martedì 31 marzo 2009

ANTIPASTO DI SEDANO

ANTIPASTO DI SEDANO

Ingredienti e dosi per 4 persone:
Sedano, 2 gambi
pecorino laticauda grattugiato,qs.
Latte ½ bicchiere,
Cognac o brandy, 2 cucchiai
Caciocavallo dolce grattugiato finemente 200 g
Sale e pepe, q.s.

Preparazione:
1.
Sciacquate e pulite il sedano eliminando le foglie e filamenti delle coste. Tagliate il sedano a pezzi di uguali dimensioni di 6 cm. circa. Metteteli su un vassoio.

2.
Lavorate con mezzo bicchiere di latte il caciocavallo con il pecorino . Allungate la crema con 1 cucchiaio di cognac o brandy, pepate ed eventualmente salate.
Ponete la crema in una tasca da pasticcere e mettetela a riposo per 1 ora in frigo. Utilizzate delle bocchette rigate e riempite le scanalature dei pezzi di sedano con la crema e servite.
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ANTIPASTO DI SALVIA E PROVOLONE

ANTIPASTO DI SALVIA E PROVOLONE

Ingredienti e dosi per 6 persone:
foglie di salvia lavate ed asciugate, 30
uova, 2
pangrattato, q.s.
provolone dolce, 100gr.
provolone piccante 100gr.
olio per friggereq.s.
sale, q.s.

Preparazione:
Sciacquate le foglie di salvia.
Asciugatele.
Sbattete le uova con un pizzico di sale.
Tuffatevi le foglie per 2 min.
Scolatele bene.
Passatele nel pangrattato.
Scaldate abbondante olio per friggere in un largo tegame.
Immergetevi le foglie di salvia.
Friggetele.
Fatele dorare.
Scolatele e passatele su carta da cucina.
Servitele con i due tipi di provolone tagliati a cubetti di cm. 1,5 di lato.
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FANNULLONE,BIGHELLONE etc.

FANNULLONE,BIGHELLONE etc.


Facciamo, questa volta un breve, veloce excursus dei termini napoletani che rendono quelli toscani dell’epigrafe:
- fannullone( che è propriamente la persona oziosa che non vuole e vorrebbe fare nulla, etimologicamente comp. di fa ( 3° p. sing.ind. pres. del verbo fare) e nulla, col suff. accrescitivo –one):
- bighellone (che è chi perde il suo tempo, andando in giro senza addivenire a nulla, etimologicamente accrescitivo (per il tramite del suffisso one di un antico bigollo o pigollo = trottola;
- sfaticato (chi si sottrae volontariamente e per scelta di vita al lavoro e alla fatica, , etimologicamente da fatica lat. volg. fatiga(m), deriv. di fatigare 'prostrare, stancare' con un prefisso s di tipo sottrattivo) ed altri consimili.
In napoletano abbiamo:
- funa fraceta id est: fune fradicia dunque inservibile e quindi inoperosa; l’aggettivo fraceta è per metatesi dal latino: fradicius dal verbo fracere=infradicire,
- francalasso che è propriamente il bighellone, colui che ozia andandosene in giro senza meta e/o scopo; etimologicamente formato, come il suo omologo michelasso, dall’addizione di un nome proprio (qui franco, là michele) e dell’aggettivo lasso che è dal lat. lassu(m); cfr. lassare = 'stancare'da intendersi in senso ironico ed antifrastico, atteso che chi non lavora, non può stancarsi; il perché di quei due nomi e non altri è ignoto,ma forse non gli è estraneo il fatto che in napoletano franco sta per libero, senza costrizioni e dunque senza impegni, mentre michele è usato nel senso duro, ma affettuoso di sciocco, inetto, una persona cui non si affiderebbe un lavoro o impegno, nel timore che lo mancasse;
- pierdetiempo che è esattamente il perdigiorno toscano; etimologicamente formato dall’unione della seconda persona (pierde) dell’ind. presente del verbo perdere che è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare' con il sostantivo tiempo= tempo; tiempo è, come il toscano tempo, dal latino tempu(s)ma con tipica dittongazione della sillaba breve d’avvio.
- sfatecato e sfacennato che sono l’esatto adattamento dialettale dei toscani sfaticato e sfaccendato; al primo abbiamo già accennato; il secondo: sfacennato è marcato su sfaccendato con sincope di una c, assimilazione regressiva n→d da un latino facienda particio futuro passivo di facere (cose da farsi ) con il prefisso sottrattivo s: senza cose da fare, id est: chi non à niente da fare;

Veniamo ora a ad altri termini partenopei che pur essi designano il fannullone, il bighellone e simili, ma non trovano somiglianza nel toscano; e sono
- scemiatore di per sé il finto tonto, il falso sciocco colui che per non ottemperare ad un quid richiestogli, fa l’indiano o come piú correttamente détto in napoletano fa ‘o francese dando ad intendere di non aver compreso, esimendosi perciò dal prestare la propria opera; ricorderò che fa ‘o francese ad litteram è fare il francese; id est: far vista di non intendere ciò che venga detto, fingere di non comprendere soprattutto quando il comprendere , comporterebbe il dover eseguire per es. un ordine ricevuto o comporterebbe il doversi applicare in azioni o operazioni faticose e perciò sgradite. La locuzione napoletana fà ‘o francese= fare il francese corrisponde all’incirca come ricordato, al fare l’indiano della lingua italiana; ma l’espressione napoletana è, per i napoletani, molto piú storicamente corretta di quella italiana , non risultando che i partenopei abbiano avuto grandi frequentazioni e/o rapporti con gli indiani sia delle Indie che delle Americhe, mentre ebbero molto a che spartire con gli invasori francesi coi quali si crearono grandi problemi di comprensione reciproca.
- scemiatore è un deverbale (attraverso il noto suffisso di scopo o fine: tore) di scemià che è il comportarsi come or ora cennato, ed etimologicamente è da un basso latino ex-simare,
- Stracquachiazze propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma qui estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno di turno,
- Strafalario esattamente lo scansafatiche inveterato, il fannullone patentato: parola che riproduce quasi in pieno lo spagnolo estrafàlario di medesimo significato.
Questo strafalario è parola che al mio orecchio suona molto bene e non nascondo che, innamoratomene, mi occorse di usarla talvolta in qualche compito, al tempo del liceo, in un contesto di lingua nazionale, accapigliandomene poi con il professore di lettere.


Raffaele Bracale - Napoli

CAZZIBOCCHIO/CAZZIMBOCCHIO/CAZZIBÒ

CAZZIBOCCHIO/CAZZIMBOCCHIO/CAZZIBÒ

Mi scrisse da Bologna il gentilissimo dr. Salvatore C. (al solito, per questioni di privatezza mi tocca evitare di indicare per esteso nome e cognome) per chiedermi cosa ne pensassi della sua idea che la voce napoletana cazzibò/cazzibocchio/cazzimbocchio possa avere una derivazione dal tedesco KATZENKOPF"(cioè a dire: ciottoli lavorati a testa di gatto). Gli risposi che, sulle prime, quella sua idea per un attimo fece traballare le mie precedenti certezze semantiche-etimologiche; ma il dubbio durò poco e si dileguò allorché presi in considerazione le due cose che qui di sèguito indico:
1) la forma del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò;
2) la morfologia della parola.
Vediamo:
1) il napoletano cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò, quanto alla forma, non è un ciottolo semisferico come il katzenkopf, né – d’altra parte – à forma di cubo come sbrigativamente si afferma di quel tal manufatto di porfido o basalto usato per pavimentare le strade, chiamandolo cubetto o quadruccio (cfr. sampietrino); in realtà il cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò à forma di tronco di piramide con base e vertice quadrati, forma che consente ai lastricatori di acconciamente infiggere tali manufatti su di uno spesso letto di sabbia e terriccio, seguendo esattamente l’andamento curvato a botte del piano stradale, facendo accostare i lati delle basi nei cui interstizi vien fatta colare della pece liquida per assicurare tenuta ed una sorta di impermeabilità alla strada cosí lastricata. Come si vede nulla che, per forma, possa appaiare il tronco di piramide del cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò napoletano con il ciottolo semisferico del katzenkopf tedesco.
2) altro importante ragione che mi spinge a non lasciare la via vecchia per la nuova è quella che investe la morfologia della parola in esame; in realtà morfologicamente, se si esclude una tenue assonanza tra cazzibò e katzenkopf non esistono chiari e documentabili passaggi morfologici linguistici per pervenire a cazzibò partendo da katzenkopf; la originaria voce espressiva, nata nell’àmbito dei lastricatori fu cazzibocchio (nata da cazzi + occhio con epitesi, per evitare lo iato, di una consonante eufonica (b) ottenendosi cazziocchio→cazzibocchio) poi a mano a mano trasformatasi per evidente aggiustamento fonetico in cazzimbocchio ed infine semplificata in cazzibò, ma in tutte e tre le forme (cazzibocchio – cazzimbocchio – cazzibò) è riconoscibile il richiamo osceno d’attacco (cazzo→cazzi) con riferimento vuoi alla forma (il tronco di piramide richiama – sia pure con molta buona volontà - l’organo maschile in erezione) del manufatto di pietra lavica, vuoi al fatto che allorché d’un oggetto non si conosca o non sovvenga con precisione il nome,nel parlato popolare, si adotta quello generico di cazzo (cfr. damme ‘stu cazzo lloco = dammi codesto oggetto di cui mi sfugge il nome!): ed è probabile che ciò sia avvenuto anche nel gergo dei lastricatori; è altresí riconoscibile nelle forme cazzibocchio – cazzimbocchio il suffisso diminutivo latino uculus→occhio suffisso che non è in alcun modo leggibile nel tedesco katzenkopf.
Mi auguro d’essere stato esauriente e d’aver convinto, sia l’amico S.C. che chiunque altro dovesse leggermi ad abbadonare, per ciò che riguarda i termini in epigrafe, pericolose strade... etimologiche!
raffaele bracale

