domenica 31 agosto 2008

Arricurdarse ‘o cippo a Furcella ETC.

Arricurdarse ‘o cippo a Furcella, ‘a lava d’’e Virgene, ‘o catafarco ô Pennino, ‘o mare ô Cerriglio.
Ad litteram: Rammentarsi del pioppo a Forcella, della lava dei Vergini, del catafalco al Pendino e del mare al Cerriglio.
L’espressione viene pronunciata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi quali, nella fattispecie, i pioppi esistenti alla fine di via Forcella; per il vero la parola originaria dell’espressione era chiuppo ( id est: pioppo; chiuppo etimologicamente è da un lat. volg. *ploppu(m), per il class. populus; tipico il passaggio in napoletano PL→CHI)
parola poi corrotta in cippo e cosí mantenuta nella tradizione orale della locuzione;in essa poi sono ricordati vari altri accadimenti , quali 1- ‘a lava d’’e Virgene(la lava in lingua napoletana, etimologicamente dal dal lat. labe(m) 'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare' non indica solamente la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma anche un a copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua; ed è a quest’ultima che qui si fa riferimento (con l’espressione ‘a lava d’’e Virgene si intende infatti quel tumultuoso torrente di acqua piovana che a Napoli fino agli inizi degli anni ’60 del 1900, quando furono finalmente adeguatamente sistemate le fogne cittadine, si precipitava dalla collina di Capodimonte sulla sottostante via dei Vergini (cosí chiamata perché nella zona esisteva un monastero di Verginisti antica congregazione religiosa di predicatori) e percorrendo di gran carriera la via Foria si adagiava, placandosi, in piazza Carlo III, trasportando seco masserizie,ceste di frutta e verdura e tutto ciò che capitasse lungo il suo precipitoso percorso),
2 - ‘o catafarco al Pendino (id est: il grosso altare che veniva eretto nella centrale zona del Pendino, altare eretto per le celebrazioni della festa, ormai desueta, del Corpus Domini; in primis la parola catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra –arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( anche cosí in lingua napoletana, con derivazione forse da un antico castellame (voce del XIV SEC. con cui si indicava la torretta lignea posta sulla groppa degli elefanti e nella quale si acquattavano i soldati; la voce, derivata probabilmente da castello, subí nel napoletano un adattamento corruttivo di comodo del suffisso me che divenne na per render femminile la parola originariamente maschile, nella convinzione, che già alibi illustrai, che gli oggetti femminili fossero piú grandi o grossi o imponenti dei relativi maschili; l’adattamento corruttivo di me in na si rese forse necessario,in quanto questa desinenza na è desinenza che non ingenera confusione quanto al genere) si indica il catafalco su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni; qui è usato per traslato ad indicare un altare molto imponente), infine: 3 - ‘o mare ô Cerriglio (id est: il mare al Cerriglio cioè quando il mare lambiva la zona del Cerriglio, zona prossima al porto, nella quale era ubicato il Sedile di Porto,(e che ebbe il nome di Cerriglio per il gran numero di querce (cerri) ivi esistenti) uno dei tanti comprensorî amministrativi in cui, in periodo viceregnale, era divisa la città di Napoli; nella medesima zona del Cerriglio esistette (1600 circa) una antica bettola o osteria , peraltro frequentata da ogni tipo di avventori dai nobili (che vi venivano a provare l’ebrezza dell’ incontro con il popolino), ai plebei (che per pochi soldi vi si sfamavano), agli artisti (in cerca di ispirazione) alle prostitute (in cerca di clienti); abituale frequentatore di questa bettola pare fosse, durante il suo soggiorno partenopeo, il Caravaggio(Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio Caravaggio o Milano, 1571 † Porto Ercole (Monte Argentario), 18 luglio 1610) . sulla porta di detta bettola erano riportati i seguenti popolareschi versi epicurei se non edonistici:
Magnammo, amice mieje, e po' vevimmo
nfino ca stace ll'uoglio a la lucerna:
Chi sa’ si all'auto munno nce vedimmo!
Chi sa’ si all'auto munno nc'è taverna!
stace = ci sta; il ce dal lat. volg. *hicce, per il class. hic 'qui'in posizione enclitica corrisponde, svolgendone le medesime funzioni, all’italiano ci che è pron. pers. di prima pers. pl. [atono; in presenza delle particelle pron. atone lo, la, li, le e della particella ne, viene sostituito da ce: ce lo disse, mandatecelo; che ce ne importa?; in gruppo con altri pron. pers., si prepone a si e se: ci si ragiona bene; non ci se ne accorge (pop. la posposizione: si ci mette); si pospone a mi, ti, gli, le, vi: ti ci affidiamo (piú com.: ci affidiamo a te)]; vale pure noi ( e si usa come compl. ogg., in posizione sia proclitica sia enclitica);
lucerna = lampada portatile ad olio o petrolio e qui, per traslato vita etimologicamente derivata da un tardo latino lucerna(m), forse deriv. di lux lucis 'luce', o piú probabilmente deverbale di luceo con il suffisso di appartenenza ernus/a;
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B/V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse puteca.
Raffaele Bracale

A LA SANFRASÒN OPPURE SANFASÒN.

A LA SANFRASÒN OPPURE SANFASÒN.
Ad litteram: alla carlona; detto di tutto ciò che venga fatto alla meno peggio, senza attenzione e misura, in modo sciatto e volutamente disattento, con superficialità e senza criterio.L’espressione è formata con le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che terminano per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc.
Raffaele Bracale

Aje voglia ‘e mettere rumma ETC.

Aje voglia ‘e mettere rumma: ‘nu strunzo
nun addiventa maje bbabbà
È inutile aggiungere rum, uno stronzo non diverrà mai un babà.
Id est: Per quanto tu tenti di edulcorarlo, uno stronzo non potrà mai diventare un dolce saporito come un babà; alla stessa stregua: per quanto lo si cerchi di migliorare, uno sciocco non potrà mai cambiare in meglio la propria natura;
aje voglia ‘e locuzione verbale, in uso anche nella lingua italiana nella valenza di insistere inutilmente in un tentativo: ài voglia a (o di) strillare, tanto non ti sente nessuno, per quanto tu possa strillare, non ti sentirà nessuno; anche ellittico: ài voglia!; è inutile;
mettere = mettere, porre, aggiungere, disporre collocare dal Lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere';
rumma = rum acquavite ottenuta per lo piú dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata.la voce inglese rum è derivata da rum- bustious 'chiassoso, violento', con allusione al comportamento degli ubriachi bevitori della suddetta acquavita; la voce napoletana rumma è coniata su quella inglese con una tipica paragoge di una a finale e raddoppiamemento della m etimologica fino a formare la seconda sillaba ma della voce rumma, come altrove tramme←tram,barre←bar etc.
strunzo = stronzo, escremento solido di forma cilindrica e figuratamente persona stupida, odiosa etimologicamente dal longobardo strunz 'sterco';
addiventa =diventa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito addiventà = divenire, venire a essere, trasformarsi in derivato dal lat. volg. ad+ *deventare, forma rafforzata (vedi prep. ad) di quella intens. del lat. devenire = divenire; da notare la particolarità che la voce verbale a margine (indicativo presente) è resa in italiano con il futuro, tempo che – quantunque esistente nelle coniugazioni dei verbi napoletani – è pochissimo usato, preferendogli un presente in funzione futura o altrove costruzioni del tipo aggi’ ‘a = devo da;
maje = mai, in nessun tempo, in nessun caso derivato dal latino ma(g)is= piú con caduta della g intervocalica sostituita da una j e con paragoge della semimuta finale ;
babbà = baba/ babà tipico dolce partenopeo (pare importato a Napoli, sotto il regno di Ferdinando I di Borbone da pasticcieri francesi (chiamati a Napoli da Maria Carolina e richiesti a sua sorella Maria Antonietta)che l’avevano mutuato da dolcieri polacchi) di pasta soffice e lievitata, intrisa di uno sciroppo al rum. La voce è dal fr. baba, che è dal polacco baba '(donna vecchia').Al solito i francesi pronunciavano baba, babà ed i napoletani ne raddoppiarono espressivamente la seconda b ottenendo babbà anzi ‘o bbabbà.
Raffaele Bracale

PURPO Â ‘NZALATA

PURPO Â ‘NZALATA


polpo all’insalata
Dosi per 5 o 6 persone

2 grossi polpi di circa 1 kg. complessivo,
2 abbondanti coste di sedano bianco lavate, private dei filamenti e divise in tocchetti di 2 cm. circa,
2 spicchi d’aglio mondati tritati finemente assieme ad
1 ciuffo di prezzemolo,
sale grosso alle erbette q.s.,
pepe bianco q.s.,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.
il succo di 1 limone non trattato,
2 limoni non trattati tagliati a spicchi,
una tazzina d’aceto di vino bianco,
1 confezione di verdurine/ortaglie (tagliate a julienne) sotto aceto ,
1 tazza di maionese.

Procedimento
Lavare e pulire bene i polpi, arrovesciando la testa e togliendo via occhi e becco; batterli con decisione su di una superficie di marmo e porli a lessare, a fuoco basso in una pentola con molta acqua fredda salata; a cottura ultimata prelevare i polpi e tagliarli subito in tocchetti di circa 3 cm. cadauno; disporre i tocchetti di polpo in un piatto di portata, unirvi le verdurine sgrondate ed i tocchetti di sedano e tenere il tutto da parte; nel frattempo in una ciotola versare l’olio, il succo di limone, l’aceto, un pizzico di sale doppio alle erbe e due pizzichi di pepe; emulsionare sbattendo con una forchetta e versare la salsetta sul polpo, rimestare completando la ricetta con una spruzzata di aglio e prezzemolo tritati; far transitare in frigo per circa 30’ e poi servire, accompagnando con spicchi di limoni e quache cucchiaiata di maionese.
Gustosissimo secondo piatto, antipasto o rompidigiuno.

Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

baccalà alla napoletana

baccalà alla napoletana



ingredienti e dosi per 4 persone:

baccalà già ammollato, 1,500 kg
pomidori freschi Roma o Sanmarzano, lavati sbollentati e pelati, 500 gr.
olio extravergine d’oliva, 1 bicchiere
1 spicchio d’aglio mondato della camicia tritato finemente
olive nere di Gaeta denocciolate, 150 gr.
capperini di Pantelleria dissalati e lavati, 50 gr.
4 filetti d’acciughe sott’olio
origano un pizzico
prezzemolo tritato – due cucchiai.
sale doppio alle erbette, pepe bianco, q.s.
farina q.s.
olio per frittura q.s.

procedimento
Risciacquate il baccalà già ammollato, privatelo di pelle e spine e tagliatelo a pezzi di circa 5 cm. per 5 cm., infarinatelo adeguatamente da tutti i lati e friggetelo in olio di semi bollente e profondo e tenetelo in caldo. In una teglia soffriggete l'aglio nell'olio d’oliva e.v. , aggiungetevi i pomidoro , le olive di Gaeta denocciolate, i capperi e le accighe tritate. Fate cuocere per una ventina di minuti la salsetta, salate e pepate con parsimonia,cospargete con metà del prezzemolo tritato indi allineate in una teglia da forno, unta con un po’ di sugo, i pezzi di baccalà fritto, ricopriteli con tutta la salsa e fate stufare in forno a calore medio (140°) per una decina di minuti. Al momento di servire, spruzzate il baccalà con il rimanente prezzemolo ed un po’ di pepe. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!

