AMMUINA o AMMOINA
Come tanti altri termini (camorra, guaglione, scugnizzo e derivati), quello in epigrafe è parola che, partita dalla parlata napoletana è pervenuta nell’italiano sia come sostantivo ammoina o ammuina o addirittura ammoino/ammuino, che come voce verbale ammuinare/ammoinare.
Comincerò col dire che in napoletano la voce in epigrafe e le corrispondenti voci verbali furono – nel lessico popolare – di quasi esclusiva competenza degli adolescenti ed indicarano essenzialmente il chiasso, la confusione, la rumorosa agitazione prodotta da costoro specialmente durante il giuoco, chiasso, confusione ed agitazione rumorosa che determinano negli adulti costretti a subirli, noia e fastidio; solo per estensione successivamente le parole riguardarono chiasso, confusione e baccano degli adulti ed addirittura con l’espressione fare ammoina, nel gergo marinaresco, si indicò il darsi da fare disordinatamente e senza frutto, o per ostentare la propria laboriosità e vi fu un capo ameno, ma scarico che, prendendo le mosse da tale gergo marinaresco, peraltro mercantile,e con il palese scopo, seppur non dichiarato di vilipendere i Borbone Due Sicilie si inventò un inesistente articolo: Facite ammuina attribuito alla marineria borbonica di Francesco II Due Sicilie.
Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a llà.
Ò trascritto l’articolo così come l’ò travato in rete, stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico.
Non voglio soffermarmi piú di tanto sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni della parlata napoletana: basti osservare in che modo errato sono scritti tutti i verbi, terminanti tutti con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancóra piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale semimuta.A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal tascono, ma non appartiene all’idioma napoletano che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in autentico napoletano, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della parlata napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo in napoletano, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina.
Sistemata cosí la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola in epigrafe e soffermiamoci sulla sua etimologia;
a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato cosí il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire, percorrendo un’esatta strada semantica, proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnalo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina altro non sono che deverbali del verbo spagnolo.Satis est.
Raffaele Bracale
domenica 28 febbraio 2010
ALTERIGIA SUPERBIA, ARROGANZA, ETC.
ALTERIGIA SUPERBIA, ARROGANZA, BORIA, TRACOTANZA, PROSOPOPEA, SPOCCHIA & affini
Sollecitato dalla richiesta dell’amico G.V.(questioni di privatezza m’impongono le sole iniziali) che segue ciò che scrivo passim, qui di sèguito prendo in esame le voci che si riferiscono al disdicevole comportamento di tutti coloro che nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serî motivi o ragioni su cui poggiarlo. Tutto ciò è reso in italiano – volta a volta con uno dei seguenti s.vi astratti o dai corrispondenti aggettivi. Abbiamo dunque
- alterígia s. f. a. sprezzante ostentazione di superiorità voce derivata dall’agg.vo altero che è da alto (lat. altus) ;
- altezzosità/ alterezza s.f.a. il comportamento di chi o che à o rivela un'alta opinione di sé; superbia e per ampiamento, fierezza, orgoglio; anche queste due voci sono derivate dall’agg.vo alto (lat. altus);
- albagía s.f. a. boria, presunzione,arroganza che derivano da una considerazione troppo alta di sé; non tranquilla l’etimologia: qualcuno si trincera (procurandomi attacchi d’orticaria…) dietro un etimo incerto o sconosciuto o oscuro (inopinatamente cosí anche il D.E.I.), qualche altro postula una derivazione da alba, attraverso un fantasioso significato di «vento dell’alba»;c’è infine chi propone non disdicevolmente, una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
- arroganza s.f. a. atteggiamento borioso, superbo, supponente, spocchioso, tronfio,proprio di chi è saccente, vanaglorioso, vanitoso. Voce dal lat. arrogantia(m);
bòria s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; altezzosità; l’etimo è forse, ma fantasiosamente, dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)', ma un’altra scuola di pensiero pensa, probabilmente piú giustamente, ad un forma aggettivale (vapòrea) da un iniziale vapor=vapore;benché sia difficile decidere a quale idea aderire.., molto mi stuzzica l’idea del vapore secondo il percorso vapòrea→(va)pòrea→pòria→bòria;
supèrbia s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; eccessiva stima di sé accompagnata da ambizione smodata e da disprezzo verso gli altri; voce che è dal lat. superbia(m), deriv. di superbus 'superbo'.
Tutte le voci dell’italiano esaminate si possono riferire indifferentemente sia a soggetti maschili che a soggetti femminili,poi che la lingua italiana non è attenta a sottigliezze distintive. Cosa molto diversa avviene con l’idioma napoletano che volta a volta à voci diverse per indicare il comportamento di uomini o donne che nei rapporti interpersonali si mostrino scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa; trattandosi di uomini le voci che piú si confanno sono in ordine crescente
arbascía, ària, auterézza, presumènzia,‘nfamità,sfarzètto
vàvia; esaminiamole singolarmente:
arbascía s.f. a. = albagía, vanità, vanagloria, atteggiamento (tipico dell’uomo) di superbia, di boria, di presunzione tenuto soprattutto nell’incedere o nel proporsi; la voce come l’ italiana albagia di cui appare adattamento attraverso la rotacizzazione della liquida e la palatizazione della sillaba gía→scía, quanto all’etimo risulta una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
ària, s.f. a. = aspetto, atteggiamento vanitosi (soprattutto degli uomini) ; apparenza, espressione di sussiego, contegno grave e sostenuto, da cui traspare una spudorata altezzosità; voce derivata dal lat. aëra, accus. alla greca di aer aëris masch., gr. ἀήρ.
auterézza, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è autanza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superbo, altezzoso;voce costruita su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al a au come in auto che è da altus.
presumènzia, s.f. a. = aspetto presuntuoso, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è ‘mpettatura) di chi à o rivela un'alta opinione di sé;di chi inceda con andamento superbo ed altezzoso e si esprima presumendo troppo di sé, come chi creda di poter fare cose superiori alle proprie capacità;voce costruita su un lat. volg. tardo *praesumentia(m), deriv. di praesumíre 'presumere'
‘nfamità, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento gradasso e sussiegoso (tipicamente maschile; non esiste un corrispondente al femminile) si tratta comunque di un significato traslato in quanto il significato primo della voce a margine è infamia, cattiveria, azione malvagia ; il passaggio semantico è dovuto al fatto che tale infamia, cattiveria o azione malvagia son tenute in genere appunto da chi agisce da gradasso; voce costruita quale denominale su (i)nfame dal lat. infame(m), comp. di in - e un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr. 'che à cattiva reputazione'
sfarzètto, s.f. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è fummo) voce derivata quale diminutivo (cfr. il suff. etto) dal s.vo sfarzo 'vanto infondato', deriv. di sfarzare 'simulare, ostentare', dallo sp. disfazar 'fingere, mascherare'
vàvia s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia, superbia, arroganza, tracotanza, prosopopea, spocchia; sufficienza, sussiego; la voce a margine (di pertinenza quasi esclusivamente maschile, ma talvolta anche femminile) è un derivato di vava (bava)= liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o di persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica come càpita in chi viva uno stato continuo di superbia tracotante; etimologicamente la voce a margine si è formata partendo da *baba, voce onom. del linguaggio infantile voce che in napoletano, con consueta alternanza b/v (cfr. bocca→vocca – barca →varca etc.), diventa vava ed aggiungendovi il suffisso latino atono delle voci astratte ia si ottiene vàvia; si fosse adottato il suff. greco tonico si sarebbe ottenuto vavía.
Esaminate le voci di esclusiva (o quasi) pertinenza del maschile, passiamo a quelle usate in riferimento alle donne che si mostrino scostanti, antipatiche, scorbutiche, scontrose, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione boriosa; per le donne si useranno volta a volta i sostantivi seguenti: autanza,fummo,’mpettatura, scemanfú.
autanza , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto femminile: il corrispondente al maschile è autérezza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superba, vacuamente altezzosa;voce costruita marcandola su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al ad au come in auto che è da altus e con cambio di suffisso usando cioè antia→anza dei sostantivi astratti(cfr. ignor-anza, iatt-anza, fall-anza etc.)in luogo di itia→ezza;
fummo s.m. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto femminile con il corrispondente al maschile in sfarzetto) di chi à o rivela un'alta opinione di sé, opinione che in realtà poggia sul nulla; la voce a margine in primis indica il residuo gassoso della combustione, che trascina in sospensione particelle solide (ceneri, fuliggine ecc.) assumendo forma di nuvola bianca o grigiastra: il fumo di un incendio, di una ciminiera, di un camino | segnali di fumo, quelli ottenuti soffocando parzialmente e a intermittenza un fuoco | far fumo, emanarlo | prendere, sapere di fumo, acquistare, avere un sapore sgradevole di fumo (detto di cibi cotti) | andare, andarsene in fumo, bruciare completamente; (fig.) svanire, fallire | mannà ‘nfummo quaccosa, bruciarla completamente; e figuratamente mandare a vuoto, far fallire: |sempre figuratamente (ed è il caso che ci occupa) si dice di persona (donna) boriosa, ma di poco valore | vennere fumo, (fig.) raccontare fandonie, vantarsi di un credito che non si à |assaje fummo e poco arrusto ( molto fumo e poco arrosto), (fig.) si dice di persona o cosa che, nonostante l'apparenza, conclude o vale poco ed in tal caso è riferito sia al maschile che al femminile | vedé quaccosa o quaccuno come ô fummo dinto a ll’ uocchie (vedere qualcosa o qualcuno come il fumo negli occhi), (fig.) averlo in forte antipatia | la voce a margine è dal lat. fumu(m) con raddoppiamento espressivo della labiale.
‘mpettatura, s.f. a. = aspetto, atteggiamento fastidioso tipico di certe donne che non solo incedono tenendo il corpo ben diritto ed il petto in fuori, spec. per orgoglio o vanità, ma si relazionano con il prossimo con iattanza e/o alterigia; voce costruita marcandola sul lat. in +pectus→’mpettus o meglio da un verbo(‘mpettí/irse?) da esso ricavato preceduto, come ò détto da un in illativo e seguito dal suffisso latino ura che in origine serviva per la formazione di parole deverbali per cui si può pensare che la voce a margine sia scaturita da un verbo (‘mpettí/irse?) a sua voltamarcato su pectus.
Tutte le voci fin qui esaminate (sia di pertinenza del maschile che del femminile) sono voci antichissime già presenti e registrate negli antichi calepini napoletani (D’Ambra – Volpe e altri); l’unica voce piú recente (presente infatti solo nei dizionarî piú moderni è la seguente
scemanfú s.m. a. = aspetto vanitoso, atteggiamento borioso e fastidioso tenuto da certe donne che si pongono e si comportano verso i terzi in maniera scostante, antipatica, scorbutica, scontrosa, intrattabile; come ò détto è voce recente peraltro molto usata ed espressiva, marcata sull’espressione francese je m’en fous (me ne frego locuzione verbale del riflessivo se foutre= fregarsene).
E qui avrei finito, ma mi piace aggiungere a margine di tutto quanto fin qui détto due tipiche espressioni partenopee che sintetizzano il disdicevole comportamento di taluni (soprattutto umini)che si nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili e si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serii motivi o ragioni su cui poggiarlo.L’ espressioni è
PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.
Letteralmente: prender bava (cioè boriarsi) e porsi in guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, saccenti e supponenti, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri (sottoposti e/o conoscenti) il loro modo di veder le cose, se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagía sul nulla.Tale vacuo atteggiamento è spesso proprio di coloro che soffrono di gravi complessi di inferiorità e che nella loro vita familiare non son tenuti in nessun cale ed in alcuna considerazione (cosa che fa aumentare nel loro animo esacerbato un senso di astio nei confronti dell’umanità tutta, di talché – appena ne ànno il destro - sfogano astio e malumore sui poveri sottoposti e/o conoscenti che però, ovviamente, si guardano bene dall’accettare o addirittura dal considerare ciò che i boriosi saccenti tentano di esporre o imporre.
Mi limito qui ora, avendo già esaminato le voci boria, albagía e vavia, a prendere in esame la voce
guarnascione s.m.=guarnaccia,
elegante sopravveste medievale ampia e lunga,bordata di pelliccia portata soprattutto dagli uomini di riguardo; in realtà la voce a margine è un accrescitivo (cfr. il suff. one) formato partendo da un originario ant. provenz. guarnacha, che fu modellata sul lat. gaunaca(m) 'mantello di pelliccia',.
Ed ora posso, penso, ben dire: Satis est.
raffaele bracale
Sollecitato dalla richiesta dell’amico G.V.(questioni di privatezza m’impongono le sole iniziali) che segue ciò che scrivo passim, qui di sèguito prendo in esame le voci che si riferiscono al disdicevole comportamento di tutti coloro che nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serî motivi o ragioni su cui poggiarlo. Tutto ciò è reso in italiano – volta a volta con uno dei seguenti s.vi astratti o dai corrispondenti aggettivi. Abbiamo dunque
- alterígia s. f. a. sprezzante ostentazione di superiorità voce derivata dall’agg.vo altero che è da alto (lat. altus) ;
- altezzosità/ alterezza s.f.a. il comportamento di chi o che à o rivela un'alta opinione di sé; superbia e per ampiamento, fierezza, orgoglio; anche queste due voci sono derivate dall’agg.vo alto (lat. altus);
- albagía s.f. a. boria, presunzione,arroganza che derivano da una considerazione troppo alta di sé; non tranquilla l’etimologia: qualcuno si trincera (procurandomi attacchi d’orticaria…) dietro un etimo incerto o sconosciuto o oscuro (inopinatamente cosí anche il D.E.I.), qualche altro postula una derivazione da alba, attraverso un fantasioso significato di «vento dell’alba»;c’è infine chi propone non disdicevolmente, una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
- arroganza s.f. a. atteggiamento borioso, superbo, supponente, spocchioso, tronfio,proprio di chi è saccente, vanaglorioso, vanitoso. Voce dal lat. arrogantia(m);
bòria s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; altezzosità; l’etimo è forse, ma fantasiosamente, dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)', ma un’altra scuola di pensiero pensa, probabilmente piú giustamente, ad un forma aggettivale (vapòrea) da un iniziale vapor=vapore;benché sia difficile decidere a quale idea aderire.., molto mi stuzzica l’idea del vapore secondo il percorso vapòrea→(va)pòrea→pòria→bòria;
supèrbia s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; eccessiva stima di sé accompagnata da ambizione smodata e da disprezzo verso gli altri; voce che è dal lat. superbia(m), deriv. di superbus 'superbo'.
Tutte le voci dell’italiano esaminate si possono riferire indifferentemente sia a soggetti maschili che a soggetti femminili,poi che la lingua italiana non è attenta a sottigliezze distintive. Cosa molto diversa avviene con l’idioma napoletano che volta a volta à voci diverse per indicare il comportamento di uomini o donne che nei rapporti interpersonali si mostrino scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa; trattandosi di uomini le voci che piú si confanno sono in ordine crescente
arbascía, ària, auterézza, presumènzia,‘nfamità,sfarzètto
vàvia; esaminiamole singolarmente:
arbascía s.f. a. = albagía, vanità, vanagloria, atteggiamento (tipico dell’uomo) di superbia, di boria, di presunzione tenuto soprattutto nell’incedere o nel proporsi; la voce come l’ italiana albagia di cui appare adattamento attraverso la rotacizzazione della liquida e la palatizazione della sillaba gía→scía, quanto all’etimo risulta una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
ària, s.f. a. = aspetto, atteggiamento vanitosi (soprattutto degli uomini) ; apparenza, espressione di sussiego, contegno grave e sostenuto, da cui traspare una spudorata altezzosità; voce derivata dal lat. aëra, accus. alla greca di aer aëris masch., gr. ἀήρ.
auterézza, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è autanza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superbo, altezzoso;voce costruita su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al a au come in auto che è da altus.
presumènzia, s.f. a. = aspetto presuntuoso, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è ‘mpettatura) di chi à o rivela un'alta opinione di sé;di chi inceda con andamento superbo ed altezzoso e si esprima presumendo troppo di sé, come chi creda di poter fare cose superiori alle proprie capacità;voce costruita su un lat. volg. tardo *praesumentia(m), deriv. di praesumíre 'presumere'
‘nfamità, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento gradasso e sussiegoso (tipicamente maschile; non esiste un corrispondente al femminile) si tratta comunque di un significato traslato in quanto il significato primo della voce a margine è infamia, cattiveria, azione malvagia ; il passaggio semantico è dovuto al fatto che tale infamia, cattiveria o azione malvagia son tenute in genere appunto da chi agisce da gradasso; voce costruita quale denominale su (i)nfame dal lat. infame(m), comp. di in - e un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr. 'che à cattiva reputazione'
sfarzètto, s.f. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è fummo) voce derivata quale diminutivo (cfr. il suff. etto) dal s.vo sfarzo 'vanto infondato', deriv. di sfarzare 'simulare, ostentare', dallo sp. disfazar 'fingere, mascherare'
vàvia s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia, superbia, arroganza, tracotanza, prosopopea, spocchia; sufficienza, sussiego; la voce a margine (di pertinenza quasi esclusivamente maschile, ma talvolta anche femminile) è un derivato di vava (bava)= liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o di persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica come càpita in chi viva uno stato continuo di superbia tracotante; etimologicamente la voce a margine si è formata partendo da *baba, voce onom. del linguaggio infantile voce che in napoletano, con consueta alternanza b/v (cfr. bocca→vocca – barca →varca etc.), diventa vava ed aggiungendovi il suffisso latino atono delle voci astratte ia si ottiene vàvia; si fosse adottato il suff. greco tonico si sarebbe ottenuto vavía.
Esaminate le voci di esclusiva (o quasi) pertinenza del maschile, passiamo a quelle usate in riferimento alle donne che si mostrino scostanti, antipatiche, scorbutiche, scontrose, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione boriosa; per le donne si useranno volta a volta i sostantivi seguenti: autanza,fummo,’mpettatura, scemanfú.
autanza , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto femminile: il corrispondente al maschile è autérezza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superba, vacuamente altezzosa;voce costruita marcandola su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al ad au come in auto che è da altus e con cambio di suffisso usando cioè antia→anza dei sostantivi astratti(cfr. ignor-anza, iatt-anza, fall-anza etc.)in luogo di itia→ezza;
fummo s.m. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto femminile con il corrispondente al maschile in sfarzetto) di chi à o rivela un'alta opinione di sé, opinione che in realtà poggia sul nulla; la voce a margine in primis indica il residuo gassoso della combustione, che trascina in sospensione particelle solide (ceneri, fuliggine ecc.) assumendo forma di nuvola bianca o grigiastra: il fumo di un incendio, di una ciminiera, di un camino | segnali di fumo, quelli ottenuti soffocando parzialmente e a intermittenza un fuoco | far fumo, emanarlo | prendere, sapere di fumo, acquistare, avere un sapore sgradevole di fumo (detto di cibi cotti) | andare, andarsene in fumo, bruciare completamente; (fig.) svanire, fallire | mannà ‘nfummo quaccosa, bruciarla completamente; e figuratamente mandare a vuoto, far fallire: |sempre figuratamente (ed è il caso che ci occupa) si dice di persona (donna) boriosa, ma di poco valore | vennere fumo, (fig.) raccontare fandonie, vantarsi di un credito che non si à |assaje fummo e poco arrusto ( molto fumo e poco arrosto), (fig.) si dice di persona o cosa che, nonostante l'apparenza, conclude o vale poco ed in tal caso è riferito sia al maschile che al femminile | vedé quaccosa o quaccuno come ô fummo dinto a ll’ uocchie (vedere qualcosa o qualcuno come il fumo negli occhi), (fig.) averlo in forte antipatia | la voce a margine è dal lat. fumu(m) con raddoppiamento espressivo della labiale.