SMARGIASSO & dintorni

SMARGIASSO & dintorni

Anche questa volta, con la voce in epigrafe ci troviamo difronte ad un’altra parola, che (come guaglione,guappo,sfogliatella, scugnizzo, camorra e derivati etc.) partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale dove è in uso nel suo significato di gradasso, spaccone,millantatore, insomma soggetto chi si vanta a sproposito, sbruffone che si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede.
I medesimi significati di gradasso, spaccone,millantatore, individuo chi si vanta a sproposito, sbruffone si riferiscono allo smargiasso dei vocabolarî della lingua napoletana dove accanto alla voce smargiasso, per indicare il gradasso, lo spaccone etc. si usano volta a volta le voci: favone, grannezzuso, rodamunno,sbardellone, sbafante, , spacca-e-mmette-ô-sole,squarcione mentre come già dissi alibi, il millantatore parolaio e saccente piú che con la voce in epigrafe è indicato con il termine spallettone.
Prima di esaminare le singole voci riportate, torniamo all’assunto e cioè che la voce smargiasso sia voce originariamente partenopea, poi trasmigrata nell’italiano. E dirò che, a mio avviso, l’origine napoletana di smargiasso è dimostrata da due fatti:
1) morfologicamente la parola è formata da un tema smargi con l’aggiunta di un suffisso dispregiativo asso; tale suffisso,con base nel lat. aceus (cfr. Rohlf “Grammatica Storica della Lingua Italiana e dei Suoi Dialetti”) è prettamente meridionale- napoletano; in italiano si trova nella forma accio o azzo; ragion per cui se la voce smargiasso fosse stata originaria dell’ italiano avremmo avuto probabilmente smargiaccio o smargiazzo non smargiasso quale che sia - e lo vediamo súbito - l’origine del tema su cui si è costruita la parola in epigrafe;
2) etimologicamente la voce smargiasso, scartata un’ipotesi che congettura una derivazione (a mio avviso molto tortuosa e fantasiosa) dallo sp. majo 'spaccone', con protesi di una esse intensiva, epentesi di una erre (eufonica?)- e con suff. peggiorativo, penso debba derivare o dall’aggettivo greco màrgos=protervo, arrogante oppure dal verbo smaragízein = risuonare, rimbombare. È pur vero che sia nel caso dell’aggettivo che in quello del verbo manca l’intermedio del latino, ma ciò è tutta acqua al mulino del mio assunto che cioè la parola smargiasso sia d’origine partenopea; infatti se fosse esistito l’intermedio del latino culla e madre della lingua italiana e di tutte lingue regionali..., la parola sarebbe potuta nascere in un punto qualsiasi dello stivale, ma generata direttamente dal greco (che, classico e/o bizantino, fu lingua parlata nella Magna Grecia dove spesso si uní alle parlate locali) mi conferma nell’ipotesi che la parola smargiasso sia d’origine napoletana.
Ciò chiarito passiamo ad esaminare brevemente sia le parole dell’italiano, che quelle del napoletano rese dalla voce che ci occupa.
gradasso: vanaglorioso, chi si vanta di fare cose eccezionali, senza averne la capacità derivato (piuttosto che dal lat. gradus, come poco convincentemente propose qualcuno) per degradazione semantica dal nome proprio di Gradasso, vanaglorioso personaggio dell'«Orlando Innamorato» del Boiardo e dell'«Orlando Furioso» dell'Ariosto;
spaccone di significato simile al precedente; per l’etimo si tratta di un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) deverbale di spaccare: spezzare, dividere in piú parti; a sua volta spaccare è dal longob. *spahhan 'fendere';
millantatore il termine indica chi in genere si vanti o vanti qualità o meriti che non à ed etimologicamente è un deverbale di millantare id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi, vanagloriarsi;
sbruffone che è chi si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede o chi racconti di imprese esagerate menandone vanto; etimologicamente sbruffone è un deverbale di sbruffare voce onomatopeica che indica in primis l’emettere dalla bocca e/o dal naso spruzzi di liquidi fisiologici, come può accadere a chi per vantarsi di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede, apra continuamente ed esageratamente la bocca provocando quegli spruzzi;
favone è propriamente il gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente; etimologicamente penso che, piú che al latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson appaiare le vuote parole emesse dal vanaglorioso, saccente favone;
grannezzuso che in primis è altezzoso,altero, e per estensione vanaglorioso, millantatore etc. l’etimo è dall’agg.vo granne ( lat. grande(m)→granne)attraverso il sost.vo grannezza;
rodamunno, chi si vanta con arroganza di imprese straordinarie o veramente affronta imprese rischiose, ma solo per ostentare la propria forza e bravura; spaccone, smargiasso; per quanto riguarda l’etimo la parola a margine è una sistemazione regionale, per degradazione semantica di un nome proprio e ciè di Rodomonte, personaggio dell'«Orlando Furioso» di L. Ariosto (1474-1533), dotato di straordinaria forza e audacia;
sbafante, letteralmente vanitoso, vanaglorioso, aduso alla spacconeria; l’etimo della parola è da ricercarsi in una serie onomatopeica ba... fa... da collegarsi all’espirazione ed all’apertura di bocca di chi ecceda nel parlare per vantarsi; alla serie ba,fa è premessa una esse durativa ed un suffisso ante che lascia sospettare un participio presente d’uno sbafare=vantarsi e per amplimento semantico sfiatare, sfogare;
sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso accrescitivo one) ridondante vanesio ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo che è un deverbale d’un bardellare = porre la bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita protesi della esse che qui non è intensiva, ma distrattiva, per significare proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
spacca-e-mmette-ô-sole, letteralmente vale spacca-e-pone-al-sole che indicherebbe di per sé l’azione di quei contadini che raccolti i pomidoro li spaccano (aprono in due ) e li pongono al sole perché si secchino; per traslato giocoso indica il comportamento dello spaccone (cfr. antea);
squarcione letteralmente vale la voce precedente (spaccone) di cui mantiene il suffisso accrescitivo one mentre cambia la radice: lí spacca da spaccare, qui squarcia da squarcià di significato simile a spaccare e con etimo dal lat. volg. *ex-quarciare variante di *ex-quartiare= dividere in quattro;
- spallettone: eccoci a che fare con l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli degli altri , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in forza della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!, e lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli non richiesti che – il piú delle volte- comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî della lingua napoletana, adusi a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia estremamente perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è semanticamente al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione regressiva della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.
E qui circa il termine smargiasso penso di poter far punto, rimandando, per altre voci che avessi omesso, a ciò che alibi scrissi sotto il titolo Chiacchierone.
Raffaele Bracale

lunedì 30 marzo 2009

MANNAGGIA Ô PATATURCO

MANNAGGIA Ô PATATURCO



Cominciamo con una precisazione di carattere linguistico dicendo che l’espressione in epigrafe va correttamente scritta in napoletano non MANNAGGIA ‘O PATATURCO, ma (cosí come riportato): Mannaggia Ô PATATURCO, dove la ô sta per a +lo/ a + il= al atteso che l’espressione va tradotta come male ne abbia il Padre de’ turchi ed in napoletano, come ebbi a dire alibi, il complemento oggetto (il Padre de’ turchi, ‘o Pataturco) allorché sia persona o soggetto animato (come nel caso in esame) va introdotto da una A segnacaso che è residuo di un latino parlato ( ad es.: aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre oppure aggiu ‘ntiso ô cane= aggiu ‘ntiso a ‘o cane = ò sentito il cane), ma (aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere.) Ciò precisato entriamo in medias res e diciamo che nel significato corrente, la voce mannaggia non risulta essere una corruzione di madonnaccia, come qualcuno erroneamente pensa, ché se così fosse mannaggia sostanzierebbe una gravissima bestemmia, laddove essa risulta essere invece solo una contenuta esclamazione di rabbia e/o stizza o imprecazione rivolta contro qualcuno (mannaggia a tte!) o qualcosa (mannaggia â morte!) e sta per accidenti a, perbacco!, maledizione a..., ovvero "male ne abbia colui o la cosa contro cui è diretto il mannaggia.
Etimologicamente il termine mannaggia è appunto una deformazione ( per una sorta di sincope e fusione interna con raddoppiamento espressivo popolare della nasale N) della frase: ma(le) n(e) aggia→ mannaggia= male ne abbia.
Esiste poi una variazione piú letteraria che del parlato popolare di mannaggia ed è malannàggia, ma è meno che niente usata.
E veniamo alla completa espressione dell’ epigrafe : MANNAGGIA Ô PATATURCO; essa, come ò accennato, va tradotta male ne abbia il padre de’ turchi, accidenti al padre etc. e risulta essere una eufemistica imprecazione usata per non scivolare, col discorso, (si pensi ad una possibile assonanza di Pataturco con altro Padre) in una becera bestemmia (che evito di scrivere!...).
Per vero in origine (1915 circa) l’espressione in epigrafe non fu mannaggia ô Pataturco, ma MANNAGGIA Ô PATATUCCO e solo in seguito, portata a Napoli dai fanti reduci della grande guerra si corruppe in mannaggia ô Pataturco sostanziando l’imprecazione eufemistica usata per non pronunciare una grave bestemmia.
Ma cosa c’entra il patatucco coi fanti reduci della grande guerra?
E c’entra giacché l’originario patatucco ( derivato dalla fusione di patat(a) + (cr)ucco) designò nel nord est dello stivale una sorta di giocosa offesa rivolta contro i soldati austro-tedeschi considerati sciocchi e minchioni adusi a mangiar patate, da cui l’attacco patata di patatucco, mentre la voce crucco donde la seconda parte di patatucco fu il nome dato dai soldati italiani a quelli tedeschi durante la prima e poi la seconda guerra mondiale; all'orig. era appellativo dato agli slavi, derivato dalla voce serbo-croata kruh 'pane'. La voce patatucco fu recepita dai militi napoletani che usarono addizionarla al loro tipico mannaggia per insolentire i soldati nemici; quando poi i reduci tornarono a Napoli, portandosi dietro quel loro mannaggia ô patatucco= accidenti al tedesco, il popolo napoletano che non aveva avuto dimestichezze belliche con il crucco ed il patatucco corruppero per assonanza questo patatucco con un piú perseguibile Pataturco ( non dimentichiamo che i partenopei avevano avuto dimestichezza con turchi o intesi tali (saraceni)) voce comunque derivata da un pate(padre)+ Ataturk (Mustafa Kemal Atatürk che fu il fondatore (padre) e primo presidente della Repubblica Turca (dal 1923 al 1938). )Nel caso del napoletano Pataturco non si fa riferimento al menzionato Ataturk - Padre de’ turchi, ma piú estensivamente al profeta Maometto.
Va da sé che legando mannaggia a Pataturco i napoletani furbescamente sostanziarono quell’imprecazione eufemistica di cui ò detto usata per non bestemmiare. Ed il fatto che nell’espressione in epigrafe ci sia una corruzione di un originario Patatucco in Pataturco e non viceversa, e che la voce Pataturco non sia perciò da collegare a quel Mustafa Kemal Atatürk fondatore (padre) e primo presidente della Repubblica Turca si ricava dal fatto che il termine Patatucco poi corrotto in Pataturco è presente nei testi napoletani molto prima del 1923 a far tempo cioè dalle opere di Gabriele Quattromani (NA 1802 - †1877) che spessissimo usò la voce patatucco come sinonimo di minchione, sciocco, mammalucco.
raffaele bracale

NTRILLAVALLÀ (PASCA ‘E GIOVERÍ).

NTRILLAVALLÀ (PASCA ‘E GIOVERÍ).
Caratteristica espressione modale partenopea, intraducibile ad litteram, che si usa a sapido commento negativo di situazioni in cui qualcuno si sia espresso malamente ed a sproposito, mettendo erroneamente in relazione cause ed effetti totalmente incongruenti tra di loro, o si sia abbandonato ad affermazioni notoriamente non veritiere e/o possibili; a questo tale s’usa rispondere anche con la la sola prima parte dell’espressione in epigrafe e cioè con il solo ntrillavallà! già sufficiente (anche senza l’aggiunta dell’esemplificativo pasca ‘e gioverí ) a bollare di marchiana illogicità o di assoluta incongruenzal’espressioni o le affermazioni d’un tal soggetto.
Ò detto che l’espressione in epigrafe è praticamente intraducibile, epperò ne tenterò comunque una sorta di traduzione/spiegazione cominciando con il dire che in lingua napoletana i punti (piú o meno lunghi) d’imbastitura (cucitura provvisoria per riunire due lembi di un tessuto e preparare la traccia della cucitura definitiva ), imbastitura preparatoria che sartine e sarti usano quando approntano le loro confezioni, per esser punti eseguiti con gugliate di refe scadente e di poca tenuta (l’imbastitura infatti non necessita di durevole tenuta in quanto va eliminata appena le cuciture, eseguite,successivamente, con gugliate di refe di cotone pregiato o di seta diventino definitive) sono detti ntrillante quasi che (con riferimento alla rapidità, vicinanza e brevità di detti punti) essi fossero dei trilli ( ad es.:di campanelli); ( va da sé che, morfologicamente, la voce ntrillante risulta essere un part. presente di un verbo ntrillare=imbastire con gli ntrillanti con etimo di tipo onomatopeico; si noti che la n protetica di un originario trillare= produrre, generar trilli, è una n eufonica non generata da un (i)n illativo ( cfr. alibi nc’è per c’è) e pertanto non necessita di alcun segno (‘) d’aferesi iniziale.
L’originario trillare addizionato della protetica n eufonica, divenuto perciò ntrillare finí per significare non piú produrre, generar suoni trillanti ma imbastire, per cui nello ntrillavallà si può riconoscere una sorta di agglutinazione tra l’imperativo va’ (vai) l’avverbio di luogo lla (là) e l’infinito ntrilla(re)(imbastire), quasi nel significato di: va’ ad imbastire altrove (questi tuoi incongruenti, errati punti dati a casaccio ed a sproposito ed in maniera errata) come a sproposito ed in maniera errata si esprime chi dicesse ad es. che Pasqua cade di giovedí (pasca ‘e gioverí) quando non v’è chi non sappia che la Pasqua cade sempre, indefettibilmente di domenica!
raffaele bracale

PÉTTOLA o PÉTTULA

PÉTTOLA o PÉTTULA

Illustro qui brevissimamente la parola partenopea: péttola o péttula
Dirò súbito che con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con i medesimi termini, si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del mattarello (e non matterello che è un dialettismo romanesco) con il quale su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; per traslato, con i termini in epigrafe, si indica una donnaccia o anche una donnetta ciarliera e petulante; ancóra: con il diminutivo:pettulella che stranamente è inteso maschile ‘o pettulella ci si suole riferire all’impenitente dongiovanni, al femminiere aduso a perennemente correr dietro le gonne femminili, mentre con 'o pettulella ‘e mammà ci si riferisce ad un uomo, che a malgrado dell'età raggiunta, non si decide ad abbandonare le gonne materne anzi la falda della camicia della sua genitrice o l'ala protettiva di mammà!Ed oggi, a ben vedere, è la consueta situazione attuale quando la stragrande maggioranza dei giovani non intende metter su famiglia, abbandonando la casa dei genitori ed anche quando lo fa, resta legata a filo doppio con la propria genitrice dimostrando che ci si trova indefettibilmente davanti a dei pettulelle ‘e mamma!
Ciò detto, passiamo all'etimologia del termine péttola/péttula.
Cominciamo col dire che la radice pat che pure dà vita a parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti l’azione del distendere, allargare etc., non si può riferire alla pettola/pettula ;ciò è in tutti i testi da me compulsati al riguardo.
Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la pettola!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la pettola/pettula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda.
Raffaele Bracale

PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.

PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.
Letteralmente: prender bava (cioè boriarsi) e porsi in guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, saccenti e supponenti, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri (sottoposti e/o conoscenti) il loro modo di veder le cose, se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagía sul nulla.Tale vacuo atteggiamento è spesso proprio di coloro che soffrono di gravi complessi di inferiorità e che nella loro vita familiare non son tenuti in nessun cale ed in alcuna considerazione (cosa che fa aumentare nel loro animo esacerbato un senso di astio nei confronti dell’umanità tutta, di talché – appena ne ànno il destro - sfogano astio e malumore sui poveri sottoposti e/o conoscenti che però, ovviamente, si guardano bene dall’accettare o addirittura dal considerare ciò che i boriosi saccenti tentano di esporre o imporre.
bòria s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti; altezzosità; l’etimo è forse dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)', ma un’altra scuola di pensiero pensa ad un forma aggettivale (vapòrea) da un iniziale vapor=vapore;non mi so decidere a quale idea aderire.., ma molto mi stuzzica l’idea del vapore secondo il percorso vapòrea→(va)pòrea→pòria→bòria;
albagía s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia. l’etimo è molto controverso; a parte il solito pilatesco etimo incerto (che mi dà l’orticaria...) qualcuno propone una derivazione da alba nel senso di vento dell’alba; qualche altro (ed a mio avviso forse piú esattamente) vi vede un denominale del lat. albasius sorta di abito bianco indossato dalle persone altezzose: albàsius avrebbe dato albàsia e poi albasía→albagía adottando il suffisso tonico greco ía proprio delle voci astratte e dismettendo il corrispondente suff. latino atono ia;
vàvia s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia, superbia, arroganza, tracotanza, prosopopea, spocchia; sufficienza, sussiego; la voce a margine è un derivato di vava (bava)= liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o di persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica come càpita in chi viva uno stato continuo di superbia tracotante; etimologicamente la voce a margine si è formata partendo da *baba, voce onom. del linguaggio infantile voce che in napoletano, con consueta alternanza b/v (cfr. bocca→vocca – barca →varca etc.), diventa vava ed aggiungendovi il suffisso atono delle voci astratte ia ottenendo vàvia; si fosse adottato il suff. greco si sarebbe ottenuto vavía;
guarnasciones.m.=guarnaccia,
elegante sopravveste medievale ampia e lunga,bordata di pelliccia portata soprattutto dagli uomini di riguardo; in realtà la voce a margine è un accrescitivo (cfr. il suff. one) formato partendo da un originario ant. provenz. guarnacha, che fu modellata sul lat. gaunaca(m) 'mantello di pelliccia'
raffaele bracale

SCARTILOFFIO/A

SCARTILOFFIO/A
Ci troviamo questa volta a parlare di due parole, l’una maschile, l’altra femminile, che fan parte del fiorito ed icastico linguaggio partenopeo, ambedue nell’originario significato di atto, manovra truffaldini tesi a raggiunger lo scopo di affibbiare, per solito a stranieri, carta straccia in luogo di buona carta mnoneta; estensivamente poi ogni atto o manovra truffaldini operati in danno di sprovveduti, disattenti, incolti, creduloni che facilmente si lasciano raggirare ed imbrogliare.
Storicamente le voci in epigrafe nacquero tra il finire del 1700 ed i principi del 1800 a Napoli, al tempo delle frequentazioni di viaggiatori stranieri che accorrevano a visitare le città centro meridionali e nacquero nell’ambito della camorra (setta di malviventi che uniti in consorteria tentano di procacciar con ogni mezzo lecito, ma più spesso illecito, guadagni e benefici ai propri membri; etimologicamente corruzione ed adattamento del termine spagnolo gamurra che, a sua volta è da chamarra = abito di foggia iberica preferito dalla peggior risma di lazzaroni partenopei) che, per il tramite di suoi adepti, gestiva a suo pro quell’antico fenomeno turistico; non è che il trascorrer del tempo abbia fatto cambiar molto le cose; attualmente a Napoli, ma ugualmente in altre città centro-meridionali le vittime preferite degli scartiloffisti che sono ovviamente coloro che praticano lo scartiloffio, sono pur sempre i turisti o i derelitti cafoni e/o pacchiani, cioè gli sprovveduti provinciali che giungono in città divenendo, a loro malgrado, súbito preda di furbi lestofanti truffatori che li raggirano ed imbrogliano; e ciò avviene non perché i cittadini stanziali siano piú furbi o svelti dei cafoni o dei pacchiani, ma solo perché i cittadini ben conoscono di quali infidi panni vestono i truffatori che si aggirano per piazze, vicoli e stazioni della città ed accuratamente tentano di evitarli e tenersene lontani.
Torniamo alle parole in epigrafe e vediamone un po’ l’etimologia, per la ricerca della quale non bisogna mai dimenticare il significato originario di scartiloffio/a che è la truffa tesa ad appioppar carta straccia in luogo di buona cartamoneta; ordunque:
Scartiloffio/a addizione del sostantivo scartoffia piú l’aggettivo loffio/a;
Scartoffia : voce gergale forse nordica, per indicare una carta da giuoco senza valore, una cartina;
Loffio/a: letteralmente frollo, cascante, molle e quindi scadente, inutile; etimologicamente da un ant. tedesco: slapf→slaf, ma non gli sarebbe estraneo il latino labi da cui il toscano labile =inconsistente.
Si comprende facilmente che una scartoffia che sia anche loffia rappresenti quanto di peggio possa capitare ad un povero turista o ad un provinciale che approdi o giunga nella nostra città o in cento altre città d’arte del centro-meridione; rammenterò – per chiudere in … allegria - l’incipit del film Guardie e ladri in cui lo scartiloffista Totò si dedicava ad una particolare forma di scartiloffio: l’appioppare ad un credulo turista americano una grossa patacca che è una ovviamente falsa moneta antica di grosse dimensioni il cui nome è dall’arabo bataqa attraverso lo spagnolo pataca.
Raffaele Bracale

