sabato 31 luglio 2021

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 5

 IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 5

35- Paré 'nu sórece 'nfuso 'a ll' uoglio

Letteralmente: Sembrare un topo bagnato (id est: unto) dall’olio. Cosí, con icastica rappresentazione ci si riferisce a chi abbia il capo abbondantemente impomatato, lustro ed eccessivamente profumato, tanto da poter essere appaiato ad un sorcio che introdottosi in un contenitore d’olio, ne emerga completamente unto e luccicante; rammento che  altrove l’uomo che appaia  cosí tanto  pettinato, lustro  ed impomatato vien bollato con l’aggettivo  alliffato (unto, impomatato, imbellettato) che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto;

sórece s.vo m.le = topino domestico, sorcio, dal lat. sorice(m);

 'nfuso = bagnato, intriso, inzuppato e qui unto voce verb. part. pass. aggettivato dell’infinito ‘nfonnere =bagnare, aspergere,intridere etc. voce dal lat. in→’n+fúndere con la consueta assimilazione nd→nn;

uoglio s.vo neutro = olio; voce dal lat. oleu(m) dal greco élaion; dal lat. class. oleu(m) derivò il lat. volg.   ŏlju(m) donde uoglio con tipica dittongazione della ŏ→uo e passaggio del gruppo lj a gli come per familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;

rammento in coda all’esame dell’espressione che talora i napoletani meno esperti la usano anche in riferimento a chi, vittima d’un improvviso acquazzone, a cui non sia sfuggito,  risulti del tutto inzuppato ed intriso d’acqua; per la verità si tratta di un riferimento improprio: i napoletani d’antan ed amanti della propria cultura sanno che in caso di acquazzone il paragone da farsi e che meglio regge non è con un topo, ma con un polpo: cfr. farse/paré comme a ‘nu purpetiello   id est: Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.

36-  Paré 'o diavulo e ll'acquasanta

Ad litteram: Sembrare il diavolo e l’acqua lustrale. Détto  in riferimento a due individui l’uno (quello adombrato quale acquasanta) d’indole onesta, giusta, virtuosa, dabbene e  proba, l’altro (inteso diavolo) d’indole cattiva se non pessima, malvagia, perfida, maligna,empia, crudele, sadica, turpe, spietata etc.,   di caratteri cioè cosí tanto contrastanti da essere addirittura antitetici ed incompatibili tali da risultare in perenne contrasto attesa la incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi di agire.

 

 diavulo s.vo m.le = diavolo, demonio, spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabōlu(m)→diavulo, dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare'

acquasanta s. f. acqua benedetta per uso liturgico, acqua lustrale, purificatoria; la voce è formata agglutinando il s.vo acqua (dal lat. aqua(m)) con l’agg.vo santa (dal lat. sancta(m), propr. part. pass.f.le di sancire 'sancire').

37- Paré Pascale passaguaje.

Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai.

Cosí sarcasticamente viene appellato chi si vada reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui in continuazione rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione  fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di Antonio Petito ((Napoli, 22 giugno 1822 –† 24 marzo 1876). 

passaguaje neologismo in forma d’agg.vo per significare poveretto, poveruomo, povero diavolo, malaugurato, infausto, sfortunato, sciagurato, formato agglutinando il so.vo pl. guaje (guai, sventure, avversità, traversie, incidenti; difficoltà, preoccupazioni, grattacapi; voce dal germ.*wai ) con, in posizione protetica, la voce verbale passa (3 pers. sg. ind. pres. dell’infinito passare/à = muoversi, transitare, ma qui subire, sopportare il passaggio di (dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo').  

38 – Paré ‘o càntaro ‘mmiez’â cchiesia.

Letteralmente : Sembrare il pitale (posto) nel mezzo della chiesa.Id est : sembrare, ma piú icasticamente, essere qualcosa di incongruo messo in un contesto,  un quadro, un insieme,una  situazione che  naturalmente gli siano estranei.Icastica espressione usata a dileggio di qualcosa o piú spesso di qualcuno entrati a far parte  di una condizione, posizione,circostanza, contingenza, di per sé  non inerente alla  destinazione di quel  qualcosa o alle capacità del qualcuno ; piú chiaramente un pitale, aggeggio da usarsi quale  vaso di comodo, non potrebbe essere adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa, contesto che gli è estraneo ; cosí ad esempio un pesante soprabito in pelliccia usato nei mesi estivi durante una passeggiata sul lungomare sarebbe inadatto ed incongruo, finendo per l’appunto per esser   paragonabile ad càntaro posto nel mezzo di una chiesa ; alla medesima stregua, sempre ad esempio,qualcuno che si intestardisse a voler praticare uno sport, o un’attività artistica  per i quali non sia tagliato e/o non ne conosca le regole     potrebbe ben dirsi che appaia un vaso di comodo adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa.

càntaro o càntero alto e vasto vaso cilindrico  dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,  vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea

cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un  quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti  l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!

Rimando alibi sub càntaro/càntero. per  esaminare altre  due icastiche frasi e due duri insulti che chiamano in causa il càntaro/càntero.

‘mmiez’â  locuzione prepositiva di luogo = in mezzo alla, nel mezzo della formata con la preposizione in→’n→’m

per assimilazione regressiva,dal s.vo m.le miezo (mezzo) dal lat. medium e dalla preposizione articolata f.le alla nella forma di crasi â come altrove ô vale al/allo  ed ê  vale alle oppure a gli (ess. ‘mmiez’ô = in mezzo al/allo  e   ‘mmiez’ê = in mezzo alle/a gli);

cchiesia/cchiesa s.vo f.le  1chiesa, luogo di culto,  edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane

2 comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane,

3 per antonomasia, la chiesa cristiana cattolica;

voce dal lat. (e)cclesia(m)→cchiesia e talora, ma meno spesso chiesa.

      

E veniamo infine alle espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito  ma coniugato impersonalmente alla 3ª p. sg. dell’ind. presente ; illustro cioè le espressioni :

39- Pare brutto!

Letteralmente : Sembra brutto ! nel senso di Sta male !,è  scorretto ! o quanto meno, può apparire tale. Espressione del piú vieto conformismo  usata per ammantare di un perbenismo di maniera ed epidermico il consiglio fornito nei riguardi di taluni  comportamenti  che si raccomanda di  non tenére, non perché ritenuti veramente errati o esecrabili,  ma solo perché ipocritamente pensati  riprovevoli a gli occhi del mondo.

brutto agg.vo m.le agg.

 si dice di persona, animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga impressione;

2 cattivo, riprovevole, sconcio (detto di cosa): brutta abitudine; brutte parole;

3 sfavorevole, negativo: arrivare in un brutto momento; prendere un brutto voto; fare una brutta figura | grave, doloroso: una brutta malattia; una brutta notizia

4 che reca danno o molestia; che produce un effetto negativo

5 errato, scorretto,  sleale, disonesto, scortese

Voce dal  lat. brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo.

40- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.

Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso (giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle.). La frase viene usata a  sarcastico commento delle azioni iniziate da qualcuno  ritenutotanto   inetto al punto da non poter portare mai  al termine ciò che intraprende.Sovente l’espressione è pronunciata preceduta da un esclamatorio Ahé! Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione garbatamente  ironica da intendersi in senso antifrastico, id est: Mai ti vedrò vestito da orso!;   si tratta di una locuzione usata  a mo' di canzonatura  davanti alle risibili imprese dei saccenti, boriosi e  supponenti che si imbarchino (privi come sono  delle necessarie forze fisiche e/o capacità intellettive), in avventure ben superiori alle  loro scarse possibilità; va da sé che  a causa della penuria di forze e/o capacità  le imprese in cui s’avventurano son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione fa le viste di  disporsi  a catturare un orso per vestirsene della pelle, ma sciocco, presuntuoso  ed incapace qual è  non vi potrà mai riuscire, per cui  facilmente  è dato preconizzare che mai lo si potrà vedere vestito da orso e canzonarlo dicendogli l’espressione in esame; va da sé che  l’orso e la sua cattura son solo un icastico esempio d’ogni altra impresa intrapresa e non realizzabile  per pochezza di forze, mezzi e/o capacità.

ca  cong. o ca/che pronome relativo  che;  

come congiunzione che corrisponde all’italiano che

1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te   decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta  malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne  nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?