‘mpettatura, s.f. a. = aspetto, atteggiamento fastidioso tipico di certe donne che non solo incedono tenendo il corpo ben diritto ed il petto in fuori, spec. per orgoglio o vanità, ma si relazionano con il prossimo con iattanza e/o alterigia; voce costruita marcandola sul lat. in +pectus→’mpettus o meglio da un verbo(‘mpettí/irse?) da esso ricavato preceduto, come ò détto da un in illativo e seguito dal suffisso latino ura che in origine serviva per la formazione di parole deverbali per cui si può pensare che la voce a margine sia scaturita da un verbo (‘mpettí/irse?) a sua voltamarcato su pectus.
Tutte le voci fin qui esaminate (sia di pertinenza del maschile che del femminile) sono voci antichissime già presenti e registrate negli antichi calepini napoletani (D’Ambra – Volpe e altri); l’unica voce piú recente (presente infatti solo nei dizionarî piú moderni è la seguente
scemanfú s.m. a. = aspetto vanitoso, atteggiamento borioso e fastidioso tenuto da certe donne che si pongono e si comportano verso i terzi in maniera scostante, antipatica, scorbutica, scontrosa, intrattabile; come ò détto è voce recente peraltro molto usata ed espressiva, marcata sull’espressione francese je m’en fous (me ne frego locuzione verbale del riflessivo se foutre= fregarsene).
E qui avrei finito, ma mi piace aggiungere a margine di tutto quanto fin qui détto due tipiche espressioni partenopee che sintetizzano il disdicevole comportamento di taluni (soprattutto umini)che si nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili e si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serii motivi o ragioni su cui poggiarlo.L’ espressioni è
PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.
Letteralmente: prender bava (cioè boriarsi) e porsi in guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, saccenti e supponenti, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri (sottoposti e/o conoscenti) il loro modo di veder le cose, se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagía sul nulla.Tale vacuo atteggiamento è spesso proprio di coloro che soffrono di gravi complessi di inferiorità e che nella loro vita familiare non son tenuti in nessun cale ed in alcuna considerazione (cosa che fa aumentare nel loro animo esacerbato un senso di astio nei confronti dell’umanità tutta, di talché – appena ne ànno il destro - sfogano astio e malumore sui poveri sottoposti e/o conoscenti che però, ovviamente, si guardano bene dall’accettare o addirittura dal considerare ciò che i boriosi saccenti tentano di esporre o imporre.
Mi limito qui ora, avendo già esaminato le voci boria, albagía e vavia, a prendere in esame la voce
guarnascione s.m.=guarnaccia,
elegante sopravveste medievale ampia e lunga,bordata di pelliccia portata soprattutto dagli uomini di riguardo; in realtà la voce a margine è un accrescitivo (cfr. il suff. one) formato partendo da un originario ant. provenz. guarnacha, che fu modellata sul lat. gaunaca(m) 'mantello di pelliccia',.
Ed ora posso, penso, ben dire: Satis est.
raffaele bracale
‘A STAGGIONA (l’estate)
‘A STAGGIONA (l’estate)
A prima vista potrebbe sembrare strano il fatto che la parlata napoletana renda il toscano estate con il termine staggione anzi staggiona (correttamente scritto con la doppia G, come del resto tutte le parole del napoletano che terminano in zione,gione parole che invece il toscano rende con la consonante scempia) riferendo cioè alla sola estate il generico termine stagione usato in toscano per indicare uno qualsiasi dei quattro periodi di tempo in cui si è soliti suddivider l’anno e cioè ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare; se si esamina però un po’ piú attentamente dal punto di vista etimologico, la parola stagione (staggiona/e in napoletano) ci si renderà conto che il fatto non è affatto strano, anzi il napoletano nel definire staggiona la sola estate, si dimostra alquanto piú preciso della lingua toscana; vediamo infatti che la parola stagione è dal lat. statione(m), propr. 'luogo e/o tempo di sosta', con riferimento alle apparenti soste del sole agli equinozi e ai solstizi; dalla medesima statione(m) latina il napoletano trae la sua staggiona intesa come tempo di sosta e riposo e quale periodo piú adatto dell’estate per prendersi una sosta o un riposo della fatica?
Di per sé infatti la parola estate dal lat. aestate(m), che in origine significava calore bruciante, come aestus da collegarsi al greco aíthos= calore, non richiama alla mente che il solo caldo fastidioso, non la piacevole sosta del napoletano staggiona. A margine rammenterò i nomi napoletani delle quattro stagioni che sono
vierno s.vo m.le la stagione piú fredda dell'anno; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo; etimologicamente la voce napoletana è dal tardo lat. (hi)bernu(m) (tempus) 'stagione invernale', dall'agg. hibernus 'invernale';nel napoletano si è avuta la consueta dittongazione della ĕ con alternanza della b→v (cfr. barca→varca – bucca→vocca etc.);
primmavera s.vo f.le stagione intermedia fra l'inverno e l'estate; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno, nell'emisfero australe inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre ' etimologicamente la voce napoletana è dal lat. volg. *primavera(m), per il class. primo víre 'sul principio del verdeggiare (riferito alla prima fioritura di alberi e fiori); tipico nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale;
autunno s.vo m.le stagione dell'anno compresa fra l'estate e l'inverno; nell'emisfero boreale inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre; nell'emisfero australe inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno: etimologicamente la voce napoletana è dal lat. autumnu(m) con assimilazione regressiva n→m.
staggiona/e s.vo f.le = estate: la stagione piú calda dell'anno; nell'emisfero boreale ha inizio intorno al 21 giugno e termina il 23 settembre; nell'emisfero australe ha inizio invece intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo e ne ò già détto ad abundatiam.
Raffaele Bracale
A prima vista potrebbe sembrare strano il fatto che la parlata napoletana renda il toscano estate con il termine staggione anzi staggiona (correttamente scritto con la doppia G, come del resto tutte le parole del napoletano che terminano in zione,gione parole che invece il toscano rende con la consonante scempia) riferendo cioè alla sola estate il generico termine stagione usato in toscano per indicare uno qualsiasi dei quattro periodi di tempo in cui si è soliti suddivider l’anno e cioè ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare; se si esamina però un po’ piú attentamente dal punto di vista etimologico, la parola stagione (staggiona/e in napoletano) ci si renderà conto che il fatto non è affatto strano, anzi il napoletano nel definire staggiona la sola estate, si dimostra alquanto piú preciso della lingua toscana; vediamo infatti che la parola stagione è dal lat. statione(m), propr. 'luogo e/o tempo di sosta', con riferimento alle apparenti soste del sole agli equinozi e ai solstizi; dalla medesima statione(m) latina il napoletano trae la sua staggiona intesa come tempo di sosta e riposo e quale periodo piú adatto dell’estate per prendersi una sosta o un riposo della fatica?
Di per sé infatti la parola estate dal lat. aestate(m), che in origine significava calore bruciante, come aestus da collegarsi al greco aíthos= calore, non richiama alla mente che il solo caldo fastidioso, non la piacevole sosta del napoletano staggiona. A margine rammenterò i nomi napoletani delle quattro stagioni che sono
vierno s.vo m.le la stagione piú fredda dell'anno; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo; etimologicamente la voce napoletana è dal tardo lat. (hi)bernu(m) (tempus) 'stagione invernale', dall'agg. hibernus 'invernale';nel napoletano si è avuta la consueta dittongazione della ĕ con alternanza della b→v (cfr. barca→varca – bucca→vocca etc.);
primmavera s.vo f.le stagione intermedia fra l'inverno e l'estate; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno, nell'emisfero australe inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre ' etimologicamente la voce napoletana è dal lat. volg. *primavera(m), per il class. primo víre 'sul principio del verdeggiare (riferito alla prima fioritura di alberi e fiori); tipico nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale;
autunno s.vo m.le stagione dell'anno compresa fra l'estate e l'inverno; nell'emisfero boreale inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre; nell'emisfero australe inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno: etimologicamente la voce napoletana è dal lat. autumnu(m) con assimilazione regressiva n→m.
staggiona/e s.vo f.le = estate: la stagione piú calda dell'anno; nell'emisfero boreale ha inizio intorno al 21 giugno e termina il 23 settembre; nell'emisfero australe ha inizio invece intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo e ne ò già détto ad abundatiam.
Raffaele Bracale
ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE
ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE
Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procure a colui cui è rivolta un grave anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli francesi che, nell’abbondonare l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; epperò in senso traslato e furbesco l’espressione è usata anche – contrariamente a quanto ò or oa détto – per minacciare un ben preciso, oltraggioso danno cioè quello di sodomizzare il minacciato: infatti in quest’ultimo senso il termine paglione in luogo di pagliericcio vale furbescamente: culo, sedere, fondoschiena.
abbruscià= ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo latino *ad-brusiare→abbrusiare→abbrusciare = bruciare, tendere al bruciore, con tipica palatalizzazione di si→sci come per simia→ scimmia;
paglione = pagliericcio, materasso della truppa, ma anche saccone contenente le c.d. sbreglie: scartocciatura delle pannocchie (la voce sbreglia è un derivato, per successivi adattamenti del prov. sbregar= frammentare, in quanto la scartocciatura delle pannocchie è una sorta di frammentazione delle foglie.);
la voce paglione deriva da paglia (lat. palea) in quanto quegli antichi materassi per la truppa erano riempiti non di lana ma di paglia; come ò precedentemente accennato la voce a margine oltre che nel senso di pagliericcio, materasso della truppa, saccone viene usata nel linguaggio gergale e furbesco per indicare il culo,il sedere, il fondoschiena che se sottoposto ad una oltraggiosa pratica sodomitica,finirebbe figuratamente per ardere, sottoposto ad una sensazione dolorosa causata da calore, scottatura, infiammazione, insomma da un bruciore tanto da giustificare l’espressione abbruscià ‘o paglione!
brak
Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procure a colui cui è rivolta un grave anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli francesi che, nell’abbondonare l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; epperò in senso traslato e furbesco l’espressione è usata anche – contrariamente a quanto ò or oa détto – per minacciare un ben preciso, oltraggioso danno cioè quello di sodomizzare il minacciato: infatti in quest’ultimo senso il termine paglione in luogo di pagliericcio vale furbescamente: culo, sedere, fondoschiena.
abbruscià= ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo latino *ad-brusiare→abbrusiare→abbrusciare = bruciare, tendere al bruciore, con tipica palatalizzazione di si→sci come per simia→ scimmia;
paglione = pagliericcio, materasso della truppa, ma anche saccone contenente le c.d. sbreglie: scartocciatura delle pannocchie (la voce sbreglia è un derivato, per successivi adattamenti del prov. sbregar= frammentare, in quanto la scartocciatura delle pannocchie è una sorta di frammentazione delle foglie.);
la voce paglione deriva da paglia (lat. palea) in quanto quegli antichi materassi per la truppa erano riempiti non di lana ma di paglia; come ò precedentemente accennato la voce a margine oltre che nel senso di pagliericcio, materasso della truppa, saccone viene usata nel linguaggio gergale e furbesco per indicare il culo,il sedere, il fondoschiena che se sottoposto ad una oltraggiosa pratica sodomitica,finirebbe figuratamente per ardere, sottoposto ad una sensazione dolorosa causata da calore, scottatura, infiammazione, insomma da un bruciore tanto da giustificare l’espressione abbruscià ‘o paglione!
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METTERE o MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO
METTERE o MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO
Letteralmente: Mettere o buttare l’ombelico ( piú esattamente il cordone ombelicale) al fuoco. Antica espressione partenopea risalente addirittura al ‘600 (attestata nel Cortese, Basile, Trinchera ed altri, con la quale si era e si è soliti riferirsi all’atteggiamento da profittatore di chi, non invitato, faceva o fa in modo di appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti in occasione di una qualche ricorrenza o festività per partecipare ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita, invito in uso tra i napoletani che non lesinano a nessuno un pasto o una libagione.Di chi, non espressamente invitato, si comportasse in modo di trovarsi presente all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si diceva e si dice che aveva miso o aveva menato ‘o velliculo ô ffuoco! L’espressione nacque allorché, in tempi andati, le donne partorivano in casa assistite da una o piú levatrici dette mammàne oppure meno opportunamente (e qui di sèguito chiarirò)vammane Costoro una volta che la puerpera aveva partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti coloro che, invitati o no, fossero intervenuti al rito della ustione del cordone ombelicale. Dalla imitazione di questa situazione nacque il modo di dire di cui all’epigrafe riferita a tutti coloro che profittassero di una ricorrenza o festività per partecipare senza invito ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a tutti coloro che avessero l’abitudine di presentarsi, senza preventivamente annunciarsi, in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita. Tutto quanto qui detto è da riferirsi espressamente al cittadino privato che approfitti di una situazione festevole per parteciparvi e satollarsi di cibo o bevande. Per indicare il medesimo atteggiamento da profittatore tenuto inizialmente non da comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo l’espressione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della strada di Toledo, erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda che valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è invece usata piú limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi ottenga, contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento).
note linguistiche
mettere = disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. dal lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere';
menà = buttare, sospingere dentro o fuori ed anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
velliculo = letteralmente ombelico, ma nella fattispecie solo una parte di esso e cioè il cordone ombelicale quello che una volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente legato e ripiegato verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus.
vammana/ mammana = levatrice, donna esperta che assiste le partorienti; per il vero nel parlato comune popolare la voce usata per indicare la levatrice e cioè colei che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto è mammàna con derivazione da un lat. volgare *mammàna(m); la voce vammana ( pur derivata dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per significare, in senso dispregiativo, quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza, aduse ad esercitare pratiche abortive clandestine (spesso servendosi di mezzi di fortuna, inidonei e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.
appujià = appoggiare, poggiare, avvicinare una cosa a un'altra che la sorregga, (fig.) aiutare, favorire; sostenere; l’etimo della voce napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del greco pódion 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta la chiusura della tonica ó →u, è caduta la dentale d e s’è adottato il suono di transizione j
Raffaele Bracale
Letteralmente: Mettere o buttare l’ombelico ( piú esattamente il cordone ombelicale) al fuoco. Antica espressione partenopea risalente addirittura al ‘600 (attestata nel Cortese, Basile, Trinchera ed altri, con la quale si era e si è soliti riferirsi all’atteggiamento da profittatore di chi, non invitato, faceva o fa in modo di appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti in occasione di una qualche ricorrenza o festività per partecipare ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita, invito in uso tra i napoletani che non lesinano a nessuno un pasto o una libagione.Di chi, non espressamente invitato, si comportasse in modo di trovarsi presente all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si diceva e si dice che aveva miso o aveva menato ‘o velliculo ô ffuoco! L’espressione nacque allorché, in tempi andati, le donne partorivano in casa assistite da una o piú levatrici dette mammàne oppure meno opportunamente (e qui di sèguito chiarirò)vammane Costoro una volta che la puerpera aveva partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti coloro che, invitati o no, fossero intervenuti al rito della ustione del cordone ombelicale. Dalla imitazione di questa situazione nacque il modo di dire di cui all’epigrafe riferita a tutti coloro che profittassero di una ricorrenza o festività per partecipare senza invito ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a tutti coloro che avessero l’abitudine di presentarsi, senza preventivamente annunciarsi, in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita. Tutto quanto qui detto è da riferirsi espressamente al cittadino privato che approfitti di una situazione festevole per parteciparvi e satollarsi di cibo o bevande. Per indicare il medesimo atteggiamento da profittatore tenuto inizialmente non da comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo l’espressione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della strada di Toledo, erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda che valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è invece usata piú limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi ottenga, contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento).
note linguistiche
mettere = disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. dal lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere';
menà = buttare, sospingere dentro o fuori ed anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
velliculo = letteralmente ombelico, ma nella fattispecie solo una parte di esso e cioè il cordone ombelicale quello che una volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente legato e ripiegato verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus.
vammana/ mammana = levatrice, donna esperta che assiste le partorienti; per il vero nel parlato comune popolare la voce usata per indicare la levatrice e cioè colei che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto è mammàna con derivazione da un lat. volgare *mammàna(m); la voce vammana ( pur derivata dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per significare, in senso dispregiativo, quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza, aduse ad esercitare pratiche abortive clandestine (spesso servendosi di mezzi di fortuna, inidonei e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.
appujià = appoggiare, poggiare, avvicinare una cosa a un'altra che la sorregga, (fig.) aiutare, favorire; sostenere; l’etimo della voce napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del greco pódion 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta la chiusura della tonica ó →u, è caduta la dentale d e s’è adottato il suono di transizione j
Raffaele Bracale
sabato 27 febbraio 2010
CAPRETTO ALLA CACCIATORA
CAPRETTO ALLA CACCIATORA
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 2 kg di groppa di capretto a pezzi di cm. 5 x 4 x3
- 100 gr di lardo di pancia pestato e ripestato,
- 500 gr di pomidoro freschi sbollentati e pelati
o in alternativa una scatola da 5 etti di pomidoro pelati,
- 1 cipolla dorata mondata e tritata,
- 2 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
- 2 cucchiai di prezzemolo lavato, asciugato e finemente tritato
- 1 bicchiere di vino rosso,
- 50 gr di strutto,
- ½ bicchiere di olio di oliva e.v.p.s. a f.,
- sale fino e pepe nero q.s.
In un’ampia casseruola,provvista di coperchio, nell'olio e nello strutto fate soffriggere i due spicchi d’ aglio interi, ma schiacciati; dopo cinque minuti, unitevi il lardo pestato e ripestato con la cipolla; fate soffriggere ancóra per altri cinque minuti ed infine unite i pezzi di carne e lasciateli rosolare per bene su tutti i lati.
Poi bagnate con il vino e lasciate evaporare; unite i pelati schiacciati con una forchetta, salate e pepate ad libitum. Mescolate, incoperchiate e cuocete per 1 ora su fiamma bassa, aggiungendo – ove necessario - una tazza d’acqua bollente. A fine cottura, cospargete con tutto il trito di prezzemolo e servite in tavola caldo di fornello. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 2 kg di groppa di capretto a pezzi di cm. 5 x 4 x3
- 100 gr di lardo di pancia pestato e ripestato,
- 500 gr di pomidoro freschi sbollentati e pelati
o in alternativa una scatola da 5 etti di pomidoro pelati,
- 1 cipolla dorata mondata e tritata,
- 2 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
- 2 cucchiai di prezzemolo lavato, asciugato e finemente tritato
- 1 bicchiere di vino rosso,
- 50 gr di strutto,
- ½ bicchiere di olio di oliva e.v.p.s. a f.,
- sale fino e pepe nero q.s.
In un’ampia casseruola,provvista di coperchio, nell'olio e nello strutto fate soffriggere i due spicchi d’ aglio interi, ma schiacciati; dopo cinque minuti, unitevi il lardo pestato e ripestato con la cipolla; fate soffriggere ancóra per altri cinque minuti ed infine unite i pezzi di carne e lasciateli rosolare per bene su tutti i lati.