NOTA*
Gustosissimo piatto che esalta la povera cosa che è il merluzzo da dove si ricava il baccalà (merluzzo eviscerato salato e conservato in barile) di cui i napoletani ed i genovesi sono i ghiottissimi maggior consumatori; i vicentini consumano invece lo stocco (merluzzo eviscerato seccato ed affumicato) sebbene chiamino una loro tipica ricetta baccalà alla vicentina, laddove sarebbe piú corretto che dicessero stocco alla vicentina!
baccalà = merluzzo eviscerato, salato e seccato conservato in barile; l’etimo è dallo sp. bacalao, o dal portoghese bacalhao ed ambedue dal fiammingo kabeljauw.
stocco o stoccafisso = pesce bastone e cioè merluzzo eviscerato, seccato all’aria aperta ed affumicato; l’etimo non è (come erroneamente pensa taluno dall’inglese) ma dall'ol. ant. stokvisch 'pesce a bastone ossia essiccato all’aria fredda fino a divenire duro come un bastone’ oppure 'seccato sui bastoni', prob. attraverso lo sp. estocafis.

Raffaele Bracale

GAMBERI IN CAMICIA

GAMBERI IN CAMICIA
Ingredienti e dose per 6 persone
3 o 4 quattro grossi gamberi reali per persona, per un totale di 18 o 24 gamberoni;
3 etti di pancetta coppata tagliata sottile;
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.;
1 tazzina di cognac o brandy;
1 gran cespo di lattuga cappuccia;
3 o 4 fascetti di rucola;
1 limone;
sale fino o doppio ad libitum q.s.;
pepe bianco q.s.

Procedimento
Si inizia mondando delle foglie esterne e troncando via il torso del cespo di lattuga cappuccia; si lava accuratamente il cuore di detta cappuccia dopo averlo trinciato a striscioline; si lavano i mazzetti di rucola, si asciugano e si trinciano assieme al cuore della lattuga cappuccia; indi si condisce il tutto con una salsina fatta con mezzo bicchiere d’olio, il succo del limone, sale pepe e si dispone questa insalata verde a mo’ di letto in un piatto di portata; frattanto si puliscono, si lavano e si sgusciano i gamberi troncando testa e coda ed eliminando il budellino nero; si asciugano e si avvolgano attorno ad ogni gambero una o due fettine di pancetta coppata; indi si infilzano, tre o quattro per volta, su degli spiedini (meglio se di legno). Con l’altro mezzo bicchiere d’olio si unge abbondantemente una grossa padella di ferro e si pone su fiamma alta fino a che diventi rovente; indi si sistemano gli spiedini uno accanto all’altro, nella padella caldissima e si fanno scottare i gamberi un minuto per lato; indi si bagnano con la tazzina di cognac che va fatto evaporare a fiamma alta. Spenti i fuochi si regola di sale e generosamente di pepe bianco.
Si prelevano gli spiedini e si adagiano sul letto di insalata e si servono (caldissimi) in tavola come succulento secondo piatto o antipasto.

Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

ALICI ‘NTURTIERA

ALICI ‘NTURTIERA*
alici in tortiera ( teglia, tegame da torta)
È questo, a mio avviso uno dei modi piú saporiti (altri sono: in frittura, a zuppetta etc.) di gustare le alici il tipico pesce azzurro di cui son ricchi (soprattutto d’estate, quando la temperatura dell’acqua è alta…) i nostri mari costieri.
Eccovi la ricetta.
ingredienti e dosi per 6 persone
1,200kg di alici freschissime (preferire quelle non eccessivamente piccole),
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.,
3 spicchi d’aglio mondato affettati sottilmente,
1 tazzina d’aceto di vino bianco,
1 cucchiaio di origano,
2 cucchiai di pangrattato o di mollica di pane casareccio bruscata e tritata,
1 presa di sale grosso,
pepe bianco q.s.

procedimento
Decapitare la alici, eviscerarle, diliscarle e lavarle accuratamente, ma delicatamente sotto acqua fredda corrente; asciugarle su carta assorbente da cucina e sistemarle in una tortiera una accanto all’altra ed in piú strati incrociati ognuno dei quali va salato parsimoniosamente,cosparso di origano, fettine d’aglio, pepe e pangrattato; il tutto va irrorato con l’olio e con l’aceto e passato in forno (160°) per circa 20’; in luogo del forno si può porre la tortiera sul fuoco vivace di un fornello e tenervela per i medesimi 20’ conteggiandoli da quando abbia cominciato a sobbollire.
Attenzione: In luogo del pangrattato di produzione industriale è preferibile usare ed è decisamente piú gustoso del pane tritato di produzione casareccia fatto bruscando al forno caldissimo (220°) delle fette di pane casareccio private della scorza, e stropicciandole poi fra i palmi delle mani fino a ricavarne del croccante, gustoso pane tritato minutissimamente.
Ovviamente secchi e profunati vini bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Nota:
A - *’nturtiera = in + tortiera id est in teglia, tegame originariamente per torte; infatti tortiera/turtiera è da un acc.vo lat. torta(m) + il suff. femm. di pertinenza iera.
B - Taluni, forse per la cospicua presenza d’aglio, ritengono questa preparazione un po’ indigesta; c’è però il modo di ovviare: prima di affettare sottilmente gli agli mondati è sufficiente aprirli in due longitudinalmente e tirar via il germoglio centrale l’unica parte veramente indigesta di questo preziosissimo bulbo.
Bbona salute!
raffaele bracale

Aíza, ca venono ‘e gguardie

Aíza, ca venono ‘e gguardie
Ad litteram: alza (la merce e portala via giacché possono giungere i rappresentanti della forza,(sequestrarti la merce e contravvenzionarti.) Id est: Sparisci, togliti dai piedi, non infastidirmi... Locuzione usata un tempo quando a Napoli era vivo e fiorente il contrabbando d’ogni genere e si volesse consigliare il venditore a portar via la merce per non incorrere nei rigori della legge rappresentata dai suoi tutori che qualora fossero intervenuti avrebbero potuto sia sequestrare la merce che elevare pesanti contravvenzioni.
Oggi la locuzione è usata quale pressante invito, nel tentativo di convincere un inopportuno interlocutore a liberarci della sua sgradevole e sgradita presenza anche se costui non abbia merce da portar via né si paventi reale intervento di polizia municipale o altri tutori della legge.
aìza =alza, tira su voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito aizà=alzare dal lat. volg. *altiàre denominale da altus; da *altiàre l’antico napoletano trasse un auzare/auzà→ aizà come del resto altus diede auto donde con epentesi di una v eufonica, àvuto→àveto= alto;
gguardie plurale di guardia = qualsiasi rappresentante della forza (vigili municipali, agenti di polizia dello Stato, agenti delle carceri etc.) etimologicamente derivato attraverso l’identico portoghese guardia dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta'.
Raffaele Bracale

Fà n’acciso e ‘nu ‘mpiso.

Fà n’acciso e ‘nu ‘mpiso.
Ad litteram: fare un ucciso ed un impiccato id est: minacciare una strage con conseguenze gravissime per tutti.
Reboante, antica locuzione con la quale, sia pure solo metaforicamente, si minaccia di comportarsi in maniera tanto violenta e spropositata da lasciare sul terreno per lo meno un morto e ci si dichiara disponibile a subire le conseguenze di tale omicidio, conseguenze comportanti (un tempo) la condanna alla pena di morte per impiccagione.
acciso = voce verbale (part. pass. spesso sostantivato o aggettivato) dell’infinito accidere o accirere = uccidere; accidere (donde acciso) etimologicamente si sospetta un basso latino *accidere (ad-caedere) collaterale di ob-caedere = uccidere, ammazzare, da non confondere con ob-cadère (donde gli italiani occaso, occidente etc.)= andar giú, cascare;
‘mpiso = voce verbale (part. pass. spesso sostantivato o aggettivato) dell’infinito ‘mpennere = appendere,ed estensivamente impiccare; ‘mpennere (donde ‘mpiso) etimologicamente dal latino in(illativo) + pendere = portare a sospensione; normale in napoletano il passaggio per assimilazione progressiva di nd→nn.
Raffaele Bracale

Fà ‘nu bell’accàtteto.

Fà ‘nu bell’accàtteto.
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che appariva.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare intensivo di capere = prendere.
Raffaele Bracale

Abbuffà 'a guallera

Abbuffà 'a guallera
nella locuzione me staje abbuffanno 'a guallera
Ad litteram: enfiare l'ernia nella locuzione mi stai gonfiando l'ernia id est: mi stai tediando, mi stai oltremodo infastidendo, procurandomi una figurata enfiagione dell'ernia; locuzione che si ritrova con gran risentimento sulla bocca di chi, già tediato di suo, veda aumentare a dismisura il proprio fastidio, per l'azione di un rompiscatole che insista nel suo disdicevole atteggiamento. Ricorderò che il termine guallera (ernia) è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità si riferisce la locuzione, prestandosi, data la sua sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato; la voce verbale abbuffanno= gonfiando, è il gerundio dell’infinito abbuffà che etimologicamente deriva da un latino ad+bufo+ are→adbufare→abbufare→abbuffare= farsi gonfio come un rospo (lat. bufo/onis).
Segnalo ora, qui di sèguito altre icastiche locuzioni di medesima portata di quella in epigrafe, locuzioni che vengono usate a secondo il grado del tedio che si prova; la prima, mutuata dall'àmbito culinario, proclama: me staje facenno oppure m’ hê fatto ‘a guallera â pezzaiuola(mi stai facendo oppure mi hai fatto l'ernia alla pizzaiola)pezzaiuola ( e cioè alla maniera del pizzaiolo che in napoletano è pezzaiuolo con derivazione, attraverso i suffissi di pertinenza iuolo/iuola,della voce pizza che etimologicamente qualcuno vuole dal longob. bizzo 'morso, focaccia', ma che io, sulle orme di piú moderni studiosi, penso sia piú esatto far derivare dal latino pinsere= schiacciare) quasi che l'ernia fosse possibile cucinarla con olio, pomodoro, aglio, sale, pepe ed origano a mo' di una fettina di carne o altre preparazioni culinarie come pesce e/o verdure ; altra locuzione usata è quella che mutuata dal linguaggio del lavoro d'ebanisteria, proclama: me staje scartavetranno 'a guallera ( mi stai levigando l'ernia con la carta vetrata)dove la voce verbale scartavetranno è il gerundio dell’infinito scartavetrà = carteggiare, denominale di carta vetrata con una consueta protesi di una s intensiva; infine esisite una locuzione che- mutuata dall'ambito sartoriale -nella sua espressività barocca, se non rococò, afferma: me staje facenno 'a guallera a plissé (mi stai facendo l'ernia pieghettata) quasi che fosse possibile trattare l'ernia come una gonna, pieghettandola longitudinalmente in modo minutissimo. plissé è voce fr.; propr. part. pass. di plisser 'pieghettare', deriv. di pli 'piega' ed è entrata tal quale nella lingua napoletana con il medesimo significato di pieghettatura.
Raffaele Bracale

‘a verità è comme a ll’uoglio assomma sempe!

‘a verità è comme a ll’uoglio assomma sempe!
Ad litteram: La verità è come l’olio: viene sempre a galla! Affermazione popolare quasi assiomatica,tesa a ricordare che, nella vita,è inutile tentar di nasconderla, giacché per quanto si cerchi di celarla con bugie, falsità, bubbole, balle, sotterfugi, favole, fandonie, frottole, panzane, fole,volontarie o involontarie, la verità affiora sempre, appalesandosi quasi che avesse il medesimo leggero peso specifico dell’olio che versato in un bicchiere d’acqua rimane in superficie e non precipita mai.
verità= verità, ciò che è conforme al vero (dal nominativo lat. veritas piuttosto che dall’acc. veritate(m) dal quale invece scaturisce l’italiano verità che in origine fu appunto latinamente veritate, il tutto deriv. di vírus 'vero';
comme= come, alla stessa maniera di, derivato del lat.quomo abbreviazione di quomodo 'in qual modo' con tipico raddoppiamento popolare della m (vedi alibi: ommo←homo,nomme←nomen etc.) e semplificazione del dittongo mobile uo→o cosí come capita nella lingua italiana: buono→bontà, suono→sonata etc.;altre volte invece tale dittongo si semplifica in u (muorto→murticiello, buono→bunariello etc.);rammenterò la particolarità della lingua napoletana che relativamente all’avverbio a margine e ad altri avverbi e preposizioni improprie quali ‘ncoppa (sopra), sotto, ‘mmiezo (in mezzo)vicino etc. richiede sempre l’aggiunta della preposizione semplice a (che comporta la geminazione della consonante iniziale della parola successiva) o delle sue composte â(alla), ô (allo) ê (a gli, alle) per cui si avrà in italiano come te ed in napoletano comme a tte (notasi, come detto la geminazione della consonante t), sopra te o sopra di te ed in napoletano ‘ncoppa a tte, ancòra: in italiano sotto il tavolo ed in napoletano sott’ô tavulo in italiano vicino la casa in napoletano vicino â casa = vicino alla casa etc.
‘uoglio= olio; in napoletano il sostantivo a margine è neutro (si tratta di un alimento! cfr. Damme chest’uoglio= dammi quest’olio. fosse stato masch. avremmo avuto Damme chist’uoglio); etimo dal lat.tardo *oliu(m) per il classico oleu(m) che è dal gr. élaion con tipica dittongazione della breve d’avvio ǒ→uo e consueto passaggio di l a gl come figlio←filium, piglià←piliare etc. ;
assomma = viene a galla, affiora voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)dell’infinito assummà=montare in sommità da una sincope *adsummare di un lat. tardo *ad+ summ(it)are, deriv. di summus 'supremo'; rammenterò che anche l’italiano à un verbo assommare ma con il significato di mettere insieme; adunare (spec. fig.): assomma in sé vizi e virtú v. intr. [aus. essere] ammontare,... ma anche compiere, portare a termine; ma l’etimo del verbo italiano è diverso essendo esso un derivato di sommare da somma= addizione.
sempe avv. = sempre senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo) che è dal lat. semper con la particolarità che per la voce a margine invece del raddoppiamento della consonante r etimologica e della paragoge finale di una e semimuta, che avrebbero prodotto un *semperre come altrove tramme da tram, bisse da bis etc. , questa volta si è preferito far cadere completamente la consonante r che non à lasciato traccia.

Raffaele Bracale

sabato 30 agosto 2008

'A varca cammina e 'a fava se coce.

'A varca cammina e 'a fava se coce.
Letteralmente: la barca cammina, e la fava si cuoce.
Estensivamente: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato.
La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce.
Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi.
Oggi il proverbio è usato estensivamente con riferimento alla buona riuscita di qualsiasi affare, volendo significare che esso affare in tanto va in porto quando si parta da premesse buone ed adeguate.
varca= barca ed estensivamente ogni natante piú o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v.
cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica;
fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m);
coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere.
Raffaele Bracale

‘A sotto p’’e chiancarelle!

‘A sotto p’’e chiancarelle!
Ad litteram: Di sotto a causa dei panconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione esclamativa (in origine grido di avvertimento) con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere nella valenza di Accidenti!, Perbacco!; essa, come già accennato , prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli.
‘a sotto = da/di sotto locuzione avverbiale e/o prepositiva formata da ‘a= da dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. e da sotto avv. e preposiz. impropria = sotto dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle = panconcelli, travicelli strette doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano (nelle costruzioni di una volta) l’impiantito dei solai. la voce è il plurale di chiancarella che etimologicamente è un derivato (diminutivo : vedi suff. rella) del basso latino planca(m)=tavola lignea; dalla medesima planca(m)=tavola lignea il napoletano trasse chianca = macelleria, rivendita di carni macellate in quanto originariamente l’ esposizione e la sezionatura per la vendita al minuto delle carni avveniva tenendole appoggiate su di un tavolo ligneo; tipico e normale il passaggio del gruppo latino pl al napoletano chi (vedi plus→chiú=piú,platea→chiazza=piazza, plumbeum→chiummo=piombo etc.).
Raffaele Bracale

- A chi se fa puntone, 'o cane lle piscia 'ncuollo

- A chi se fa puntone, 'o cane lle piscia 'ncuollo
A chi si fa cantone di strada o angolo di palazzo, il cane (abituato a mingere sui muri…) gli minge indosso.
Id est: chi si fa troppo docile e remissivo, subirà le certe conseguenze del suo succubo atteggiamento.
puntone = cantone di strada o angolo di palazzo etimologicamente accrescitivo reso maschile di punta dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere'; l'estremità assottigliata e aguzza di qualsiasi cosa o oggetto.
piscia = minge voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = mingere etimologicamente dal greco pytízein che diede il latino *pitissare→*pitsare→pisare→pisciare ;
‘ncuollo letteralmente: in collo, sul collo e dunque indosso, addosso etimologicamente da un in illativo + cuollo (collo) dal latino collu(m) con consueta successiva dittongazione nella sillaba breve d’avvio: ǒ→uo.
Raffaele Bracale

A cchi pazzeja cu 'o ciuccio, nun le mancano cauce

A cchi pazzeja cu 'o ciuccio, nun le mancano cauce
A chi gioca con un asino, non mancheranno i calci
Id est:chi pratica ambienti o esseri cattivi o malfidi, dovrà subirne le immancabili, dure conseguenze.
pazzeja e non pazzea (come spesso càpita di trovare in autori sedicenti esperti della lingua partenopea) = gioca, scherza voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pazzïà= giocare, scherzare o pure comportarsi irrazionalmente; rammento che l’infinito pazzïà da una coniugazione dell’ind. presente che dev’essere pazzejo – pazzije – pazzeja etc. e non pazzeo – pazzie – pazzea che apparterrebbero ad un infinito pazzià peraltro inesistente ; etimologicamente il verbo napoletano, pervenuto peraltro anche nell’italiano, risulta un denominale di pazzo/pazzia derivati piú che dal latino patior= soffro, dal greco patheía (da pronunciarsi pathîa= sofferenza di corpo o animo;
ciuccio = asino, ciuco e per traslato persona ignorante; etimologicamente la voce a margine parrebbe essere di origine espressiva, ma la cosa non mi convince e propendo piú per l’ipotesi che vede in ciuccio un adattamento di tipo popolare di un originario giucco da un lat. ex-sucus= senza sugo, sciocco, sempre che ciuccio non derivi dal latino cicur= mansuefatto domestico o da cillus modellato sul greco kíllos; non manca infine chi vi vede una radice araba schiacarà=ragliare radice che molto piú chiaramente à dato il siculo sciecco;
cauce = calci plurale di caucio= calcio; la voce partenopea risulta deriv. da una forma aggettivale lat. calcius che è da calx calcis 'calcagno, calcio' con il consueto (lo abbiamo già visto altrove: caldaia→caurara, gelsa→ceuza, altus→auto etc.) al + consonante che dà au.
Raffaele Bracale

 ccaurara vecchia, vrognole e pertose

 ccaurara vecchia, vrognole e pertose
Ad litteram: Sulla pentola vecchia,(ci sono) ammaccature e buchi. Al di là dell’ovvio e palese significato letterale, il proverbio ricorda che la salute delle persone vecchie è sempre malferma: i vecchi soffrono sempre di qualche piccolo o grosso malanno, alla stregua di una pentola vecchia che per essere stata usata molto, porta su di sé inevitabili tracce di usura e del tempo trascorso.
caurara = caldaia: grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa; etimologicamente dal tardo latino caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo; normale l’esito del suffisso latino maschile arius nel femm. ara; tipico altresí il passaggio del lat. al al napoletano au come ad es. altus→auto/aveto= alto o anche alter→auto→ato= altro; come tipico è il passaggio osco - mediterraneo d→r;
vrognole= ammaccature, bernoccoli, protuberanze o anche, ma altrove percosse; plurale di vrognola che è etimologicamente da un latino volgare bruniòla→brúnjola (forse da un acc. classico pílulam eburneam= pallina biancastra donde per aferesi e metatesi eburneam→bruneam ed un diminutivo bruniòla con il nj→gn;
pertose plurale metafonetico femm. del sing. maschile pertuso= buco, foro etimologicamente da un classico latino pertusus, part. pass. di pertundere 'bucare, forare', comp. di per 'attraverso' e tundere 'battere'.
Raffaele Bracale

venerdì 29 agosto 2008

MACCARUNCIELLE ALLA FURETANA

Maccaruncielle alla furetana



Ingredienti e dosi per 6 persone
• 6 etti di maccheroncelli (bucatini un po’ piú doppi) spezzettati a mano in circa 4 cm.,
• 50 g di pancetta tesa tagliata a cubetti,
• 2 melanzane violette napoletane,
• 3 zucchine piccole verdi e sode,
• 6 pomidoro maturi tipo ROMA o SANMARZANO sbollentati e pelati,
• Un ciuffo di Prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
• 1 cipolla dorata tritata,
• 1 bicchiere di olio d'oliva e.v.
• 5 etti di ricotta di pecora,
• Formaggio pecorino grattugiato 100 g.,
• sale doppio - un pugno,
• Sale fino e Pepe nero q.s.
Preparazione
In una padella soffriggere con tutto l'olio, la cipolla sbucciata e tritata e la pancetta tagliata a dadini.
Appena saranno rosolate, unire prima le melanzane spuntate, (ma non sbucciate) lavate, asciugate e tagliate a tocchetti; poco dopo aggiungere anche le zucchine, spuntate, lavate asciugate e tagliate a tocchetti.
Mescolare per qualche minuto, poi unire i pomidoro sbollentati, pelati e spezzettati.
Salare e cuocere con coperchio per 20 minuti.Alla fine aggiungere il trito di prezzemolo.
Cuocere la pasta al dente, in abbondante (8 litri) acqua salata(sale grosso), metterla in una zuppiera calda in cui sia stata stemperata, con un po’ d’acqua di cottura della pasta, la ricotta, rimestare accuratamente, aggiungere il sugo,unire tutto il formaggio grattugiato ed abbondante pepe, rimestare ancora, impiattare e servire ben caldo.
maccaruncielle = pasta lunga un po’ piú doppia dei bucatini o dei perciatelli napoletani, da consumarsi spezzettata;
furetana sost. femm.le = campagnola, contadina voce derivata dal b. lat. foritanus/a tratto da foris= fuori (il contadino, il campagnolo vengono ovviamente da fuori città.

Vini secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

giovedì 28 agosto 2008

Maccarune d’autunno

Maccarune d’autunno

Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di bucatini o di perciatelli o di fusilli lunghi,
6 rocchi di salsiccia (possibilmente con il finocchietto),
300 g. di provola affumicata tagliata a dadini di ½ cm. di spigolo,
4 grossi funghi porcini freschi o surgelati,
3 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
1 cucchiaio di sugna,
1/2 bicchiere d’olio d’oliva e.v.
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.aromatizzato per un’ora con uno spicchio d’aglio mondato e tritato,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 cucchiaio di semi di finocchio,
1 etto di pecorino grattugiato,
sale doppio un pugno,
sale fino un pizzico,
abbondantissimo pepe nero macinato a fresco.

Procedimento
In un’ ampia padella, a fuoco vivace, versare mezzo bicchiere d’olio aromatizzato ed aggiungere il cucchiaio di sugna; quando la sugna si sarà sciolta ed avrà preso calore, aggiungere le salsicce precedentemente private della pelle e sbriciolate, bagnarle con il vino, alzare il fuoco e fare evaporare tutto il vino, indi aggiungere una ramaiolata d’acqua bollente, sciogliervi il concentrato di pomodoro, regolare di sale e portare a cottura in circa 20’. Nel frattempo pulite bene i funghi nettandoli con uno straccetto umido e con un coltellino affilatissimo, e tagliateli in pezzi abbastanza grossi; vi raccomando di operare il taglio alla francese, sfettando i funghi in diagonale, appoggiando la lama lungo l’asse maggiore dei funghi, con un’inclinazione di 45°. Ponete i pezzi ricavati in padella con mezzo bicchiere d’ olio già caldo, aromatizzato con aglio, e fateli soffriggere, aggiungendo una tazza di acqua bollente.Regolate di sale.
Lessate al dente in abbondante (8 litri) acqua salata (sale doppio) la pasta, scolatela (tenendo ancòra a bollore l’acqua) e versatela in una zuppiera calda, conditela súbito con il residuo olio aromatizzato,il cucchiaio di semi di finocchio, aggiungete la salsiccia, i funghi e la dadolata di provola, cospargete con il pecorino, abbondate con il pepe nero macinato a fresco, rimestate a lungo e prima di impiattare tenete la zuppiera in caldo per 10 minuti poggiandola sulla bocca della pentola con l’acqua a bollore.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.

Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale

mercoledì 27 agosto 2008

LA LINGUA NAPOLETANA etc.

LA LINGUA NAPOLETANA e la costruzione delle espressioni con dentro, sopra, sotto ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano.
Premesso che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre il pensiero, sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc.È vero che purtroppo tutti gli autori napoletani anche quelli importanti o accreditati di esser tali, son tutti malati di sciatteria e non aderiscono (nei loro scritti) a questa regola, preferendo omologarsi alla lingua nazionale e scrivere ad es. trasuto dint’ ‘a casa; piuttosto che so’ trasuto dint’â casa D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. e non è detto ch’io insistendo e divulgando la regoletta riportata non faccia finalmente dei proseliti tra gli autori che bazzicano il napoletano! Ma non mi faccio illusioni: è difficile sdradicare le cattive abitudini!
RaffaeleBracale

VARIE 36

VARIE 36


1 -Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
2 -Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non hai nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
3 -'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
4 -Jí cascia e turnà bauglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
5 - Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
6 - 'E denare so' comm'a 'e chiattille: s'attaccano a 'e cugliune.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.

7 -Ma te fosse jiuto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- non si sa bene come - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
brak

Jí ‘e renza e gghí ‘e sguincio.

Jí ‘e renza e gghí ‘e sguincio.
Parrebbe a prima vista che le due locuzioni in epigrafe dicano la medesima cosariferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è cosí.
C’è una differenza sostanziale tra le due locuzioni;infatti jí ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale. Il termine sguincio viene dal francese guenchir(procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa, mentre il termine renza viene dal participio presente del verbo latino haerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.
Raffaele Bracale

Ipotesi etimologica del nome FORIA.

Ipotesi etimologica del nome FORIA.
C ome che nato in via Foria ò sempre cercato notizie su questa strada. Orbene nulla da eccepire sul fatto che su via Foria si apra un vicolo intestato al duca di Forino che su Foria fece edificare un suo palazzo, ma da ciò dedurne che la strada ebbe il nome che à ,a memoria del nomato duca, penso ce ne corra;nel corso di mie ricerche ò appurato che prima che la strada fosse invasa da molte belle costruzioni con - spesso - annessi ameni giardini, lo stradone fuori le mura era solo un grande invaso dove refluivano le acque ed i detriti provenienti 'a copp' ê Funtanelle (impervia zona situata a monte di san Carlo all' arena- nome con cui è conosciuta la parte più alta di Foria); la medesima cosa la faceva la lava d''e VIRGENE che percorrendo velocemente e caoticamente tutta la strada di Foria si placava una volta raggiunta piazza Carlo III.
A questo punto, scartata pure l’idea che possa derivare da fuori-via la mia ipotesi circa l'etimologia della parola Foria, posto ciò che vi accadeva temporibus illis è che possa derivare da un latino: FORI(C)A =cloaca, sversatoio.
Raffaele Bracale

Fà ‘e ssette chiesielle.

Fà ‘e ssette chiesielle.
Letteralmente: visitare le sette chiesine ovvero per traslato : andarsene in giro per le case altrui senza uno specifico motivo, ma solo per il gusto di intrattenersi negli altrui domicili, nella speranza - magari - di scroccare un pranzo, o quanto meno un caffé che a Napoli non si rifiuta a chicchessia. Detto anche di chi, prima di decidersi a fare un acquisto visita innumerevoli negozi per informarsi dei prezzi dell’articolo cercato, per confrontarli e metterli a paragone.
Originariamente le sette chiese della locuzione sono sette bene identificati luoghi di culto e cioè nell’ordine: Spirito santo, san Nicola alla Carità, san Liborio alla Pignasecca, Madonna delle Grazie, santa Brigida, san Ferdinando di Palazzo e san Francesco di Paola, quelle chiese cioè che tutti i napoletani andando dalla odierna piazza Dante (anticamente Largo del Mercatello) a piazza del Plebiscito (l’antico Largo di Palazzo) percorrendo la centralissima strada di Toledo, sono soliti visitare durante il c.d. struscio la rituale passeggiata che si compie il giovedí santo , durante la quale si “visitano” i c.d. sepolcri ovvero le solenni esposizioni dell’Eucarestia che si tengono in ogni chiesa di culto cattolico.Dal fatto che le chiese incontrate nel rituale tratto dello struscio fossero sette si instaurò la consetudine pseudo-religiosa che i c.d. sepolcri da visitare dovessero essere in numero dispari e qualche devoto poco propenso a camminare per ottemperare a tale pseudo-precetto si recava nella chiesa piú vicina alla propria abitazione e vi entrava ed usciva sette volte di fila per biascicare orazioni, ritenendo in tal modo di aver fatte le rituali dispari visite previste.
Raffaele Bracale

martedì 26 agosto 2008

PASTOTTO SILANO

PASTOTTO SILANO
Dosi per 6 persone
6 etti di tubetti piccoli rigati,
3 grossi funghi porcini,anche surgelati,
3 piccole zucchine napoletane verdi e sode.
2 pomidori tipo Roma o Sanmarzano, rossi e maturi sbollentati e pelati,
1 aglio mondato e schiacciato,
1 grossa cipolla dorata ,
1 carota,
2 coste di sedano bianco,
12 chiodi di garofano,
2 foglie di alloro,
1 rametto di maggiorana o di piperna,
1 ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
1 etto di caciocavallo piccante silano grattugiato a scaglie grosse,
1 bicchiere e ½ di olio d’oliva e.v.
40 gr. di sugna,
1 bicchiere di vino bianco,
sale fino e pepe nero q.s.
Procedimento
Mettete al fuoco una pentola colma di 4 - 5 lt. di acqua fredda.Mondate la cipolla, dividetela in quattro parti e mettetene tre nella pentola con l’acqua assieme alla carota grattata, lavata e tagliata verticalmente in quattro parti, le coste di sedano tagliate in grossi pezzi,i chiodi di garofano e tutte le altre erbe ed odori, ½ bicchiere d’olio; salate e pepate ad libitum ed in circa 1 ora approntate un buon brodo vegetale; con un colino separarte il brodo ed eleminate le verdure tenendole da parte;nel brodo decantato mettete a lessare i tubetti (10’), avendo cura di tenere la pentola coperta affinché la pasta alla fine non risulti piuttosto asciutta;una volta lessata, prelevate i tubetti con una schiumarola e traferiteli in una ampia padella dove a mezza fiamma, mantecateli con la sugna e metteteli da parte.
Affettate le zucchine (lavate e spuntate) in rondelle da ½ cm. di spessore e stufatele con la mezza cipolla avanzata cipolla in ½ bicchiere d’olio.Alla fine spezzettatevi dentro i pomidoro aggiustando di sale e pepe.
Frattanto in un’altra padella ponete i funghi nettati con uno straccetto umido ed un affilatissimo coltellino e sfettati alla francese (taglio obliquo con lama posta a 45°) nello spessore di ½ cm., unitevi l’aglio schiacciato, ½ bicchiere d’olio ed il vino; incoperchiate e senza alzare la fiamma, lasciate stufare in circa 25 minuti.Alla fine salate e pepate; unite ai funghi le zucchine stufate, aggiungete i tubetti mantecati ed a mezza fiamma, rimestate e mantecate ancóra aggiungendo il caciocavallo grattugiato ed il pepe nero macinato a fresco e spruzzando con il trito di prezzemolo; se alla fine il pastotto dovesse risultare troppo asciutto (ma non dovrebbe…) bagnate con una mezza ramaiolata del brodo che avrete tenuto da parte prima di lessare la pasta.
Impiattate e servite in tavola ben caldo di fornello.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Attenzione: le verdure usate per il brodo, non vanno buttate, ma raffreddate e condite con olio, sale, pepe ed aceto possono usarsi per contorno di portate di carni in umido o formaggi freschi da far seguire eventualmente al pastotto.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

ZUPPA INGLESE

ZUPPA INGLESE (dolce napoletano)

Ingredienti
400 gr di pan di Spagna, 1 confettura di amarene,
per la crema: 1/2 l di latte, 4 cucchiai di zucchero, 4 tuorli d'uovo, 4 cucchiai di fecola, per lo sciroppo: 1/2 bicchiere di maraschino, 1 bicchiere d'acqua, ½ bicchiere di zucchero. Per la copertura: 50 gr. di zucchero in granella.