UN’ANTICA PAROLA NAPOLETANA: SCAMUSO

UN’ANTICA PAROLA NAPOLETANA: SCAMUSO
Antico, icastico aggettivo napoletano presente in tutti i dizionarii d’antan dal D’Ambra al P.P.Volpe all’Andreoli e negli scritti di autori dal ‘600 alla fine dell’ ‘800 e poi non piú riscontrato negli autori piú moderni, sebbene ancóra vivo nel parlato soprattutto del popolo della città bassa, aggettivo riferito con piccole differenze sia a soggetti animati che inanimati;
I Riferito a soggetti animati e piú precisamente a persone significa in italiano: rozzo, grossolano, rustico,grezzo e per ampiamento semantico si disse di persona magra ed allampanata;
riferito a cose inanimate(stoffe e/o oggetti ) vale nell’italiano: ruvido,squamoso,irto; riferito infine a negozio o bottega indica un locale rustico,malmesso,trasandato.
Prima di soffermarci su scamuso
esaminiamo i singoli significati dell’italiano:
rozzo: agg. 1 si dice di cosa ancora ruvida, non ben levigata o rifinita: pietra rozza; lana rozza, grezza; muro rozzo, non intonacato | (estens.) non finito di lavorare, ancora in abbozzo: mobile, disegno rozzo
2 (fig.) non ingentilito, non raffinato, non dirozzato: un uomo rozzo; parole rozze; una civiltà ancora rozza | sgarbato, maleducato: avere modi molto rozzi
deriva dal lat. volg. *rudius, compar. neutro di rudis; cfr. rude;
grossolano: agg. 1 poco fine, di esecuzione poco accurata; ordinario, dozzinale: una stoffa grossolana; un lavoro grossolano
2 approssimativo, non preciso: un conto grossolano
3 di modi volgari e poco raffinati, di scarsa educazione: gente grossolana; un uomo grossolano; tenere un comportamento grossolano ' scherzi grossolani, volgari, di cattivo gusto | errore grossolano, enorme, marchiano;
derivato dal lat. tardo grossu(m) + il suff. di pertinenza aneus→ano ed epentesi eufonica del suono consonantico l;
rustico: agg. 1 di campagna: fondo rustico | stile rustico, che arieggia quello campagnolo | pizza rustica, pasticcio ripieno di formaggi, carne, salumi e aromi vari
2 (fig.) riferito a persona, poco socievole, scontroso, rozzo: un uomo dal carattere rustico; avere modi rustici | (estens.) semplice, alla buona: una cena rustica
3 detto di cose, grezzo, non rifinito: facciata rustica, senza intonaco;
deriva dal lat. rusticu(m), deriv. di rus ruris 'campagna'
grezzo: agg. 1 non lavorato né trattato: oro, diamante grezzo; lino, cotone, metallo grezzo | colore grezzo, colore greggio
2 (fig.) non elaborato, non perfezionato; primitivo; rozzo; materiale storico grezzo; una mente grezza; costumi grezzi.
deriva, come greggio di cui è variante, prob. dal lat. volg. *gregiu(m) 'del gregge (gre°x gre°gis)', cioè 'ordinario', in contrapposizione a egregi°us 'egregio, straordinario';

ruvido: agg. 1 che ha una superficie non levigata; scabro: pietra, pelle ruvida
2 (fig.) brusco, scontroso, poco cortese: un uomo ruvido; maniere ruvide | (lett.) rozzo, non rifinito;
l’etimo è dal lat. rugidu(m), propr. 'rugoso', deriv. di ruga 'grinza, ruga'
magro: agg. 1 si dice di persona, di animale o di parte del loro corpo avente scarso tessuto adiposo; scarno, secco: un uomo né grasso né magro; gambe magre; magro come un chiodo, come un'acciuga, magrissimo. DIM. magrino, magrolino, magretto
2 che non contiene grasso o ne contiene poco: brodo, prosciutto, latte, formaggio magro | cibi magri, poveri di grassi e calorie; anche, i cibi consentiti dalla chiesa cattolica nei giorni in cui è prescritta l'astinenza dalla carne | terreno magro, carente di sostanze azotate, quindi poco fertile | malta magra, con poco cemento o calce e molta sabbia
3 (fig.) povero, insufficiente, scarso;
l’etimo è dal lat. macru(m);
allampanato: agg. si dice di persona alta, ma magrissima e quindi sgraziata.
quanto all’etimo è un deverbale di allapanare che è derivato di lampana(s. f. (pop. tosc.)) 'lampada', col pref.rafforzativo a; propr. 'diventare simile a una lampada a petrolio che è stretta ed alta ;

squamoso: agg. fatto a squame; coperto di squame e quindi ruvido, scabroso: pelle squamosa;
l’etimo è dal lat. squamosu(m), deriv. di squama 'squama'
liscio: agg. 1 che non presenta asperità o diseguaglianze in superficie: pietra liscia; fucile a canna liscia, senza rigatura interna; velluto liscio, senza coste rilevate; pelle liscia, senza rughe; mare liscio, calmo, senza increspature; capelli lisci, non crespi, non ricci
2 (fig.) che non presenta difficoltà o complicazioni; semplice: la questione è meno liscia di quanto appaia | andar liscio, procedere senza intoppi o difficoltà: finora mi è andato tutto liscio | passarla liscia, cavarsela senza conseguenze negative
3 privo di ornamenti, di abbellimenti: un abito, un mobile liscio
4 (fig.) si dice di bevanda alcolica bevuta senza aggiunta di acqua, seltz o ghiaccio: un vermut liscio | tè liscio, senza latte né limone | caffè liscio, non corretto;
l’etimo è dal lat. volg. *lisiu(m), voce di orig. espressiva;
malmesso: o mal messo, agg. 1 si dice di chi porta vesti dimesse o di cattivo gusto
2 che rivela povertà o mancanza di cura, di buon gusto: una casa vecchia e malmessa | (fig.) che versa in difficili condizioni economiche o di salute: in questo periodo si trova piuttosto malmesso;
voce derivata dall’agglutinazione di male ( dal lat. male che è da malus) + messo = part. pass. di mettere (che è dal lat. mittere);
trasandato: agg. trascurato, sciatto: un uomo trasandato nel vestire; un modo di scrivere trasandato;
quanto all’etimo è il part. pass. di trasandare: trascurare, tralasciare, fare o tenere qualcosa con trascuratezza, verbo formato da tra(n)s+ andare.
E veniamo finalmente all’aggetivo napoletano scamuso del cui significato primo (malandato etc.) ò già détto e qui rammento che è aggettivo da numerosi sinonimi (sebbene alcuni derivati da un ampliamenti semantici quali acciaccuso, acciuppecuto, ammaturo, dellicato, iétteco malepatuto; mi occuperò in coda di tali sinonimi; affrontiamo ora l’etimologia di scamuso ed escludiamo súbito la facile ma fallace tentazione di un collegamento alla voce scamunéa/éja/era s.f. che con derivazione dal lat. *scammonia/scammonea che furono dal greco skammonía indicò in primis un’erba dal cui estratto si ricavava un purgante ed indicò poi (forse per un traslato espressivo) gente vile, bordaglia, unione di monelli e, piú genericamente, plebaglia, ma ognuno vede che semanticamente è difficile trovare il collegamento tra un’erba purgativa ed un vocabolo che vale malandato, messo male mal ridotto, malsano; ugualmente non mi sento di poter accettare l’idea di chi propone per scamuso un collegamento etimologico con squamoso (cfr. antea); è vero che il significato di squamoso nell’accezione di ruvido, irto può – all’incirca – valere il napoletano scamuso come è pure vero che il nesso latino qua dà spesso il napoletano ca (cfr. ad es. exquassare→scassare) pur tuttavia non mi sento di accogliere la proposta che presupporrebbe un transito di accostamento ad un vocabolo della lingua italiana, accostamenti che ò sempre bandito e non per un colpevole provincialismo, ma in nome di un’originaria derivazione di tutte le voci partenopee dagli antichi idiomi (latino, greco ed altro); d’altro canto nemmeno mi convice l’etimologia proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che lègge in scamuso una s intensiva che precede l’avverbio greco kamái = a terra ottenendo da skamái→scamuso; questa proposta, semanticamente mi appare troppo debole e morfomogicamente, sforzata con quell’unione di greco skamái con un suff. latino osus→oso→uso.
A questo punto non rimane che prender per buona l’antica idea che vede in scamuso una derivazione metaplasmatica dello spagnolo (e)scamocho che accanto al significato di avanzo e resto à pure quelli di persona magra, allampanata; d’altro canto nello spagnolo è anche vivo il verbo escamochar (guastare, sciupare) che à fornito altresí il verbo napoletano scamuscià/are nei significati di afflosciare, diventar floscio e/o senza forze.
E ciò detto non mi resta che illustrare i sinonimi che direttamente o per ampliamento semantico possono usarsi al posto di quello in epigrafe, quantunque normalmente gli aggettivi indicati qui di sèguito, sono da usarsi quasi esclusivamente per soggetti animati con riguardo ai loro fatti di salute. Abbiamo:
-acciaccuso agg.m. malaticcio, facile agli acciacchi, tormentato da continue malattie; quanto all’etimo è un derivato del verbo acciaccà= ammalarsi, buscarsi disturbi fisici, molto spesso, cronici; il verbo acciaccà donde acciaccuso è un denominale dello sp. achaque, che è dall'ar. (a)saka 'afflizione',
acciuppecuto agg.m. malaticcio, facile alle infermità, indebolito,accidentato; quanto all’etimo è un derivato del verbo acceppechí/irse=indebolirsi, illanguidirsi, intristire, contrarsi nelle membra per un malessere o per il freddo, verbo che a sua volta trae dal sost. cippus =ceppo con riferimento semantico al fatto che chi è debole, illanguidito ed intristito à atteggiamenti statici ed immoti tal quali un ceppo.
ammaturo, agg. m. letteralmente maturo, giunto a maturazione, anziano, invecchiato e per ampliamento semantico: persuaso, convinto poco a poco, che abbia messo giudizio; si dice anche di ascesso che giunga a suppurazione, di raffreddore in via di soluzione; figuratamente e nel senso che ci occupa vale: colpito, percosso, conciato per le feste, messo male; etimologicamente la voce a margine è una contrazione di ammaturato part. pass. di ammaturà che è dal lat. *ad +maturare,
dellicato agg. m. letteralmente delicato, facile a guastarsi, ad alterarsi,ed estensivamente gracile, cagionevole; quanto all’etimo deriva dal lat. delicatu(m), da delicere= allettare, . influenzato dal pl. delici°ae 'delizia'
jétteco agg. m. letteralmente tisico, etico ,e quindi estensivamente privo di rigoglio, debole, gracile, cagionevole; dal gr. hektikós "abituale, continuo", come attributo di pyretós "febbre"] con dittongazione ie della e intesa breve e successivo passaggio del gruppo hie a je ed assimilazione regressiva della dentale t,
malepatuto agg. m. letteralmente patito, di salute estremamente malandato, gracile, cagionevole;etimologicamente è il part. pass. del verbo malepaté/malepàtere = soffrire , patire molto - verbo rafforzativo nel peggio (attraverso l’agglutinazione dell’avv. male= malamente) di un originario tardo lat. *patire per il class. pati.
E penso con ciò di avere esaurito l’argomento, per cui reputo di poter far punto qui, dicendo satis est.
raffaele bracale

VULISSE METTERE ‘O CÀNTERO CU ‘ARCIULO?

VULISSE METTERE ‘O CÀNTERO CU ‘ARCIULO?

Letteralmente: Vorresti porre (a confronto) il pitale con l’orcio? Id est: Avresti forse intenzione, con il tuo errato comportamento,e/o argomentare di entrare in una tale confusione da non essere in grado piú di cogliere le differenze intercorrenti tra un volgare contenitore di deiezioni (il càntaro) ed un signorile, magari pregiato grande vaso panciuto di terracotta usato per conservare olio o derrate alimentari (l’orcio)?
L’espressione in epigrafe ripete, ma in maniera quanto piú colorita ed icastica, il concetto dell’italiano confondere la lana con la seta espressione quest’ultima che, oltre ad essere meno colorita della napoletana, à in sé un che di anòdino, ambiguo, dubbio, enigmatico, oscuro atteso che non è semplicissimo intendere quale tra la lana e la seta sia il filato da tenere in maggior considerazione; al contrario nell’espressione napoletana che non ingenera dubbi, facilmente si coglie quale tra i due sia il contenitore piú nobile; l’espressione napoletana è usata come sarcastico, salace commento al vacuo, vuoto, inconsistente, futile, fatuo ragiomento di uno sciocco sprovveduto che pone a paragone due soggetti o concetti diametralmente opposti e tra i quali non vi dovrebbe essere confusione e/o competizione; l’espressione è usata altresí come salace commento all’ inconsistente, futile, fatuo atteggiamento che tenga uno spocchioso supponente che, privo di ogni acclarata dote fisica (forza,energia, vigore etc. ) e/o morale (cultura,preparazione, istruzione, coraggio etc.) pretenderebbe di entrare in competizione con chi invece di quelle doti sia indubbiamente e patentemente fornito; va da sé che in tale ipotetico confronto il supponente rappresenterebbe il càntaro e l’antagonista l’arciulo.
vulisse letteralmente volessi, ma qui vorresti voce verbale (2 °prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo) dell’infinito vulere/é= volere che è dal lat. volg. *volíre→*vulire→vulére, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui; la voce a margine come détto è la 2°prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo e correttamente andrebbe reso con il congiuntivo volessi , ma spesso il napoletano usa il congiuntivo come condizionale (modo che pure esiste in grammatica napoletana, ma che è raramente usato preferendoglisi il congiuntivo imperfetto ed è presente quasi soltanto negli scritti di poeti canzonieri o giornalisti letterati fattisi condizionare per un motivo od un altro dalla lingua ufficiale: cfr. ad es.: Vincenzo Russo I’ te vurria vasà e Armando Pugliese Vurria;bizzarrie di chi si lascia influenzare se non addirittura mettere le pastoie dall’italiano o di chi vi si abbandona temendo di incorrere in qualche strafalcione grammaticale; un popolano nel suo istintivo eloquio veracemente napoletano non potrebbe mai dire: I’ te vurria vasà” direbbe sempre “I’ te vulesse vasà”, né direbbe “Vurria”, ma sempre “vulesse” con buona pace di V. Russo, A.Pugliese e qualche altro!; per tale motivo l’attesto congiuntivo volessi è stato reso qui con il condizionale vorresti;
càntaro s.m. alto vaso cilindrico di terracotta rivestito all’interno ed all’esterno di uno smalto o patina idrorepellente che, dopo l’uso favorisse la pulizia di tale vaso di comodo,contenitore provvisto, per lo spostamento, di due anse laterali e di un’ampia bocca con cordolo doppio su cui potersi comodamente sedere; tale vaso fu usato un tempo per raccogliere le deiezioni solide; per quelle liquide ci si serviva di un piú piccolo e maneggevole contenitore di ceramica patinata o, piú spesso, di ferro smaltato che ebbe come nome alternativamente o ruagno o piú comunemente rinale(voce però piú moderna, evidentemente ricavata per deglutinazione da (o)rinale ;) ruagno fu invece voce piú antica usata ancóra negli anni ’50 sia pure soltanto sulla bocca delle persone piú vecchie: nonni, nonne e/o zii molto anziani,voce usata anche come bruciante offesa(cfr. l’espressione: Sî ‘na scarda ‘e ruagno!(Sei un coccio di orinale!); quanto all’etimo di ruagno dirò che essendo solitamente questo piccolo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare la voce ruagno dal greco ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti derivanti o da cattiva ritenzione idrica, oppure da attacchi diarroici viscerali; tornando alla voce càntaro, etimologicamente esso è un derivato del lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos;rammento che il termine càntaro non va assolutamente confuso con la voce cantàro che è voce indicante una misura: quintale ed è derivata dall’arabo qintar (cfr. l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportare il vilipendio di uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die. A margine di tale espressione rammento che talvolta sulla bocca di napoletani meno consci della propria lingua l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! è resa con una scorretta È mmeglio ‘nu càntaro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo cioè Meglio portare un càntaro in testa che un’oncia in culo espressione che comunque non à una ragione logica in quanto è incongruo mettere in relazione un pitale (càntaro) con un peso (oncia) piuttosto che rapportare due misure: quintale (cantàro) ed oncia (onza)).
arciulo s.m. orcio; come ò già détto: grande vaso panciuto di terracotta, che soprattutto un tempo era usato per conservare liquidi, in partic. l'olio e /o altre derrate alimentari come olive in salamoia, oppure ortaggi bolliti in aceto e conservati sott’olio(melanzane, peperoni, sedano ed altro) oggi si impiega per lo piú come vaso da piante; l’etimo di arciulo è dal lat. *urceolu(m) diminutivo di urce(um).
raffaele bracale