Poi bagnate con il vino e lasciate evaporare; unite i pelati schiacciati con una forchetta, salate e pepate ad libitum. Mescolate, incoperchiate e cuocete per 1 ora su fiamma bassa, aggiungendo – ove necessario - una tazza d’acqua bollente. A fine cottura, cospargete con tutto il trito di prezzemolo e servite in tavola caldo di fornello. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
BBELLA E BBONA & ALTRO
BBELLA E BBONA & ALTRO
bbella e bbona = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. *bonam=buona – sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione che a tutta prima parebbe maschile ed invece è neutra: bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma à una valenza quasi temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è miso a chiovere(d’improvviso è cominciato a piovere);
brak
bbella e bbona = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; oppure détto di cosa: utile, efficace, efficiente ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. *bonam=buona – sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione che a tutta prima parebbe maschile ed invece è neutra: bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma à una valenza quasi temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso in maniera negativa es.: bbello e bbuono s’è miso a chiovere(d’improvviso è cominciato a piovere);
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VARIE 551
1.'STA CASA ME PARE RESÍNA: CIRCHE 'NA MALLARDA E TRUOVE 'NA MAPPINA!
Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dalle vocali o oppure u esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o ppepe e non ‘o pepe come ‘o ppane e non ‘o pane, ‘o zzuccaro e non ‘o zuccaro, ‘o ccafé e non ‘o cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero.
3.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere).
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.
4. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
5. TENÉ ‘E PECUNE
Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere i piconi (sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili; non esiste un termine corrispondente nell’italiano); ma
vale: essere ormai o finalmente cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo implume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pella degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili.
6. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato
indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale s. f.
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim. DIM. seghetta, seghetto (m.), seghina ACCR. segona, segone (m.) PEGG. segaccia
2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega tenendo presente l’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un lungo prolungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).ad ogni buon conto la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee di stanza in bassi e fondaci presso quelli che sarebbero stati gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi di Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la lunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza, sfrenatezza,sperpero etc. entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, e assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel luglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone; trasmise una ben misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine come risultato di una sconsiderata ambizione che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o irrealistica; la sola nota positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed improduttiva spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel tardo Rinascimento.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s. m. ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il luogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza esclusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza delle guarnigioni militari spagnole, volute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a monte della strada di Toledo erano un luogo malfamato come tutti i luoghi dove siano di stanza i militari, un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) fu marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 fu viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , da cui il nome della strada, emanasse alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque alla cosiddetta sega spagnola che fu un ingenuo accorgimento adottato dalle meretrici allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue o sifilide (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fosse francese o napoletano le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli.
Raffaele Bracale
Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dalle vocali o oppure u esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o ppepe e non ‘o pepe come ‘o ppane e non ‘o pane, ‘o zzuccaro e non ‘o zuccaro, ‘o ccafé e non ‘o cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero.
3.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere).
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.
4. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
5. TENÉ ‘E PECUNE
Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere i piconi (sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili; non esiste un termine corrispondente nell’italiano); ma
vale: essere ormai o finalmente cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo implume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pella degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili.
6. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato
indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale s. f.
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim. DIM. seghetta, seghetto (m.), seghina ACCR. segona, segone (m.) PEGG. segaccia
2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega tenendo presente l’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un lungo prolungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).ad ogni buon conto la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee di stanza in bassi e fondaci presso quelli che sarebbero stati gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi di Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la lunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza, sfrenatezza,sperpero etc. entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, e assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel luglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone; trasmise una ben misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine come risultato di una sconsiderata ambizione che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o irrealistica; la sola nota positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed improduttiva spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel tardo Rinascimento.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s. m. ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il luogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza esclusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza delle guarnigioni militari spagnole, volute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a monte della strada di Toledo erano un luogo malfamato come tutti i luoghi dove siano di stanza i militari, un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) fu marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 fu viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , da cui il nome della strada, emanasse alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque alla cosiddetta sega spagnola che fu un ingenuo accorgimento adottato dalle meretrici allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue o sifilide (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fosse francese o napoletano le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli.
Raffaele Bracale
‘E RIPPE O ‘E RAPPE e DI RIFFE O DI RAFFE
‘E RIPPE O ‘E RAPPE e DI RIFFE O DI RAFFE
L’amica F. C. (i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) mi à chiesto di illustrarle la prima espressione in epigrafe e soprattutto di formularne, se possibile, etimologia e semantica. Provvedo alla richiesta cominciando col dire súbito che non è possibile tradurre letteralmente (se non in parte) in italiano l’espressione in quanto formata con due termini di cui solo il secondo e cioè rappe trova corrispondenza nei vocabolarî italiani nelle voci: grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise di stoffe; il primo termine rippe non trova alcuna corrispondenza nei vocabolarî italiani in nessuna voce,né potrebbe trovarla, trattandosi di voce ricavata nel napoletano per bisticcio ed allitterazione con la successiva rappe (etimologicamente dal longobardo *krapfo→(k)rap(f)o→rappo/rappa= uncino). Ciò precisato do la spiegazione dell’espressione; essa è nata partendo proprio dal termine rappe legandovi, per stabilire una relazione , un fantasioso rippe ; l’espressione à però un suo compiuto significato che si può rendere con: in ogni modo, con qualsiasi espediente
in una maniera precisa o anche scorretta e cioè: sia che con la nostra azione scorretta (‘e rappe) si producano grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise, sia che invece si agisca in maniera corretta( ‘e rippe), occorrerà raggiungere lo scopo, puntando dritto al fine da raggiungere in ogni caso, magari alla carlona o – per dirlo in pretto napoletano – alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc.
Di riffe o di raffe
In coda ed a margine di tutto quanto ò scritto circa l’espressione napoletana: ‘e rippe o ‘e rappe (in ogni modo, con qualsiasi espediente) ricordo che in molti altri linguaggi regionali (Lazio, Marche, Toscana, Emilia etc.) ed piú in generale in tutto il territorio nazionale esiste l’espressione di riffe o di raffe che à all’incirca la medesima valenza dell’espressione partenopea e sta per in ogni modo, con qualsiasi espediente,ed anche con le buone o le cattive.
Ciò che vien da chiedersi è se le espressioni siano le stesse con morfologia alquanto diversa ed in caso positivo chi àbbia la primogenitura dell’espressione. Orbene giacché non esistono scritti di riferimento che possano attestare con sicurezza priorità natali, connubi e/o derivazioni fono-morfologiche e semantiche tra le due espressioni, non mi resta che ipotizzare qualcosa affidandosi alla logica ed al D.E.I. il solo che registri la voce riffa (deducendola la prima volta nel 1729 da Fagiuoli: Giovan Battista Fagiuoli (Firenze, 24 giugno 1660 – † ivi 1742) scrittore, poeta e drammaturgo italiano.))come agg.vo f.le di riffo ( litigioso, rissoso, prepotente). A voler dunque stare a credere al D.E.I. la voce negativa nell’espressione di riffe o di raffe dovrebbe essere riffe da intendersi non piú come agg.vo pl. f.le, ma come s.vo pl. f.le = litigi, risse, prepotenze e come voce negativa dovrebbe essa indicare le cattive della spiegazione con le buone o le cattive e conseguentemente la voce raffe dovrebbe essere voce positiva e valere le buone costringendoci, per esser precise a spiegare di riffe o di raffe = con le cattive ocon le buone e non con le buone o le cattive. Almeno la logica questo farebbe sospettare; epperò, epperò nel medesimo D.E.I. si trova registrata la voce raffa (anonimamente nel XIV sec.)= furto s.vo f.le deverbale di raffare verbo piú diffuso come arraffare= rubare (dal tedesco hraffo= strappo via) che costringerebbe a ritenere anche raffe pl. di raffa voce negativa e non positiva di talché di riffe o di raffe meriterebbe d’esser spiegata non con le buone o le cattive o con le cattive o le buone ma con le cattive o le cattive cosa che però non darebbe senso alla congiunzione disgiuntiva o . D’altro canto atteso che sia la voce riffe che la voce raffe nell’italiano non sono attestate altrove se non nell’espressione in esame mi permetto di dissentire dal D.E.I. e segnatamente dal prof. Carlo Battisti che curò le voci sotto la lettera R e ritenere che l’espressione in esame di riffe o di raffe non sia nata costruendola con voci esaminate riffe = prepotenza e raffe = furto, ma che sia pervenuta dapprima nelle regioni limitrofe (Lazio) o vicine (Marche) e poi in tutto l’idioma nazionale quale calco adattato(p→f) della napoletana ‘e rippe o ‘e rappediventando nell’italiano di riffe o di raffe con la sostituzione dell’esplosiva labiale p con la consonante fricativa labiodentale sorda f forse ritenuta piú elegante ed adatta alla lingua nazionale, della popolaresca rumorosa p.
Penso d’aver contentata l’amica F.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
L’amica F. C. (i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) mi à chiesto di illustrarle la prima espressione in epigrafe e soprattutto di formularne, se possibile, etimologia e semantica. Provvedo alla richiesta cominciando col dire súbito che non è possibile tradurre letteralmente (se non in parte) in italiano l’espressione in quanto formata con due termini di cui solo il secondo e cioè rappe trova corrispondenza nei vocabolarî italiani nelle voci: grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise di stoffe; il primo termine rippe non trova alcuna corrispondenza nei vocabolarî italiani in nessuna voce,né potrebbe trovarla, trattandosi di voce ricavata nel napoletano per bisticcio ed allitterazione con la successiva rappe (etimologicamente dal longobardo *krapfo→(k)rap(f)o→rappo/rappa= uncino). Ciò precisato do la spiegazione dell’espressione; essa è nata partendo proprio dal termine rappe legandovi, per stabilire una relazione , un fantasioso rippe ; l’espressione à però un suo compiuto significato che si può rendere con: in ogni modo, con qualsiasi espediente
in una maniera precisa o anche scorretta e cioè: sia che con la nostra azione scorretta (‘e rappe) si producano grinze, rughe, crespe, sgualciture, piegature casuali ed imprecise, sia che invece si agisca in maniera corretta( ‘e rippe), occorrerà raggiungere lo scopo, puntando dritto al fine da raggiungere in ogni caso, magari alla carlona o – per dirlo in pretto napoletano – alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc.
Di riffe o di raffe
In coda ed a margine di tutto quanto ò scritto circa l’espressione napoletana: ‘e rippe o ‘e rappe (in ogni modo, con qualsiasi espediente) ricordo che in molti altri linguaggi regionali (Lazio, Marche, Toscana, Emilia etc.) ed piú in generale in tutto il territorio nazionale esiste l’espressione di riffe o di raffe che à all’incirca la medesima valenza dell’espressione partenopea e sta per in ogni modo, con qualsiasi espediente,ed anche con le buone o le cattive.
Ciò che vien da chiedersi è se le espressioni siano le stesse con morfologia alquanto diversa ed in caso positivo chi àbbia la primogenitura dell’espressione. Orbene giacché non esistono scritti di riferimento che possano attestare con sicurezza priorità natali, connubi e/o derivazioni fono-morfologiche e semantiche tra le due espressioni, non mi resta che ipotizzare qualcosa affidandosi alla logica ed al D.E.I. il solo che registri la voce riffa (deducendola la prima volta nel 1729 da Fagiuoli: Giovan Battista Fagiuoli (Firenze, 24 giugno 1660 – † ivi 1742) scrittore, poeta e drammaturgo italiano.))come agg.vo f.le di riffo ( litigioso, rissoso, prepotente). A voler dunque stare a credere al D.E.I. la voce negativa nell’espressione di riffe o di raffe dovrebbe essere riffe da intendersi non piú come agg.vo pl. f.le, ma come s.vo pl. f.le = litigi, risse, prepotenze e come voce negativa dovrebbe essa indicare le cattive della spiegazione con le buone o le cattive e conseguentemente la voce raffe dovrebbe essere voce positiva e valere le buone costringendoci, per esser precise a spiegare di riffe o di raffe = con le cattive ocon le buone e non con le buone o le cattive. Almeno la logica questo farebbe sospettare; epperò, epperò nel medesimo D.E.I. si trova registrata la voce raffa (anonimamente nel XIV sec.)= furto s.vo f.le deverbale di raffare verbo piú diffuso come arraffare= rubare (dal tedesco hraffo= strappo via) che costringerebbe a ritenere anche raffe pl. di raffa voce negativa e non positiva di talché di riffe o di raffe meriterebbe d’esser spiegata non con le buone o le cattive o con le cattive o le buone ma con le cattive o le cattive cosa che però non darebbe senso alla congiunzione disgiuntiva o . D’altro canto atteso che sia la voce riffe che la voce raffe nell’italiano non sono attestate altrove se non nell’espressione in esame mi permetto di dissentire dal D.E.I. e segnatamente dal prof. Carlo Battisti che curò le voci sotto la lettera R e ritenere che l’espressione in esame di riffe o di raffe non sia nata costruendola con voci esaminate riffe = prepotenza e raffe = furto, ma che sia pervenuta dapprima nelle regioni limitrofe (Lazio) o vicine (Marche) e poi in tutto l’idioma nazionale quale calco adattato(p→f) della napoletana ‘e rippe o ‘e rappediventando nell’italiano di riffe o di raffe con la sostituzione dell’esplosiva labiale p con la consonante fricativa labiodentale sorda f forse ritenuta piú elegante ed adatta alla lingua nazionale, della popolaresca rumorosa p.
Penso d’aver contentata l’amica F.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
CCA (QUA)
CCA
cca ( e non ca)avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche!
Raffaele Bracale
cca ( e non ca)avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche!
Raffaele Bracale
venerdì 26 febbraio 2010
TRIDUO PASQUALE:
TRIDUO PASQUALE: il nenú e le ricette
Sabato santo:
alle ore 14.00
tortano
insalata incappucciata condita all’agro con olio d’oliva e.v. p. s. a f., sale,pepe, aceto o limone;
finocchi;
A pranzo serale
vermicielle ‘e scammaro
carciofi mammole lessi con pinzimonio,
Pasqua di Resurrezione
A mezza mattinata
Affettati misti
Uova sode,
soufflé pasquale.
A pranzo
1) Antipasto: piatto santo;
2) Sformato ricco di tagliatelle,oppure 2 bis)Pasta pasqualina, oppure 2 ter) Fettuccine alla maestosa;
3) Agnello o capretto alla cacciatora o al forno (vedi Capretto BELLA NAPOLI) con contorno di patate al forno;
4) Carciofi lessi con pinzimonio,oppure
4)bis carciofi dorati e fritti
5) Finocchi e Frutta fresca di stagione,
6) Pastiera.
Lunedí in albis
È il tradizionale giorno della gita fuori porta per cui pranzo al sacco!
Porzioni anche pletoriche di frittate di maccheroni oppure fette di Tortano oppure di Pizza rustica, formaggi ed affettati misti; pastiera
Per chi invece restasse in casa pranzo sontuoso con
Antipasto di formaggi ed affettati misti;
tagliatelle al ragú d’agnello;
coratella di agnello alla francese;
parmigiana di carciofi;
Finocchi e Frutta fresca di stagione;
Pastiera.
A seguire tutte le ricette.
Cominciamo con il sacramentale
TÒRTANO NAPOLETANO
Questa ciambella rustica, è in uso a Napoli tradizionalmente nel tempo pasquale, ricordando con la sua caratteristica forma a corona circolare, la corona di spine imposta a Cristo durante la sua passione; poiché però gli ingredienti di questa ricetta sono reperibili durante tutto l’anno e non solo nel tempo primaverile (tempo pasquale) nulla vieta che la si prepari in altre occasioni, come le festività natalizie o quando piú aggradi: è sempre un asciolvere fantastico!
ingredienti e dosi per 6 – 8 persone
per la pasta
farina, 1 kg.
lievito di birra 2 cubetti,
sugna gr. 100
poco sale fino , molto pepe nero
per il ripieno
:
400 gr. di formaggi misti (provolone dolce e piccante, caciocavallo, fontina, pecorino ecc.) tagliati a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
300 gr. di salame napoletano (a grana grossa) tagliato a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
250 gr. di mortadella con pepe e pistacchio in un’unica spessa fetta poi tagliata a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
formaggio pecorino grattugiato, gr 100
2 etti di ciccioli** casarecci,
4 uova sode,o anche di piú ad libitum,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Stemperate il lievito in acqua tiepida (che non sia troppo calda), impastatelo con un pochino di farina, fatene un panetto e lasciatelo crescere per una mezz'ora, coperto.
Disponete la farina a fontana, ponetevi al centro lo strutto, il sale, il pepe, il panetto cresciuto, il formaggio pecorino grattugiato e, aiutandovi con acqua tiepida, mescolate tutto fino a ottenere una pasta morbida che lavorerete con forza per circa una diecina di minuti battendola sul tavolo.
Fatela poi crescere in una terrina coperta, in luogo tiepido, per un paio d'ore o fin quando la pasta non avrà raddoppiato di volume.
Tagliate tutti i formaggi ed i salumi a dadini e le uova in sei spicchi ognuno. Mescolate tutto meno le uova.
Quando la pasta sarà cresciuta, sgonfiatela battendola con le mani e stendetela allo spessore di un centimetro. Disponete su tutta la superficie, uniformemente, dapprima il pecorino grattugiato e poi tutto il ripieno, e disponete anche le 4 o piú uova sode tagliate a spicchi a distanza regolare ed arrotolate con delicatezza la pasta, il piú strettamente possibile fino ad ottenere un tronfio rotolo di pasta farcita.
Ungete di strutto uno stampo largo provvisto di un tronco di cono centrale, per modo che disponendovi intorno il rotolo suddetto se ne ottenga una ciambella con buco centrale ; disposto, come ò detto, il rotolo di pasta a ciambella, unitene bene le estremità e rimettetelo a crescere in luogo tiepido coprendolo con un panno.
Quando il tòrtano avrà lievitato (accorreranno almeno due ore) infornatelo a forno moderato (170°) per settantacinque/ottanta minuti e sformatelo quando sarà freddo, servendolo porzionato a spicchi.
Questo tòrtano è comunque ottimo sia caldo che freddo.
Osservazioni:
a) una delle presenze caratteristiche del tòrtano napoletano è la sugna o strutto, ingrediente che non può assolutamente essere sostituito con altri grassi (olio o burro); un/una napoletano/a che lo facesse ( come purtroppo ò visto fare da taluna inesperta massaia piú attenta ai falsi tabú del colesterolo e della linea, che ai dettami della sana tradizionale cucina partenopea...) incorrerebbe nella scomunica latae sententiae e meriterebbe di essere scacciato/a con abominio dalla comunità napoletana !
b) quando nella pasta ci sono grassi e ripieno, talvolta la lievitatura tarda a verificarsi; sarebbe quindi opportuno, per non avere sorprese, preparare la pasta il giorno precedente a quello in cui verrà consumato il tortano.
c)*tòrtano = ciambella rustica (dal lat.tort(ilis)tòrto, ritòrto+suff.tonico di pertinenza anus(ano)→tortàno diventato poi nell’uso comune tòrtano).
d)**ciccioli= plur. di cicciolo (s. m. ciò che resta a seguito di pressatura dei tocchi di grasso del maiale dopo che siano stati fusi ad alta temperatura per ricavarne lo strutto); la voce è un derivato di ciccia; la parola a margine in napoletano diventa ciculo e al plur. ciculi ma l'etimologia è molto piú complessa in quanto ciculo/i deriva da un latino volgare *insiciculu(m) da un classico insiciu(m)=carne tritata attraverso un'assimilazione s-c→c-c, aplologia (caduta di una sillaba all'interno di una parola che dovrebbe presentare, in base alla sua etimologia, due sillabe consecutive identiche o simili) ed aferesi della sillaba d'avvio in.