2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí;  era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di  locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;

3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà

4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al  congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;

5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a  farlo, primma ca è  troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;

6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun  sperasse

7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca,   ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio,   ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;

8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí  | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo  a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto  senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;

9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;

10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto':  ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;

11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace  sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;

12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca  dicere;  à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a  mme ca a vvuje  | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca  maje;

13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.

Circa l’etimo di questa congiunzione  qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente,  un’aferesi di (poc)ca=poiche  mentre mi appare piú corretto l’etimo dal   lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca  congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca  sarebbe stata  buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca  che distinguesse anche visivamente  il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí!  

Per il pronome ca  mi limito a ricordare che corrisponde al  che pron. rel. invar.  corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca

1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ca/ch’ è trasuto mo  è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje; ‘o ggiurnale ca/che staje liggenno è chillo d’ajere

2)  talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto  nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca/che ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje/ che vvaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune è usato solo nella forma che : (nun) tene ‘e che s’ allamentà, (non)  à motivo di lamentarsi; (nun) tene ‘e  che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che ddicere, nulla da eccepire,espressione di consenso

3)  la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.)anche in questo caso si usa sempre il che : te sî  miso a sturià, ‘o cche te fa onore;  nun s’ è  ffatto cchiú vedé, ‘a che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come  pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a cche pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che te lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio  (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? |  ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come  pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» |

 

cca ( e non ca)avv. di luogo  = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua;  etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine  va scritto senza alcun segno diacritico  trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel  napoletano esistono , per vero,come abbiamo visto,  una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione  che  però  si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la  c iniziale geminata ( cca)  e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento   un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto,  non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però  aggiungere un’ultima osservazione:  è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel  registrare puntigliosamente  i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra   che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare  registrò  sí l’avverbio a margine  con la  c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà  registrato dai suoi  omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra   la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare  a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli  e ad  altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli ad alcuni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico accademico, colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche!

mo  avv. di tempo ora, adesso

Nel napoletano vuoi  nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato – come ò détto - per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio segnalare  è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata  con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente  definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta  connota il cittadino e  se è pronunciato con la  o chiusa connota il provinciale.

  Questo mo è possibile passim  trovarlo anche come  mo' o ancóra mò), ma è pur sempre  l’ avv.  ora, adesso; poco fa.  Concorrente di ora ed adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi  mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.

nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo  con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo

Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?

Il problema non è di facilissima soluzione posto che  non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse  da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;

vi sono infatti parecchi  scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato  dall’apposizione di un segno diacritico (‘).

Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox =  ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice  e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.

È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine,  per motivi etimologici, perde una sola o piú  consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale),  non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;

ecco dunque che  ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum   per  pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia  consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è  là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono   ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là  dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’  che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st)  comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può.

Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu ( articolo un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie, inchiostro  o appesantisse la pagina scritta e il non apporlo non fosse invece, quale a mio avviso invece  è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo e chi piú ne à piú ne metta!)  

Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare  da mox in quanto, pare, che una doppia consonante  come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica  come la d di modo.

Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale  re  che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta  x ,  anche ammettendo, dicevo   che il napoletano mo discenda da modo e non da mox  non si capisce perché  esso mo  andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di  un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.

Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).

Te pron. pers. di seconda pers. sg.

1 forma complementare tonica del pron. pers. tu, che si usa come compl. ogg. quando gli si vuol dare particolare rilievo e nei complementi retti da prep.; può essere rafforzato con stesso o medesimo: vonno proprio a tte(vogliono proprio te); pe tte fosse meglio(per te sarebbe meglio); fràteto venarrà cu tte o cu ttico(tuo fratello verrà con te); ce vedimmo dimane addu te(ci vedremo da te domani); fallo a ppe tte(fallo da te), da solo; quanto a tte, facimmo ‘e cunte aroppo(quanto a te, faremo i conti dopo), per ciò che ti riguarda; allora, pe tte è sbaggliato?(allora, per te è sbagliato?), secondo il tuo parere | si usa nelle esclamazioni: povero a tte!(povero te!) viato a tte!(beato te!); nelle comparazioni dopo come e quanto: ne saccio quanto a tte(ne so quanto te); nun è comme a tte (non è come te); come predicato dopo i verbi essere, parere, sembrare, a meno che il sogg. non sia tu (espresso o sottinteso): i’ nun songo te (io non sono te) (ma nun sî cchiú tu(non sei più tu

2 si usa in luogo del pron. pers. ti in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, in posizione sia enclitica sia proclitica: te ‘o ddico io(te lo dico io); te nn’ànno parlato?(te ne ànno parlato?); te ne pentarraje(te ne pentirai); accattatelo(compratelo); sturiàtelo(studiatelo) | nel linguaggio familiare, con semplice valore rafforzativo: e senza dicere ata t’ ‘o mettette for’ â porta(e senza aggiungere altro, te lo mise fuori dalla porta).

veco  = vedo  voce verbale (1ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito vedé= vedere (dal lat. vid-íre), ma per la voce a margine che à una radice diversa da vid occorre riferirsi ad un lat. volg. *vidic-are frequentativo attraverso il suff. ico di vid-íre: la radice vidic è stata manipolata con la caduta della dentale e crasi delle due residue ii→e  sino ad ottenere vi(d)ic→vec, con medesimo procedimento operato per talune  le voci verbali del verbo andare dove accanto alle voci derivate dalla radice di ji-re si à la voce derivata da   *vadic-are donde l’italiano vad(ic)→vado ed il napoletano va(di)c→vaco.

vestuto = vestito voce verbale: p. p. agg.to dell’infinitovèstere = vestire (dal lat. vestíre, deriv. di vestis 'veste' ).

‘a =1) la art. determ. f.le sg.  si premette ai vocaboli femminili singolari (es.: ‘a mamma, ‘a scola, ‘a scala); deriva dal lat.  (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); 2) la prima di un verbo è pronome f.le (es.: ‘a veco cca = la vedo qui); 3) come nel ns. caso = da preposizione semplice dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.

 

urzo s.vo m.le = orso, 1 (zool.) genere di grossi mammiferi plantigradi, dalle forme tozze e robuste, con testa grossa, arti brevi, forti unghioni, coda corta e pelo foltissimo, che vivono isolati o in gruppi poco numerosi (ord. Carnivori): orso bruno, specie europea e asiatica con pelliccia di colore bruno; orso bianco (o polare), specie che abita le zone artiche circumpolari; orso grigio, grizzly; orso nero, baribal | vendere la pelle dell'orso prima che sia morto (o prima che sia preso), (fig.) disporre di una cosa prima che la si abbia in possesso.

2 per le sue movenze lente e impacciate è assunto a simbolo di goffaggine fisica: muoversi, ballare come un orso, in maniera goffa, sgraziata | per le sue abitudini di animale solitario, può anche indicare una persona scontrosa, scarsamente socievole: è un orso, non ha amici, non vede mai nessuno

3 nel gergo della borsa, ribassista; anche, situazione di mercato tendente al ribasso.

Voce dal lat. ursu(m) con tipico passaggio della la fricativa dentale sorda (s) all’affricata alveolare sorda (z).

41 -Pare ca mo 'o vveco…

Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò… Id est: campa cavallo!, mai vedrò (che ciò avvenga)! Locuzione sarcastica di portata molto simile alla precedente, ma di valore piú generico  che si usa  in presenza di una imprecisata previsione di un risultato fallimentare cui è comunque  destinata l'azione intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato.