LISCEBBUSSO/ LISCIABBUSSO

LISCEBBUSSO/ LISCIABBUSSO

Questa volta, su sollecitazione d’un frequentatore di questo BLOG, frequentatore di cui mi sfugge il nome, mi soffermo a parlare delle voci in epigrafe o meglio del sostantivo liscebbusso riportato anche come lisciabbusso, con una piccola variante morfologica, voce che appartiene anche ai linguaggi siculi e calabresi ( dove è liscibussu/liscebusso);
Ora sia che si tratti di liscebbusso o lisciabbusso o anche liscibussu/liscebusso la parola vale sempre rabbuffo e poi ramanzina molto energica, strapazzata, paternale, rampogna, sgridata fino a giungere estensivamente anche solenne bastonatura.
Prima di addentrarmi su etimo e semantica della parola in epigrafe faccio notare che essendo attestata nel parlato di napoletani, calabresi e siciliani (ma non mi stupirei di ritrovarla anche sulla bocca di pugliesi e lucani) è fuor di dubbio che la voce sia nata nel meridione d’Italia, quantunque sul web mi è occorso di leggere testualmente da un giornalista e cioè tal Sergio Di Giorgi (che non mi risulta essere un meridionale, ma non chiedetemi di piú) la seguente affermazione : personalmente "lisciabusso" lo uso e lo sento usare in contesto italiano col significato di "aspro rimprovero, strigliata. Se dunque è degno di fede tale Di Giorgi, comincio a sospettare che la voce meridionale liscebusso/lisciabusso sia usata non solo nel meridione, ma anche altrove e non farà meraviglia se prima o poi finirà per essere accolta nella lingua nazionale come già sta accadendo per il verbo partenopeo rizelare/rizelarsi = adontarsi (vedi alibi) e come da lunga pezza è avvenuto per voci quali: guaglione,guappo, vongola,scarola, sfogliatella, camorra etc.tutte voci in origine del napoletano, poi trasmigrate nell’italiano.
Ciò détto entro in medias res circa l’etimo e la semantica della voce a margine.
È fuor di dubbio e me lo confermano quei pochi vocabolaristi napoletani (Altamura, D’Ascoli, Malato,de Falco) che prendono in considerazione la voce (quantunque nessuno di essi, con mia somma meraviglia, azzardi un’idea o un percorso semantico...) è fuor di dubbio dicevo che la voce sia mutuata dal linguaggio dei giocatori di tressette (antichissimo giuoco di carte nato nel Reame (1700 circa cfr. Chitarrella, prete napoletano che nel 1750 pubblicò la prima edizione di un suo trattatello, scritto in latino e poi tradotto in napoletano, con le regole del mediatore, del tressette e dello scopone. ) e dal Reame diffusosi non solo in Italia ma anche in altre aree geografiche come in Croazia (dove si gioca nelle aree costiere e sulle isole con il nome croato di trešeta(palese adattamento di tressette, utilizzando carte triestine), in Slovenia e in altre nazioni dove la sua diffusione fu dovuta per lo piú o alla presenza di comunità di immigrati originarie dei paesi dove il gioco è praticato, o piú anticamente ad opera di marinai e/o pescatori napoletani o della provincia partenopea). Rammenterò, per quei pochi che non lo conoscessero e per poter illustrare l’origine della voce a margine,che nel predetto giuoco la carta con il maggior valore (1 punto) è l’asso, mentre tutte le figure e le carte ad esse equiparate (2 e 3) valgono solo 1/3 di punto cadauna e che l’asso pur di valore superiore, può esser catturato o dal 2 o dal 3; rammenterò altresí che a malgrado si dica che il giuoco del tressette ( che per incidens, à tale nome perché in origine per vincere la partita occorreva vincere tre mani totalizzando in ognuna sette punti: tre per sette = ventuno che sono i punti necessari per vincere la partita...giocata con le regole di base e senza sciocchi arzigogoli quali i punti di accussa che vengono assegnati, in aggiunta a quelli lucrati sul campo, a quei giocatori in possesso delle carte migliori. Questa faccenda di assegnare punteggi aggiuntivi a chi abbia già carte buone, anzi buonissime, se non migliori mi pare una delle cose piú stupide che si possa pensare o ideare; mi spiego: un giocatore per sua buona sorte ( e dico buona sorte in luogo di mazzo o culo) per parlare eufemisticamente... è già in possesso di carte che gli assicureranno numerose prese e forse quasi certamente la vittoria finale,invece di comminargli un punteggio di handicap, gli si assegna ad abundantiam un ulteriore vantaggio di un punteggio suppletivo. Non ci siamo! È una faccenda cosí stupida che mi à fatto non amare mai il tressette e mi à fatto preferirgli sempre e comunque il giuoco dello lo scopone scientifico!... Ma questo è un altro paio di maniche...; torniamo a bomba. ) Dicevo che a malgrado si dica che il giuoco del tressette sia stato ideato da muti, oggi nel corso della partita si parla e talvolta anche eccessivamente... In effetti in origine ai giocatori era consentito segnalare al proprio compagno ed ovviamente agli avversari, il possesso di alcune carte, solamente con dei segni ed ugualmente solo con dei segni si poteva chiedere al compagno di rispondere alla giocata con una determinata carta (ad es.: bussare una volta sul tavolo con le nocche delle dita equivale a dire: sono in possesso del tre del palo (seme) che sto per giocare: bussare due volte sul tavolo con le nocche delle dita equivale a dire: sono in possesso del due del palo, del seme che sto per giocare; strisciare o lisciare piú o meno ripetutamente una carta e súbito dopo bussare una volta equivale a dire: sono in possesso dell’asso del palo (seme) che sto per giocare; A seconda poi del numero delle volte che si liscia/striscia la carta significa che l’asso è accompagnato e difeso da piú o meno numerose figure e/o cartine; quando poi si liscia/striscia una carta senza far seguire il bussare significa che il palo (seme) di cui si sta strisciando la carta giocata non à né asso, né due, né tre, ma solo una sequenza piú o meno lunga di figure o cartine).
Dicevo che in origine ai giocatori era consentito segnalare al proprio compagno ed ovviamente agli avversari, il possesso di alcune carte solamente con dei segni ed ugualmente solo con dei segni si poteva chiedere al compagno una particolare richiesta di carta, poi ai gesti si accompagnò la voce per cui chi volesse dire: sono in possesso del tre del seme che sto per giocare, poteva accompagnare il gesto di picchiare una volta sul tavolo, annunciando pleonasticamente busso; chi volesse dire: sono in possesso del due del seme che sto per giocare, poteva accompagnare il gesto di picchiare due volte sul tavolo, annunciando pleonasticamente ribusso; e chi volesse dire: sono in possesso dell’asso del seme che sto per giocare poteva strisciare/lisciare piú o meno ripetutamente una carta e súbito dopo bussare una volta aggiungendo pleonasticamente liscio e busso.
Va da sé che chi sia in possesso dell’asso accompagnato solo da poche figure e/o cartine corra il rischio di vedere prima o poi cadere il proprio asso nella... bocca del 2 o del 3 che siano nelle mani dell’avversiaro e si trovi perciò in una situazione precaria, prodromica di una solenne sconfitta/perdita tale da poter essere considerata come una strapazzata, paternale, rampogna, sgridata o addirittura una sonora bastonatura.
E questa mi appare la miglior via da tenere per spiegare semanticamente il riferimento del sostantivo liscebbusso/lisciabbusso alla corrispondente voce del giuoco del tressette.
Linguisticamente poi il sost. liscio e bbusso donde liscebbusso/lisciabbusso risulta essere l’agglutinazione di due voci verbali:1) liscio (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lisciare derivato dal lat. volg. *lisiare, prob. voce di orig. espressiva; 2) busso (1° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito bussare derivato dal lat. volg. pulsare,intensivo di pellere.
Aggiungo che il napoletano accanto al sostantivo liscebbusso/lisciabbusso à anche l’ aggettivo liscio e sbriscio/liscesbriscio che vale squattrinato, misero, povero, senza soldi aggettivo affatto diverso dal sostantivo a margine con il quale non à nulla in comune e con il quale non va assolutamente confuso, essendo le due voci molto diverse anche per ciò che concerne l’etimo; di liscebbusso/lisciabbusso ò già detto ed ò parlato di agglutinazione di due voci verbali, diverso è il caso liscio e sbriscio/liscesbriscio che come etimo risulta l’agglutinazione di due aggetti: 1) liscio che sta per liso= consunto, logoro (derivato dal lat. volg. (e)lisu(m), part. pass. di elidere 'rompere' 2) sbriscio che sta per sbricio= meschino, ridotto male, malandato con derivazione dal lat. volg. *brisare 'rompere'; normale sia per liscio che per sbriscio il passaggio in napoletano di s seguita da vocale a sci+ vocale.
Trovandomi in argomento rispondo ora ad un caro amico che mi à chiesto come mai i napoletani chiamano pali quelli che in italiano son detti semi delle carte (coppe, bastoni, spade e denari) ed à ipotizzato che ciò dipenda dal fatto che i giocatori dispongono in mano le carte l’una sull’altra a mo’ di bastone/palo; non è cosí;a parte che non mi risulta che i giocatori dispongano in mano le carte l’una sull’altra a mo’ di bastone/palo in quanto li ò sempre visti disporre le carte a ventaglio, la faccenda è molto piú semplice: i napoletani chiamano pali (i semi delle carte) avendo mutuato dallo spagnolo la voce palos (che è la voce con cui gli spagnoli indicano i semi delle carte) adattandola in palo/pali; poi che poi gli spagnoli appresero dagli arabi invasori i giuochi di carte, posso ipotizzare che la voce iberica palos possa essere l’adattamento d’una qualche omologa voce araba indicante i semi delle carte; purtroppo (e me ne dolgo!) non conosco l’arabo e posso soltanto mantenermi nel campo delle ipotesi.

In chiusura e per fare un passo all’indietro con riferimento al tressette riporto qui di sèguito una mia poesiola inedita
A ‘nu jucatore ‘e tressette.

Mo t’aggiu overamente scanagliato
e sulo mo cernenno crusca ‘a sciore
m’hê fatta ‘na grattata addó me prore...
Fino a mez’ora fa îve smammato

d’essere jucatore patentato
capace ‘e tené ‘e ccarte a servitora
specie a tressette e guappo e prufessore
mettive tutte sotto, una vutata...

E grazie... a orazio... tutto s’è chiarito
quanno t’aggiu ‘mmitatato a ffà ‘o scupone:
‘nu juoco serio, overo e sapurito

addó nun conta ‘o mazzo e a bbon raggione
vence chi joca bbuono e asciutto asciutto
nun serve de tené ‘o culo rutto!

Nun è ‘o tressette addó vence ‘a partita
chi è pigliatore ‘e carte e avenno ‘mmano
mappate ‘e tre, longhe e napulitane
fa ‘o guappo sempe... Chesto ll’hê capito

e vuó fà sulo chistu juoco lloco
‘stu juoco ‘e femmenielle affurtunate
e te nieghe ô scupone, a chistu juoco
addó – si nun saje jucà – piglie mazziate
e p’essere chiammato prufessore
hê ‘a jucà bbuono pure avenno ‘mmano
mmunnezza ‘e carte e no... napulitane!

raffaele bracale

VARIE 166

1 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
2 Meglio 'nu cantàro 'ncapa ca n'onza 'nculo!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
La voce cantàro (dall’arabo quintar) significa quintale; qualche sprovveduto ritraendo l’accento la legge càntaro (che è dal lat. cantharu(m) a sua volta dal greco kàntharos)e significa pitale) rovinando il significato dell’espressione nella quale in origine si pongono giustamente a paragone due pesi: cantàro (quintale) ed onza (oncia), mentre nella lettura stravolta si porrebbero a paragone due entità incongruenti: un peso(oncia) ed un pitale
3 Chi tène bbelli denare sempe conta, chi tène 'na bbella mugliera sempe canta.
Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per quanto molto che ne sia non ti dà la felicità, che si può ottenere invece avendo una bella moglie.
4 Dicette 'o puorco 'nfacci' ô ciuccio: Mantenimmece pulite!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. E' l'icastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme 'o puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
5 Dicette Pulicenella: Nce so' cchiú gghiuorne ca sacicce.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. E' l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
6 Chi 'a fa cchiú sporca è priore.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti.
7 Dicette Pulicenella: I' nun so' fesso, ma aggi' 'a fà 'o fesso, pecché facenno 'o fesso, ve pozzo fà fesse!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido!
8 Moneca 'e casa: diavulo esce e trase, moneca 'e cunvento: diavulo ogni mumento.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel covento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da talune suore ivi ospitate.
9.Frijere 'o pesce cu ll' acqua.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
10. Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
11.Cu chestu lignamme se fanno 'e strommole.
Letteralmente: con questo legno si fanno le trottoline. Id est: Non attendetevi risultati migliori, perché con quel materiale che ci conferite non possiamo che fornirvi cose senza importanza e non altro! In una seconda valenza la locuzione sta a significare: badate che ciò che ci avete richiesto si fa con questo (scadente) materiale, non con altro piú pregiato...
12.Napule fa 'e peccate e 'a Torre 'e sconta.
Letteralmente: Napoli pecca e Torre del Greco è punita. La locuzione è usata a significare l'incresciosa situazione di chi paga il fio delle colpe altrui. Nel merito della locuzione: per mera posizione geografica e a causa dei venti e delle correnti marine, i liquami che Napoli scaricava nel proprio mare finivano, inopinatamente, sulla costa di Torre del Greco, ridente località confinante col capolugo campano.
13. A - Comme pavazio, accussí pittazio. B - Pocu ppane, pocu sant'Antonio.
Letteralmente: A - Come pagherai, cosí dipingerò. B - Poco pane, poco sant'Antonio. Ambedue le locuzioni adombrano il principio di reciprocità insito nel sinallagma contrattuale, per il quale il do è commisurato al des; id est: non si può pretendere un corrispettivo superiore alla retribuzione. La locuzione sub A ricorda l'iscrizione posta da tale F. A. S. GRUE dietro il celebre albarello di san Brunone; mentre quella sub B ripropone la risposta data da un pittore a certi frati che gli avevano commissionato un quadro raffigurante sant'Antonio. Alle rimostranze dei frati che si dolevano della lentezza del pittore nel portare innanzi l'opera commissionata, il pittore rispose con la frase in epigrafe (sub B)dolendosi a sua volta dell'esiguità della remunerazione.
albarello o alberello o anche albarella è un vaso cilindrico, per lo piú di maiolica,variamente decorato usato nelle vecchie farmacie ed il nome gli deriva dal fatto
14. S' è fatta notte ô pagliaro.
Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
15.Quanto è bbello e 'o patrone s''o venne!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
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LETTERA APERTA AI SIGG. A. DE LAURENTIIS E P.P. MARINO.