VERMICIELLE ‘E SCAMMARO
(vermicelli di magro)
Dosi per 6 persone
600 grammi di vermicelli,
1 bicchiere di olio d'oliva e.v.p. s. a f.,
due spicchi d'aglio (senza camicia, tritati finissimi)
un ciuffo di aneto lavato, asciugato e tritato finissimo,
1 etto di olive nere di gaeta denocciolate e tritate,
12 acciughe dissalate e diliscate o pari peso di filetti di acciughe sott’olio,
1 cucchiaio di capperi di Pantelleria dissalati,
6 cucchiai di pan grattato abbrustolito a fuoco vivace, oppure (e meglio!) pari peso di mollica di pane casareccio bruscata al forno (240°) e passata ad un mixer con lame da aridi,
50 gr. di pinoli abbrustoliti al forno (220°),
50 gr. di uvetta ammollata in acqua bollente.
Sale doppio (un pugno).
Pepe nero macinato a fresco q.s.
Procedimento
In un'ampia padella versare l'olio e l'aglio tritato sottilmente; fare imbiondire l'aglio a fuoco vivace;aggiungere al soffritto le olive denocciolate e tritate grossolanamente, poi aggiungere i capperi ed infine le acciughe, schiacciandole con la punta di un cucchiaio e badando bene che si disfino completamente fino a sciogliersi nell'olio; nel frattempo in una grossa pentola lessare in abbondantissima acqua salata (circa 8 litri con il pugno di sale doppio) la pasta tenendola molto al dente; a cottura avvenuta versare la pasta nella padella con il sugo, aggiungere un mestolino di acqua di cottura, alzare la fiamma, aggiungere l’uvetta ammollata ed i pinoli tostati precedentemente (al forno o in pochissimo olio bollente) e rimestare velocemente, infine spargere sulla pasta il pan grattato, precedentemente abbrustolito come i pinoli in pochissimo olio bollente oppure la mollica bruscata e tritata , rimestare e versare il tutto in una capace zuppiera di portata; aggiungere abbondante pepe nero macinato al momento ed una spruzzata di aneto crudo tritato finemente; servire con un vino bianco (Ischia, Capri, Fiano, Falanghina) ben fresco di frigo, se è piatto unico o – se accompagnato da un secondo di carne - con un Corposo vino rosso campano (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
NOTA
Questo gustosissimo, ma semplice, economico asciolvere viene usato spesso come pasto dei giorni di magro (quaresima) o in alternativa ai costosi vermicelli a vongole nei giorni di vigilia;
‘e scammaro = di magro (detto però solo del cibo); la voce scammaro è un deverbale derivato attraverso una protesi di una s distrattiva dal verbo latino *cammarare=mangiar di grasso; posto che *cammarare è mangiar di grasso, ne deriva che *scammarare (donde scammaro) vale mangiar di magro. –
CARCIOFI LESSI ( “BACIO E METTO QUI”)
Il protagonista di questa ricetta è il carciofo mammola (a Napoli mammarella); questo tipo di preparazione è una delle portate tradizionali del pranzo pasquale napoletano,ma va da sé che può esser approntato durante tutto il periodo primaverile. Veniamo alla ricetta precisando che il numero di carciofi da servire pro capite è variabile: dipende dalla grandezza delle mammole o mammarelle; se abbastanza grosse ci si può contentare di un solo carciofo a tesa, se piccoli, ne occorrono almeno due!
Ingredienti e dosi per 6 persone
Da 6 a 12 mammole o mammarelle senza spine,
3 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
sale doppio un pugno,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente assieme ad un ciuffo di menta,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento
Togliere ai carciofi le estreme foglie esterne piú dure e mondare il gambo, accorciato a non piú di sei centimetri, della parte esterna, infine troncare i gambi a filo della base dei carciofi,dividere i gambi in due lungo l’asse minore ed affinarli a chiodo, per modo che possano facilmente entrare nella cavità che si ricaverà al centro d’ogni carciofo, allargando le brattee centrali; risciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente ed inserire nella cavità ricavata al centro dei carciofi un pezzetto di gambo, un po’ di trito d’aglio, prezzemolo e menta; premere decisamente con l’indice affinché il trito penetri a fondo. Munirsi di una o due pentole con ampio fondo circolare e pareti non molto alte; sistemare i carciofi uno accanto all’altro riempiendo tutto il fondo della pentola, coprire a filo con acqua fredda aggiungere il sale doppio, incoperchiare e porre a fuoco moderato per circa quaranta minuti fino a che i carciofi risultino lessati ed inteneriti; per accertarsi della cosa, staccare da un carciofo una delle brattee inferiori e controllare se la polpa del margine inferiore della brattea staccata sia convenientemente morbida tanto da poter essere facilmente portata via strappandola per scorrimento addendantola tra gli incisivi superiori e quelli inferiori.In caso positivo significa che i carciofi sono lessati al punto giusto e si possono servire in tavola; si porzionano quando sono ancóra caldi e ad ogni commensale viene fornito in accompagnamento del o dei carciofo/i, un piattino in cui ci sarà del pinzimonio preparato precedentemente sbattendo a fondo olio, sale fino e pepe; il commensale staccherà volta a volta le singole brattee, ne intingerà il margine polputo nel pinzimonio e deglutirà la polpa strappata via per scorrimento addentata tra gli incisivi; giunto al cuore del carciofo il commensale eleminerà la barba,frazionerà calice e gambuccio e li intriderà nel pinzimonio residuo prima di mangiarli.
Poiché di questo carciofo si mangia solo una piccolissima zona delle brattee, mia madre diede alla delicata operazione che ò descritto precedentemente il nome di bacio ed il metto qui seguente si riferisce al fatto che una volta prelevata la minuscola parte di polpa la brattea viene posta via ed accantonata per essere poi buttata!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo, quantunque rammento che i carciofi ànno – ma ignoro il perché – la capacità di rendere dolce, anzi dolcissima l’acqua che uno dovesse assumere dopo averli mangiati. SOUFFLÉ PASQUALE
Eccovi una gustosa preparazione primaverile da consumare fredda come antipasto o rompi-digiuno.
Dosi per 6 persone
8 uova freschissime
2 mazzi di asparagi bianchi
6 etti di fave fresche, sbaccellate e private della prima scorza
3 etti di pisellini freschi o anche surgelati
3 etti di provolone dolce tagliato a cubetti di circa 2 cm. di lato
1 piccola cipolla bianca mondata ed affettata a velo
1 bicchiere e 1/2 d’olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
1 ciuffo di prezzemolo tritato finissimo,
3 cucchiai di pangrattato,
sale e pepe q.s.
Procedimento
Con un pelapate mondare gli asparagi tagliando poi a pezzetti di circa 1,5 cm. i gambi inferendo il taglio diagonalmente lungo l’asse maggiore; sbaccellare le fave eliminando dai singoli semi la buccia esterna; sgranare i piselli freschi o usare quelli surgelati senza farli scongelare precedentemente; lessare contemporaneamente, per pochi minuti in acqua bollente salata sia asparagi che fave che piselli; sgrondare il tutto e farli subito rosolare in padella con olio e cipolla, salando e pepando ad libitum; frattanto in un’ ampia terrina aprire tutte le uova con il ciuffo di prezzemolo e sbatterle a spuma salando e pepando; unire alle uova tutte le verdure rosolate assieme al fondo di cottura, ed aggiungere i cubetti di provolone; ungere una capace tortiera cospargendola di pangrattato; versare tutto il composto nella tortiera, badando di non superare la metà dell’altezza del bordo (il sufflé in forno si alzerà di molto…) ed infornare in forno caldo (180°) per circa30 minuti. Sfornare, far raffreddare lentamente a temperatura ambiente e servire tagliato a spicchi come antipasto con affettati misti e pezzetti di ricotta salata, accompagnato da vino bianco (Falanghina, Fiano, Capri o Ischia) freddo di frigo!
SFORMATO RICCO DI TAGLIATELLE
Qui di sèguito vi segnalo la ricetta di un gustosissimo sformato ricco di tagliatelle, sformato che può essere usato come importante prima portata nei pranzi di festa e segnatamente nel pranzo pasquale, pranzo che si comincia con il tipico antipasto costituito dalla fellata ( cioè affettato misto di salumi di maiale assortiti (salame napoletano, capicollo, coppa di testa, lonza, salsiccia piccante al finocchietto), spicchi di provolone del monaco piccante e dolce, fettine di caciocavallo silano, fettine di ricotta salata, uova sode; tale antipasto oltre il classico nome di fellata= affettato (part. pass. femm. del verbo fellare= affettare; fellare è un denominale del lat. offella(m) diminutivo di offa(m)= focaccia ) tale antipasto dicevo, oltre che fellata è anche detto beneditto(benedetto) o anche piatto santo e semanticamente la faccenda si spiega con il fatto che tale antipasto non viene servito monoporzionato, ma approntato ordinato in bell’ordine a seconda dei tipi di salumi o formaggi, in due ampi piatti (l’uno pei salumi, l’altro per formaggi ed uova sode) da cui ogni commensale attinge secondo il proprio bisogno o desiderio; tali piatti vengon posti all’incirca al centro del tavolo da pranzo per modo che i commensali se ne possano servire ad libitum in attesa della prima portata e poiché tradizionalmente nel dí di Pasqua il capofamiglia è solito benedire, aspergendo con acqua lustrale (che viene attinta con un ramoscello d’ulivo benedetto a sua volta durante i riti della Domenica delle Palme) sia il desco che i componenti la famiglia assisi al desco, ecco che i piatti colmi di affettati misti vengono pur essi benedetti e quasi santificati, e da alcuni anni a Napoli è invalso l’uso di chiamare questo antipasto beneditto(benedetto) o anche piatto santo in luogo di fellata. Per ciò che riguarda la ricotta salata rammento che quella usata è una tipica ricotta da latte ovino détta ricotta ‘e fuscella ; questa ricotta appena lavorata ed opportunamente addizionata di sale, perché si conservi piú a lungo viene posta (meglio veniva posta quando ancóra la produzione era artigianale e non industriale come è oggi),veniva posta per mano dei pastori che la lavoravano in tipici cestini di vimini di forma troncoconica: questo cestino era detto in latino fiscella donde la fuscella napoletana Ciò precisato, passiamo alla ricetta dello sformato a margine.
ingredienti e dosi per 6 persone
6 – 7 etti di tagliatelle all’uovo fresche o secche,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f. ,
1 cipolla dorata mondata e tritata finemente,
1 tazzina di cognac o brandy,
3 etti ricotta salata di pecora,
la mollica macinata di 2 grosse fette di pane casareccio bruscate lungamente al forno (220°),
3 etti di salame napoletano in cubetti di cm. 0,5 di spigolo,
6 uova sode sgusciate ed affettate in rondelle di mezzo centimetro di spessore,
1 etto di pecorino grattugiato di cui la metà addizionata alla mollica di pane macinata,
sale grosso un pugno,
pepe decorticato macinato q.s.
procedimento
Questa preparazione si avvale per la gratinatura in forno della presenza di mollica di pane casareccio opportunamente bruscata al forno poi macinata ed addizionata con la metà del pecorino grattugiato; qualcuno in luogo della mollica di pane casareccio bruscata e macinata, usa del pangrattato di produzione industriale, ma vi assicuro che il risultato non è soddisfacente: il pangrattato industriale spesso non viene prodotto macinando pane, ma biscotti o altri prodotti secchi da forno che però contengono zucchero aggiunto che conferisce al pangrattato un incongruo gusto dolciastro.
Rassodare le sei uova ponendole in una marmitta alta con acqua profonda salata e tenervele in cottura per sette minuti dal momento del primo bollore.Al termine, prelevare le uova lasciarle raffreddare e sgusciarle sotto un getto di acqua corrente fredda, asciugarle, ed affettarle in rondelle regolari dallo spessore di ½ cm.
Privare della scorza le fette di pane e bruscare queste fette di sola mollica a lungo in forno caldo (220°), indi una volta raffreddate, spezzettarle e passarle in mixer con lame da aridi fino ad ottenerne una fine macinatura; versare la mollica cosí macinata in un piatto ed addizionarvi la metà del pecorino grattugiato.
In una ampia teglia adatta anche al forno, mandare a temperatura l’olio e rosolarvi in 5 minuti il trito di cipolla fino a che arsicci ma non bruci e mantenere in caldo; frattanto porre a lessare in otto litri d’acqua salata (pugno di sale doppio) le tagliatelle che, se fresche, vanno lessate per tre minuti dal momento del bollore dell’acqua, se secche vanno lessate per sette primi. Sgrondarle accuratamente dell’acqua e rimestarle nella teglia con olio e cipolla per non piú di quattro minuti a fuoco vivo; nel frattempo in una zuppiera calda stemperare la ricotta salata con una tazzina di cognac o brandy e mezza ramaiolata di acqua di cottura della pasta; trasferire dalla teglia alla zuppiera le tagliatelle e rimestarle delicatamente assieme alla metà del pecorino, al pepe macinato a fresco ed alla dadolata di salame; quando si saranno ben intrise di ricotta, trasferirle nuovamente nella teglia ben unta del fondo di cottura, formando due strati di pasta; su quello inferiore distribuire le rondelle d’uova sode, sullo strato superiore cospargere il trito di mollica addizionato con la metà di pecorino e mandare in forno preriscaldato a 180° per circa 15 minuti o fino a che lo sformato non risulti ben gratinato.
Lasciare leggermente intiepidire e servire questo sformato ricco tagliato in spesse mattonelle quadrate.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
PASTA PASQUALINA
Sta per approssimarsi la primavera e voglio segnalarvi questa gustosissima minestra di pasta, piselli e carciofi, minestra che un tempo fu quasi esclusiva della stagione primaverile allorché si raccoglievano, quale primizia, i frutti e segnatamente i semi eduli, i veri e propri piselli (dal lat. volg. *pisellu(m), dim. di pisum, che è dal gr. píson 'pisello') di questa pianta erbacea rampicante con fiori bianchi o colorati, foglie composte e baccelli contenenti semi verdi sferici (fam. Leguminose);da un po’ di tempo a questa parte, fortunatamente, soprattutto per merito della surgelazione industriale, i piccoli piselli primaverili si trovano durante tutto l’anno e tali prodotti conservati non ànno nulla da invidiare a quelli freschi di campo e talvolta sono addirittura migliori (a sentire le nostre accorte massaie) di talché è possibile durante tutte le stagioni l’anno approntare la appetitosa, salutare, gustosa minestra in epigrafe.
ingredienti e dosi per 6 persone
6 carciofi spinosi verdi-violetti di Napoli o di Palermo,
1 kg. di pisellini freschi (peso lordo) oppure
5 etti (peso netto) di pisellini sgranati o surgelati,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
1 carota grattata e tritata,
½ costa di sedano grattata e tritata,
½ bicchiere di olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 cucchiaio di strutto,
il succo d’un limone,
2 etti di pancetta tesa tagliata a listelli cm 5 x 1 x 1,
6 uova,
farina q.b.
abbondante olio di semi per friggere,
1 litro e mezzo di brodo vegetale da verdure fresche o anche di dado ,
sale fino e pepe bianco q.s.,
6 etti di vermicelli spezzati (3 cm.) o di tubetti piccoli (avemarie),
1 etto di Pecorino laticauda grattugiato .
sale doppio un pugno.
procedimento
Mondare i carciofi accorciandone i gambi in modo da tener questi alti non piú di tre centimetri dal fondo del carciofo, indi spuntare i carciofi delle spine e togliere le brattee piú dure, tagliarli longitudinalmente in due, eliminare il fieno ed affettarli sottilmente (mezzo cm.) longitudinalmente e metterli in acqua acidulata con il succo del limone per non farli annerire. Battere a spuma tre delle sei uova addizionate con due cucchiai di pecorino, un pizzico di sale fino e due di pepe. Mandare a temperatura in un tegame alto l’olio di semi, sgrondare le fettine di carciofo, infarinarle, intingerle nelle uova e friggerle fino a che siano ben dorate,prelevarle con una schiumarola e porle su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto, salare ad libitum e tenere in caldo. Súbito dopo sgranare i piselli.
Approntare il trito fine di cipolla, carota e sedano e farlo soffriggere in una pentola per minestra con l’olio ed il cucchiaio di sugna a fiamma media.
Riscaldare il brodo.
Quando il trito sarà dorato aggiungere la pancetta e dopo cinque minuti i piselli (quelli surgelati non occorre scongelarli), allungare con una ramaiolata di brodo bollente e farli cuocere a fuoco vivo per 10 minuti dalla ripresa del bollore.
Aggiungere 4-5 mestoli di brodo, portarlo ad ebollizione, regolare eventualmente di sale ed aggiungere la pasta; a Napoli si usano, per questa minestra o i tubetti piccoli (avemarie) o i vermicelli spezzati:dipende dai gusti o dalle tradizioni familiari; personalmente preferisco le avemarie, ma non mi disdignerebbero i vermicelli spezzati. Cuocer la pasta a pentola scoperta,per modo che alla fine la minestra non risulti troppo liquida, a seconda del gusto o del tempo di cottura consigliato sulla confezione della pasta scelta. Battere a spuma le altre tre uova anche queste addizionate di due cucchiai di pecorino,pochissimo sale e due pizzichi di pepe. Versare queste uova sulla pasta e rimestare a fuoco medio fino a che siano ben rapprese.
A fine cottura unire il pecorino finemente grattugiato, mescolare bene e lasciare riposare un paio di minuti prima di impiattare spolverizzando con una generosa grattugiata di pepe bianco e guarnendo ogni porzione con delle fettine di carciofi dorati e fritti. Servire questa pasta pasqualina ben calda di fornello.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
FETTUCCINE ALLA MAESTOSA
Dosi per 6 persone:
700 gr. di fettuccine all’uovo o in alternativa 700gr.
di mafaldine di grano duro.
500 gr. di pomidoro sbollentati e pelati o 1 scatola da 500 gr. di pomidoro pelati.
300 gr. di gambetto di prosciutto crudo tagliato in cubetti piccolissimi.
2 buste di funghi secchi ammollati
2 cucchiai di pisellini freschi o surgelati sbollentati
1 cipolla affettata sottilmente
1 cucchiaio di basilico spezzettato finemente a mano senza coltello.
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.
1 confezione da 200 gr. di panna vegetale da cucina.
½ etto di grana grattugiato,
sale fino e pepe q.s.
sale doppio un pugno.
Procedimento
In un’ampia padella soffriggere la cipolla nell’olio, aggiungere il prosciutto ed i funghi ammollati, ½ mestolo di acqua bollente e far cuocere aggiustando di sale fino; aggiungere i due cucchiai di pisellini precedentemente sbollentati e rimestare velocemente; alla fine raccogliere il soffritto con una schiumarola e tenerlo da parte al caldo in una ciotolina;
nella stessa padella aggiungere ancora un po’ d’olio e un po’ di cipolla, far soffriggere, versare i pomidoro, sale fino, pepe e basilico e preparare una veloce salsa, nella quale alla fine versare tutto il soffritto tenuto da parte nella ciotolina; rimestare, abbassare la fiamma e tenere il tutto al caldo.
Frattanto lessate molto al dente le tagliatelle all’uovo o le mafaldine in abbondantissima acqua salata (pugno sale doppio), sgrondatele bene e versatele nella padella con il sugo; rimestate, spolverizzate di grana grattugiato e coprite il tutto con il contenuto della confezione di panna da cucina; amalgamate rimestando sapientemente e poi passate la teglia in forno caldo (180°) per alcuni minuti; servite ben calde queste tagliatelle o mafaldine seguite da un secondo di carni in umido o di formaggi freschi.