Preparazione
Tagliate il pan di Spagna a fette alte un cm e larghe 3 cm; disponetene una parte su un piatto da forno.
Spruzzatele con uno sciroppo preparato facendo bollire, e un po’ addensare, lo zucchero con l'acqua e aggiungendo il maraschino quando lo sciroppo si è raffreddato.
Preparate la crema pasticciera ( tenendo da parte le chiare delle uova) e distribuitene una parte sul pan di Spagna.
Sulla crema ponete un sottile strato di marmellata di amarene.
Continuate a montare strati di pan di Spagna inumidito con lo sciroppo, di crema e di marmellata, dando alla torta una forma di cupola, fino ad esaurimento degli ingredienti.
Sbattete a neve fermissima le chiare delle uova utilizzate per la crema, distribuitele sulla cupola coprendola completamente, spolverizzate, se volete, con zucchero a granelle e mettete il dolce in forno tiepido (120°) per pochi minuti affinchè si formi una crosta dorata.

NOTA
A malgrado del nome che potrebbe far pensare ad una preparazione originaria d’oltre Manica, in realtà il dolce chiamato zuppa inglese è una preparazione tipicamente partenopea, e non toscana (come affermato da qualcuno che, come gira il vento, una volta parla della corte de’ I Medici del Rinascimento, una volta di una signora inglese(?) sguattera(sic!) in una famiglia toscana dell’ ‘800; in realtà pare invece che detta preparazione sia autenticamente napoletana ideata però (contrariamente alla maggioranza dei dolci napoletani nati (spesso per caso) nelle cucine dei monasteri femminili campani ) non in un monastero, ma nelle cucine reali al tempo del re Ferdinando II Borbone 2 Sicilie (Palermo 12 gennaio 1810 - Caserta 22 maggio 1859), figlio di Francesco I di Borbone e di Maria Isabella Borbone di Spagna, che fu re del Regno delle Due Sicilie dal 1830 al 1859, e che nel 1839 in occasione della realizzazione della prima ferrovia d'Italia (la Napoli-Portici ) diede a palazzo una gran festa alla quale invitò l’ambasciatore d’ Inghilterra Lord Robert Cornelis Napier, dando ordine al 1° cuoco di preparare in onore dell’ospite un sontuoso dolce che chiudesse degnamente il pranzo di gala; il cuoco aveva preparato del pan di Spagna per approntare una torta glassata al naspro torta di cui il re era ghiotto e che a Napoli era detta gattò mariagge(dal francese gateau (du) mariage), ed assentatosi momentaneamente, aveva delegato un suo malaccorto ragazzo di cucina a sorvegliare cottura e raffreddamento del pan di Spagna; il distratto collaboratore si lasciò scappare dalle mani il pan di Spagna ancòra caldo, facendolo frantumare in piú
parti. Tornato in cucina, lo chef si trovò davanti il pan di Spagna rovinato, ma in luogo di farsi prender dal panico, (non v’era tempo per preparare altro pan di Spagna ) risolse brillantemente la faccenda e pensò di usare comunque quei pezzi di pan di Spagna ; li pareggiò con un coltello e li dispose su di una placca da forno irrorandoli dapprima con uno sciroppo di acqua zucchero e maraschino e farcendoli poi con una veloce crema pasticciera addizionata di amarene sciroppate; diede ai pezzi cosí sistemati una forma semisferica e ricoprì il tutto con una meringa di zucchero e chiare d’uova che sarebbero dovute servire per confezionare il naspro necessario alla glassatura del gattò du mariage; mandò la preparazione al forno fino a che la meringa non avesse preso colore e presentò il dolce in tavola al sovrano ed a lord Napier; il re – come era solito fare (faceva cosí per ogni pietanza nuova, ed a tavola amava fare lui stesso le porzioni per tutti i commensali) – saggiò per primo il dolce indi ne porzionò per l’ospite che lo trovò squisito e chiese quale fosse il nome di quel dolce.
Il re con furbesca prontezza non esitò ad affermare che il suo chef aveva ideato quel dolce proprio per l’ospite d’oltre Manica ed in suo omaggio lo aveva chiamato zuppa inglese.
E fu con questo nome che il dolce uscito dalle cucine di palazzo reale invase le pasticcerie napoletane e da queste le case partenopee assieme a tutti i dolci nati nelle cucine dei conventi campani.
raffaele bracale

PASTIERA NAPOLETANA*

PASTIERA NAPOLETANA*

Ingredienti
Per Sei Persone
Grano cotto - 1 lattina 450 gr,
Aroma millefiori per dolci - 10 ml,
Latte - 250 gr,
Strutto - 180 gr,
Arancia o limone - scorza grattugiata,
Ricotta - 550 gr,
Uova - 9
Zucchero - 600 gr,
Vaniglia - 1 bustina
Cannella in polvere – 1 cucchiaino da tè
Farina - 350 gr,
Sale una presa
Zucchero a velo per guarnire 2 cucchiai
Canditi sminuzzati - 100 gr.

Per arricchire il composto della pastiera è d'uso e consigliato aggiungere alcune cucchiaiate di una crema pasticciera preparata con:
un bicchiere di latte,
1 etto di zucchero,
50 gr. di farina 00,
4 rossi d'uovo,
la scorza di un limone,
un baccello di vainiglia
Procedimento
Preparate la pasta frolla: sulla spianatoia lavorate la farina con 2 uova, un pizzico di sale, 140 g di strutto e 140 g di zucchero. Come tutte le paste frolle bisogna impastare rapidamente. Ottenuto un panetto sodo ed elastico tenetelo a riposo, coperto, mentre preparate il ripieno.
Versate il contenuto del barattolo di grano cotto in una casseruola; amalgamatelo sulla fiamma bassa con il latte e la scorza grattugiata di un'arancia o di un limone a vostra scelta. Cuocere a lungo ed a mezza fiamma, mescolando attentamente perché non si attacchi, fino ad ottenere un composto cremoso.
Frullate la ricotta con 500 gr. di zucchero, 5 uova intere piú due rossi, una bustina di vaniglia, un cucchiaino da tè di cannella in polvere ed 1 fiala di aroma millefiori. Questo aroma può essere sostituito anche da una fiala di fiori d'arancio, piú facilmente reperibile sul mercato. La vera essenza da usare, però, nella pastiera è la prima. Amalgamate il frullato con il composto a base di grano e aggiungetevi i canditi tagliati a dadini, girando molto bene.
Accendete il forno e portatelo a 180°. Ungete di strutto o rivestite con carta da forno una tortiera adeguata (ca 25 cm. di diametro), a bordi alti sei cm. di quelle apribili. Foderate lo stampo con la pasta frolla in modo da arrivare fino ai bordi e avendo cura di conservare un po' di pasta frolla per decorare la superficie del dolce. Versate il composto e decoratene la superficie con strisce strette 1,5 cm. di pasta frolla, formando come un graticcio
Infornare per ca 180 minuti.
Lasciar raffreddare bene nello stampo e prima di servire cospargere di zucchero a velo.
Accompagnare la preparazione con rosolii dolci al gusto di arancia o limone.