 ‘o ‘o/’u = a) ‘o/’u lo art. determ. m. sing.  si premette ai vocaboli maschili o neutri  singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra;  la derivazione sia  di ‘o  che di ‘u è  dal lat.  (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.);

b) ed è il ns. caso ‘o talora anche lo ma sempre eliso in ll’ se proclitico; = lo pronome personale  m.le di terza pers. sing. [forma complementare atona di isso(egli) (forma tonica lui), esso]

1 si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, in posizione sia enclitica sia proclitica; si può elidere dinanzi a vocale purché non crei ambiguità: ‘o’ mmidio assaje (lo invidio molto); ll’aggiu accattato pe tte(l'ò comprato per te); liéggelo(leggilo); vulesse averlo(vorrei averlo); ‘o ‘í ccanno(eccolo);

2 può assumere il valore di ciò, riferito a una prop. precedente o con funzione prolettica: vo’ riturnà, me ll’à ditto isso(vuole ritornare, me lo ha detto lui); ‘o ssapevo ca succedeva(lo sapevo che sarebbe accaduto) | con lo stesso sign. in funzione predicativa: diceva d’essere figlio sujo, ma nun ll’era(diceva di essere suo figlio, ma non lo era); era janca ‘e capille, ll’era addiventata dinto a ppochi mise  (era bianca di capelli, lo era diventata in pochi mesi). Amargine di tutto ciò rammento che nel napoletano oltre ‘o (articolo o pronome) esiste un altro ‘o  di cui dico qui a seguire:

 

o’  non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il) o del precedente  pronome ‘o errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia  non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti  di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il ed il pronome lo  vanno resi con ‘o  e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi  condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of   inglese che vale l’italiano de/De).

L’ o’  napoletano a margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello!  oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj  è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento  che il corretto  vocativo oj   viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissimi  scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima  forma oje  con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e,  aggiunta che costringe il vocativo oj  a trasformarsi   nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti  scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà  e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno  famosi o  famosissi  scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non alligna, né trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...

 

42– Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino

Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica, disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia  simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano precise  notizie biografiche , ma tra il 1619 ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che - nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494), figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici  e cantori.In ricordo di détto accadimento  carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione disordinata e chiassosa  si dice che sembri il carro di Battaglino.

carro  s.vo m.le  carro,  veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica.

43 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia

Letteralmente: Sembra un pastore della meraviglia.

Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o donna)  mostri di avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine (pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca che scrisse: pastores mirati sunt.

pastore s.vo m.le  letteralmente pastore, 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo: fare il pastore; la vita dei pastori; un pastore di pecore, di capre | (fig.) membro dell'Accademia dell'Arcadia. 

2 (fig.) capo, guida; in partic., guida spirituale, sacerdote: pastore di anime; il Buon Pastore, Cristo | nelle chiese protestanti, il ministro del culto

3 denominazione di cani di diversa razza, adatti alla guardia delle greggi.

Ma nell’espressione con il termine pastore non si intende segnatamente l’accezione sub 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo:, ma qualsiasi personaggio (statuine di terracotta)che popoli il presepe napoletano settecentesco.

La voce è dal lat. pastore(m), deriv. di pascere 'pascolare'.

maraviglia  s.vo f.le  meraviglia, 1 (come nel caso che ci occupa) sentimento di viva sorpresa suscitato da qualcosa di nuovo, strano, straordinario o comunque inatteso; 2 persona o cosa che per la sua bellezza o il suo carattere straordinario suscita ammirazione.

La voce è dal lat. mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. poi inteso femminile  dall'agg. mirabilis 'meraviglioso' da mirabilia si perviene a maraviglia per il tramite d’un’ assimilazione regressiva della prima i alla successiva a, alternanza b→v (cfr. bocca→vocca – barca→varca etc.) ed ilia→ilja→iglia (cfr. familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;) 

44 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta! Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!

Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata a Napoli ,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929),   usata in riferimento a chi realmente sia o in riferimento  a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi,  cosa che gli impedisce di attendere adeguatamente  con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente)  malmesso, malaticcio, cagionevole  individuo  viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato originariamente  per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato  il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.

ciuccio  s.vo m.le = asino, ciuco,  quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;  varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur=  mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus  da collegare al greco kíllos= asino;  chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi  che non mi convincono molto; e  segnatamente non mi convince (in quanto morfologicamente troppo arzigogolata)  quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a  malgrado che  sia  ipotesi che  appaia semanticamente perseguibile.   Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate,   l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana  è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale  strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco;  d’altro canto non amo  qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti   la voce italiana ciuco  etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario.  Men che meno poi  mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano     ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! 

In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce  ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima  radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare;

trentatré agg. num. card. invar.

1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII

2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;

3 come s.vo m.le  la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s)  per il cl. trigintatre(s);

chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.

2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú

3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione

4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).

Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo – plattu-m→chiatto etc.)

córa  s.vo f.le  = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.

fràceta  agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di   fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)

con l’occlusiva dentale sorda (t).

Fechélla   letteralmente piccola fica  in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. élla) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il medesimo  significato traslato  osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello  con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930,  servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo barroccio, forniva servizio di modesto trasporto di vettovaglie e/o masserizie  nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città, voluto da  Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta   don Mimí Ascione(Fechella) ed il suo asino erano notissimi cosí che quando  nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche,  Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – † ivi 12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed  assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.

Il simbolo del club attualmente  è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino,  mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando  nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio  progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti",  sulle tribune dell'impianto  costruite in legno, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune,dicevo,   tra i  20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi  provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni  non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti  furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che  all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce  d’uno spettatore, quella  d’un tal  Raffaele Riano,  tifoso azzurro e frequentatore della redazione del settimanale satirico ”Vaco ‘e pressa” ,molto diffuso a Napoli negli anni ’20; costui, avvezzo a motti di spirito,   esclamò tra l’ilarità degli spettatori a lui prossimi:”Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!);da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello, segnato dalle piaghe procuategli dal basto.

45 - Pare ‘na pupata ‘e Guidotte

Letteralmente: Sembra una bambola di Guidotti; id est: essere bella affascinante ed elegante tal quale una figura di Guidotti.

Per venire a capo dell’espressione occorre dire súbito di Guidòtti, Paolo, detto il Cavalier Borghese. Costui fu pittore, scultore, architetto e scienziato (Lucca 1560 circa - †Roma 1629). Dipinse, prediligendo ampie forme tardomanieriste e una luce intensa e drammatica, affreschi ed alcune pale d'altare a Roma (S. Luigi dei Francesi, S. Francesco a Ripa, ecc.), a Napoli (S. Maria del parto: Gesú, la presentazione al tempio), a Pisa, a Lucca, ecc. Come studioso del volo umano fu uno dei piú fedeli seguaci delle idee leonardesche, che arrivò a mettere personalmente in pratica in un tentativo, peraltro sfortunato, realizzato attraverso un paio di ali artificiali.

Le  figure femminili dei suoi dipinti agghindate  anacronisticamente sempre in abiti cinquecenteschi erano  belle, formose ed elegantissime, al segno che a Napoli divenne proverbiale la locuzione in esame Paré ‘na pupata ‘e Guidotte  (sembrare una bambola di Guidotti) per riferirsi ad una donna che apparisse molto bella ed affascinante e vestisse in maniera sontuosa e ricercata. E qui penso di poter chiudere queste lunghissime pagine, augurandomi d’avere accontentato l’amico A.B. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori.

Satis est.