Poiché è un piatto da passare al forno prima di servirlo, si presta ad una preparazione anticipata che va poi completata con il passaggio in forno appena prima di mettere in tavola.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
CAPRETTO ALLA CACCIATORA
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 2 kg di groppa di capretto a pezzi di cm. 5 x 4 x3
- 100 gr di lardo di pancia pestato e ripestato,
- 500 gr di pomidoro freschi sbollentati e pelati
o in alternativa una scatola da 5 etti di pomidoro pelati,
- 1 cipolla dorata mondata e tritata,
- 2 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
- 2 cucchiai di prezzemolo lavato, asciugato e finemente tritato
- 1 bicchiere di vino rosso,
- 50 gr di strutto,
- ½ bicchiere di olio di oliva e.v.p.s. a f.,
- sale fino e pepe nero q.s.
In un’ampia casseruola,provvista di coperchio, nell'olio e nello strutto fate soffriggere i due spicchi d’ aglio interi, ma schiacciati; dopo cinque minuti, unitevi il lardo pestato e ripestato con la cipolla; fate soffriggere ancòra per altri cinque minuti ed infine unite i pezzi di carne e lasciateli rosolare per bene su tutti i lati.
Poi bagnate con il vino e lasciate evaporare; unite i pelati schiacciati con una forchetta, salate e pepate ad libitum. Mescolate, incoperchiate e cuocete per 1 ora su fiamma bassa, aggiungendo – ove necessario - una tazza d’acqua bollente. A fine cottura, cospargete con tutto il trito di prezzemolo e servite in tavola caldo di fornello. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambie
CAPRETTO BELLA NAPOLI
Dosi per 6 persone
2, 5 kg di capretto con l’osso tagliato in pezzi di ca cm 5 x 5 x 3,
8 etti di piselli (freschi o surgelati) lessati,
4 uova,
una grossa cipolla dorata ,
100 g di pecorino grattugiato,
2 bicchieri di olio e.v.p. s. a f. ,
sale fino e pepe bianco q.s.
1 limone.
Procedimento
In un capace tegame fate appassire (senza che bruci o arsicci) la cipolla affettata in grossi pezzi, con tutto l'olio e unite il capretto a pezzi, lavato e ben sgocciolato (meglio se asciugato). Rosolate delicatamente, abbassate la fiamma ed aggiungete un mestolo o due di acqua calda e sale.
A metà cottura unite i piselli già lessati e fateli insaporire.
In una terrina battete le uova con il formaggio (2 cucchiai), sale ed un pizzico di pepe, versate il tutto nel tegame e mescolate rapidamente perché l'uovo si rapprenda in modo uniforme. Aggiustate di sale. Spruzzate di limone e servite.
Volendo con il sugo residuo, si posson condire 6 etti di rigatoni o mezze maniche lessati al dente in molta (8 litri) acqua salata (pugno di sale doppio) e saltati nella padella con il sugo residuo, a fuoco vivo, spolverizzati con abbondante pecorino e pepe bianco.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
TAGLIATELLE CON RAGÚ D'AGNELLO
Ingredienti e dosi per 6 persone
Tagliatelle secche o fresche 6 etti,
pomidoro pelati,6 etti,
polpa di manzo, 2,5 etti,
polpa di agnello, 3 etti,
salsiccia, 3 etti,
1 grossa cipolla dorata mondata e tritata grossolanamente,
pisellini,1 etto,
sedano una costa mondata e tritata
1 carota, mondata e tritata,
pancetta tesa a cubetti , 100 gr.
pecorino grattugiato 1 etto,
strutto 2 cucchiai,
1 dado da brodo classico,
olio d'oliva e.v.p.s.a f. 1,5 bicchiere,
vino bianco secco, 1 bicchiere
farina, 2 cucchiai
Prezzemolo lavato asciugato e tritato, q.s.
rosmarino fresco 1 rametto lavato asciugato e sbriciolato ,
aglio, 2 spicchi mondati e tritati,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe decorticato, q.s.
Preparazione:
Mondare e tritare la cipolla.
Farla rosolare con un bicchiere d’olio,lo strutto e gli agli tritati.
Unire rosmarino, sedano e carota.
Ridurre a cubetti la pancetta e passarla al tritacarne assieme al manzo, all’agnello ed alla salsiccia.
Versare il tutto nel tegame con il soffritto di verdure.
Fare insaporire.
Bagnare con il bicchiere di vino.
Fare sfumare.
Cospargere il raguncino con la farina.
Rimestare accuratamente ed aggiungere i pomidoro scottati, pelati e cubettati.
Versate 400 ml. di acqua e sbriciolarvi il dado.
Regolare di sale e di pepe; mescolare.
Fare sobbollire per circa due ore; unire i piselli quindici minuti prima del termine della cottura.
Lessare in abbondante acqua salata (sale doppio) le tagliatelle per 4 minuti se fresche, per otto se secche.Sgrondarle e versarle in una zuppiera calda dove andranno condite dapprima con mezzo bicchiere d’olio e poi con il ragú. Cospargere di prezzemolo, pecorino e pepe, impiattare e mandare in tavola calde di fornello queste gustosissime tagliatelle pasquali.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
CORATELLA D’AGNELLO ALLA FRANCESE
Ingredienti e dosi per 6 persone
Misto di Cuore, fegato,milza e polmone di agnello 1 kg
Lardo di fianco o di gola, 250 g
Vino rosso secco (a preferenza Piedirosso), 1 bottiglia
Farina, 5 cucchiai
4 Spicchi d'aglio mondati e tritati,
6 patate medie mondate e tagliate in quarti
1 grande cipolla dorata mondata e tritata,
Concentrato di pomidoro, 5 cucchiai
Alloro, q.s.
Timo/piperna, q.s.
Sale fino q.s.
Pepe nero macinato a fresco , q.s.
1 Peperoncino piccante, lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed aperto, ma non diviso longitudinalmente ,
Strutto, 2 cucchiai.
Preparazione:
Tagliate la carne a pezzetti piccoli (cubetti da 1 cm. di spigolo). Fate fondere in una grande pentola, a fuoco dolce, il lardo tagliato a dadini, quindi unite tutta la coratella lavata e sgrondata. Aggiungete i cucchiai di farina e lasciate che prendano colore.
Versate il vino, il concentrato di pomodoro, un po' d'acqua, il timo/piperna, l'alloro, l'aglio, il peperoncino piccante, lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed aperto, ma non diviso longitudinalmente e metà della cipolla tritata. Alzate i fuochi e cuocete per circa un'ora.
Nel frattempo, scaldate lo strutto in una padella e quando è ben caldo aggiungete tutta la cipolla residua tritata e fatela imbiondire, quindi unite le patate, bagnatele con una tazza da tè di acqua bollente.
Cuocete per un'ora, quindi mescolate le patate e la cipolla alla coratella, scaldate a fiamma bassa per circa mezz'ora, regolate di sale e di pepe e servite.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Alla stessa maniera si può preparare e gustare la coratella di maiale che normalmente a Napoli si usa per preparare ‘o zuffritto. Questo ricetta, meno pletorica del ns. zuffritto, me l’à suggerita un mio amico francese, ma è saporitissima, soprattutto se si avrà l’accortezza di scegliere un ottimo vino rosso e si adatta magnificamente al pranzo del lunedí in albis qualora si pranzasse in casa e non si andasse in gita fuori porta !
Facítene salute!
CARCIOFI DORATI E FRITTI
E/O PARMIGIANA DI CARCIOFI
Le due ricette che qui di sèguito illustro sono due dei piú gustosi modi napoletani di preparare i carciofi da servire come antipasto o come contorno;delle due la prima è quella base, mentre la seconda è un ampliamento piú goloso della prima.
1° CARCIOFI DORATI E FRITTI
Ingredienti e dosi per 6 persone:
12 carciofi verde-violetto napoletani,
6 uova,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
farina q.s.,
abbondante olio per friggere (semi varii,arachidi,girasole, mais),
sale fino e pepe bianco q.s..
procedimento
Togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine troncare i carciofi dell’eccesso di gambi,dividerle i carciofi in due lungo l’asse maggiore eliminando con uno scavino o un coltellino affilatissimo la barba; indi affettare i carciofi longitudinalmente in fettine dello spessore di ½ cm. rsciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente e scolarli bene; a questo punto sbattere in una ciotola tutte le uova con il pecorino, sale e pepe e trito di prezzemolo; in un tegame a bordi alti mandare a temperatura a fiamma viva abbondante olio per friggere e nel frattempo infarinare abbondantemente le fettine di carciofi, intingerle nelle uove e friggerle poche per volta prelevandole con una schiumarola appena saranno ben dorate ed adagiandole su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto. Aggiustare di sale e servire, quale contorno o parte d’antipasto questi carciofi caldi di fornello.
2° PARMIGIANA DI CARCIOFI
Questa seconda ricetta altro non è che un goloso ampliamento dlla prima, per cui oltre gli ingredienti della prima occorreranno anche i seguenti:
½ litro di passata (fresca o in bottiglia) di pomidoro,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
sale fino e pepe nero q.s.,
alcune foglie di basilico,
3 etti di provola affumicata affettata sottilmente (1/2 cm. di spessore) e tenuta in frigo per 12 ore,
1 etto di pecorino grattugiato.
Procedimento
Una volta dorati e fritti i carciofi cosí come indicato nella prima ricetta, tenerli da parte in caldo; nel frattempo in un tegame a bordi alti approntare a fiamma moderata con l’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,la cipolla mondata ed affettata sottilmente, sale fino e pepe nero uno spesso sugo di pomidoro in circa 15 minuti; al termine prelevare con un mestolino quasi tutto il sugo, lasciandone poco meno di un centimetro sul fondo del tegame, su questo letto di salsa adagiare uno strato di carciofi dorati e fritti, sullo strato di carciofi sistemare delle fettine di provola, del formaggio, del basilico ed altro sugo e continuare con un altro strato fino ad esaurimento degli ingredienti: lo strato superiore dovrà risultare di carciofi e salsa; incoperchiare e passare il tegame a mezza fiamma di fornello, per circa 10 minuti prima di impiatare e servire questa parmigiana come contorno o sostanziosa pietanza.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
PIZZA RUSTICA NAPOLETANA
Dosi per 6 – 8 persone
Per la pasta:
• 500 gr di farina
• 150 gr di strutto o – in mancanza, (ma è preferibile non farlo mancare!) - 200 gr di burro,
• quattro tuorli
• 100 gr di zucchero
• sale fino q. s.
• la buccia grattugiata di un limone non trattato.
Per il ripieno:
6 uova,
150 g di prosciutto cotto in un’unica spessa fetta da tagliare in cubetti di 1 cm. di spigolo,
500 g di ricotta,
300 g di provola affumicata tagliata a cubetti di 1 cm. di spigolo,
200 g di salame napoli (a grana grossa) tagliato a listarelle di cm. 5 x 1 x 1,
100 g di pecorino grattugiato,
1 bicchiere di latte intero,
sale fino, noce moscata, cannella in polvere e pepe bianco q.s..
sugna per ungere q.s.
procedimento
Cominciamo col preparare un’ottima pasta frolla, nel modo seguente:
Fare la fontana con la farina e lo zucchero, porre al centro le uova, il limone ed il burro a temperatura ambiente, a pezzetti o, meglio!, lo strutto. Amalgamare dapprima con una forchetta, poi con le mani, fino ad ottenere una pasta mobida, compatta ed omogenea. L'impasto non va lavorato molto con le mani. Lasciarlo riposare 30 minuti in frigo. Divider la pasta in due parti, l’una doppia dell’altra e con la parte maggiore, tirata a sfoglia spessa ½ centimetro, foderare una capace tortiera (25 cm. di diametro) unta a bordi alti. Frattanto in una terrina stemperare la ricotta con le uova intere e battere il composto con una forchetta aggiungendo il latte, il pecorino, un pizzico di sale, uno di cannella e due di pepe, nonché una grattugiata di noce moscata. Mescolare a questa crema densa i cubi di fiordilatte, il prosciutto tagliati a dadini ed il salame a listellini e versare il tutto nella teglia foderata di pasta.
Coprire con una sfoglia ricavata dalla parte minore della pasta, fate combaciare bene i bordi marcondoli con i rebbi d’una forchetta da tavola ed infornare a 180° per circa un'ora. Evitare di servir caldissima questa torta rustica, ma a cottura ultimata, lasciarla riposare e raffreddare un po’ fuori del forno prima di porzionarla per servirla.
Ottimo, gustosissimo piatto unico, anche da asporto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo. PASTIERA NAPOLETANA*
È l’incontrasto dolce principe della pasticceria napoletana, dolce tipico del periodo pasquale (primavera), ma buono e consigliato in ogni altro periodo dell’anno!
Ingredienti
Per Sei Persone
Grano cotto - 1 lattina 450 gr,
Aroma millefiori per dolci - 15 ml,
Latte - 250 gr,
Strutto - 180 gr,
Arancia e/o limone - scorza grattugiata,
Ricotta - 550 gr,
Uova - 9
Zucchero - 600 gr,
Vaniglia - 1 baccello
Cannella in polvere – 1 cucchiaino da tè
Farina - 350 gr,
Sale fino una presa
Zucchero a velo per guarnire 4 cucchiai
Canditi sminuzzati - 100 gr.
attenzione
Per arricchire il composto della pastiera è d'uso e consigliato aggiungere alcune cucchiaiate di una crema pasticciera preparata con:
un bicchiere di latte,
1 etto di zucchero,
50 gr. di farina doppio zero,
4 rossi d'uovo,
la scorza di un limone,
un baccello o una bustina di vaniglia (vanillina)
Per preparare la crema procedere nel seguente modo:
Versate i tuorli direttamente in un pentolino antiaderente con il fondo arrotondato. Tenete gli albumi per un altra preparazione. Scaldate a fondo il latte in un pentolino e unite le scorzette di limone oppure la bustina di vaniglia o il baccello spaccato in due per il lungo. Nel caso della vaniglia in baccello, grattate con la punta di un coltellino i semini neri direttamente nel latte. Unite lo zucchero ai tuorli e mescolate bene con una frusta a mano. Lavorate per alcuni minuti fino a ottenere una spuma di colore chiaro. Unite la farina e mescolate bene con la frusta. Se l'impasto diventasse troppo denso, allungatelo con 2 cucchiai di latte freddo e mescolate fino a che la farina sia ben incorporata.
Togliete dal latte la stecca o le scorzette e versatelo nel pentolino coi tuorli. Mescolate súbito con la frusta per evitare che il latte bollente cuocia i tuorli e formi dei grumi. Quando si sarà ottenuto un impasto omogeneo, ponete il pentolino su fuoco bassissimo e continuate a mescolare fino a che la crema si addensi. Attenzione, è importante che il fuoco sia davvero basso.
Versare súbito la crema in un setaccio a trama fitta poggiato su di una ciotola. Rimestare ben bene con un cucchiaio, o meglio ancóra con una stecca, nel setaccio per facilitare il passaggio della crema. Coprite la ciotola con pellicola trasparente e lasciatela raffreddare alquanto prima di aggiungerla a gli altri ingredienti.
Prepariamo adesso la pastiera.
Procedimento
Preparate la pasta frolla: sulla spianatoia lavorate la farina con 2 uova, un pizzico di sale, 140 g di strutto e 140 g di zucchero. Come tutte le paste frolle bisogna impastare rapidamente. Ottenuto un panetto sodo ed elastico tenetelo a riposo, coperto, mentre preparate il ripieno.
Versate il contenuto del barattolo di grano cotto in una casseruola; amalgamatelo sulla fiamma bassa con il latte e la scorza grattugiata di un'arancia o di un limone a vostra scelta. Cuocere a lungo ed a mezza fiamma, mescolando attentamente perché non si attacchi, fino ad ottenere un composto cremoso.
Frullate la ricotta con 500 gr. di zucchero, 5 uova intere piú due rossi, una bustina di vaniglia, un cucchiaino da tè di cannella in polvere ed 1 fiala di aroma millefiori. Questo aroma può essere sostituito anche da una fiala di fiori d'arancio, piú facilmente reperibile sul mercato. La vera essenza da usare, però, nella pastiera è la prima. Amalgamate il frullato con il composto a base di grano e aggiungetevi la crema pasticciera ed i canditi tagliati a dadini, girando molto bene.
Accendete il forno e portatelo a 180°. Ungete di strutto o rivestite con carta da forno una tortiera adeguata (ca 25 cm. di diametro), a bordi alti sei cm. di quelle apribili. Foderate lo stampo con la pasta frolla in modo da arrivare fino ai bordi e avendo cura di conservare un po' di pasta frolla per decorare la superficie del dolce. Versate il composto e decoratene la superficie con strisce strette 1,5 cm. di pasta frolla, formando come un graticcio
Infornare per ca 180 minuti.
Lasciar raffreddare bene nello stampo e prima di servire cospargere di zucchero a velo.
Accompagnare la preparazione con rosolii dolci al gusto di arancia o limone.
*Questo dolce è tipico della zona napoletana e viene preparato in occasione della festività primaverile della santa Pasqua e la sua ricetta è molto antica. Da qualcuno, ma non so quanto veridicamente, si afferma che la pastiera, , accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente, mentre il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbero derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio= confarreazione, una delle forme legali del matrimonio romano, la piú solenne (tanto che un matrimonio celebrato in questa forma non poteva esser mai sciolto!) che prendeva il nome dalla focaccia di farro farcita di ricotta offerta agli sposi e a Giove.
Un'altra ipotesi circa l’origine della pastiera la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale. Per il vero la versione originale della pastiera napoletana, versione nata nel contado partenopeo, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste ( sia pure con il nome di pizza doce ‘e tagliuline) in una sorta di frittata di pasta, frittata però dolce fatta mescolando uova, zucchero, ricotta ed aromi con la pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini) scondita, eccedente il fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di pertinenza iera deriva il nome di pastiera.È solo una divertente, fuorviante coincidenza, ma con nessun attendibile sostrato semantico-etimologico che il suffisso iera (suffisso di pertinenza derivato (cfr. Rohlfs) dal francese ière) di past-iera derivi dal sostantivo ieri!
Nell'attuale versione, si pensa che la pastiera sia stata inventata probabilmente nella pace segreta di uno sconosciuto, dimenticato monastero napoletano dove un'ignota suora addetta alla cucina volle che in quel dolce, simbologia della Resurrezione, si unisse agli ingredienti della cucina quotidiana, il profumo dei fiori d'arancio del giardino conventuale. Alla bianca ricotta mescolò una manciata di grano bollito,quel grano che, sepolto nella scura terra, germoglia e risorge splendente come oro, aggiunse poi le uova, simbolo di nuova vita, l'acqua di mille fiori odorosa come la primavera, il cedro e le aromatiche spezie venute dall'Asia.Non vi sono certezze circa il nome del monastero, mentre è certo che le suore dell'antichissimo convento di San Gregorio Armeno furono reputate maestre nella complessa manipolazione della pastiera, e nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia, o per offrirne (in cambio di una piccola elemosina da destinare ai poveri) ai visitatori del convento.
Oggi ogni brava massaia napoletana si ritiene detentrice dell'autentica, ed ovviamente migliore, ricetta della pastiera. Ci sono,per intenderci , due scuole di pensiero : la piú antica insegna a mescolare alla ricotta, al grano cotto ed agli altri ingredienti delle semplici uova sbattute, e prevede che il dolce risulti alto non piú di due dita; la seconda(decisamente innovatrice) alla quale aderí anche mia madre dalla quale ò appreso la ricetta del dolce piú buono in assoluto, raccomanda di confezionare un dolce alto tre dita almeno e di mescolare a tutti gli ingredienti (uova sbattute comprese) una densa crema pasticciera che se non la rende piú leggera, la fa certamente morbida ed appetitosa ; tale innovazione fu dovuta al dolciere-lattaio Starace con bottega in un angolo della Piazza Municipio, bottega ora non piú esistente.
La pastiera va confezionata con un certo anticipo, non oltre il Giovedí o il Venerdí Santo, per dare agio a tutti gli aromi di cui è intrisa di bene amaIgamarsi in un unico e inconfondibile sapore. Appositi "ruoti" di ferro stagnato sono destinati a contenere la pastiera, che in essi viene venduta e anche servita, poiché è assai fragile e a sformarla si rischia di spappolarla irrimediabilmente.
Personalmente lo ritengo il dolce piú saporito che si possa preparare, superiore ad ogni altra leccornia.
Tradizionalmente viene fatto per festeggiare il ritorno della bella stagione e quindi è associato alla Pasqua ma in realtà, come ò detto all’inizio, si può fare in ogni momento visto che gli ingredienti son reperibili
tutto l’anno e sarebbe un peccato non approfittarne!
* Leggenda e mitologia
Leggenda e mitologia si sposano nel narrare la storia della sirena Partenope che incantata dalla bellezza del golfo, disteso tra Posillipo ed il Vesuvio,pare avesse fissato lí(al fondo del mare di Napoli) la sua dimora. Ogni primavera però la bella sirena emergeva dalle acque per salutare le genti che popolavano il golfo, allietandole con canti d'amore e di gioia.
Una volta la sua voce fu cosí melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d'amore che la sirena aveva loro dedicato. Per ringraziarla di un cosí grande diletto, decisero di offrirle quanto di piú prezioso avessero.
Sette fra le piú belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina (forza e ricchezza della campagna), la ricotta (omaggio di pastori che la producevano con il latte delle loro pecorelle); le uova (simbolo della vita che sempre si rinnova) il grano tenero, bollito nel latte (a prova dei due regni della natura), l'acqua di fiori d'arancio (perché anche i profumi della terra rendessero omaggio alla sirena ), le spezie (come omaggio dei popoli piú lontani del mondo) ed infine lo zucchero (per esprimere l'ineffabile dolcezza profusa dal canto di Partenope in cielo, in terra, ed in tutto l'universo).
La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei. Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.
Senza scomodare la mitologia si racconta, a vanto della pastiera, che Maria Teresa D'Austria (Vienna 31.07.1816 † Albano Laziale 08.08.1867) , consorte in seconde nozze del re Ferdinando 2° di Borbone (Palermo 1810 † Caserta 1859), soprannominata dai soldati la Regina che non sorride mai, cedendo alle insistenze del marito buontempone, famoso per la sua ghiottoneria, accondiscese ad assaggiare una fetta di pastiera e non poté far a meno di sorridere, nel gustare la specialità napoletana. Pare che a questo punto il Re esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".
Concludendo dirò che sia che si tratti di un dono degli dei ghiottoni, sia che sia un antico dolce d’epoca romana, o una trovata di una solerte capa ‘e pezza o piú modestamente un’ideazione di una contadina economa e parsimoniosa, a noi non resta che plaudire all’indirizzo di chi ci à donato quest’insuperabile dolce, metterci in cucina, scorciarci le maniche, prepararlo e poi mangiarlo appena sia raffreddato, in barba al diabete, trigliceridi, colesterolo memori ca una vota se campa e tutt’’o llassato è perduto!
Alla pastiera ò dedicato i seguenti sonetti, pubblicati nel mio volume di poesie napoletane :
‘E CCODE D’’O PPASSATO (ed. Graus 2006)
’A PASTIERA
I
Simmo arrivate a Ppasca e pure st’ anno
t’ hê miso ’ncapo ca m’ hê ’a fa ’a pastiera…
Tu me saje cannaruto ’e che manera
pe chistu dolce lloco e staje ’nciarmanno
cu zuccaro e ricotta, ca… nun sanno
qua’ fine aspetta… ggià da ajeressera
’mmiez’ ô revuoto ’e cinche, seje turtiere
ca o songo piccerelle o troppo ’ranne…;
ògne anno ’a stessa storia puntualmente
e ògne anno ’o risultato è ttale e cquale…
J’ ’o ssaccio: me vulisse fà cuntento,
ma ’o fatto è cchisto – nun l’averlo a mmale –
quanno s’ arape ’o furno, ch’ esce fora?
’Na ddia ’e pantosca tosta e senz’ addore!
E me se stregne ’o core!
E m’ arricordo, ahimmé, cu nustalgia
d’ ati pastiere… Chelle ’e mamma mia!
II
Quanno era viva mamma, eh gioja mia…,
ê juorne ’e Pasca, ’a casa, chien’ ’addore
sapeva tutta d’ acqua ’e millefiore
e te metteva ’ncore n’ alleria…
Ma che ne faje ’e ’na pasticceria!?
Pastiere tante, oj ne’, chiene ’e sapore
cotte a mestiere, ca ’un vedive ll’ora
e n’ assaggià ’na fella, comme sia
senza aspettà ca se fosse freddata,
pecché, ’ncopp’ ô buffè d’ ’a stanza ’e pranzo –
guardannole zucose e prelibbate –
pareva ca dicesse’: Fatte ’nnanze!
Ch’ aspiette? Taglia e dicce: Bellavita
’e ffa cchiú mmeglio, ’e ffa cchiú sapurite?…
Nun resistevo ô ’mmito
e ne facevo tale e tante assagge
ca finché campo nun m’ ’e scurdarraggio!
III
E pure tu ’assaggiaste e te piacette
talmente tanto d’alliccarte ’e ddete…
Dicive: Sta ricotta è comme â seta,
’sta pastafrolla è propeto allicchetto!…
Ragion per cui, teté, cu ogni rispetto,
nun t’ ’a piglià si j’ mo, ’nnante a ’sta… preta,
cu ’a scusa ’e tené ’o ppoco ’e diabbete,
j’ me ricuso… Nun è ppe dispietto
ma proprio nun ce ’a faccio… Tiene mente:
se sente ’o ggrano, è vvascia, s’ è arruscata
è scarza ’e cetro e ’a crema n un va niente…
e aje voglia ’e ’mpupazzarla: ’sta… crostata
secca e ’ntaccuta e cu ’na faccia nera
nun m’ ’a puó fa passà pe ’na pastiera!
Pirciò cagna penziero:
nun è arta toja! E si è pe… devuzzione
pígliala bbella e ffatta… e statte bbona!
Mangia Napoli, bbona salute!
Raffaele Bracale.
durante tutto l’anno.
A questo punto non mi resta che il consueto
facítene salute e buona e santa Pasqua!
Raffaele Bracale
Sabato santo:
alle ore 14.00
tortano
insalata incappucciata condita all’agro con olio d’oliva e.v. p. s. a f., sale,pepe, aceto o limone;
finocchi;
A pranzo serale
vermicielle ‘e scammaro
carciofi mammole lessi con pinzimonio,
Pasqua di Resurrezione
A mezza mattinata
Affettati misti
Uova sode,
soufflé pasquale.
A pranzo
1) Antipasto: piatto santo;
2) Sformato ricco di tagliatelle,oppure 2 bis)Pasta pasqualina, oppure 2 ter) Fettuccine alla maestosa;
3) Agnello o capretto alla cacciatora o al forno (vedi Capretto BELLA NAPOLI) con contorno di patate al forno;
4) Carciofi lessi con pinzimonio,oppure
4)bis carciofi dorati e fritti
5) Finocchi e Frutta fresca di stagione,
6) Pastiera.
Lunedí in albis
È il tradizionale giorno della gita fuori porta per cui pranzo al sacco!
Porzioni anche pletoriche di frittate di maccheroni oppure fette di Tortano oppure di Pizza rustica, formaggi ed affettati misti; pastiera
Per chi invece restasse in casa pranzo sontuoso con
Antipasto di formaggi ed affettati misti;
tagliatelle al ragú d’agnello;
coratella di agnello alla francese;
parmigiana di carciofi;
Finocchi e Frutta fresca di stagione;
Pastiera.
A seguire tutte le ricette.
Cominciamo con il sacramentale
TÒRTANO NAPOLETANO
Questa ciambella rustica, è in uso a Napoli tradizionalmente nel tempo pasquale, ricordando con la sua caratteristica forma a corona circolare, la corona di spine imposta a Cristo durante la sua passione; poiché però gli ingredienti di questa ricetta sono reperibili durante tutto l’anno e non solo nel tempo primaverile (tempo pasquale) nulla vieta che la si prepari in altre occasioni, come le festività natalizie o quando piú aggradi: è sempre un asciolvere fantastico!
ingredienti e dosi per 6 – 8 persone
per la pasta
farina, 1 kg.
lievito di birra 2 cubetti,
sugna gr. 100
poco sale fino , molto pepe nero
per il ripieno
:
400 gr. di formaggi misti (provolone dolce e piccante, caciocavallo, fontina, pecorino ecc.) tagliati a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
300 gr. di salame napoletano (a grana grossa) tagliato a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
250 gr. di mortadella con pepe e pistacchio in un’unica spessa fetta poi tagliata a cubetti di circa ½ cm. di spigolo,
formaggio pecorino grattugiato, gr 100
2 etti di ciccioli** casarecci,
4 uova sode,o anche di piú ad libitum,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Stemperate il lievito in acqua tiepida (che non sia troppo calda), impastatelo con un pochino di farina, fatene un panetto e lasciatelo crescere per una mezz'ora, coperto.
Disponete la farina a fontana, ponetevi al centro lo strutto, il sale, il pepe, il panetto cresciuto, il formaggio pecorino grattugiato e, aiutandovi con acqua tiepida, mescolate tutto fino a ottenere una pasta morbida che lavorerete con forza per circa una diecina di minuti battendola sul tavolo.
Fatela poi crescere in una terrina coperta, in luogo tiepido, per un paio d'ore o fin quando la pasta non avrà raddoppiato di volume.
Tagliate tutti i formaggi ed i salumi a dadini e le uova in sei spicchi ognuno. Mescolate tutto meno le uova.
Quando la pasta sarà cresciuta, sgonfiatela battendola con le mani e stendetela allo spessore di un centimetro. Disponete su tutta la superficie, uniformemente, dapprima il pecorino grattugiato e poi tutto il ripieno, e disponete anche le 4 o piú uova sode tagliate a spicchi a distanza regolare ed arrotolate con delicatezza la pasta, il piú strettamente possibile fino ad ottenere un tronfio rotolo di pasta farcita.
Ungete di strutto uno stampo largo provvisto di un tronco di cono centrale, per modo che disponendovi intorno il rotolo suddetto se ne ottenga una ciambella con buco centrale ; disposto, come ò detto, il rotolo di pasta a ciambella, unitene bene le estremità e rimettetelo a crescere in luogo tiepido coprendolo con un panno.
Quando il tòrtano avrà lievitato (accorreranno almeno due ore) infornatelo a forno moderato (170°) per settantacinque/ottanta minuti e sformatelo quando sarà freddo, servendolo porzionato a spicchi.
Questo tòrtano è comunque ottimo sia caldo che freddo.
Osservazioni:
a) una delle presenze caratteristiche del tòrtano napoletano è la sugna o strutto, ingrediente che non può assolutamente essere sostituito con altri grassi (olio o burro); un/una napoletano/a che lo facesse ( come purtroppo ò visto fare da taluna inesperta massaia piú attenta ai falsi tabú del colesterolo e della linea, che ai dettami della sana tradizionale cucina partenopea...) incorrerebbe nella scomunica latae sententiae e meriterebbe di essere scacciato/a con abominio dalla comunità napoletana !
b) quando nella pasta ci sono grassi e ripieno, talvolta la lievitatura tarda a verificarsi; sarebbe quindi opportuno, per non avere sorprese, preparare la pasta il giorno precedente a quello in cui verrà consumato il tortano.
c)*tòrtano = ciambella rustica (dal lat.tort(ilis)tòrto, ritòrto+suff.tonico di pertinenza anus(ano)→tortàno diventato poi nell’uso comune tòrtano).
d)**ciccioli= plur. di cicciolo (s. m. ciò che resta a seguito di pressatura dei tocchi di grasso del maiale dopo che siano stati fusi ad alta temperatura per ricavarne lo strutto); la voce è un derivato di ciccia; la parola a margine in napoletano diventa ciculo e al plur. ciculi ma l'etimologia è molto piú complessa in quanto ciculo/i deriva da un latino volgare *insiciculu(m) da un classico insiciu(m)=carne tritata attraverso un'assimilazione s-c→c-c, aplologia (caduta di una sillaba all'interno di una parola che dovrebbe presentare, in base alla sua etimologia, due sillabe consecutive identiche o simili) ed aferesi della sillaba d'avvio in.
VERMICIELLE ‘E SCAMMARO
(vermicelli di magro)
Dosi per 6 persone
600 grammi di vermicelli,
1 bicchiere di olio d'oliva e.v.p. s. a f.,
due spicchi d'aglio (senza camicia, tritati finissimi)
un ciuffo di aneto lavato, asciugato e tritato finissimo,
1 etto di olive nere di gaeta denocciolate e tritate,
12 acciughe dissalate e diliscate o pari peso di filetti di acciughe sott’olio,
1 cucchiaio di capperi di Pantelleria dissalati,
6 cucchiai di pan grattato abbrustolito a fuoco vivace, oppure (e meglio!) pari peso di mollica di pane casareccio bruscata al forno (240°) e passata ad un mixer con lame da aridi,
50 gr. di pinoli abbrustoliti al forno (220°),
50 gr. di uvetta ammollata in acqua bollente.
Sale doppio (un pugno).
Pepe nero macinato a fresco q.s.
Procedimento
In un'ampia padella versare l'olio e l'aglio tritato sottilmente; fare imbiondire l'aglio a fuoco vivace;aggiungere al soffritto le olive denocciolate e tritate grossolanamente, poi aggiungere i capperi ed infine le acciughe, schiacciandole con la punta di un cucchiaio e badando bene che si disfino completamente fino a sciogliersi nell'olio; nel frattempo in una grossa pentola lessare in abbondantissima acqua salata (circa 8 litri con il pugno di sale doppio) la pasta tenendola molto al dente; a cottura avvenuta versare la pasta nella padella con il sugo, aggiungere un mestolino di acqua di cottura, alzare la fiamma, aggiungere l’uvetta ammollata ed i pinoli tostati precedentemente (al forno o in pochissimo olio bollente) e rimestare velocemente, infine spargere sulla pasta il pan grattato, precedentemente abbrustolito come i pinoli in pochissimo olio bollente oppure la mollica bruscata e tritata , rimestare e versare il tutto in una capace zuppiera di portata; aggiungere abbondante pepe nero macinato al momento ed una spruzzata di aneto crudo tritato finemente; servire con un vino bianco (Ischia, Capri, Fiano, Falanghina) ben fresco di frigo, se è piatto unico o – se accompagnato da un secondo di carne - con un Corposo vino rosso campano (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
NOTA
Questo gustosissimo, ma semplice, economico asciolvere viene usato spesso come pasto dei giorni di magro (quaresima) o in alternativa ai costosi vermicelli a vongole nei giorni di vigilia;
‘e scammaro = di magro (detto però solo del cibo); la voce scammaro è un deverbale derivato attraverso una protesi di una s distrattiva dal verbo latino *cammarare=mangiar di grasso; posto che *cammarare è mangiar di grasso, ne deriva che *scammarare (donde scammaro) vale mangiar di magro. –
CARCIOFI LESSI ( “BACIO E METTO QUI”)
Il protagonista di questa ricetta è il carciofo mammola (a Napoli mammarella); questo tipo di preparazione è una delle portate tradizionali del pranzo pasquale napoletano,ma va da sé che può esser approntato durante tutto il periodo primaverile. Veniamo alla ricetta precisando che il numero di carciofi da servire pro capite è variabile: dipende dalla grandezza delle mammole o mammarelle; se abbastanza grosse ci si può contentare di un solo carciofo a tesa, se piccoli, ne occorrono almeno due!
Ingredienti e dosi per 6 persone
Da 6 a 12 mammole o mammarelle senza spine,
3 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
sale doppio un pugno,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente assieme ad un ciuffo di menta,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento
Togliere ai carciofi le estreme foglie esterne piú dure e mondare il gambo, accorciato a non piú di sei centimetri, della parte esterna, infine troncare i gambi a filo della base dei carciofi,dividere i gambi in due lungo l’asse minore ed affinarli a chiodo, per modo che possano facilmente entrare nella cavità che si ricaverà al centro d’ogni carciofo, allargando le brattee centrali; risciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente ed inserire nella cavità ricavata al centro dei carciofi un pezzetto di gambo, un po’ di trito d’aglio, prezzemolo e menta; premere decisamente con l’indice affinché il trito penetri a fondo. Munirsi di una o due pentole con ampio fondo circolare e pareti non molto alte; sistemare i carciofi uno accanto all’altro riempiendo tutto il fondo della pentola, coprire a filo con acqua fredda aggiungere il sale doppio, incoperchiare e porre a fuoco moderato per circa quaranta minuti fino a che i carciofi risultino lessati ed inteneriti; per accertarsi della cosa, staccare da un carciofo una delle brattee inferiori e controllare se la polpa del margine inferiore della brattea staccata sia convenientemente morbida tanto da poter essere facilmente portata via strappandola per scorrimento addendantola tra gli incisivi superiori e quelli inferiori.In caso positivo significa che i carciofi sono lessati al punto giusto e si possono servire in tavola; si porzionano quando sono ancóra caldi e ad ogni commensale viene fornito in accompagnamento del o dei carciofo/i, un piattino in cui ci sarà del pinzimonio preparato precedentemente sbattendo a fondo olio, sale fino e pepe; il commensale staccherà volta a volta le singole brattee, ne intingerà il margine polputo nel pinzimonio e deglutirà la polpa strappata via per scorrimento addentata tra gli incisivi; giunto al cuore del carciofo il commensale eleminerà la barba,frazionerà calice e gambuccio e li intriderà nel pinzimonio residuo prima di mangiarli.
Poiché di questo carciofo si mangia solo una piccolissima zona delle brattee, mia madre diede alla delicata operazione che ò descritto precedentemente il nome di bacio ed il metto qui seguente si riferisce al fatto che una volta prelevata la minuscola parte di polpa la brattea viene posta via ed accantonata per essere poi buttata!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo, quantunque rammento che i carciofi ànno – ma ignoro il perché – la capacità di rendere dolce, anzi dolcissima l’acqua che uno dovesse assumere dopo averli mangiati. SOUFFLÉ PASQUALE
Eccovi una gustosa preparazione primaverile da consumare fredda come antipasto o rompi-digiuno.
Dosi per 6 persone
8 uova freschissime
2 mazzi di asparagi bianchi
6 etti di fave fresche, sbaccellate e private della prima scorza
3 etti di pisellini freschi o anche surgelati
3 etti di provolone dolce tagliato a cubetti di circa 2 cm. di lato
1 piccola cipolla bianca mondata ed affettata a velo
1 bicchiere e 1/2 d’olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
1 ciuffo di prezzemolo tritato finissimo,
3 cucchiai di pangrattato,
sale e pepe q.s.
Procedimento
Con un pelapate mondare gli asparagi tagliando poi a pezzetti di circa 1,5 cm. i gambi inferendo il taglio diagonalmente lungo l’asse maggiore; sbaccellare le fave eliminando dai singoli semi la buccia esterna; sgranare i piselli freschi o usare quelli surgelati senza farli scongelare precedentemente; lessare contemporaneamente, per pochi minuti in acqua bollente salata sia asparagi che fave che piselli; sgrondare il tutto e farli subito rosolare in padella con olio e cipolla, salando e pepando ad libitum; frattanto in un’ ampia terrina aprire tutte le uova con il ciuffo di prezzemolo e sbatterle a spuma salando e pepando; unire alle uova tutte le verdure rosolate assieme al fondo di cottura, ed aggiungere i cubetti di provolone; ungere una capace tortiera cospargendola di pangrattato; versare tutto il composto nella tortiera, badando di non superare la metà dell’altezza del bordo (il sufflé in forno si alzerà di molto…) ed infornare in forno caldo (180°) per circa30 minuti. Sfornare, far raffreddare lentamente a temperatura ambiente e servire tagliato a spicchi come antipasto con affettati misti e pezzetti di ricotta salata, accompagnato da vino bianco (Falanghina, Fiano, Capri o Ischia) freddo di frigo!
SFORMATO RICCO DI TAGLIATELLE
Qui di sèguito vi segnalo la ricetta di un gustosissimo sformato ricco di tagliatelle, sformato che può essere usato come importante prima portata nei pranzi di festa e segnatamente nel pranzo pasquale, pranzo che si comincia con il tipico antipasto costituito dalla fellata ( cioè affettato misto di salumi di maiale assortiti (salame napoletano, capicollo, coppa di testa, lonza, salsiccia piccante al finocchietto), spicchi di provolone del monaco piccante e dolce, fettine di caciocavallo silano, fettine di ricotta salata, uova sode; tale antipasto oltre il classico nome di fellata= affettato (part. pass. femm. del verbo fellare= affettare; fellare è un denominale del lat. offella(m) diminutivo di offa(m)= focaccia ) tale antipasto dicevo, oltre che fellata è anche detto beneditto(benedetto) o anche piatto santo e semanticamente la faccenda si spiega con il fatto che tale antipasto non viene servito monoporzionato, ma approntato ordinato in bell’ordine a seconda dei tipi di salumi o formaggi, in due ampi piatti (l’uno pei salumi, l’altro per formaggi ed uova sode) da cui ogni commensale attinge secondo il proprio bisogno o desiderio; tali piatti vengon posti all’incirca al centro del tavolo da pranzo per modo che i commensali se ne possano servire ad libitum in attesa della prima portata e poiché tradizionalmente nel dí di Pasqua il capofamiglia è solito benedire, aspergendo con acqua lustrale (che viene attinta con un ramoscello d’ulivo benedetto a sua volta durante i riti della Domenica delle Palme) sia il desco che i componenti la famiglia assisi al desco, ecco che i piatti colmi di affettati misti vengono pur essi benedetti e quasi santificati, e da alcuni anni a Napoli è invalso l’uso di chiamare questo antipasto beneditto(benedetto) o anche piatto santo in luogo di fellata. Per ciò che riguarda la ricotta salata rammento che quella usata è una tipica ricotta da latte ovino détta ricotta ‘e fuscella ; questa ricotta appena lavorata ed opportunamente addizionata di sale, perché si conservi piú a lungo viene posta (meglio veniva posta quando ancóra la produzione era artigianale e non industriale come è oggi),veniva posta per mano dei pastori che la lavoravano in tipici cestini di vimini di forma troncoconica: questo cestino era detto in latino fiscella donde la fuscella napoletana Ciò precisato, passiamo alla ricetta dello sformato a margine.
ingredienti e dosi per 6 persone
6 – 7 etti di tagliatelle all’uovo fresche o secche,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f. ,
1 cipolla dorata mondata e tritata finemente,
1 tazzina di cognac o brandy,
3 etti ricotta salata di pecora,
la mollica macinata di 2 grosse fette di pane casareccio bruscate lungamente al forno (220°),
3 etti di salame napoletano in cubetti di cm. 0,5 di spigolo,
6 uova sode sgusciate ed affettate in rondelle di mezzo centimetro di spessore,
1 etto di pecorino grattugiato di cui la metà addizionata alla mollica di pane macinata,
sale grosso un pugno,
pepe decorticato macinato q.s.
procedimento
Questa preparazione si avvale per la gratinatura in forno della presenza di mollica di pane casareccio opportunamente bruscata al forno poi macinata ed addizionata con la metà del pecorino grattugiato; qualcuno in luogo della mollica di pane casareccio bruscata e macinata, usa del pangrattato di produzione industriale, ma vi assicuro che il risultato non è soddisfacente: il pangrattato industriale spesso non viene prodotto macinando pane, ma biscotti o altri prodotti secchi da forno che però contengono zucchero aggiunto che conferisce al pangrattato un incongruo gusto dolciastro.
Rassodare le sei uova ponendole in una marmitta alta con acqua profonda salata e tenervele in cottura per sette minuti dal momento del primo bollore.Al termine, prelevare le uova lasciarle raffreddare e sgusciarle sotto un getto di acqua corrente fredda, asciugarle, ed affettarle in rondelle regolari dallo spessore di ½ cm.
Privare della scorza le fette di pane e bruscare queste fette di sola mollica a lungo in forno caldo (220°), indi una volta raffreddate, spezzettarle e passarle in mixer con lame da aridi fino ad ottenerne una fine macinatura; versare la mollica cosí macinata in un piatto ed addizionarvi la metà del pecorino grattugiato.
In una ampia teglia adatta anche al forno, mandare a temperatura l’olio e rosolarvi in 5 minuti il trito di cipolla fino a che arsicci ma non bruci e mantenere in caldo; frattanto porre a lessare in otto litri d’acqua salata (pugno di sale doppio) le tagliatelle che, se fresche, vanno lessate per tre minuti dal momento del bollore dell’acqua, se secche vanno lessate per sette primi. Sgrondarle accuratamente dell’acqua e rimestarle nella teglia con olio e cipolla per non piú di quattro minuti a fuoco vivo; nel frattempo in una zuppiera calda stemperare la ricotta salata con una tazzina di cognac o brandy e mezza ramaiolata di acqua di cottura della pasta; trasferire dalla teglia alla zuppiera le tagliatelle e rimestarle delicatamente assieme alla metà del pecorino, al pepe macinato a fresco ed alla dadolata di salame; quando si saranno ben intrise di ricotta, trasferirle nuovamente nella teglia ben unta del fondo di cottura, formando due strati di pasta; su quello inferiore distribuire le rondelle d’uova sode, sullo strato superiore cospargere il trito di mollica addizionato con la metà di pecorino e mandare in forno preriscaldato a 180° per circa 15 minuti o fino a che lo sformato non risulti ben gratinato.
Lasciare leggermente intiepidire e servire questo sformato ricco tagliato in spesse mattonelle quadrate.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
PASTA PASQUALINA
Sta per approssimarsi la primavera e voglio segnalarvi questa gustosissima minestra di pasta, piselli e carciofi, minestra che un tempo fu quasi esclusiva della stagione primaverile allorché si raccoglievano, quale primizia, i frutti e segnatamente i semi eduli, i veri e propri piselli (dal lat. volg. *pisellu(m), dim. di pisum, che è dal gr. píson 'pisello') di questa pianta erbacea rampicante con fiori bianchi o colorati, foglie composte e baccelli contenenti semi verdi sferici (fam. Leguminose);da un po’ di tempo a questa parte, fortunatamente, soprattutto per merito della surgelazione industriale, i piccoli piselli primaverili si trovano durante tutto l’anno e tali prodotti conservati non ànno nulla da invidiare a quelli freschi di campo e talvolta sono addirittura migliori (a sentire le nostre accorte massaie) di talché è possibile durante tutte le stagioni l’anno approntare la appetitosa, salutare, gustosa minestra in epigrafe.
ingredienti e dosi per 6 persone
6 carciofi spinosi verdi-violetti di Napoli o di Palermo,
1 kg. di pisellini freschi (peso lordo) oppure
5 etti (peso netto) di pisellini sgranati o surgelati,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
1 carota grattata e tritata,
½ costa di sedano grattata e tritata,
½ bicchiere di olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 cucchiaio di strutto,
il succo d’un limone,
2 etti di pancetta tesa tagliata a listelli cm 5 x 1 x 1,
6 uova,
farina q.b.
abbondante olio di semi per friggere,
1 litro e mezzo di brodo vegetale da verdure fresche o anche di dado ,
sale fino e pepe bianco q.s.,
6 etti di vermicelli spezzati (3 cm.) o di tubetti piccoli (avemarie),
1 etto di Pecorino laticauda grattugiato .
sale doppio un pugno.
procedimento
Mondare i carciofi accorciandone i gambi in modo da tener questi alti non piú di tre centimetri dal fondo del carciofo, indi spuntare i carciofi delle spine e togliere le brattee piú dure, tagliarli longitudinalmente in due, eliminare il fieno ed affettarli sottilmente (mezzo cm.) longitudinalmente e metterli in acqua acidulata con il succo del limone per non farli annerire. Battere a spuma tre delle sei uova addizionate con due cucchiai di pecorino, un pizzico di sale fino e due di pepe. Mandare a temperatura in un tegame alto l’olio di semi, sgrondare le fettine di carciofo, infarinarle, intingerle nelle uova e friggerle fino a che siano ben dorate,prelevarle con una schiumarola e porle su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto, salare ad libitum e tenere in caldo. Súbito dopo sgranare i piselli.
Approntare il trito fine di cipolla, carota e sedano e farlo soffriggere in una pentola per minestra con l’olio ed il cucchiaio di sugna a fiamma media.
Riscaldare il brodo.
Quando il trito sarà dorato aggiungere la pancetta e dopo cinque minuti i piselli (quelli surgelati non occorre scongelarli), allungare con una ramaiolata di brodo bollente e farli cuocere a fuoco vivo per 10 minuti dalla ripresa del bollore.
Aggiungere 4-5 mestoli di brodo, portarlo ad ebollizione, regolare eventualmente di sale ed aggiungere la pasta; a Napoli si usano, per questa minestra o i tubetti piccoli (avemarie) o i vermicelli spezzati:dipende dai gusti o dalle tradizioni familiari; personalmente preferisco le avemarie, ma non mi disdignerebbero i vermicelli spezzati. Cuocer la pasta a pentola scoperta,per modo che alla fine la minestra non risulti troppo liquida, a seconda del gusto o del tempo di cottura consigliato sulla confezione della pasta scelta. Battere a spuma le altre tre uova anche queste addizionate di due cucchiai di pecorino,pochissimo sale e due pizzichi di pepe. Versare queste uova sulla pasta e rimestare a fuoco medio fino a che siano ben rapprese.
A fine cottura unire il pecorino finemente grattugiato, mescolare bene e lasciare riposare un paio di minuti prima di impiattare spolverizzando con una generosa grattugiata di pepe bianco e guarnendo ogni porzione con delle fettine di carciofi dorati e fritti. Servire questa pasta pasqualina ben calda di fornello.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
FETTUCCINE ALLA MAESTOSA
Dosi per 6 persone:
700 gr. di fettuccine all’uovo o in alternativa 700gr.
di mafaldine di grano duro.
500 gr. di pomidoro sbollentati e pelati o 1 scatola da 500 gr. di pomidoro pelati.
300 gr. di gambetto di prosciutto crudo tagliato in cubetti piccolissimi.
2 buste di funghi secchi ammollati
2 cucchiai di pisellini freschi o surgelati sbollentati
1 cipolla affettata sottilmente
1 cucchiaio di basilico spezzettato finemente a mano senza coltello.
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.
1 confezione da 200 gr. di panna vegetale da cucina.
½ etto di grana grattugiato,
sale fino e pepe q.s.
sale doppio un pugno.
Procedimento
In un’ampia padella soffriggere la cipolla nell’olio, aggiungere il prosciutto ed i funghi ammollati, ½ mestolo di acqua bollente e far cuocere aggiustando di sale fino; aggiungere i due cucchiai di pisellini precedentemente sbollentati e rimestare velocemente; alla fine raccogliere il soffritto con una schiumarola e tenerlo da parte al caldo in una ciotolina;
nella stessa padella aggiungere ancora un po’ d’olio e un po’ di cipolla, far soffriggere, versare i pomidoro, sale fino, pepe e basilico e preparare una veloce salsa, nella quale alla fine versare tutto il soffritto tenuto da parte nella ciotolina; rimestare, abbassare la fiamma e tenere il tutto al caldo.
Frattanto lessate molto al dente le tagliatelle all’uovo o le mafaldine in abbondantissima acqua salata (pugno sale doppio), sgrondatele bene e versatele nella padella con il sugo; rimestate, spolverizzate di grana grattugiato e coprite il tutto con il contenuto della confezione di panna da cucina; amalgamate rimestando sapientemente e poi passate la teglia in forno caldo (180°) per alcuni minuti; servite ben calde queste tagliatelle o mafaldine seguite da un secondo di carni in umido o di formaggi freschi.
Poiché è un piatto da passare al forno prima di servirlo, si presta ad una preparazione anticipata che va poi completata con il passaggio in forno appena prima di mettere in tavola.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
CAPRETTO ALLA CACCIATORA
ingredienti e dosi per 6 persone:
- 2 kg di groppa di capretto a pezzi di cm. 5 x 4 x3
- 100 gr di lardo di pancia pestato e ripestato,
- 500 gr di pomidoro freschi sbollentati e pelati
o in alternativa una scatola da 5 etti di pomidoro pelati,
- 1 cipolla dorata mondata e tritata,
- 2 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
- 2 cucchiai di prezzemolo lavato, asciugato e finemente tritato
- 1 bicchiere di vino rosso,
- 50 gr di strutto,
- ½ bicchiere di olio di oliva e.v.p.s. a f.,
- sale fino e pepe nero q.s.
In un’ampia casseruola,provvista di coperchio, nell'olio e nello strutto fate soffriggere i due spicchi d’ aglio interi, ma schiacciati; dopo cinque minuti, unitevi il lardo pestato e ripestato con la cipolla; fate soffriggere ancòra per altri cinque minuti ed infine unite i pezzi di carne e lasciateli rosolare per bene su tutti i lati.
Poi bagnate con il vino e lasciate evaporare; unite i pelati schiacciati con una forchetta, salate e pepate ad libitum. Mescolate, incoperchiate e cuocete per 1 ora su fiamma bassa, aggiungendo – ove necessario - una tazza d’acqua bollente. A fine cottura, cospargete con tutto il trito di prezzemolo e servite in tavola caldo di fornello. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambie
CAPRETTO BELLA NAPOLI
Dosi per 6 persone
2, 5 kg di capretto con l’osso tagliato in pezzi di ca cm 5 x 5 x 3,
8 etti di piselli (freschi o surgelati) lessati,
4 uova,
una grossa cipolla dorata ,
100 g di pecorino grattugiato,
2 bicchieri di olio e.v.p. s. a f. ,
sale fino e pepe bianco q.s.
1 limone.
Procedimento
In un capace tegame fate appassire (senza che bruci o arsicci) la cipolla affettata in grossi pezzi, con tutto l'olio e unite il capretto a pezzi, lavato e ben sgocciolato (meglio se asciugato). Rosolate delicatamente, abbassate la fiamma ed aggiungete un mestolo o due di acqua calda e sale.
A metà cottura unite i piselli già lessati e fateli insaporire.
In una terrina battete le uova con il formaggio (2 cucchiai), sale ed un pizzico di pepe, versate il tutto nel tegame e mescolate rapidamente perché l'uovo si rapprenda in modo uniforme. Aggiustate di sale. Spruzzate di limone e servite.
Volendo con il sugo residuo, si posson condire 6 etti di rigatoni o mezze maniche lessati al dente in molta (8 litri) acqua salata (pugno di sale doppio) e saltati nella padella con il sugo residuo, a fuoco vivo, spolverizzati con abbondante pecorino e pepe bianco.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
TAGLIATELLE CON RAGÚ D'AGNELLO
Ingredienti e dosi per 6 persone
Tagliatelle secche o fresche 6 etti,
pomidoro pelati,6 etti,
polpa di manzo, 2,5 etti,
polpa di agnello, 3 etti,
salsiccia, 3 etti,
1 grossa cipolla dorata mondata e tritata grossolanamente,
pisellini,1 etto,
sedano una costa mondata e tritata
1 carota, mondata e tritata,
pancetta tesa a cubetti , 100 gr.
pecorino grattugiato 1 etto,
strutto 2 cucchiai,
1 dado da brodo classico,
olio d'oliva e.v.p.s.a f. 1,5 bicchiere,
vino bianco secco, 1 bicchiere
farina, 2 cucchiai
Prezzemolo lavato asciugato e tritato, q.s.
rosmarino fresco 1 rametto lavato asciugato e sbriciolato ,
aglio, 2 spicchi mondati e tritati,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe decorticato, q.s.
Preparazione:
Mondare e tritare la cipolla.
Farla rosolare con un bicchiere d’olio,lo strutto e gli agli tritati.
Unire rosmarino, sedano e carota.
Ridurre a cubetti la pancetta e passarla al tritacarne assieme al manzo, all’agnello ed alla salsiccia.
Versare il tutto nel tegame con il soffritto di verdure.
Fare insaporire.
Bagnare con il bicchiere di vino.
Fare sfumare.
Cospargere il raguncino con la farina.
Rimestare accuratamente ed aggiungere i pomidoro scottati, pelati e cubettati.
Versate 400 ml. di acqua e sbriciolarvi il dado.
Regolare di sale e di pepe; mescolare.
Fare sobbollire per circa due ore; unire i piselli quindici minuti prima del termine della cottura.
Lessare in abbondante acqua salata (sale doppio) le tagliatelle per 4 minuti se fresche, per otto se secche.Sgrondarle e versarle in una zuppiera calda dove andranno condite dapprima con mezzo bicchiere d’olio e poi con il ragú. Cospargere di prezzemolo, pecorino e pepe, impiattare e mandare in tavola calde di fornello queste gustosissime tagliatelle pasquali.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
CORATELLA D’AGNELLO ALLA FRANCESE
Ingredienti e dosi per 6 persone
Misto di Cuore, fegato,milza e polmone di agnello 1 kg
Lardo di fianco o di gola, 250 g
Vino rosso secco (a preferenza Piedirosso), 1 bottiglia
Farina, 5 cucchiai
4 Spicchi d'aglio mondati e tritati,
6 patate medie mondate e tagliate in quarti
1 grande cipolla dorata mondata e tritata,
Concentrato di pomidoro, 5 cucchiai
Alloro, q.s.
Timo/piperna, q.s.
Sale fino q.s.
Pepe nero macinato a fresco , q.s.
1 Peperoncino piccante, lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed aperto, ma non diviso longitudinalmente ,
Strutto, 2 cucchiai.
Preparazione:
Tagliate la carne a pezzetti piccoli (cubetti da 1 cm. di spigolo). Fate fondere in una grande pentola, a fuoco dolce, il lardo tagliato a dadini, quindi unite tutta la coratella lavata e sgrondata. Aggiungete i cucchiai di farina e lasciate che prendano colore.
Versate il vino, il concentrato di pomodoro, un po' d'acqua, il timo/piperna, l'alloro, l'aglio, il peperoncino piccante, lavato, asciugato, privato di picciolo e corona ed aperto, ma non diviso longitudinalmente e metà della cipolla tritata. Alzate i fuochi e cuocete per circa un'ora.
Nel frattempo, scaldate lo strutto in una padella e quando è ben caldo aggiungete tutta la cipolla residua tritata e fatela imbiondire, quindi unite le patate, bagnatele con una tazza da tè di acqua bollente.