LETTERA APERTA AI SIGG. A. DE LAURENTIIS E P.P. MARINO.
Oggetto:
Mai e poi mai, per nessun motivo e per nessun prezzo MAREK HAMSIK alla Juve! (ALMENO FINO AL 2019!)
Presidente esimio e caro DirettoreVi parlo a mome di tanti, anzi tantissimi, per non dir tutti tifosi partenopei, che vi chiedono quanto in oggetto. Per cortesia non fatevi abbacinare o abbindolare da quelle vecchie volpi della dirigenza juventina che già ci rifilarono aumme aumme un paio di mezze-calzette,due autentici scarti (leggete: Zalayeta e Blasi). Nun facimmo, pe favore, ‘a siconna edizzione!Quinnece e pure vinte meliune cchiú ‘nu vuoto a perdere, ‘nu scassone comme a Iaquinta, non possono mai pagarci un gioiellino come Hamsik; e poi che politica del tubo sarebbe quella di cedere ad una concorrente un’ottima pedina per il futuro e darla poi proprio ad un nemico giurato ed inveterato quale è la Juve ( la vecchia baldracca del campionato italiano…)?
Se poi, per motivi di cassetta, proprio vorreste cedere MAREK HAMSIK,ebbene cedetelo all’ Inter prendendovi però in cambio Cruz l’unico centravanti in circolazione attualmente all’altezza di sostituire il ns. beneamato Sosa, l’unico adatto a governare le palle alte e a trarne vantaggi per il Napoli. E comunque a chiunque altro ma mai e poi mai, per nessun motivo e per nessun prezzo MAREK HAMSIK alla Juve!
Presidè, direttó nun ve facite piglià pe fessi. Resistete alle tentazioni! Grazie dell’attenzione. FORZA NAPOLI! CIUCCIO FA’ TU! IL CIELO SMALEDICA LA JUVE E TUTTI GLI JUVENTINI PASSATI PRESENTI E FUTURI NE’ SECOLI DE’ SECOLI, AMEN.
Raffaele Bracale- Napoli

domenica 29 marzo 2009

FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO etc.

FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO (ma oggi ) PREVETE RICCHIONE
Letteralmente: Fatti benedire da un monaco (ma oggi) prete pederasta attivo. Id est: Chiedi la benedizione (che risolva i tuoi problemi) a qualcuno che ti possa adiuvare: nella fattispecie ad un monaco (o prete) pederasta.
Chiariamo la portata dell’espressione: In primis è da rammentare che il detto/consiglio originariamente parlava di un monaco ricchione, il prete è un' erronea e fantasiosa estensione piú moderna. E parliamo del perché. Atteso che nella vita ci sono casi cosí disperati che necessitano di interventi adeguati per essere avviati a soluzione, chi se non un monaco o un prete ricchione, (che cioè son tra coloro che abbiano tutto provato nella vita ed à affrontato situazioni particolari) può essere chiamato in causa per operare efficaci benedizioni che sortiscano i benefici effetti desiderati?
Benedicere = benedire 1 (teol.) pronunciare una benedizione: il Signore benedisse Abramo
2 invocare la protezione di Dio su persone o cose: il padre benedisse il figlio; il sacerdote benedice i fedeli; benedire l'olivo | andare, mandare a farsi benedire, (fig.) andare, mandare via; anche, andare, mandare in malora
3 lodare, esaltare, ricordare con amore e gratitudine: lo benedico per il bene che mi à fatto
4 da parte di Dio, aiutare, custodire, elargire grazie: benedetto da Dio | che Dio ti benedica, formula di benedizione; nell'uso fam., esclamazione di meraviglia ironica o lieve rimprovero: che Dio ti benedica, ài mangiato tutto tu!. L’etimo di verbi sia italiano che napoletano (il napoletano anzi ripete piú esattamente la forma latina) è dal lat. benedicere, comp. di bene e dicere; propr. 'dir bene'
monaco s. m. è ovviamente il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; a Napoli il monaco è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e proprio ai monaci dei numerosi conventi presenti nell’area cittadina e limitrofa il popolo napoletano fu aduso rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi. Per restare nell’àmbito della parola monaco rammento che il medesimo etimo d’esso monaco, sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è (quantunque non si tratti di un autentico religioso) un particolare piccolo monaco;
‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione di questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, dello spavento procurato o di inconfessabili confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:
La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice garzone di bottega.
Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia finisse in tragedia. Stefano venne assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento adottarono motu proprio il bambino cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.
La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.
Personalmente sono maggiormente attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura, fu invasa attraverso le condutture idriche.
Prevete s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
Come per il precedente monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto molto preparato, a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi.
recchione o ricchione, s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay, vocabolo che, partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati vocabolarî della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico significato di omosessuale maschile.
Molto piú precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a margine non definisce il generico omosessuale maschile, ma l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento popolare della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione - ricchione precisando súbito che nel napoletano tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed erastós=amante, è chi intrattiene rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la lingua napoletana non à un termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine partenopea, quantuque Napoli siastata città di origine e cultura greca ;dicevo: ben diverso il pederasta dal recchione – ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.
Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea che esso termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine orecchioni, affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato, fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente i termini recchione – ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli passivi.
E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento popolare e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso, convincente via vecchia per percorrere la impervia nuova.
Raffaele Bracale

DICETTE ‘O SI’ PREVETE Â SIÉ BADESSA etc

DICETTE ‘O SI’ PREVETE Â SIÉ BADESSA:
SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE!
Ad litteram: Il signor prete disse alla signora abadessa: Senza denari, non si celebrano messe cantate!
Antico icastico proverbio partenopeo, il cui assunto indica che nella vita nulla viene fatto gratuitamente, ma ogni cosa – persino lo più sacra – à un suo prezzo, dal quale non si può prescindere se si vogliono ottenere i risultati pratici agognati. Infatti se persino i sacerdoti pretedono un corrispettivo per la celebrazione di una S.Messa , sia pure cantata, quanto e piú potrà fare chiunque altro cui si chieda di prestare la propria opera! È inutile attendersi gratuità! Notazioni linguistiche: Comincio col dire che spesso sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, il proverbio in epigrafe è reso con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di signore ) con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottenengono gli scorretti zi’ prevete e zi’ badessa in luogo dei corretti si’ prevete e sie’ badessa dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre il sie’ è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse.
Rammenterò a margine di tutto ciò un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a tale insignificante individuo s’usa dire: sî ‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!); l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famoso scrittore partenopeo don Peppino Marotta che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da pietra di paragone, che gli perdono tutto!
E passiamo ad analizzare qualche singola parola:
- prevete e cioè: prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prèvete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: più anziano; cfr. presbitero; la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
- badessa e cioè: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
- Messe propiamente il plurale di messa che è – come noto - nella religione cattolica, il sacrificio del corpo e del sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, è offerto dal sacerdote a Dio sull'altare, per rinnovare il sacrificio della croce; etimologicamente la parola napoletana messa tal quale la identica toscana, è il participio passato femminile del verbo latino mittere e cioè missa= inviata, mandata; per comprendere appieno il perché di questo nome dato alla celebrazione liturgica bisogna risalire al 1°,2° sec. quando i primi cristiani, per celebrare il loro rito della eucaristia (etimologicamente da un tardo latino eucharistia(m), dal gr. eucharistía, comp. di êu bene e un derivato di cháris -itos : grazia; propr. riconoscenza, gratitudine) si riunivano nelle catacombe (etimologicamente da un tardo latino catacumba(m), comp. del gr. katá: giù, sotto e il lat. cumba :cavità); al termine della celebrazione liturgica, il presbitero che aveva consacrato l’eucaristia ne affidava alcune particole = piccole parti ai diaconi che erano i suoi assistenti, affinché essi le recassero a tutti i fedeli che, per varî motivi assenti, non avevano partecipato al rito; fatto ciò, congedava gli altri fedeli annunciando loro: Ite, missa est! id est: Andate via, l’ò mandata! Quel missa finale finì per dare il nome alla celebrazione liturgica relativa.
raffaele bracale

