, uno stronzo non diverrà mai un babà. Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di agghindarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...; non potrà mai diventare buono gustoso ed appetibile come un babà, restando pur sempre la stomachevole cosa che è! Per legge naturale per quanto si tenti di edulcorarlo, uno stronzo non potrà mai trasformarsi in un dolce saporito come un babà; alla stessa stregua: per quanto lo si cerchi di migliorare, uno sciocco, un imbecille non potrà mai cambiare in meglio la propria sfavorevole natura; aje voglia ‘e locuzione verbale, in uso anche nella lingua italiana nella valenza di insistere inutilmente in un tentativo: ài voglia a (o di) strillare, tanto non ti sente nessuno, per quanto tu possa strillare, non ti sentirà nessuno; anche ellittico: ài voglia!: è inutile; mettere = mettere, porre, aggiungere, disporre collocare dal Lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere'; rumma = rum acquavite ottenuta per lo piú dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata.la voce inglese rum è derivata da rum- bustious 'chiassoso, violento', con allusione al comportamento degli ubriachi bevitori della suddetta acquavite; la voce napoletana rumma è coniata su quella inglese con una tipica paragoge, ma qui di una piena a finale (invece della consueta e semimuta) e raddoppiamemento espressivo della m etimologica fino a formare la seconda sillaba ma della voce rumma, come altrove tramme←tram,barre←bar etc. strunzo = stronzo, escremento solido di forma cilindrica e figuratamente persona stupida, odiosa etimologicamente dal longobardo strunz 'sterco'; addiventa =diventa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito addiventà = divenire, venire a essere, trasformarsi in derivato dal lat. volg. ad+ *deventare, forma rafforzata (vedi prep. ad) di quella intensiva deventare del lat. devenire = divenire; da notare la particolarità che la voce verbale a margine (indicativo presente) è resa in italiano con il futuro, tempo che – quantunque esistente nelle coniugazioni dei verbi napoletani – è pochissimo usato, preferendogli un presente in funzione futura o altrove costruzioni del tipo aggi’ ‘a = devo da; maje = mai, in nessun tempo, in nessun caso derivato dal latino magi(s)= piú con caduta della sibilante finale e della g intervocalica sostituita da una j di transizione e con paragoge della semimuta finale e al posto della i ; babbà = babà tipico dolce partenopeo ( tuttavia non originario in quanto pare importato a Napoli, sotto il regno di Ferdinando I di Borbone, da pasticcieri francesi (chiamati a Napoli da Maria Carolina e richiesti a sua sorella Maria Antonietta)che l’avevano mutuato da dolcieri polacchi che s’ era portato dietro nel suo esilio parigino il re Stanislao Leszczinski, re di Polonia dal 1704 al 1735.e che una leggenda, priva di supporti storici, vuole inventore - per puro caso - del dolce ) di pasta soffice e lievitata, intrisa di uno sciroppo al rum. La voce napoletana, con tipico raddoppiamento espressivo della seconda labiale esplosiva, è dal fr. baba→babbà, che è dal polacco baba '(donna vecchia')in quanto il dolce per la sua morbidezza ben s’addice alla bocca sdentata d’una vecchia! 23.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE. Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi. crianza s.vo f.le =creanza,compitezza,buona educazione, gentilezza; voce dallo sp. crianza, deriv. di criar 'allevare, educare', che è dal lat. creare 'creare' abbiasse voce verbale 3° p. sg. cong. imperfetto dell’infinito abbiare/abbià 24.PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO. Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa) 25.'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA. Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime. 26.'A GATTA, PE GGHÍ 'E PRESSA, FACETTE 'E FIGLIE CECATE. La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente. 27.FÀ 'E CCOSE A CAPA 'E 'MBRELLO. Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona. 28.CHI NUN SENTE A MMAMMA E PPATE, VA A MURÍ ADDÒ NUN È NATO... Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio. 29.È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO... Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese... 30.CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE. Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti. 31.LASSEME STÀ CA STONGO 'NQUARTATO! Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni. 32. SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con la prima espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a sproposito del proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore carmelitane del convento partenopeo detto Croce di Lucca ad imitazione del dolce détto santarosa elaborato dalle consorelle dell’omonimo monastero in Furore.Il Pintauro titolare di un’osteria aveva una sua vecchia zia monaca nel convento della Croce di Lucca e tale vecchia zia monaca gli forní, in articulo mortis, la ricetta della sfogliatella che l’oste rielaborò riconvertendo la sua osteria in pasticceria facendo cosí le sue fortune commerciali fabbricando quel dolce diventato poi famosissimo. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento della Croce di Lucca le cui monache avevano preso a produrre il dolce détto sfogliatella ad imitazione del dolce détto santarosa ideato dalle consorelle del monastero di Furore. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò forse in articulo mortis. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò addirittura piú famosa della consorella,cioè la cosiddetta “riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia. se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella. Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di dolci non freschissimi. sfugliatelle = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella. jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire. acito= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati. 33.CARCERE, MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE. Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici. 34.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO. Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere... 35.NISCIUNO TE DICE: LAVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME. Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti. Brak

Nessun commento: