sabato 23 maggio 2020

SÎ ‘NA ZUPPA ‘E CACHISSE ‘NZUARATE


SÎ ‘NA ZUPPA ‘E CACHISSE ‘NZUARATE
Questa volta è stato il  caro amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a  chiedermi via e-mail di chiarirgli  significato e portata dell’ icastica espressione partenopea   in epigrafe.
Ò principiato con il dirgli che si tratta di un’espressione relativamente vicina a noi nata prendendo a riferimento il frutto del cachi che originario dell’ Asia, si diffuse intorno alla metà dell'Ottocento  in America ed in  Europa;  in Italia fu introdotto nel 1880 e il successo fu subito straordinario ed i primi impianti specializzati in Italia sorsero nel Salernitano, in particolare nell'Agro Nocerino, a partire dal 1916, estendendosi poi in Sicilia, dove  fu selezionata una particolare varietà, mentre la cultura si  diffuse su tutto il territorio, soprattutto  in Campania ed Emilia con vaste  produzioni. A Napoli, ma anche nella provincia tale  frutto autunnale è tutt’ora  molto apprezzato soprattutto nelle zone piú popolari della città bassa dove nacque [intorno al 1950] l’espressione in esame che  venne e talora viene  usata ad iperbolico, sarcastico dileggio di ogni individuo che risultasse o risulti  carente di una qualsivoglia dote umana, vuoi avvenenza,vuoi  istruzione,vuoi  acume sollevando addirittura, nelle sue manifestazioni, l’ilarità degli astanti che furono e sono  facultati a deriderlo definendolo “zuppa di cachi allappanti ; ò parlato  di iperbolico,(sarcastico) dileggio perché il frutto del cachi non si consuma sotto forma di zuppa, men che meno quando sia insorbato cioè allappante , allegante i denti,ma  direttamente a morsi[la varietà piú morbida] o a fettine [la varietà piú soda]; rinvio ad ultra la spiegazione  dell’uso  traslato dell’aggettivo ‘nzuvarato/’nzuarato. A questo punto conviene ch’io dica che il termine cachisso è la resa in napoletano della voce cachi o kaki [agg. e s.vo m.le  che è dall’indostano khākī, der. del pers. khāk «polvere»], marcata però sulla forma plurale kakis. Quanto al termine ‘nzuvarato/’nzuarato mi limito a riportare qui quanto scrissi, reputo esaurientemente alibi tempo fa: si tratta di  due forme leggermente diverse di un unico part. passato del verbo ‘nzuvarà/’nzuarà = allappare, allegare i denti (riferito a della frutta( e su tutta rammenterò appunto il cachi) che non avendo raggiunto la dovuta maturità, risulti alla masticazione aspro e legnoso tale appunto da allappare, allegare i denti; da notare che stranamente le voci in epigrafe pur essendo un participio passato, si traducono come se si trattasse di un participio presente per cui ‘nzuvarato, ‘nzuarato si rendono non (come sarebbe corretto)  con allappato, allegato ma  con allappante, allegante i denti, mentre in senso traslato valgono che rende poco apprezzabile o addirittua del tutto trascurabile   cosa che semanticamente si spiega con il fatto che un frutto non maturo poco si presta ad esser gustato rendendosi cosí non solo pregevole, rilevante, degno, meritevole, ma risulta insignificante, dozzinale, spregevole.  quindi , trascurabile da parte di chi evita di mangiarne.Passando  alla questione morfologica ed etimologica comincerò col dire che due dei piú consultati calepini della parlata napoletana ( il D’Ascoli e l’ Altamura) stranamente (ma non mi meraviglierei se si fossero  copiati pedissequamente l’un l’altro...) accanto alle corrette  voci in epigrafe, elencano uno scorretto e – reputo - inesistente infinito ‘nzuvarí/‘nzuarí  donde deriverebbero (che pretese!) nzuvarato, ‘nzuarato laddove chi appena appena mastichi di idioma napoletano può cogliere l’incongruenza di voler  ottenere un participio passato  in ato da un verbo della terza coniugazione cioè  in ire che al massimo avrebbe potuto generare nzuvarito, ‘nzuarito, non certamente nzuvarato, ‘nzuarato che son figli dell’infinito ‘nzuvarà/‘nzuarà della 1° coniugazione. Quanto all’etimologia una comune corrente di pensiero  (cui peraltro aderí un tempo  il D’Ascoli (parce sepulto!) e pure l’amico prof. Carlo Iandolo, (anche lui passato nel mondo dei piú...) parla di una derivazione dal lat.in (illativo) + suber = sughero, arzigogolando che un sughero addendato produca sui denti e tutta la bocca una sensazione spiacevole, tal quale quella che produce un frutto non maturo se addentato. Mi spiace per l’amico Iandolo, ma la strada semantica che propone mi pare impervia e perciò non percorribile. chi o perché mai dovrebbe addentare (per assaporarlo) un sughero?; reputo che sia piú corretto e semanticamente vicino al vero pensare per ‘nzuvarà/‘nzuarà, una derivazione dal lat.in (illativo) + una lettura metatetica di sorbum = sorbo il cui frutto sorba raccolta ancòra acerba è messa a maturare su di un letto di paglia e qualora questo frutto venga addentato prima della dovuta maturazione risulta (questo sí!) allappante ed allegante denti e bocca. Comunicai, per le vie brevi, all’amico Iandolo questa mia ipotesi e la riconobbe piú corretta e semanticamente vicina al vero di quella sposata oggi  da lui ed un tempo  dal D’Ascoli.
Un ultima precisazione; se mi  si chiedesse quale delle due voci in epigrafe sia la piú corretta direi  che nel linguaggio popolare sono usatissime ambedue, epperò la prima: ‘nzuvarato la si ritrova maggiormente nello scritto  e mi appare quella morfologicamente piú rispondente all’etimo (sia pure con la tipica alternanza partenopea b/v) , laddove la seconda: ‘nzuarato è dell’àmbito del parlato con sincope della v ritenuta pleonastica e retaggio forse di un’antica epentesi eufonica.
 E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico P.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
 Raffaele Bracale

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