Cuocete per un'ora, quindi mescolate le patate e la cipolla alla coratella, scaldate a fiamma bassa per circa mezz'ora, regolate di sale e di pepe e servite.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli e possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Alla stessa maniera si può preparare e gustare la coratella di maiale che normalmente a Napoli si usa per preparare ‘o zuffritto. Questo ricetta, meno pletorica del ns. zuffritto, me l’à suggerita un mio amico francese, ma è saporitissima, soprattutto se si avrà l’accortezza di scegliere un ottimo vino rosso e si adatta magnificamente al pranzo del lunedí in albis qualora si pranzasse in casa e non si andasse in gita fuori porta !
Facítene salute!
CARCIOFI DORATI E FRITTI
E/O PARMIGIANA DI CARCIOFI
Le due ricette che qui di sèguito illustro sono due dei piú gustosi modi napoletani di preparare i carciofi da servire come antipasto o come contorno;delle due la prima è quella base, mentre la seconda è un ampliamento piú goloso della prima.
1° CARCIOFI DORATI E FRITTI
Ingredienti e dosi per 6 persone:
12 carciofi verde-violetto napoletani,
6 uova,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
farina q.s.,
abbondante olio per friggere (semi varii,arachidi,girasole, mais),
sale fino e pepe bianco q.s..
procedimento
Togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine troncare i carciofi dell’eccesso di gambi,dividerle i carciofi in due lungo l’asse maggiore eliminando con uno scavino o un coltellino affilatissimo la barba; indi affettare i carciofi longitudinalmente in fettine dello spessore di ½ cm. rsciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente e scolarli bene; a questo punto sbattere in una ciotola tutte le uova con il pecorino, sale e pepe e trito di prezzemolo; in un tegame a bordi alti mandare a temperatura a fiamma viva abbondante olio per friggere e nel frattempo infarinare abbondantemente le fettine di carciofi, intingerle nelle uove e friggerle poche per volta prelevandole con una schiumarola appena saranno ben dorate ed adagiandole su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto. Aggiustare di sale e servire, quale contorno o parte d’antipasto questi carciofi caldi di fornello.
2° PARMIGIANA DI CARCIOFI
Questa seconda ricetta altro non è che un goloso ampliamento dlla prima, per cui oltre gli ingredienti della prima occorreranno anche i seguenti:
½ litro di passata (fresca o in bottiglia) di pomidoro,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
sale fino e pepe nero q.s.,
alcune foglie di basilico,
3 etti di provola affumicata affettata sottilmente (1/2 cm. di spessore) e tenuta in frigo per 12 ore,
1 etto di pecorino grattugiato.
Procedimento
Una volta dorati e fritti i carciofi cosí come indicato nella prima ricetta, tenerli da parte in caldo; nel frattempo in un tegame a bordi alti approntare a fiamma moderata con l’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,la cipolla mondata ed affettata sottilmente, sale fino e pepe nero uno spesso sugo di pomidoro in circa 15 minuti; al termine prelevare con un mestolino quasi tutto il sugo, lasciandone poco meno di un centimetro sul fondo del tegame, su questo letto di salsa adagiare uno strato di carciofi dorati e fritti, sullo strato di carciofi sistemare delle fettine di provola, del formaggio, del basilico ed altro sugo e continuare con un altro strato fino ad esaurimento degli ingredienti: lo strato superiore dovrà risultare di carciofi e salsa; incoperchiare e passare il tegame a mezza fiamma di fornello, per circa 10 minuti prima di impiatare e servire questa parmigiana come contorno o sostanziosa pietanza.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
PIZZA RUSTICA NAPOLETANA
Dosi per 6 – 8 persone
Per la pasta:
• 500 gr di farina
• 150 gr di strutto o – in mancanza, (ma è preferibile non farlo mancare!) - 200 gr di burro,
• quattro tuorli
• 100 gr di zucchero
• sale fino q. s.
• la buccia grattugiata di un limone non trattato.
Per il ripieno:
6 uova,
150 g di prosciutto cotto in un’unica spessa fetta da tagliare in cubetti di 1 cm. di spigolo,
500 g di ricotta,
300 g di provola affumicata tagliata a cubetti di 1 cm. di spigolo,
200 g di salame napoli (a grana grossa) tagliato a listarelle di cm. 5 x 1 x 1,
100 g di pecorino grattugiato,
1 bicchiere di latte intero,
sale fino, noce moscata, cannella in polvere e pepe bianco q.s..
sugna per ungere q.s.
procedimento
Cominciamo col preparare un’ottima pasta frolla, nel modo seguente:
Fare la fontana con la farina e lo zucchero, porre al centro le uova, il limone ed il burro a temperatura ambiente, a pezzetti o, meglio!, lo strutto. Amalgamare dapprima con una forchetta, poi con le mani, fino ad ottenere una pasta mobida, compatta ed omogenea. L'impasto non va lavorato molto con le mani. Lasciarlo riposare 30 minuti in frigo. Divider la pasta in due parti, l’una doppia dell’altra e con la parte maggiore, tirata a sfoglia spessa ½ centimetro, foderare una capace tortiera (25 cm. di diametro) unta a bordi alti. Frattanto in una terrina stemperare la ricotta con le uova intere e battere il composto con una forchetta aggiungendo il latte, il pecorino, un pizzico di sale, uno di cannella e due di pepe, nonché una grattugiata di noce moscata. Mescolare a questa crema densa i cubi di fiordilatte, il prosciutto tagliati a dadini ed il salame a listellini e versare il tutto nella teglia foderata di pasta.
Coprire con una sfoglia ricavata dalla parte minore della pasta, fate combaciare bene i bordi marcondoli con i rebbi d’una forchetta da tavola ed infornare a 180° per circa un'ora. Evitare di servir caldissima questa torta rustica, ma a cottura ultimata, lasciarla riposare e raffreddare un po’ fuori del forno prima di porzionarla per servirla.
Ottimo, gustosissimo piatto unico, anche da asporto.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo. PASTIERA NAPOLETANA*
È l’incontrasto dolce principe della pasticceria napoletana, dolce tipico del periodo pasquale (primavera), ma buono e consigliato in ogni altro periodo dell’anno!
Ingredienti
Per Sei Persone
Grano cotto - 1 lattina 450 gr,
Aroma millefiori per dolci - 15 ml,
Latte - 250 gr,
Strutto - 180 gr,
Arancia e/o limone - scorza grattugiata,
Ricotta - 550 gr,
Uova - 9
Zucchero - 600 gr,
Vaniglia - 1 baccello
Cannella in polvere – 1 cucchiaino da tè
Farina - 350 gr,
Sale fino una presa
Zucchero a velo per guarnire 4 cucchiai
Canditi sminuzzati - 100 gr.
attenzione
Per arricchire il composto della pastiera è d'uso e consigliato aggiungere alcune cucchiaiate di una crema pasticciera preparata con:
un bicchiere di latte,
1 etto di zucchero,
50 gr. di farina doppio zero,
4 rossi d'uovo,
la scorza di un limone,
un baccello o una bustina di vaniglia (vanillina)
Per preparare la crema procedere nel seguente modo:
Versate i tuorli direttamente in un pentolino antiaderente con il fondo arrotondato. Tenete gli albumi per un altra preparazione. Scaldate a fondo il latte in un pentolino e unite le scorzette di limone oppure la bustina di vaniglia o il baccello spaccato in due per il lungo. Nel caso della vaniglia in baccello, grattate con la punta di un coltellino i semini neri direttamente nel latte. Unite lo zucchero ai tuorli e mescolate bene con una frusta a mano. Lavorate per alcuni minuti fino a ottenere una spuma di colore chiaro. Unite la farina e mescolate bene con la frusta. Se l'impasto diventasse troppo denso, allungatelo con 2 cucchiai di latte freddo e mescolate fino a che la farina sia ben incorporata.
Togliete dal latte la stecca o le scorzette e versatelo nel pentolino coi tuorli. Mescolate súbito con la frusta per evitare che il latte bollente cuocia i tuorli e formi dei grumi. Quando si sarà ottenuto un impasto omogeneo, ponete il pentolino su fuoco bassissimo e continuate a mescolare fino a che la crema si addensi. Attenzione, è importante che il fuoco sia davvero basso.
Versare súbito la crema in un setaccio a trama fitta poggiato su di una ciotola. Rimestare ben bene con un cucchiaio, o meglio ancóra con una stecca, nel setaccio per facilitare il passaggio della crema. Coprite la ciotola con pellicola trasparente e lasciatela raffreddare alquanto prima di aggiungerla a gli altri ingredienti.
Prepariamo adesso la pastiera.
Procedimento
Preparate la pasta frolla: sulla spianatoia lavorate la farina con 2 uova, un pizzico di sale, 140 g di strutto e 140 g di zucchero. Come tutte le paste frolle bisogna impastare rapidamente. Ottenuto un panetto sodo ed elastico tenetelo a riposo, coperto, mentre preparate il ripieno.
Versate il contenuto del barattolo di grano cotto in una casseruola; amalgamatelo sulla fiamma bassa con il latte e la scorza grattugiata di un'arancia o di un limone a vostra scelta. Cuocere a lungo ed a mezza fiamma, mescolando attentamente perché non si attacchi, fino ad ottenere un composto cremoso.
Frullate la ricotta con 500 gr. di zucchero, 5 uova intere piú due rossi, una bustina di vaniglia, un cucchiaino da tè di cannella in polvere ed 1 fiala di aroma millefiori. Questo aroma può essere sostituito anche da una fiala di fiori d'arancio, piú facilmente reperibile sul mercato. La vera essenza da usare, però, nella pastiera è la prima. Amalgamate il frullato con il composto a base di grano e aggiungetevi la crema pasticciera ed i canditi tagliati a dadini, girando molto bene.
Accendete il forno e portatelo a 180°. Ungete di strutto o rivestite con carta da forno una tortiera adeguata (ca 25 cm. di diametro), a bordi alti sei cm. di quelle apribili. Foderate lo stampo con la pasta frolla in modo da arrivare fino ai bordi e avendo cura di conservare un po' di pasta frolla per decorare la superficie del dolce. Versate il composto e decoratene la superficie con strisce strette 1,5 cm. di pasta frolla, formando come un graticcio
Infornare per ca 180 minuti.
Lasciar raffreddare bene nello stampo e prima di servire cospargere di zucchero a velo.
Accompagnare la preparazione con rosolii dolci al gusto di arancia o limone.
*Questo dolce è tipico della zona napoletana e viene preparato in occasione della festività primaverile della santa Pasqua e la sua ricetta è molto antica. Da qualcuno, ma non so quanto veridicamente, si afferma che la pastiera, , accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente, mentre il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbero derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio= confarreazione, una delle forme legali del matrimonio romano, la piú solenne (tanto che un matrimonio celebrato in questa forma non poteva esser mai sciolto!) che prendeva il nome dalla focaccia di farro farcita di ricotta offerta agli sposi e a Giove.
Un'altra ipotesi circa l’origine della pastiera la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale. Per il vero la versione originale della pastiera napoletana, versione nata nel contado partenopeo, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste ( sia pure con il nome di pizza doce ‘e tagliuline) in una sorta di frittata di pasta, frittata però dolce fatta mescolando uova, zucchero, ricotta ed aromi con la pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini) scondita, eccedente il fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di pertinenza iera deriva il nome di pastiera.È solo una divertente, fuorviante coincidenza, ma con nessun attendibile sostrato semantico-etimologico che il suffisso iera (suffisso di pertinenza derivato (cfr. Rohlfs) dal francese ière) di past-iera derivi dal sostantivo ieri!
Nell'attuale versione, si pensa che la pastiera sia stata inventata probabilmente nella pace segreta di uno sconosciuto, dimenticato monastero napoletano dove un'ignota suora addetta alla cucina volle che in quel dolce, simbologia della Resurrezione, si unisse agli ingredienti della cucina quotidiana, il profumo dei fiori d'arancio del giardino conventuale. Alla bianca ricotta mescolò una manciata di grano bollito,quel grano che, sepolto nella scura terra, germoglia e risorge splendente come oro, aggiunse poi le uova, simbolo di nuova vita, l'acqua di mille fiori odorosa come la primavera, il cedro e le aromatiche spezie venute dall'Asia.Non vi sono certezze circa il nome del monastero, mentre è certo che le suore dell'antichissimo convento di San Gregorio Armeno furono reputate maestre nella complessa manipolazione della pastiera, e nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia, o per offrirne (in cambio di una piccola elemosina da destinare ai poveri) ai visitatori del convento.
Oggi ogni brava massaia napoletana si ritiene detentrice dell'autentica, ed ovviamente migliore, ricetta della pastiera. Ci sono,per intenderci , due scuole di pensiero : la piú antica insegna a mescolare alla ricotta, al grano cotto ed agli altri ingredienti delle semplici uova sbattute, e prevede che il dolce risulti alto non piú di due dita; la seconda(decisamente innovatrice) alla quale aderí anche mia madre dalla quale ò appreso la ricetta del dolce piú buono in assoluto, raccomanda di confezionare un dolce alto tre dita almeno e di mescolare a tutti gli ingredienti (uova sbattute comprese) una densa crema pasticciera che se non la rende piú leggera, la fa certamente morbida ed appetitosa ; tale innovazione fu dovuta al dolciere-lattaio Starace con bottega in un angolo della Piazza Municipio, bottega ora non piú esistente.
La pastiera va confezionata con un certo anticipo, non oltre il Giovedí o il Venerdí Santo, per dare agio a tutti gli aromi di cui è intrisa di bene amaIgamarsi in un unico e inconfondibile sapore. Appositi "ruoti" di ferro stagnato sono destinati a contenere la pastiera, che in essi viene venduta e anche servita, poiché è assai fragile e a sformarla si rischia di spappolarla irrimediabilmente.
Personalmente lo ritengo il dolce piú saporito che si possa preparare, superiore ad ogni altra leccornia.
Tradizionalmente viene fatto per festeggiare il ritorno della bella stagione e quindi è associato alla Pasqua ma in realtà, come ò detto all’inizio, si può fare in ogni momento visto che gli ingredienti son reperibili
tutto l’anno e sarebbe un peccato non approfittarne!
* Leggenda e mitologia
Leggenda e mitologia si sposano nel narrare la storia della sirena Partenope che incantata dalla bellezza del golfo, disteso tra Posillipo ed il Vesuvio,pare avesse fissato lí(al fondo del mare di Napoli) la sua dimora. Ogni primavera però la bella sirena emergeva dalle acque per salutare le genti che popolavano il golfo, allietandole con canti d'amore e di gioia.
Una volta la sua voce fu cosí melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d'amore che la sirena aveva loro dedicato. Per ringraziarla di un cosí grande diletto, decisero di offrirle quanto di piú prezioso avessero.
Sette fra le piú belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina (forza e ricchezza della campagna), la ricotta (omaggio di pastori che la producevano con il latte delle loro pecorelle); le uova (simbolo della vita che sempre si rinnova) il grano tenero, bollito nel latte (a prova dei due regni della natura), l'acqua di fiori d'arancio (perché anche i profumi della terra rendessero omaggio alla sirena ), le spezie (come omaggio dei popoli piú lontani del mondo) ed infine lo zucchero (per esprimere l'ineffabile dolcezza profusa dal canto di Partenope in cielo, in terra, ed in tutto l'universo).
La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei. Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.
Senza scomodare la mitologia si racconta, a vanto della pastiera, che Maria Teresa D'Austria (Vienna 31.07.1816 † Albano Laziale 08.08.1867) , consorte in seconde nozze del re Ferdinando 2° di Borbone (Palermo 1810 † Caserta 1859), soprannominata dai soldati la Regina che non sorride mai, cedendo alle insistenze del marito buontempone, famoso per la sua ghiottoneria, accondiscese ad assaggiare una fetta di pastiera e non poté far a meno di sorridere, nel gustare la specialità napoletana. Pare che a questo punto il Re esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".
Concludendo dirò che sia che si tratti di un dono degli dei ghiottoni, sia che sia un antico dolce d’epoca romana, o una trovata di una solerte capa ‘e pezza o piú modestamente un’ideazione di una contadina economa e parsimoniosa, a noi non resta che plaudire all’indirizzo di chi ci à donato quest’insuperabile dolce, metterci in cucina, scorciarci le maniche, prepararlo e poi mangiarlo appena sia raffreddato, in barba al diabete, trigliceridi, colesterolo memori ca una vota se campa e tutt’’o llassato è perduto!
Alla pastiera ò dedicato i seguenti sonetti, pubblicati nel mio volume di poesie napoletane :
‘E CCODE D’’O PPASSATO (ed. Graus 2006)
’A PASTIERA
I
Simmo arrivate a Ppasca e pure st’ anno
t’ hê miso ’ncapo ca m’ hê ’a fa ’a pastiera…
Tu me saje cannaruto ’e che manera
pe chistu dolce lloco e staje ’nciarmanno
cu zuccaro e ricotta, ca… nun sanno
qua’ fine aspetta… ggià da ajeressera
’mmiez’ ô revuoto ’e cinche, seje turtiere
ca o songo piccerelle o troppo ’ranne…;
ògne anno ’a stessa storia puntualmente
e ògne anno ’o risultato è ttale e cquale…
J’ ’o ssaccio: me vulisse fà cuntento,
ma ’o fatto è cchisto – nun l’averlo a mmale –
quanno s’ arape ’o furno, ch’ esce fora?
’Na ddia ’e pantosca tosta e senz’ addore!
E me se stregne ’o core!
E m’ arricordo, ahimmé, cu nustalgia
d’ ati pastiere… Chelle ’e mamma mia!
II
Quanno era viva mamma, eh gioja mia…,
ê juorne ’e Pasca, ’a casa, chien’ ’addore
sapeva tutta d’ acqua ’e millefiore
e te metteva ’ncore n’ alleria…
Ma che ne faje ’e ’na pasticceria!?
Pastiere tante, oj ne’, chiene ’e sapore
cotte a mestiere, ca ’un vedive ll’ora
e n’ assaggià ’na fella, comme sia
senza aspettà ca se fosse freddata,
pecché, ’ncopp’ ô buffè d’ ’a stanza ’e pranzo –
guardannole zucose e prelibbate –
pareva ca dicesse’: Fatte ’nnanze!
Ch’ aspiette? Taglia e dicce: Bellavita
’e ffa cchiú mmeglio, ’e ffa cchiú sapurite?…
Nun resistevo ô ’mmito
e ne facevo tale e tante assagge
ca finché campo nun m’ ’e scurdarraggio!
III
E pure tu ’assaggiaste e te piacette
talmente tanto d’alliccarte ’e ddete…
Dicive: Sta ricotta è comme â seta,
’sta pastafrolla è propeto allicchetto!…
Ragion per cui, teté, cu ogni rispetto,
nun t’ ’a piglià si j’ mo, ’nnante a ’sta… preta,
cu ’a scusa ’e tené ’o ppoco ’e diabbete,
j’ me ricuso… Nun è ppe dispietto
ma proprio nun ce ’a faccio… Tiene mente:
se sente ’o ggrano, è vvascia, s’ è arruscata
è scarza ’e cetro e ’a crema n un va niente…
e aje voglia ’e ’mpupazzarla: ’sta… crostata
secca e ’ntaccuta e cu ’na faccia nera
nun m’ ’a puó fa passà pe ’na pastiera!
Pirciò cagna penziero:
nun è arta toja! E si è pe… devuzzione
pígliala bbella e ffatta… e statte bbona!
Mangia Napoli, bbona salute!
Raffaele Bracale.
durante tutto l’anno.
A questo punto non mi resta che il consueto
facítene salute e buona e santa Pasqua!
Raffaele Bracale
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