SMARGIASSO & dintorni

SMARGIASSO & dintorni

Anche questa volta, con la voce in epigrafe ci troviamo difronte ad un’altra parola, che (come guaglione,guappo,sfogliatella, scugnizzo, camorra e derivati etc.) partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale dove è in uso nel suo significato di gradasso, spaccone,millantatore, insomma soggetto chi si vanta a sproposito, sbruffone che si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede.
I medesimi significati di gradasso, spaccone,millantatore, individuo chi si vanta a sproposito, sbruffone si riferiscono allo smargiasso dei vocabolarî della lingua napoletana dove accanto alla voce smargiasso, per indicare il gradasso, lo spaccone etc. si usano volta a volta le voci: favone, grannezzuso, rodamunno,sbardellone, sbafante, , spacca-e-mmette-ô-sole,squarcione mentre come già dissi alibi, il millantatore parolaio e saccente piú che con la voce in epigrafe è indicato con il termine spallettone.
Prima di esaminare le singole voci riportate, torniamo all’assunto e cioè che la voce smargiasso sia voce originariamente partenopea, poi trasmigrata nell’italiano. E dirò che, a mio avviso, l’origine napoletana di smargiasso è dimostrata da due fatti:
1) morfologicamente la parola è formata da un tema smargi con l’aggiunta di un suffisso dispregiativo asso; tale suffisso,con base nel lat. aceus (cfr. Rohlf “Grammatica Storica della Lingua Italiana e dei Suoi Dialetti”) è prettamente meridionale- napoletano; in italiano si trova nella forma accio o azzo; ragion per cui se la voce smargiasso fosse stata originaria dell’ italiano avremmo avuto probabilmente smargiaccio o smargiazzo non smargiasso quale che sia - e lo vediamo súbito - l’origine del tema su cui si è costruita la parola in epigrafe;
2) etimologicamente la voce smargiasso, scartata un’ipotesi che congettura una derivazione (a mio avviso molto tortuosa e fantasiosa) dallo sp. majo 'spaccone', con protesi di una esse intensiva, epentesi di una erre (eufonica?)- e con suff. peggiorativo, penso debba derivare o dall’aggettivo greco màrgos=protervo, arrogante oppure dal verbo smaragízein = risuonare, rimbombare. È pur vero che sia nel caso dell’aggettivo che in quello del verbo manca l’intermedio del latino, ma ciò è tutta acqua al mulino del mio assunto che cioè la parola smargiasso sia d’origine partenopea; infatti se fosse esistito l’intermedio del latino culla e madre della lingua italiana e di tutte lingue regionali..., la parola sarebbe potuta nascere in un punto qualsiasi dello stivale, ma generata direttamente dal greco (che, classico e/o bizantino, fu lingua parlata nella Magna Grecia dove spesso si uní alle parlate locali) mi conferma nell’ipotesi che la parola smargiasso sia d’origine napoletana.
Ciò chiarito passiamo ad esaminare brevemente sia le parole dell’italiano, che quelle del napoletano rese dalla voce che ci occupa.
gradasso: vanaglorioso, chi si vanta di fare cose eccezionali, senza averne la capacità derivato (piuttosto che dal lat. gradus, come poco convincentemente propose qualcuno) per degradazione semantica dal nome proprio di Gradasso, vanaglorioso personaggio dell'«Orlando Innamorato» del Boiardo e dell'«Orlando Furioso» dell'Ariosto;
spaccone di significato simile al precedente; per l’etimo si tratta di un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) deverbale di spaccare: spezzare, dividere in piú parti; a sua volta spaccare è dal longob. *spahhan 'fendere';
millantatore il termine indica chi in genere si vanti o vanti qualità o meriti che non à ed etimologicamente è un deverbale di millantare id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi, vanagloriarsi;
sbruffone che è chi si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede o chi racconti di imprese esagerate menandone vanto; etimologicamente sbruffone è un deverbale di sbruffare voce onomatopeica che indica in primis l’emettere dalla bocca e/o dal naso spruzzi di liquidi fisiologici, come può accadere a chi per vantarsi di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede, apra continuamente ed esageratamente la bocca provocando quegli spruzzi;
favone è propriamente il gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente; etimologicamente penso che, piú che al latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson appaiare le vuote parole emesse dal vanaglorioso, saccente favone;
grannezzuso che in primis è altezzoso,altero, e per estensione vanaglorioso, millantatore etc. l’etimo è dall’agg.vo granne ( lat. grande(m)→granne)attraverso il sost.vo grannezza;
rodamunno, chi si vanta con arroganza di imprese straordinarie o veramente affronta imprese rischiose, ma solo per ostentare la propria forza e bravura; spaccone, smargiasso; per quanto riguarda l’etimo la parola a margine è una sistemazione regionale, per degradazione semantica di un nome proprio e ciè di Rodomonte, personaggio dell'«Orlando Furioso» di L. Ariosto (1474-1533), dotato di straordinaria forza e audacia;
sbafante, letteralmente vanitoso, vanaglorioso, aduso alla spacconeria; l’etimo della parola è da ricercarsi in una serie onomatopeica ba... fa... da collegarsi all’espirazione ed all’apertura di bocca di chi ecceda nel parlare per vantarsi; alla serie ba,fa è premessa una esse durativa ed un suffisso ante che lascia sospettare un participio presente d’uno sbafare=vantarsi e per amplimento semantico sfiatare, sfogare;
sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso accrescitivo one) ridondante vanesio ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo che è un deverbale d’un bardellare = porre la bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita protesi della esse che qui non è intensiva, ma distrattiva, per significare proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
spacca-e-mmette-ô-sole, letteralmente vale spacca-e-pone-al-sole che indicherebbe di per sé l’azione di quei contadini che raccolti i pomidoro li spaccano (aprono in due ) e li pongono al sole perché si secchino; per traslato giocoso indica il comportamento dello spaccone (cfr. antea);
squarcione letteralmente vale la voce precedente (spaccone) di cui mantiene il suffisso accrescitivo one mentre cambia la radice: lí spacca da spaccare, qui squarcia da squarcià di significato simile a spaccare e con etimo dal lat. volg. *ex-quarciare variante di *ex-quartiare= dividere in quattro;
- spallettone: eccoci a che fare con l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli degli altri , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in forza della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!, e lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli non richiesti che – il piú delle volte- comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî della lingua napoletana, adusi a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia estremamente perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è semanticamente al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione regressiva della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.
E qui circa il termine smargiasso penso di poter far punto, rimandando, per altre voci che avessi omesso, a ciò che alibi scrissi sotto il titolo Chiacchierone.
Raffaele Bracale

CHIACCHIERONE – MILLANTATORE etc.

CHIACCHIERONE – MILLANTATORE etc.

Mi fu richiesto, per le vie brevi, da un cortese lettore che si era soffermato a leggere qui e là alcune mie note linguistiche, di illustrare le parole napoletane che traducono quelle in epigrafe; lo faccio qui di sèguito, precisando che – come vedremo – alcune parole napoletane usate per significare ad un dipresso quelle dell’epigrafe, in realtà significano anche qualcosa in piú; per chiarire la cosa comincerò col dire che in toscano mentre il termine chiacchierone (etimologicamente accrescitivo di un deverbale di chiacchierare che è voce onomatopeica, ) indica che o chi chiacchiera molto e volentieri soprattutto di argomenti futili, o anche in senso spregiativo che o chi non sa tenere un segreto, il termine millantatore (che etimologicamente è un deverbale di millantare id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi, vanagloriarsi) indica chi appunto si vanti o vanti qualità o meriti che non à; la lingua napoletana con le parole che traducono quelle qui a margine ricordate, oltre ai significati già detti, indicano pure il saccente, supponente aduso – come vedremo – ad intervenire (senza esserne invitato) in discussioni per esprire il proprio inutile parere, distribuendo consigli tanto sgraditi, quanto vacui; la lingua napoletana, per significare il suddetto individuo, à (e lo vedremo ) a dir poco un paio di termini precisi, mentre la lingua toscana à bisogno di un giro di parole per identificare tale individuo, non avendo un conciso termine ad hoc.
Prendiamo ora in esame le parole napoletane; abbiamo:
- chiacchiarone che anticamente fu anche ‘nzacarrone parola usata per indicare oltre chi chiacchieri molto e volentieri, in ispecie di futilità, anche chi è solito farcire il proprio dire di fantasiose bugie, romanzando quasi la realtà che riporta; ed infatti piú che sistemazione dialettale dell’ onomatopeico toscano chiacchierone, etimologicamente il napoletano chiacchiarone e piú ancora l’antico ‘nzacarrone pare debbano collegarsi all’arabo zacar=racconto. Rammento qui che la voce nzacarrone poco o nulla attestata negli scrittori napoletani, ma presente(nel significato di gran chiacchierone) nel linguaggio parlato sulla bocca del popolo della città bassa non va confuso con la voce zancarrone che valse (come l’omologo zancarruni del dialetto siciliano), uomo dappoco, maestro incompetente, e fu voce etimologicamente derivata dal bizantino tzangàrios=calzolaio.

- fanfaro/fanfero e gli accrescitivi fanfarrone ed arcifanfaro o arcifanfero sono tutti termini usati per indicare chi parli troppo, per mera iattanza senza fondamenti, comportandosi da spaccone e gradasso; etimologicamente le parole napoletane, anche quelle che ricorrono all’arci= archi per significar sovrabbondanza, son da collegarsi per il tramite dello spagnolo fanfarron all’antico spagnolo fanfa= iattanza;
- favone che è propriamente il gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente; etimologicamente penso che, piú che al latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson appaiare le vuote parole emesse dal saccente favone;
- iaqóco: propriamente il ciarlatore senza costrutto e/o senso;parola abbondantemente desueta, risalente al 15° - 16° sec., di ambito teatrale e marionettistico da collegarsi al nome proprio Jaqocuo, fr. Jacques dal latino Jacobus da cui (vedi alibi) si trasse la già esaminata jacovella;
- lungarone: che è esattamente colui aduso a cianciare, se pure a vuoto, lungamente; come facilmente si intuisce la parola è da collegarsi al termine lungaria =lungaggine che son con ogni probabilità dal greco: làggein – laggazein =indugiare, soffermarsi e dunque dilungare;
- parlettiero: chi si compiace di articolar gli organi della fonazione, per il sol gusto di udirsi, non avendo nulla di serio o costruttivo da esprimere; estensivamente anche il pettegolo che è chi si bea a parlar spesso con morbosa curiosità e con malizia di fatti e comportamenti altrui, portandoli in giro e diffondendoli con proditoria malignità; il toscano pettegolo, facendo riferimento alla cennata proditoria diffusione, tal qual venticello, etimologicamente è da collegarsi ad un veneto antico: petegolo inteso simile al peto toscano; il napoletano parlettiero è invece molto piú tranquillamente deverbale di parlà unito agli infissi intensivo-frequentativi ett ed iero; da parlettiero il napoletano à tratto anche il denominale parlettià, ed attraverso la solita prostesi della esse durativa il denominale sparlettià che sono propriamente il malevolo ciarlar continuo, lo spettegolare;
- spallettone: eccoci a che fare con l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli degli altri , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!,? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli non richiesti che – il piú delle volte- comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî della lingua napoletana, adusi a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul cennato verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.

- sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso accrescitivo one) ridondante ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo deverbale d’un bardellare = porre la bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita protesi della esse che qui non è intensiva, ma detrattiva, per significare proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
- tatanàro: e siamo giunti infine ad un termine che connota un gran parlatore, che però deve il suo reiterato ciarlare, piú che ad un atto di volontà, ad un semplice difetto di fonazione; in effetti l’iterazione della sillaba d’avvio del termine e cioè: ta-tà dovrebbe indurci a pensare che abbiamo a che fare con un balbuziente, in linea con il verbo tatanià (donde deriva il nostro tatanàro ) verbo e parola sono etimologicamente un adattamento metaplasmatico del greco: tatalizo =blaterare, balbutire.
Rammenterò, per finire, che tutte le parole a margine, con le sole eccezioni di favone e spallettone possono essere usate, non solo al naturale maschile, ma – con opportuno cambio di desinenza - anche al femminile; chi invece volesse riferire ad un soggetto femminile le pessime qualità dei cennati favone e spallettone dovrebbe cambiare vocabolo ed usare: cciaccessa che identifica appunto la ciarliera millantatrice, saccente e supponente; faccio notare che il termine cciaccessa (altro termine, come il pregresso spallettone, estraneo ai calepini, ma vivo e vegeto nel parlato comune ) deve sempre correttamente scriversi con la geminazione iniziale della c; etimologicamente mi pare si possa molto probabilmente, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare, farla risalire al verbo ciarlare con la giunta di un suffisso dispregiativo femminile essa marcato su quello dispregiativo maschile asso (che sta per accio), e con tipica assimilazione progressiva di tutte le consonanti interne r e l alla iniziale c.
RaffaeleBracale