Raffaele Bracale

(FINE)


IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 4

 

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 4

12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle

Ad litteram: Sembrare la mosca nel miele. Détto icasticamente in riferimento a chi tenga un atteggiamento di contento piacere e grossa soddisfazione; costui viene rapportato ad una mosca che penetrata senza (per sua fortuna) restarne invischiata,  in un barattolo di miele se ne satolli ad libitum traendone grande godimento.

mosca  s.vo f.le  mosca;

1 insetto dal corpo scuro, con proboscide protrattile e un paio di ali trasparenti (ord. Ditteri): uno sciame di mosche; scacciare una mosca | mosca carnaria, insetto dittero con livrea a riflessi metallici, le cui larve si sviluppano su sostanze in putrefazione (fam. Calliforidi) | mosca tse tse, insetto del genere glossina, diffuso nelle zone tropicali, che trasmette il tripanosoma, agente della malattia del sonno | essere ‘na mosca janca(essere una mosca bianca), (fig.) si dice di persona o cosa rarissima | nun facesse male a ‘na mosca(non farebbe male a una mosca), (fig.) si dice di persona molto mite | non si sentiva volare una mosca, (fig.) c'era un silenzio assoluto | mosca!, zitto e mosca!, (fam.) silenzio! | restà cu ‘e mmosche ‘mmano(restare con un pugno di mosche), (fig.) restare deluso, non aver ricavato il minimo profitto da qualcosa | fa zumpà ‘a mosca ô naso(far saltare la mosca al naso), (fig.) far perdere la pazienza, provocare uno scatto di collera | uccello mosca, specie di colibrí | pesi mosca, (sport) nel pugilato e nella lotta, categoria che comprende atleti del peso minimo; un (peso) mosca, atleta che appartiene a tale categoria.

2 (fig.) persona noiosa, petulante, insopportabile | ‘a mosca cucchiera( la mosca cocchiera), (lett.) chi si attribuisce, senza fondamento, i risultati di azioni altrui, credendo di svolgere compiti e avere responsabilità di direzione

3 nella pesca con l'amo, qualunque esca artificiale che imiti insetti, larve

4 neo finto che un tempo le donne si applicavano al viso o sulle spalle

5 pizzetto di barba, molto piccolo, portato sotto il labbro inferiore

6 chicco di caffè tostato che si aggiunge ad alcuni liquori: ànnese cu ‘a mosca – sammuca cu ‘a mosca(anice con la mosca -sambuca con la mosca).

dal lat. musca(m)

 dint’ ô/ ‘int’ ô prep. art.m.le nel, dentro il preposizione formata da dinto (dal lat. de+intus) addizionato della preposizione articolata ô (= a + ‘o= allo, ); ricordo che  si ànno altre preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli  ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo  agglutinata resa graficamente  con particolari  forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); nel caso che ci occupa ci troviamo cioè  di fronte ad un tipico caso della la parlata  napoletana e della costruzione di espressioni con dentro, sopra, sotto ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano. In questo caso accade che un napoletano che scrivesse in napoletano non potrebbe pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e così via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc.  e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro  non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla  accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. Peccato che la stragrande parte di sedicenti scrittori e/o poeti napoletani(grandi, meno grandi e grandissimi…) si ostinino a rifiutare l’uso dell’accento circonflesso e delle crasi  e e si rifugiano negli erronei dint’ ‘a, dint’ ‘o -  ‘ncopp’ ‘a, sott’ ‘o  - annante ‘a, arret’ ‘o etc. intestardendosi cioè   impropriamente ad usare, per far degli esempi dint’ ‘a casa, dint’ ‘o cunvento; dint’ ‘e stanze; dint’ ‘e vicule ; oppure ‘ncopp’ ‘a casa,oppure annante’ ‘a chiesa etc.in luogo come ò détto dei  corretti dint’ â casa, dint’ ô cunvento; dint’ ê stanze; dint’ ê  vicule ; oppure ‘ncopp’ â  casa,oppure annante’ â  chiesa incorrendo nel colpevole errore di ritenere il napoletano tributario dell’ italiano, laddove è risaputo che la parlata napoletana, se si esclude il latino tardo e/o parlato, che l’à generata non è tributaria di nessun linguaggio e men che meno della lingua di Alighieri Dante!  

mèle  s.vo neutro miele,

1 sostanza zuccherina, quasi sciropposa, di color biondo, molto dolce, prodotta dalle api: mèle naturale, vergine,’e castagno(miele naturale, vergine; miele di (fiori di) castagno), quello prodotto da api che si nutrono del nettare di tali fiori | doc e comm’ ô mmèle(dolce come il miele), dolcissimo | mèle rusato(miele rosato), (farm.) collutorio a base di miele e infuso di petali di rosa

2 (fig.) dolcezza, soavità: ‘na femmena tutta mèle(una donna  tutta miele; parole ‘e mèle(parole di miele) zuccherose, eccessivamente leziose.

 come agg. invar. si dice di colore biondo ambrato.

dal nom.vo  lat. mel

13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato             variante

13 bis È gghiuta ‘a mosca dint’ ô Viscuvato

 

Ad litteram: Sembrare la mosca nella cattedrale; variante È finita la mosca nella cattedrale.

 Détti icasticamente di qualsiasi cosa che in un raffronto risulti estremamente piú piccola o contenuta dell’altra cui si ponga in rapporto. Segnatamente però l’espressione, (nella forma della variante) viene usata  come icastico commento profferito da chi si lamenti d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli abbia tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco (adombrato sotto il nome di cattedrale), vi  si sperde quasi,  come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione e la sua variante vengono usate ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...

Viscuvato s.vo m.le  vescovado, di per sé 1 dignità, ufficio di vescovo: innalzare al vescovado

2 territorio sottoposto alla giurisdizione di un vescovo | l'edificio in cui il vescovo risiede; per ampliamento semantico la cattedrale (il tempio sede della cattedra del vescovo); voce dal lat. tardo episcopatu(m), deriv. di episcopus 'vescovo'

 è gghiuta  voce verbale (3ª pers. sg. ind. pass. pross.)  dell’infinito jí/ghí/gghí dal lat. ire

 

14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo

Ad litteram: Sembrare Arturo sul filo (corda). Détto con sarcastica ironia con due valenze: a) riferimento  a tutti coloro che per necessità, ma piú spesso, per colpevole insipienza o temerarietà si mettano in situazioni insicure e/o difficoltose alla medesima stregua di quel non meglio identificato mitico Arturo saltimbanco acrobatico che si lucrava la giornata esibendosi in piazza del Mercato camminando pericolosamente su di una malferma ed oscillante  corda tesa tra due edifici ad una altezza di circa dieci metri dal suolo; b) la seconda valenza fa riferimento a chiunque abbia un incedere malsicuro,esitante, vacillante o  traballante  alla maniera del suddetto Arturo.

‘ncopp’ ô locuzione prepositiva articolata m.le (sul, sopra il, sopra al) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’o  cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12

filo  s.vo m.le  lett. filo, 1 il prodotto della filatura di una fibra tessile, naturale, artificiale o sintetica, che serve per tessere, cucire, ricamare ecc., 2 (estens.)ed è il caso che ci occupa: qualsiasi corpo assai lungo e sottile, di sezione circolare uniforme; cavo, corda, gomena, 3 (estens.) oggetto filiforme: filo d’erba, filo di paglia, 4 ognuno dei tiranti con cui vengono azionati dall'alto i burattini5 (fig.) quantità, cosa minima: un filo di vita, di speranza; 6 (fig.) andamento, ordine, direzione: il filo del discorso,

la voce è dal lat. filu(m).

15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente

Ad litteram: Sembrare un topo con gli occhiali.

Divertente ed icastica  espressione di dileggio riferita a tutti quegli anziani uomini spesso magri, secchi, scarni dal viso lungo ed affilato, provvisto di un congruo naso semita sotto il quale vegetano cespugliosi o affilati baffetti e sul quale poggiano spessi occhiali da miope o piú spesso da presbite; spesso costoro svolgono mansioni d’archivista presso studi notarili o uffici pubblici e segaligni, ossuti ed allampanati, si aggirano tra polverosi faldoni di documenti con il loro divertente aspetto di vecchio topo… provvisto d’occhiali.