*Questo dolce è tipico della zona napoletana e viene preparato in occasione della festività primaverile della santa Pasqua e la sua ricetta è molto antica. Da qualcuno, ma non so quanto veridicamente, si afferma che la pastiera, , accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente, mentre il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbero derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio= confarreazione, una delle forme legali del matrimonio romano, la piú solenne (tanto che un matrimonio celebrato in questa forma non poteva esser mai sciolto!) che prendeva il nome dalla focaccia di farro farcita di ricotta offerta agli sposi e a Giove.
Un'altra ipotesi circa l’origine della pastiera la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale. Per il vero la versione originale della pastiera napoletana, versione nata nel contado partenopeo, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste ( sia pure con il nome di pizza doce ‘e tagliuline) in una sorta di frittata di pasta, frittata dolce fatta mescolando uova, zucchero, ricotta ed aromi con la pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini) scondita, eccedente il fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di pertinenza iera deriva il nome di pastiera.
Nell'attuale versione, si pensa che la pastiera fosse stata inventata probabilmente nella pace segreta di uno sconosciuto, dimenticato monastero napoletano dove un'ignota suora addetta alla cucina volle che in quel dolce, simbologia della Resurrezione, si unisse agli ingredienti della cucina quotidiana, il profumo dei fiori d'arancio del giardino conventuale. Alla bianca ricotta mescolò una manciata di grano bollito,quel grano che, sepolto nella scura terra, germoglia e risorge splendente come oro, aggiunse poi le uova, simbolo di nuova vita, l'acqua di mille fiori odorosa come la primavera, il cedro e le aromatiche spezie venute dall'Asia.Non vi sono certezze circa il nome del monastero, mentre è certo che le suore dell'antichissimo convento di San Gregorio Armeno furono reputate maestre nella complessa manipolazione della pastiera, e nel periodo pasquale ne confezionavano in gran numero per le mense delle dimore patrizie e della ricca borghesia, o per offrirne (in cambio di una piccola elemosina da destinare ai poveri) ai visitatori del convento.
Oggi ogni brava massaia napoletana si ritiene detentrice dell'autentica, ed ovviamente migliore, ricetta della pastiera. Ci sono,per intenderci , due scuole di pensiero : la piú antica insegna a mescolare alla ricotta, al grano cotto ed agli altri ingredienti delle semplici uova sbattute, e prevede che il dolce risulti alto non piú di due dita; la seconda(decisamente innovatrice) alla quale aderí anche mia madre dalla quale ò appreso la ricetta del dolce piú buono in assoluto, raccomanda di confezionare un dolce alto tre dita almeno e mescolare a tutti gli ingredienti (uova sbattute comprese) una densa crema pasticciera che se non la rende piú leggera, la fa certamente morbida ed appetitosa ; tale innovazione fu dovuta al dolciere-lattaio Starace con bottega in un angolo della Piazza Municipio, bottega ora non piú esistente.
La pastiera va confezionata con un certo anticipo, non oltre il Giovedì o il Venerdì Santo, per dare agio a tutti gli aromi di cui è intrisa di bene amaIgamarsi in un unico e inconfondibile sapore. Appositi "ruoti" di ferro stagnato sono destinati a contenere la pastiera, che in essi viene venduta e anche servita, poiché è assai fragile e a sformarla si rischia di spappolarla irrimediabilmente.
Personalmente lo ritengo il dolce piú saporito che si possa preparare, superiore ad ogni altra leccornia.
Tradizionalmente viene fatto per festeggiare il ritorno della bella stagione e quindi è associato alla Pasqua ma in realtà si può fare in ogni momento dell'anno visto che gli ingredienti son reperibili tutto l’anno e sarebbe un peccato non approfittarne!
* Leggenda e mitologia
Leggenda e mitologia si sposano nel narrare la storia della sirena Partenope che incantata dalla bellezza del golfo, disteso tra Posillipo ed il Vesuvio,pare avesse fissato lí(al fondo del mare di Napoli) la sua dimora. Ogni primavera però la bella sirena emergeva dalle acque per salutare le genti che popolavano il golfo, allietandole con canti d'amore e di gioia.
Una volta la sua voce fu cosí melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d'amore che la sirena aveva loro dedicato. Per ringraziarla di un cosí grande diletto, decisero di offrirle quanto di piú prezioso avessero.
Sette fra le piú belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina (forza e ricchezza della campagna), la ricotta (omaggio di pastori che la producevano con il latte delle loro pecorelle); le uova (simbolo della vita che sempre si rinnova) il grano tenero, bollito nel latte (a prova dei due regni della natura), l'acqua di fiori d'arancio (perché anche i profumi della terra rendessero omaggio alla sirena ), le spezie (come omaggio dei popoli piú lontani del mondo) ed infine lo zucchero (per esprimere l'ineffabile dolcezza profusa dal canto di Partenope in cielo, in terra, ed in tutto l'universo).
La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei. Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.
Senza scomodare la mitologia si racconta, a vanto della pastiera, che Maria Teresa D'Austria (Vienna 31.07.1816 † Albano Laziale 08.08.1867) , consorte in seconde nozze del re Ferdinando 2° di Borbone (Palermo 1810 † Caserta 1859), soprannominata dai soldati la Regina che non sorride mai, cedendo alle insistenze del marito buontempone, famoso per la sua ghiottoneria, accondiscese ad assaggiare una fetta di pastiera e non poté far a meno di sorridere, nel gustare la specialità napoletana. Pare che a questo punto il Re esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".

Concludendo dirò che sia che si tratti di un dono degli dei ghiottoni, sia che sia un antico dolce d’epoca romana, o una trovata di una solerte capa ‘e pezza o piú modestamente un’ideazione di una contadina economa e parsimoniosa, a noi non resta che plaudire all’indirizzo di chi ci à donato quest’insuperabile dolce, metterci in cucina, scorciarci le maniche, prepararlo e poi mangiarlo appena sia raffreddato, in barba al diabete, trigliceridi, colesterolo memori ca una vota se campa e tutt’’o llassato è perduto!
Alla pastiera ò dedicato i seguenti sonetti.
’A Pastiera


I

Simmo arrivate a Ppasca e pure st’ anno
t’ hê miso ’ncapo ca m’ hê ’a fa ’a pastiera…
Tu me saje cannaruto ’e che manera
pe chistu dolce lloco e staje ’nciarmanno

cu zuccaro e ricotta, ca… nun sanno
qua’ fine aspetta… ggià da ajeressera
’mmiez’ ô revuoto ’e cinche, seje turtiere
ca o songo piccerelle o troppo ’ranne…

Ògne anno ’a stessa storia puntualmente
e ògne anno ’o risultato è ttale e cquale…
J’ ’o ssaccio: me vulisse fà cuntento,

ma ’o fatto è cchisto – nun l’averlo a mmale –
quanno s’ arape ’o furno, ch’ esce fora?
’Na ddia ’e pantosca tosta e senz’ addore!

E me se stregne ’o core!
E m’ arricordo, ahimmé, cu nustalgia
d’ ati pastiere… Chelle ’e mamma mia!

II

Quanno era viva mamma, eh gioja mia…,
ê juorne ’e Pasca, ’a casa, chien’ ’addore
sapeva tutta d’ acqua ’e millefiore
e te metteva ’ncore n’ alleria…

Ma che ne faje ’e ’na pasticceria!?
Pastiere tante, oj ne’, chiene ’e sapore
cotte a mestiere, ca ’un vedive ll’ora
e n’ assaggià ’na fella, comme sia

senza aspettà ca se fosse freddata,
pecché, ’ncopp’ ô buffè d’ ’a stanza ’e pranzo –
guardannole zucose e prelibbate –

pareva ca dicesse’: Fatte ’nnanze!
Ch’ aspiette? Taglia e dicce: Bellavita
’e ffa cchiú mmeglio, ’e ffa cchiú sapurite?…

Nun resistevo ô ’mmito
e ne facevo tale e tante assagge
ca finché campo nun m’ ’e scurdarraggio!

III

E pure tu ’assaggiaste e te piacette
talmente tanto d’alliccarte ’e ddete…
Dicive: Sta ricotta è comme â seta,
’sta pastafrolla è propeto allicchetto!…

Ragion per cui, teté, cu ogni rispetto,
nun t’ ’a piglià si j’ mo, ’nnante a ’sta… preta,
cu ’a scusa ’e tené ’o ppoco ’e diabbete,
j’ me ricuso… Nun è ppe dispietto

ma proprio nun ce ’a faccio… Tiene mente:
se sente ’o ggrano, è vvascia, s’ è arruscata
è scarza ’e cetro e ’a crema n un va niente…

e aje voglia ’e ’mpupazzarla: ’sta… crostata
secca e ’ntaccuta e cu ’na faccia nera
nun m’ ’a puó fa passà pe ’na pastiera!

Pirciò cagna penziero:
nun è arta toja! E si è pe… devuzzione
pígliala bbella e ffatta… e statte bbona!


Mangia Napoli, bbona salute!
Raffaele Bracale.

DIVINO AMORE

DIVINO AMORE

Gustosi dolcetti natalizi preparati dalle suore dell’omonimo convento del Divino Amore in via Spaccanapoli a Napoli.
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Ingredienti

500 g di mandorle dolci sgusciate - 500 g di zucchero - 3 uova - scorza grattugiata di 1 limone - 1 bustina di vainiglia – 100 gr. di canditi misti (cedro, cocozzata, e scorzette d'arancia) - ostie q.b. - marmellata di albicocche 3 cucchiai - zucchero 2 cucchiai - acqua 2 cucchiai
Per la copertura: Ghiaccia bianca - colorante rosa

Esecuzione:

Macinate le mandorle, non pelate, con il macinacaffe' o il mixer, unite lo zucchero e con un po' di acqua fredda fate un impasto di giusta consistenza.
Incorporatevi 2 uova intere ed un rosso, la scorza grattugiata del limone, la vainiglia ed i canditi tagliati minutamente. Lavorate l'impasto, formate degli ovetti, collocateli sulla placca del forno foderati di ostie e fateli cuocere a 180° per una ventina di minuti.
Raffreddati, eliminate i bordi d'ostia superflui, spennellate leggermente i dolci con marmellata di albicocche diluita con acqua e zucchero e ricopriteli con ghiaccia bianca( ottenuta con zucchero a velo vainigliato, albume sbattuto a neve ferma) colorata di rosa con colorante per alimenti.
brak


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BABÀ NAPOLETANO

BABÀ NAPOLETANO


per la pasta
500 g farina americana (manitoba),
• 50 g zucchero,
• 150 g burro ammorbidito a temperatura ambiente, oppure 1 etto di strutto,
• sale fino – un cucchiaino da caffè,
8 uova,
2 panetti di lievito di birra.

per bagnare
2 l acqua
600 g zucchero
1 buccia intera di limone non trattato,
rum q.s.
Procedimento
Mettere nella ciotola girevole dell’ impastatrice la farina, lo zucchero, il burro a pezzettini o lo strutto, il sale ed il lievito sbriciolato. Avviare le fruste e miscelare il tutto. Aggiungere le uova ad uno ad uno ( e solo quando il precedente sia stato assorbito).
La pasta dovrà risultare elastica e rimanere attaccata alle fruste. Per ottenere ciò è importante la quantità di uova: evitare di sceglierle troppo grandi; se lo fossero mettere le prime sette, sempre uno alla volta, ed eventualmente aggiungerne solo metà dell’ultimo. Impastare con le fruste fino a che la pasta non salga sulle fruste sino a ricoprirne quasi le astine e non risulti gommosa. Per verificarlo prendere un pizzichino di pasta tra l'indice e il pollice ed allargare le dita: se risulta elastica e quasi gommosa è pronta. Far crescere la pasta nella ciotola stessa sino a che non raggiunga il bordo. Trasferire in un unico stampo imburrato (o in più stampi piccoli e cilindrici) con buco centrale e far crescere di nuovo fino a raggiungere i bordi. Infornare in forno caldo a 180°C per circa 20 minuti. Preparare il bagno: Scaldare l'acqua, lo zucchero, la buccia di limone ed il rum (la quantità dipenderà dai gusti) fino a far sciogliere lo zucchero. Eliminare la buccia del limone. Mettere il babà su una grata (va bene quella del forno) e poggiarla su una teglia o un recipiente abbastanza grande. Praticare dei fori con uno stuzzicadenti sulla superfice superiore del babà (quella piú lucida) e cominciare a bagnare usando un mestolo. Girare il babà e continuare a bagnare piú volte. Quando il bagno termina recuperarlo dalla teglia su cui poggia la grata (serve a questo), eventualmente riscaldarlo nuovamente e continuare a bagnare il babà. Lasciare poi gocciolare il babà sulla grata per qualche ora. Servire le fettine di babà aggiungendo ancora altro liquido (che sarà stato messo a parte) se necessario o gradito.Qualora si siano usati piccoli stampi i babà risultanti potranno esser bagnati immergendoli rapidamente per intero nel bagno e recuperandoli con una schiumarola.
nota
il babà, come è universalmente conosciuto, è un dolce soffice e cedevole principe accanto a sfogliatella e pastiera della cucina partenopea.
Esso dolce pur essendo originario della Polonia pervenne a Napoli (divenendo uno dei dolci piú graditi della pasticceria partenopea) attraverso i cuochi francesi (i famosissimi monzú) chiamati a Napoli dalla regina Maria Carolina d’Asburgo (sorella della notissima Maria Antonietta, quella che finí i suoi giorni ghigliottinata con il consorte Luigi XVI al tempo (1793 rispettivamente 21/1 il re e 16/10 la regina della rivoluzione francese) in occasione delle proprie nozze ( 7 aprile 1768) con Ferdinando IV Borbone – Napoli. Il dolce deve il suo nome alla morbidezza e cedevolezza dell’impasto atto alla malferma dentatura delle persone anziane;baba in lingua polacca vale:nonna,donna vecchia; quando poi il baba polacco, al seguito del re Stanislao Leszczinski, (che qualcuno vuole ne sia stato casualmente l’inventore)re di Polonia dal 1704 al 1735, giunse in Francia dapprima a Luneville e di lí a Parigi alla pasticceria Sthorer, dove tutti lo conobbero ed apprezzarono, esso vide il suo nome pronunciato alla francese con la a finale accentata babà e tale fu a Napoli (che anzi ne raddoppiò espressivamente la seconda esplosiva labiale e babà diventò babbà e preceduto dall’articolo addirittura ‘o bbabbà) dove, come ò detto, prese stabile dimora per il tramite dei monzú francesi (cuochi di corte); anzi a Napoli vide raddoppiata b intervocalica diventando babbà e fu dolce tanto amato ed apprezzato da pervenire in talune locuzioni napoletane; Cito,ad es. : Sî ‘nu bbabbà! (Sei un babà) detto di persona (uomo) d’indole buona e mansueta fino alla prona accondiscenza, mentre riferito ad una donna Sî ‘nu bbabbà vale Sei tanto bella e buona (che meriteresti d’esser mangiata, come un babà!).

Esiste poi una diverte espressione partenopea che recita:
Aje voglia ‘e mettere rumma: ‘nu strunzo nun addiventa maje bbabbà
Puoi irrorarlo con quanto rhum tu voglia, uno stronzo non diverrà mai un babà.
Id est: Per quanto tu tenti di edulcorarlo, uno stronzo non potrà mai diventare un dolce saporito come un babà; alla stessa stregua: per quanto lo si cerchi di migliorare uno sciocco non potrà mai cambiare in meglio la propria natura.
Il babà può essere indifferentemente accompagnato da liquori dolci (rosolî) o secchi (cognac e/o brandy)
Mangia Napoli: bbona salute!
Raffaele Bracale

FILETTO DI MANZO AL PEPE VERDE

Filetto di manzo al pistacchio verde.
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 spessi (1 cm.) filetti di manzo di circa 2 etti cadauno,
2 peperoni giallo e rosso quadrilobati,
4 grosse cipolle dorate mondate ed affettate longitudinalmente,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.
3 etti di pistacchi verde di Bronte sbucciati e tritati finemente,
1 bicchiere di olio (semi varî o mais o arachidi o girasole) per frittura,
5 etti di riso arborio lessato in acqua salata,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe bianco q.s.

procedimento
Si comincia col lavare ed asciugare i peperoni, si scapitozzano del picciolo, si liberano di semi e costoline bianche interne, si riducono in pezzi della grandezza d’un pollice e si friggono in olio di semi varî o mais o arachidi o girasole, si salano e si mantengono in caldo; in un’altro tegame si versa un bicchiere d’olio d’oliva e.v. ed a mezza fiamma si fanno dapprima dorare e poi stufare le cipolle bagnandole prima con mezzo bicchiere d’acqua calda ed alla fine con la tazzina di cognac; salare e pepare ad libitum mantendo in caldo; a questo punto si unge abbondantemente una padella di ferro nero, la si pone a fuoco sostenuto fino a che diventi ardente e vi si scottano i filetti tre minuti per faccia ; si salano e pepano e si coprono, comprimendo a fondo (affinché restino attaccati ai filetti) con i pistacchi che sono stati tritati finemente con un mixer a lame da aridi; si dispongono a specchio nei singoli piatti alcune cucchiaiate di cipolle stufate e vi si adagiono i filetti, aggiungendo alcune cucchiaiate di riso lessato nel frattempo in acqua salata, condito con un filo d’olio e.v. e con i peperoni fritti.

Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale.

ENTRECÔTES DI MANZO

ENTRECÔTES DI MANZO
AI SETTE SAPORI
Nota.
Per questa ricetta è necessario usare delle fettine di carne ricavate dal quarto anteriore della bestia, cioè dalle spalla (quarto anteriore) e non dal quarto posteriore come invece avviene per le scaloppe che son ricavate appunto dai quarti posteriori e ciò perché in questa ricetta la cottura dev’essere prolungata e la carne che sia eccessivamente magra (quarto posteriore) sopporta poco le cotture prolungate adatte invece alle carni piú ricche di grasso (quarto anteriore)che ne mantiene la morbidezza e ne esalta il sapore. E veniamo alla ricetta:

ingredienti e dosi per 6 persone

1,5 kg. di fettine di polpa (spalla) di manzo spesse 1 cm.;
½ kg. di melanzane lunghe violette napoletane, lavate, spuntate e tagliate (senza sbucciare) in cubetti da cm. 1,5 di spigolo;
2 grossi peperoni quadrilobati, lavati asciugati, capitozzati del picciolo e dei semi e costoline interni, poi ridotti in falde della grandezza d’un indice;
2 grosse cipolle dorate mondate del primo velo ed affettate in grossi anelli;
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.;
2 dadi da brodo classico;
2 spicchi d’aglio di cui uno mondato e schiacciato e l’altro mondato e tritato finemente;
½ kg di zucchine piccole, sode e verdi, lavate asciugate, spuntate, divise in due longitudinalmente e poi a julienne da cm. 5 x 1;
olio di semi per friggere q. s.;
farina q.s.;
due cucchiai di pinoli tostati;
due cucchiai di uvetta ammollata in acqua bollente;
1 etto di pecorino (possibilmente laticauda) grattugiato;
1 cucchiaino di pistilli di zafferano;
sale fino e pepe nero q.s.

procedimento
Innanzi tutto ponete in uno scolapaste i cubetti di melanzane, spolverizzateli con uno o due cucchiai di sale fino, copriteli con un piattino in cui poggerete un peso di ca 2 kg. e lasciateli sotto pressione per circa mezz’ora a perdere l’amaro liquido di vegetazione; frattanto ponete al fuoco un’ampia padella provvista di coperchio, con olio di semi, portatelo a temperatura e friggetevi la julienne di zucchine abbondantemente infarinata e prelevatela con una schiumarola ponendola in una zuppiera dove la regolerete di sale; a seguire ugualmente infarinate e friggete gli anelli di cipolla; al termine prelevateli con la schiumarola, poneteli nella medesima zuppiera della julienne di zucchine e regolate ancora, ma senza eccedere, di sale. Eliminate l’olio di semi, rabboccate con l’olio d’oliva e.v. assieme allo spicchio d’aglio mondato e schiacciato; alzate i fuochi e portate l’olio a temperatura ed eliminate l’aglio quando sia colorito, indi friggetevi dapprima le falde di peperone ed a seguire i cubetti di melanzane opportunamente sciacquati sotto uno scroscio d’acqua corrente e ben strizzati; al termine prelevate peperoni e melanzane fritte con la solita schiumarola e poneteli in un piatto dove con estrema parsimonia li regolerete di sale (attenzione al sale: con le varie successive salature degli ingredienti si corre il rischio di eccedere!). A questo punto alzare i fuochi e ponete nell’olio il trito di cipolla; quando sarà imbiondito adagiate nel tegame una accanto all’altra, senza che si sovrappongano le fettine di carne ben lavate ed infarinate e lasciatele dorare 3 minuti per faccia; al termine sbriciolate sulla carne i due dadi, allungate con mezza tazza d’acqua bollente, incoperchiate e lasciate sobbollire per circa 15’; al termine aggiungete i pinoli precedentemente tostati in un cucchiaio d’olio, l’uva sultanina ammollata in acqua bollente, il cucchiaio di pistilli di zafferano e poi le melanzane ed i peperoni precedentemente fritti;scoperchiate la teglia, alzate i fuochi e completate la cottura; alla fine regolate di sale e spolverizzate di pecorino grattugiato ed abbondante pepe nero macinato a fresco; impiattate le porzioni badando che si mantengano ben calde e mandate in tavola ponendo su ogni porzione parte della julienne di zucchine e di anelli di cipolla fritti.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
Raffaele Bracale

SPEZZATO MISTO DI SPALLA DI MAIALE

SPEZZATO MISTO DI SPALLA DI MAIALE ALLA PAPRIKA


Ingredienti e dosi per 6 persone :
Una grossa cipolla dorata tritata,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
2 cucchiaini di paprika piccante,
3 etti di fegatelli di maiale senza omento,
1, 5 kg di spalla di maiale in pezzi di cm. 5x4x3,

200 gr di pancetta tesa affumicata in cubetti di 1 cm. di spigolo,
250 gr di panna da cucina acidulata con il succo d’un limone non trattato,
1 dado da brodo vegetale,
1 ciuffo di prezzemolo, lavato, asciugato e tritato finissimo,
sale fino e pepe decorticato q.s.
Ricetta :
Preparare il brodo (1/2 litro d'acqua per un dado) e mantenerlo in caldo. In un ampio tegame, provvisto di coperchio, rosolare per circa 10 minuti, nel mezzo bicchiere d’olio, la pancetta tenendo il fuoco al minimo; aggiungere la cipolla tritata e far cuocere fino a che la cipolla non diventi trasparente. Togliere il tegame dal fuoco ed aggiungere i pezzi di spalla e súbito dopo la paprika e mescolare accuratamente.
Far dorare la carne a fuoco medio;versare il brodo nel tegame, aggiustare di sale e con un pizzico di pepe e continuare la cottura incoperchiando il tegame.
Far cuocere a fiamma bassissima per circa un ora e mezzo rigirando di tanto in tanto i pezzi di spalla. Dopo 45 minuti di cottura aggiungere i fegatelli lavati, asciugati e tritati in piccoli cubetti. Dopo altri 15 primi,unire la panna; Portare il tutto a bollore per circa 10 minuti, cospargere con il prezzemolo e servire caldo di fornello questo gustosissimo spezzato. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!

raffaele bracale

lunedì 25 agosto 2008

JACOVELLA/ JACUVELLA/GHIACOVELLA

JACOVELLA/ JACUVELLA/GHIACOVELLA
La parola napoletana in epigrafe è termine antichissimo, presente fin dal sec. XIV e ss., già preso in esame e contenuto nell’ Elenco di parole napoletane (primo modesto tentativo di dar vita ad un vocabolario della lingua napoletana), elenco che Colantonio Stigliola (1548 -1623) mise in appendice alla sua versione in lingua napoletana dell’ Eneide.
Pur essendo antichissimo, il termine non è però desueto ed ancora vive nell’uso quotidiano in tutta l’area linguistica campana, radicato principalmente sia nell’ alta Irpinia che nel napoletano. Amplissimo il ventaglio dei significati che partendo dal comportamento superficiale, cosa poco seria,modo di agire che genera confusione, inconcludenti tira e molla, giungono all’ intrigo, pretesto, banale astuzia, sotterfugio teso a perder tempo, a giocherellare, a cincischiare, nel tentativo di defilarsi per non compiere qualcosa di molto piú serio; anticamente il vocabolo che sto esaminando fu usato anche per indicare dispettucci da innamorati, vezzi, moine, tenerezze da innamorati, quegli stessi dispettucci, ma pure vezzi, moine, tenerezze che – come vedemmo altrove – erano detti anche vruoccole o cicerannammuolle; piú spesso comunque la jacovella/jacuvella/ ghiacovella indicò la trama, l’intrigo, la gherminella piú o meno sciocca, buffonesca, cialtronesca, sempliciotta.

Per ciò che attiene all’etimologia di jacovella/jacuvella/ ghiacovella, questa volta devo dissentire da quanto proposto dall’ amico il dotto avv.to Renato de Falco, attivissimo esperto di cose napoletane il quale per jacovella/ ghiacovella rifiutando altre piú accolte e convincenti etimologie, ipotizza una culla latina, chiamando in causa uno strano jaculum= dardo dandone però una connessione semantica a jacovella che mi pare troppo inconferente se non addirittura pretestuosa…
Non so come sia accaduto, ma questa volta reputo che l’amico Renato – solitamente preciso ricercatore – sia stato un po’ superficiale e si sia lasciato sfuggire che la parola jacovella/ ghiacovella nacque in ambito teatral-marionettistico per identificare le gherminelle, le azioni sceniche quasi sempre condite di paure e timori di un tal Giacomino (in dialetto Jacoviello diminutivo di Jacovo id est Giacomo che poi altro non era che l’adattamento del nome proprio francese Jacque, nome con il quale colà si soprannominò il contadino sciocco, pauroso e semplicione, contadino che in tal veste entrò nel teatro popolare ed in quello delle marionette dove fu Jacovo o Jacoviello e le sue azioni furono le jacovelle o, con diversa scrittura, le ghiacovelle. E tali azioni furon prese a modello per identificare tutte quelle elencate in principio.Rammenterò a margine di tutto ciò che il comportamento di tale Jacovo/Giacomo ← Jacque (dal cui nome fu tratto quello di jaque/jaquette= in italiano giacca/giaccheta usato per indicare un tipo di giubba indossata da quel contadino) fu preso a modello e trasferito nell’inteso popolare dove con la locuzione fare giacomo giacomo si rappresenta l’essere tremabondi, impauriti di tutti coloro che agiscono davanti ai pericoli come quel contadino sciocco, pauroso e semplicione al quale in iscena tremavano le gambe.
Non so cosa abbia spinto Renato de Falco, per la voce jacovella/ghiacuvella a scartare l’ipotesi Jacovo e a proporre il latino jaculum.
Ma è rimasto solo!
F. D’Ascoli (parce sepulto!), C. Jandolo e recentemente M. Cortelazzo propendono in coro ,ed indegnamente io con loro, per una degradazione semantica del nome proprio Giacomo – Jacovo.
Et de hoc satis.
Raffaele Bracale

SCIUSCELLA

SCIUSCELLA
La voce femminile in epigrafe sciuscella (plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con derivazione dall’arabo harruba ) carruba cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam. Leguminose) ed un tempo vennero usati come passatempo goloso per bambini ; mentre come termine gergale la voce carruba vale carabiniere (per il colore nero della divisa, che richiama appunto quello bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però non solo come foraggio per cavalli e buoi, o – un tempo - come passatempo dolcissimo per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali.
In lingua napoletana la voce femminile sciuscella conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare qualsiasi oggetto che sia di poca consistenza e/o resistenza con riferimento semantico alla cedevolezza del frutto del carrubo, frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad esempio di un mobile che non sia di stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di compensato assemblati a caldo con collanti chimici s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente! Alla medesima maniera ci si esprime nei riguardi di ogni altro oggetto privo di consistenza e/o resistenza.
Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che in lingua napoletana vi fu un tempo una voce maschile (o neutra) ora del tutto desueta che suonò sciusciello voce che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu, il salentino sciusciille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono, nelle rammentate lingue regionali, l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc.
E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe.
Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la voce sciuscella , a ciò che nel suo conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed accoglie solo sciuscella in ordine alla quale però sceglie pilatescamente di trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né – stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive!
Mi pare invece che sia correttamente perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali per la voce sciusciello rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che per sciuscella si possa correttemente pensare ad un derivato neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi, neutro poi inteso femminile.
Semanticamente forse la faccenda si spiega (a mio avviso) con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e bevande medicinali che posson far forse pensare a dei brodini.
S.E.& O.
raffaele bracale

GENNARINO NUN DICE BUSCIE etc

Gennarino nun dice buscie; dice ‘nu cuofano ‘e fessarie.
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe piú giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) che era solito magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí buona come magnificato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuofano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a implicata ed aperta, la si sia sostituita con una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria una non migliore fesseria. Raffaele Bracale

SE SO’ RROTTE ‘E GGIARRETELLE

SE SO’ RROTTE ‘E GGIARRETELLE oppure
RUMPIMMO ‘E GGIARETELLE!
Ad litteram: Si son rotte le chicchere! oppure Infrangiamo le chicchere! Nel primo caso: È avvenuta la procurata rottura delle domestiche tazzine, brocchettine etc. Nel secondo: Rompiamo le domestiche tazzine! Id est: si è spezzata un’amicizia consolidata, o è il caso di infrangere un’amicizia consolidata; è venuta meno o è opportuno che venga meno una frequentazione che un tempo fu abituale in quanto fondata su di un’antica amicizia.
Per comprendere appieno il significato vero (quello indicato dopo il precedente id est:) della locuzione in epigrafe, occorrerà conoscere cosa si suole indicare, in lingua napoletana con la voce ggiarretelle. Orbene la voce
ggiarretella di cui ggiarretelle è il plurale è un sost. femm. diminutivo (vedi suffisso etella/etelle) di giarra che (con etimo dall’arabo ğarra passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel francese jarre) indica dapprima un grosso recipiente di terracotta per conservare olio, vino, acqua o granaglie e poi una brocca (con manico) di vetro o terracotta per bere acqua, birra ed altre bevande; il diminutivo ggiarretella/e indica invece esclusivamente una minuscola brocca, una chicchera, una piccolissima giara o un gottino tutti recipienti forniti di manico in materiali rigorosamente poveri, umili (vetro, terracotta e simili) usati per servir domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici, parenti e sodali coi quali si abbia una dimestichezza, intimità, familiarità, confidenza o frequentazione cosí intense e continuate da non necessitare l’uso di vasellame in materiali nobili (cristallo, porcellana etc.) Tutto ciò è stato valido però fino a poco tempo addietro, quando è invalso il pedestre uso di servire domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici, parenti e sodali in laidi, terrificanti contenitori di maleolente plastica…ed è oramai quasi impossibile trovare nelle moderne case napoletane le affettuose giarretelle d’antan! Va da sé che con il venir meno l’amicizia con relativa dimestichezza, intimità, familiarità, confidenza e frequentazione, si rende inutile l’uso delle umili giarretelle che possono essere infrante ed eliminate, per far posto a vasellami piú importanti in cui servire caffè, rosolî, gelati a nuovi conoscenti che non potrebbero ritenersi amici, parenti o sodali.D’altro canto il rompere le giarretelle può bene indicare che si siano infrante quelle amicizie che davano il destro per l’uso delle suddette.
Delle giarretelle ò detto,
so’ rrotte =sono rotte voce verbale (3° pers. plur. ind. pres. passivo) dell’infinito rompere= rompere, infrangere (dal tardo lat. rumpere).
rumpimmo = rompiamo, infrangiamo voce verbale (2° pers. plur. ind. pres.con valore esortativo oppure2° pers. plur. imperativo ) del medesimo infinito rompere= rompere, infrangere


Raffaele Bracale

SE SO’ RROTTE ‘E GGIARRETELLE

SE SO’ RROTTE ‘E GGIARRETELLE oppure
RUMPIMMO ‘E GGIARETELLE!
Ad litteram: Si son rotte le chicchere! oppure Infrangiamo le chicchere! Nel primo caso: È avvenuta la procurata rottura delle domestiche tazzine, brocchettine etc. Nel secondo: Rompiamo le domestiche tazzine! Id est: si è spezzata un’amicizia consolidata, o è il caso di infrangere un’amicizia consolidata; è venuta meno o è opportuno che venga meno una frequentazione che un tempo fu abituale in quanto fondata su di un’antica amicizia.
Per comprendere appieno il significato vero (quello indicato dopo il precedente id est:) della locuzione in epigrafe, occorrerà conoscere cosa si suole indicare, in lingua napoletana con la voce ggiarretelle. Orbene la voce
ggiarretella di cui ggiarretelle è il plurale è un sost. femm. diminutivo (vedi suffisso etella/etelle) di giarra che (con etimo dall’arabo ğarra passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel francese jarre) indica dapprima un grosso recipiente di terracotta per conservare olio, vino, acqua o granaglie e poi una brocca (con manico) di vetro o terracotta per bere acqua, birra ed altre bevande; il diminutivo ggiarretella/e indica invece esclusivamente una minuscola brocca, una chicchera, una piccolissima giara o un gottino tutti recipienti forniti di manico in materiali rigorosamente poveri, umili (vetro, terracotta e simili) usati per servir domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici, parenti e sodali coi quali si abbia una dimestichezza, intimità, familiarità, confidenza o frequentazione cosí intense e continuate da non necessitare l’uso di vasellame in materiali nobili (cristallo, porcellana etc.) Tutto ciò è stato valido però fino a poco tempo addietro, quando è invalso il pedestre uso di servire domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici, parenti e sodali in laidi, terrificanti contenitori di maleolente plastica…ed è oramai quasi impossibile trovare nelle moderne case napoletane le affettuose giarretelle d’antan! Va da sé che con il venir meno l’amicizia con relativa dimestichezza, intimità, familiarità, confidenza e frequentazione, si rende inutile l’uso delle umili giarretelle che possono essere infrante ed eliminate, per far posto a vasellami piú importanti in cui servire caffè, rosolî, gelati a nuovi conoscenti che non potrebbero ritenersi amici, parenti o sodali.D’altro canto il rompere le giarretelle può bene indicare che si siano infrante quelle amicizie che davano il destro per l’uso delle suddette.
Delle giarretelle ò detto,
so’ rrotte =sono rotte voce verbale (3° pers. plur. ind. pres. passivo) dell’infinito rompere= rompere, infrangere (dal tardo lat. rumpere).
rumpimmo = rompiamo, infrangiamo voce verbale (2° pers. plur. ind. pres.con valore esortativo oppure2° pers. plur. imperativo ) del medesimo infinito rompere= rompere, infrangere


Raffaele Bracale