  Zoccola  s.vo f.le  grosso topo di fogna, ratto, surmolotto, roditore dannoso sia per la  voracità sia per le malattie che puó trasmettere. La voce è dal lat. sorcula(m) con tipica assimilazione regressiva cr→cc e consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);

llente/lente s.vo f.le pl. di lenta = lente, occhiale

1 sistema ottico elementare costituito da una sostanza rifrangente, gener. vetro o plastica trasparente, limitata da due superfici di cui almeno una è curva: lente convergente o d'ingrandimento, con almeno una superficie convessa, che ingrandisce l'immagine e corregge la presbiopia e l'ipermetropia; lente divergente, con almeno una superficie concava, che rimpiccolisce l'immagine e corregge la miopia; lente biconvessa, biconcava, con entrambe le superfici curve con raggio di curvatura uguale e opposto; lente a menisco, con entrambe le superfici curve, ma con raggio di curvatura diverso e orientato nello stesso senso; lente sferica, con le due superfici sferiche o una sferica e l'altra piana; lente cilindrica, torica, con almeno una superficie cilindrica, torica, per correggere l'astigmatismo; lente prismatica, con le superfici ad assi concorrenti, per correggere la tendenza allo strabismo | lente a contatto o corneale, piccola lente di plastica che si applica alla cornea, dove è trattenuta da un velo di liquido lacrimale | lente cristallina, (anat.) il cristallino dell'occhio

2 pl.come nel caso che ci occupa,  gli occhiali o altrove le lenti a contatto: portare le lenti

3 elemento, oggetto a forma di lente: la lente del pendolo, la massa metallica all'estremità inferiore dell'asta oscillante

4 (ant. , region.) lenticchia.

 Voce dal lat. leªnte(m) 'lenticchia'; il sign. di 'lente ottica' si è sviluppato modernamente (dal sec. XVII).

16 – Paré variante  fà ‘a sporta d’’o tarallaro

Ad litteram: Sembrare variante  fare la cesta del venditore di taralli. Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione sia nella morfologia di Paré ‘a sporta d’’o tarallaro:

Sembrare la cesta del venditore dei taralli, che nella sua variante:  fare la cesta del venditore di taralli  è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposti continuamente, come appunto un  venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione.

Poiché gli avventori dei venditori di  taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli, per scegliere a proprio piacimento , alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, o di se stesso ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità, anche se poi se ne lamenta dicendo: - “Ma che m’avite pigliato p’’a sporta d’’o tarallaro?” (Mi avete forse confuso con la  cesta del tarallaio?)

sporta = cesta dal lat. sporta(m)

tarallaro = venditore di taralli; voce formata dall’unione del s.vo  tarallo + il suff. di pertinenza aro/aio dal lat. arius; Tarallo s.m. s. biscotto a forma di ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito con zucchero e semi d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto, tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un meridionalismo, attese le regioni (tutte meridionali: Campania, Abruzzo, Calabria e Puglia) dove vengono prodotti tali tipici biscotti. Voce penetrata nel lessico dell’italiano vista la gran diffusione peninsulare  ( per esportazione dalle regioni produttrici)  del prodotto che va sotto il nome di tarallo. Quanto all’etimo della voce a margine non vi sono certezze e si vaga nel campo delle ipotesi;  tutti i calepini a mia disposizione, a cominciare dal  D.E.I.  nicchiano o si rifugiano dietro il solito  pilatesco  etimo incerto;non so dire chi l’abbia formulata ma esiste  un’ipotesi che riferirebbe la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente  ipotizzo  il latino torus (= toro: modanatura inferiore della colonna,cordone); semanticamente in ambedue i casi ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la forma del toroide che quella del toro di colonna,  richiamano quella del tarallo, ma morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in linguistica non sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú complesso  spiegare   da dove salti fuori quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia ipotesi!), a meno che questo allo non sia un adattamento locale di un originario suffisso diminutivo  ello←ellus proprio dei sostantivi con tema  in r; oppure un adattamento  metaplasmatico ed espressivo di un originario suffisso diminutivo olo←olus;accettando una delle due ipotesi si potrebbe ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo oppure olo→alo→allo) cordone  (torus); dopo lungo almanaccare, mi son fatto convinto di questa idea, quantunque  neppure la grammatica del RHOLFS  faccia  menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso,   se si accettasse, per l’etimo di tarallo la mia idea di tor-(us) + il suff. ello→allo oppure olo→alo→allo forse si  potrebbe , indegnamente,  dare scacco persino  al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò una sequenza di ipotesi giudicandole tutte però improponibili o non perseguibili..., con la sola eccezione, forse!,  di una voce macedone: dràmis = focaccia, voce che però il curatore della lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo paleograficamente corretto  dràllis. Stimo, e quanto! G. Alessio, ma – nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto mortale (senza rete), pericoloso  esercizio in cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non mi sento di seguirlo! Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis a tarallo d’acchito non si còglie!

 

 

A margine di questa espressione mi piace ricordare quello che fu uno degli ultimi, se non certamente l’ultimo venditore girovago di taralli, ch’io vidi tra gli anni ’50 e ’60 del 1900 percorrere in lungo e largo la città di Napoli armato della sua ballonzolante  cesta colma di taralli,cesta mantenuta con l’epa e sorretta da una correggia di cuoio  poggiata sul collo.All’epoca ch’io lo seppi,    questo venditore girovago sempre allegro se non addirittura  ridanciano,  che rispondeva al nome di Fortunato era un vecchio  ometto piccolo e grassoccio con delle gambette arcuate, nascoste da certe consunte braghe d’un colore indefinibile che, in origine, non dovevano essere state sue  : erano infatti  troppo larghe e sbuffanti; indossava nei mesi primaverili ed estivi  una maglietta di cotone bianco a mezze maniche e portava sul capo un berretto a caciottella di panno bianco, del tipo di quelli indossati dai marinai sulle divise da fatica; d’inverno sostituiva la caciottella bianca con uno zucchetto di lana a piú colori ed infilava sulla solita maglietta di cotone bianco a mezze maniche, una sdrucita giacchetta del medesimo indefinito colore delle breghe, giacchetta che,anch’essa in origine, non doveva essere stata sua: troppo larga e sbuffante;completava l’abbigliamento invernale una unta e bisunta sciarpa di lana a piú colori ch’egli portava come un sacerdote porta  la stola e che gli incorniciava il viso segnato dal tempo con una ragnatela di rughe profonde, ma sul quale tuttavia  brillavano due occhi vivaci e talvolta addirittura lampeggianti. La piega amara (angoli all’ingiú) della bocca sdentata completava il disegno del volto di questo vecchio omettino che si annunziava di lontano con una sorta di squillante, musicale  cantilena: “Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’!”  E quale era mai la roba bella sottolineata da  quello:  ‘Nzogna, ‘nzo’  ?

Ma è chiaro che si trattava dei suoi gustosissimi,  croccanti taralli ‘nzogna e ppepe ,impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, taralli   ancóra caldi ( e sfido io: li portava in giro protetti sotto una doppia coltre di tela di sacco...) Poi passarono gli anni ed un giorno, anzi un brutto giorno improvvisamente non intesi piú quella squillante, musicale  cantilena: Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’! Con ogni probabilità Fortunato aveva esteso il suo  giro ed era passato a proporre a san Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e pepe  ed io mi dovetti rassegnare a cercare altrove  per trovare  i taralli che Fortunato non mi avrebbe piú venduti. Per buona sorte mia (una volta nella vita!)  facendo appena quattro passi in piú scovai proprio difronte all’Orto Botanico la bottega che don Leopoldo Infante aveva aperto. E mi andò da Dio; Furtunato teneva ‘a rrobba bbella? Ma don Liopoldo nun s’’o vedeva proprio!

 

17 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo

Ad litteram: Sembrare un gatto aggrappato al lardo

Divertentissima sarcastica locuzione dal duplice significato; nel primo, con la similitudine rammentata (che parla di un gatto appigliato ad un gran pezzo di lardo sospeso al soffitto d’una cantina o cucina d’ antan) ci si riferisce mordacemente  a taluni inguaribili ghiottoni (appaiati al gatto de quo) che desiderosi di rimpinzarsi d’ un qualche alimento, avutolo sottomano, lo ghermiscono avidamente, abbrancandolo con ingordigia,dando l’impressione di temere  quasi  che qualcun altro glielo possa sottrarre; nel secondo significato con la medesima similitudine  ci si riferisce in maniera solo divertita, ma non scortese a quelle vecchie, malconce,esili   signore che nell’incedere, per tema di cadere, si aggrappino vistosamente a chi le sorregga. Anche costoro, come i pregressi ghiottoni, sono appaiate ad un gatto avvinghiato ad un pezzo di lardo.

appesa  voce verbale part. pass.f.le agg.vato dell’infinito appennere = attaccare, agganciare, appiccare; sospendere; appennere  è,  con consueta assimilazione progressiva nd→nn, dal lat. appendere 'pesare', poi 'appendere', comp. di ad e pendere 'sospendere'

ô preposizione art. m.le al, allo;  morfologicamente è lacrasi di a + ‘o = a+il/lo come altrove â = a+ ‘a (a+ la), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);

llardo/lardo s.vo neutro  lardo

1 lo strato di grasso sottocutaneo del maiale, che si conserva salato o affumicato per uso di cucina: fare il battuto col lardo | nuotare nel lardo, (fig.) vivere nell'abbondanza

2 (estens.) grasso eccessivo | una palla di lardo, (scherz.) persona o animale molto grasso

3 (nell’italiano, impropriamente, anche) strutto.

 La voce è dal lat. lār(ĭ)du(m)→lardu(m).

 

18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola

Ad litteram: Sembrare che il culo gli sottragga la falda della camicia. Divertentissima icastica espressione riferita con sarcastico dileggio nei confronti di chiunque (uomo o donna) sia tanto inguaribilmente  avaro/a, spilorcio/a, pidocchioso/a, tirchio/a ed al contempo  preoccupato/a, dubbioso/a, allarmato/a da giungere a temere che il suo stesso fondo schiena gli porti via la falda della camicia che insiste sul medesimo fondo schiena.

culo  s.vo m.le s.

1 deretano, sedere, fondo schiena | essere culo e cammisa,: stare sempre insieme, andare molto d'accordo.

2 fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia ' culi di bicchiere, (scherz.) brillanti falsi, di vetro.

Voce dal lat. culu(m) marcato sul greco  koilos;

péttola/péttula  s.vo f.le

Con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore della camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni, insiste  sul fondoschiena; estensivamente, con i medesimi termini, si indica  quella  che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del mattèrello (e non mattarello che è un dialettismo romanesco)  con il quale su  di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore,  l’impasto di farina, uova  e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliato e/o riempito, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie;  per traslato, con i termini in epigrafe, si indica una donnaccia o anche una donnetta ciarliera e petulante; ancóra:  con il diminutivo:pettulélla che stranamente è inteso maschile ‘o pettulélla ci si suole riferire all’impenitente dongiovanni, al femminiere aduso a perennemente correr dietro le gonne femminili, mentre con  'o pettulélla ‘e mammà ci si  riferisce ad un uomo, che a malgrado dell'età raggiunta, non si decide ad abbandonare le gonne materne anzi la falda della camicia della sua genitrice o l'ala protettiva di mammà!Ed oggi, a ben vedere, è la consueta situazione attuale quando la stragrande maggioranza dei giovani non intende metter su famiglia, abbandonando la casa dei genitori ed anche quando lo fa,  resta legata a filo doppio con la propria genitrice dimostrando che ci si trova  indefettibilmente davanti a dei pettulélle ‘e mamma!

Ciò detto, passiamo all'etimologia del termine péttola/péttula.

Cominciamo col dire che la radice pat che pure dà vita a parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti l’azione del distendere, allargare etc.,  non si può riferire alla péttola/péttula ;ciò è in tutti i testi da me compulsati al riguardo.

Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet  di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la péttola!

Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la péttola/péttula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda.

19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune

Ad litteram: Sembrare che lo suggono gli scarafaggi.

Va da sé che si tratta di un’enfatizzazione, non di un fatto reale; si tratta  di una divertita presa in giro fatta nei confronti di soggetti tanto smunti, macilenti, sciupati, patiti, scavati, smagriti e rinsecchiti d’apparire quasi del tutto asciutti dei proprî umori vitali iperbolicamente succhiati da degli scarafaggi.   Nella realtà ciò non è assolutamente possibile in quanto, pur essendo vero che le blatte sono avide di liquidi, non avrebbero mai possibilità o modo di prosciugare un corpo umano!

zúcano   voce verbale (3ªpers. pl.) ind. pres. dell’infinito zucare = suggere, succhiare,aspirare i succhi; voce dal lat. *sucare denominale del lat. sucus  con il consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);

scarrafune/i s.vo m.le pl.metafonetico del sg. scarrafone = blatta, scarafaggio; l’etimo di  scarrafone è dal lat. scarabaeu(m) + il suff. accrescitivo one e con il passaggio di influsso osco della  consonante occlusiva bilabiale sonora (b) alla consonante fricativa labiodentale sorda (f) cfr. enfrice← lat. imbrice(m), runfà← dal gr. rhómbos, scrofola← lat. scrobula(m).

20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta

Alla lettera: Sembrare Ciccibbacco sulla botte. Ironico, colorito riferimento a chi non si lascia turbare da niente e nessuno e persegue il suo fine indifferente  a tutto ciò che gli accada intorno; con l’espressione si prende a modello una tipica figurina presepiale: il mitico  guidatore (cui la tradizione popolare assegnò l’intraducibile nome di Ciccibbacco) di un carro trainato da una pariglia di buoi, carro usato per il trasporto di botti di vino, sulle cui botti trionfalmente assiso il panciuto conducente con esasperata lentezza  (i buoi non son trottatori ed il peso delle botti piene si fa sentire e rallenta il cammino…) ed incurante sia dell’evento natalizio che della folla dei pastori, folla che incolonnata si reca alla santa grotta, tira innanzi per la sua via deciso a portare a termine la lucrosa consegna delle botti alle rivendite sue clienti.

‘ncopp’ â  prep. art. f.le (sulla, sopra la,al disopra della) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a  cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô  del n.ro 12;

votta s.vo f.le  = botte, s. f.

1 recipiente di legno fatto di doghe arcuate e più strette alle estremità, tenute unite da cerchi di ferro, per cui ha forma simile a quella di un cilindro ma panciuta; serve per la conservazione e il trasporto di liquidi (spec. vino), o anche di pesci salati, olive e prodotti simili: spillare il vino dalla botte; una botte di aringhe | essere in una botte di ferro, (fig.) essere al sicuro da ogni rischio | dare un colpo al cerchio e uno alla botte, (fig.) barcamenarsi fra due persone, due partiti, due esigenze in contrasto fra loro | volere la botte piena e la moglie ubriaca, (fig.) cercare di ottenere contemporaneamente due cose fra loro incompatibili | prov. : nelle botti piccole sta il vino buono, per sottolineare le buone qualità di una persona di statura piccola. DIM. botticella, botticina

2 la quantità di liquido o di altra sostanza contenuta in una botte

3 appostamento galleggiante a forma di botte aperta nel lato superiore, usato per la caccia nelle paludi

4 volta a botte, (arch.) volta a sezione semicircolare

5 a Roma, carrozza pubblica a cavalli; botticella

6 antica unità di misura per liquidi, con valori diversi da regione a regione | (mar.) antica unità di misura di stazza, equivalente alla tonnellata.

Voce dal lat. butte(m) con tipica alternanza partenopea.

 21 - Paré don Titta e 'o cane  (in origine  Paré san Rocco e ‘o cane)

Ad litteram:sembrare  don Titta ed il cane Locuzione usata  per fotografare la situazione che veda due individui che procedano indissolubilmente legati fra di loro  al segno che quasi l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa.  Chiarisco qui che il don Titta della locuzione non à riferimenti né storici, né letterarî con alcun personaggio esistito o di fantasia; è usato nella locuzione per un malinteso senso di rispetto, al posto  di  san Rocco,  che – come ò indicato – in origine fu il protagonista della locuzione; ed in effetti il santo pellegrino e taumaturgo, nella iconografia tradizionale è rappresentato accompagnato sempre da un cane; in seguito, per una sorta di bigottismo,la locuzione popolare fu modificata ed  al nome del santo fu sostituito quello di un non meglio codificato don Titta, che non è -sia chiaro!- il boia pontificio, personaggio mai entrato nella cultura partenopea che aveva in un mastro Austino il  boia di sua pertinenza.

 

22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone (in origine Paré ‘o ciuccio ‘mmiez’ ê suone)

Ad litteram: Sembrare un asino tra i suoni, cioè un asino frastrornato; détto ironicamente, soprattutto di ragazzo o persona anziana che in una situazione chiassosa (che magari, in caso di ragazzi, sia concorso a determinare)si senta  intontito, istupidito, stranito, disorientato quando non incerto, indeciso, irresoluto alla medesima stregua d’un asino (bestia notoriamente e per solito paziente e paciosa) che nel vocío e nel tramestío di un mercato perde quasi la bussola comportandosi conseguentemente in maniera disorientata, strana, inconsueta,atipica.

In ordine al problema linguistico rammento che la locuzione nata, come tutte le altre esaminate, tra il popolo e sulla sua bocca ebbe in origine una formulazione che – come ò segnalato nell’epigrafe dell’espressione – prevedeva l’uso  del termine napoletano e popolaresco:ciuccio  in luogo della voce letteraria aseno = asino  voce quasi certamente pedestremente  adottata  da un qualche sedicente uomo di lettere che pretese ignobilmente e scioccamente di italianizzare  l’ espressione che invece sulla bocca del popolo suonava incisiva e robusta chiamando in causa il popolano ciuccio  e non l’adattato aseno scimmiottatura di asino. Talora i letterati fanno, poveri loro delle sesquipedali, imperdonabili sciocchezze!

àseno s.vo m.le sciocco ed inutile adattamento dell’italiano asino

ciuccio s.vo m.le  asino, ciuco,  quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;  varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur=  mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus  da collegare al greco kíllos= asino;  chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi  che non mi convincono molto; e  segnatamente non mi convince  quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a  malgrado che  sia  ipotesi che  appaia semanticamente perseguibile.   Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate,   l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana  è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale  strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco;  d’altro canto non amo  qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti   la voce italiana ciuco  etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario.  Men che meno poi  mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano     ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! 

In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce  ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima  radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.

 

23 -      Paré mill'anne

Ad litteram: Sembrare (che debbano trascorrere) mille anni (prima che si giunga alla conclusione della faccenda o dell’opera intrapresa o ancóra prima che si verifichino le tanto auspicate evenienze attese ed ancóra in fieri.). Iperbolica espressione in tutto in linea con il consueto ampolloso, enfatico, prolisso magniloquente, spagnolesco ricercato, manierato, affettato eloquio partenopeo che ama l’iperbole e l’enfatizzazione tanto è vero che si è soliti usare l’espressione in esame anche quando la faccenda o l’opera si sia intrapresa da pochissimo, o le evenienze attese in realtà lo siano solo da poco tempo.

mille  agg. num. card. invar.

1 numero naturale corrispondente a dieci centinaia; nella numerazione araba è rappresentato da 1000, in quella romana da M;

2 con valore iperbolico, indica un numero indeterminato assai elevato; moltissimo; l’etimo è dal lat. mille

anne s.vo m.le pl. di anno s. m.

1 (astr.) tempo impiegato dal Sole per il suo ritorno apparente all'equinozio di primavera;

2 periodo di dodici mesi, compreso tra un primo gennaio e il successivo, che rappresenta l'unità di tempo fondamentale per la determinazione delle date, a partire dalla nascita di Cristo;

3 l'unità di tempo fondamentale per indicare l'età di una persona o l'epoca da cui una cosa esiste;

4 (iperb.) periodo di tempo indeterminato di cui si vuol sottolineare la lunghezza;

5 arco di tempo, non coincidente con l'anno civile, durante il quale si svolge un ciclo di attività.

La voce anno è dal lat. annu(m).

24 - Paré Lillo e  Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.

Ad litteram: Sembrare Lilloe Lélla  al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe ci si riferisce con bonario divertimento  a tutte le attempate   coppie di coniugi     in ispecie quelli che si recano  insieme a partecipare a quotidiane funzioni religiose  o anche quelle coppie di anziani  che non ricevono mai visite di parenti od amici  e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi  realmente esistiti e dimoranti in quella strada napoletana   détta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non  si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata  della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero  e restarono indefettibilmente soli.

L’espressione in esame nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o  pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana  dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto (abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della suddetta  strada detta ‘a ‘nfrascata) discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte  in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria  cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! -  solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata  credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe

Ad litteram: sbreccare il bastoncino  di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo  con continuità asfissiante.

La locuzione  si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento,  sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia  di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore  espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non  sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole)  della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià.

Normalmente, a mo' di ammonimento,  la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.

Torniamo alla locuzione di partenza  per la quale si può ipotizzare  che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di  sant’ Anna) sia stato poi  trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto e con l’espressione si voleva indicare non la venerazione d’un piede della santa, ma si indicava l’abitudine di prostrarsi ai piedi della santa per chiedere grazie e/o protezione, per cui non l’articolo ‘o (il) ma la preposizione articolata ô (= al);ô è infatti la crasi di (a+ ‘o)= al).

25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera

Ad litteram: Sembrare l’uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel talTom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad esibirsi in un circo equestre; costui  fu uomo molto piccolo e ridicolo  e per questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.

'ncopp'â  locuzione prepositiva articolata f.le (sulla, sopra la, sopra alla) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a  cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12

salera s.vo f.le = saliera  recipiente in cui si mette il sale per l'uso di cucina o per la tavola. Denominale di sal-is addizionato del suff. di competenza era (al maschile iere cfr. ad es. salum-era  ma salum –iere).

 

 

26 – Paré ‘na lacerta vermenara

Ad litteram: Sembrare una lucertola rimpinzantesi famelicamente di vermi. Divertente, ironico, beffardo riferimento a persona magra e/o macilenta, ma dotata di formidabile appetito, persona  che, a malgrado che non l’assimili,  continuamente assume cibo, per questo appaiata ad una lucertola notoriamente avida di vermi di cui è solita satollarsi.

lacerta  s.vo f.le =  geco: piccolo rettile terrestre dei paesi mediterranei, con i polpastrelli delle dita muniti di organi adesivi che gli consentono di arrampicarsi sui muri; si ciba di vermi; lucertola: genere di piccoli rettili terrestri con capo appiattito, corpo terminante in una lunga coda sottile, zampe corte, lingua bifida; in senso traslato con la voce a margine viene indicata una persona estremamente magra allampanata, denutrita, gracile, mingherlina, esile ; la voce è dritto per dritto dal lat. cl. lacerta(m) che diede poi il lucerta(m) del lat. volg. donde lucertola dell’italiano.

vermenara  di per sé s.vo f.le e vale matassa di vermi; parassitosi,  elmintosi (che,con derivazione da eliminto [ che è dal gr. ἕλμινς –ινϑος (elmins – elmintos) «verme»], nel linguaggio medico,indica la  presenza di vermi parassiti nell’intestino, nell'apparato gastrointestinale, ma possono trovarsi anche nel fegato o in altri organi dell’uomo e degli animali,  ma per traslato di causa ed effetto la voce a margine indica uno spavento ragguardevole, il massimo del  panico tali da procurare, come un tempo si credette, nel pacco intestinale soprattutto dei ragazzi, la nascita di lunghi e sottili vermi;ovviamente la scienza medica  stabilí che ben altre son le cause delle infestazioni da elminiti, cause sulle quali non mi esprimo o dilungo (mancandomene una competenza), ma anche quando la medicina si fu espressa, non venne meno  la radicata credenza cui accennavo   ed il termine vermenara  continuò ed ancóra continua, tra il popolo della città bassa, ad essere usato   per traslato di causa ed effetto  indicando uno spavento ragguardevole, il massimo del  panico.ò détto che la voce a margine è di per sé un  s.vo f.le e vale matassa di vermi ma talora come nel caso che ci occupa è usato (sia pure impropriamente) come aggettivo in luogo di vermenosa per indicare chi, come la lucertola, sia ghiotto o avido di vermi. La voce è un denominale di vermen  addizionato o del suff. ara  (al m.le aro suffisso che continua il lat. –arius e compare in sostantivio agg.vo derivati dal latino, che indicano mestiere ( oppure persona luogo, ambiente,  pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa)  oppure addizionato o del suff. osa (al m.le oso suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m) che indica presenza, caratteristica, qualità ecc.).

 

27 – Paré n’anema pezzentella

Ad litteram: Sembrare un’ anima poverella, un’ anima in pena; détto, per icastico traslato, di chi  smunto, macilento, sciupato, patito, appaia sofferente e bisognoso di un aiuto materiale o morale; in realtà, come chiarisco qui di sèguito con il termine di anima pezzentella di per sé non ci si intenderebbe – se non per traslato - a persona viva e vegeta, ma ci si riferisce a quelle anime di defunti ipotizzati nel purgatorio. Pezzentella  agg.vo  f.le del m.le pezzentiello piccolo/a mendicante; sia pezzentiello  che pezzentella (che non va confuso con analogo, omofono ed omografo s.vo f.le che indica tutt’altro) sono agg.vi diminutivi (cfr. i suffissi iello ed ella derivati dal s.vo pezzente : mendicante, straccione; persona che vive in condizioni di estrema miseria: andare vestito come un pezzente; sembrare un pezzente | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fare il pezzente. Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenura anche nell’italiano, ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere'; in effetti con la voce a margine in napoletano non si indica propriamente la piccola mendicante che chieda obolo di monete, ma si indica in unione al s.vo anema ( che è dal lat. anima(m)): anema pezzentella  quell’anima che si  trova in purgatorio che secondo la dottrina cattolica tradizionale è lo stato temporaneo di espiazione cui sono assogettate le anime di coloro che, pur morendo in stato di grazia, debbono espiare i peccati veniali e le pene conseguenti ai peccati mortali, di per sé già perdonati; si indica cioè quell’anima che trovandosi  in  uno dei regni dell'oltretomba cristiano, dove si espiano le colpe commesse sulla terra prima di poter passare in paradiso, e desiderando abbreviare – per quanto possibile – il loro transitorio, ma doloroso stato, chiedono, pietiscono dai vivi delle preci suffragatorie; ll’ anema pezzentella: l’anima poverella     è comunque un’anima che soffre, che patisce e chiede refrigerio e ad essa è apparentato chi  smunto, macilento, sciupato, patito,o sofferente per una qualsiasi ragione,  appaia patire ed essere  bisognoso di un aiuto materiale o morale che lenisca le sue pene. Ripeto ad abundantiam,  in chiusura di questa espressione che la voce pezzentella è un denominale di pezzente (povero) ed è voce merid., propriamente part. pres. del napoletano pezzire/pezzí =chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. peteªre 'chiedere'; in coda a questo pezzire/pezzí rammento altresí che in napoletano se ne usa anche il participio passato pezzuto/a  in unione quasi esclusiva con il sostantivo messa (‘a messa pezzuta che è quella messa fatta celebrare in suffragio delle anime dei defunti, elemosinando l’offerta necessaria alla sua celebrazione.

28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche

Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta  che si soleva un tempo riferire a sapido dileggio  soprattutto  di  attempate signore o piú spesso vecchie inguaribili nubili che  andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano tentativo di  nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate  alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi  imbiancati all’uopo  di polverosa  glassa zuccherina  ed  infilzati su sottili stecchi di vimini. Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione (che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella.

Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto,   le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla  economica farina.

pupata  s.vo f.le = bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m).

ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch.  lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.

A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico  è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile  quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande  della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra  piú grande di tammurro, carretta  piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola  di tiano  e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco e malizioso, in napoletano,  si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce  sýcon  su cui fu marcato il latino ficu(m)= fico, si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.

29 – Paré ‘na úfara

Letteralmente: Sembrare una bufala; détto di chi in preda ad un rabbioso, virulento  accesso di nervi   si lasci andare a manifestazioni tese, ansiose, irrequiete, isteriche quando non impetuose, travolgenti, furiose, rovinose, violenti  tali da poter esser messo a paragone  al temibile comportamento di una bufala iraconda, rabbiosa, stizzosa, e si parla di bufola e non di bufalo perché è risaputo che nel mondo animale, ma forse pure in quello umano!..., le manifestazioni piú violente, aggressive, isteriche,irruente,veementi,combattive, battagliere, bellicose son delle femmine e non dei maschi!

úfara  s.vo f.le = bufala 1 femmina del bufalo;

2 (fig. scherz.) errore madornale; panzana, corbelleria; 

3 notizia giornalistica totalmente infondata; voce dal lat. tardo *bufala(m)←bufalu(m), per il class. bubalu(m), dal gr. bóubalos 'antilope'

30 – Paré ‘nu capone sturduto

Ad litteram:sembrare un cappone stordito

Détto di chi si dimostri per le piú varie ragioni scombussolato, stonato,  frastornato  incerto e confuso al segno di essere incapace di attendere compiutamente   al suo dovuto, alla medesima stregua di  un pollo che ridotto a cappone  veda segnati i suoi inutili  giorni dallo stordimento  e viva solo per ingrassare.  Rammento che un tempo le mamme che vedevano  a tarda sera i propri figli  stanchi e ciondolanti, incapaci  sia di attendere allo studio, ma pure di portare a termine acconciamente il pasto serale, usavano bollare i ragazzi con la locuzione in epigrafe.

capone  s.vo m.le = cappone,  pollo maschio ma  castrato, perciò piú grosso del gallo e con gustose carni piú tenere;

la voce napoletana deriva dritto per dritto dal  lat. class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare' piuttosto che dal lat.   volg. *cappone(m) che à dato la voce italiana cappone.

sturduto =stordito, stonato, rintronato, scombussolato agg.vo m.le anzi p.p. agg.vato  dell’infinito sturdí= stordire, stonare, rintronare, scombussolare; con derivazione da un basso lat. *exturdire da collegarsi a turdus= tordo  e poi sciocco, confuso.

31 – Paré n’auciello ‘e malaurio

 Ad litteram:sembrare un uccello del malaugurio 

Détto di chi  pessimista di natura profetizzianche velatamente o sommessamente  per sé e/o per gli altri,guai e disgrazie continuate; costui a cui spesso  il malaugurio si legge in volto viene  assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette, barbagianni e consimili ritenuti  apportatori di disgrazie; rammento che già anticamente quando i presagi venivano tratti dagli àuguri dal volo degli uccelli, un inatteso passaggio di volatili notturni era ritenuto di cattivo auspicio.

auciello  s.vo m.le = uccello, volatile voce dal lat. tardo aucĕllu(m)→auciello, accanto ad aucella(m), da *avicellus (*avicella), dim. del class. avis 'uccello'

malaurio  s.vo m.le = cattivo presagio, spiacevole auspicio;          voce formata dalla agglutinazione dimalo(cattivo,spiacevole,triste dal lat. malu(m)) + aurio (augurio, auspicio, presagio, pronostico, vaticinio dal  lat. au(gu)riu(m)→aurio 'presagio'.

32 -Paré 'na luna 'nquintadecima.

Ad litteram:sembrare una luna nel quindicesimo giorno.

Cosí in tono scherzoso,simpatico  ma non offensivo ci si suole rivolgere alle donne incinte di parecchi mesi che inalberino un pancione grosso e sferico  paragonato, nella divertente locuzione  alla luna che solo nel quindecesimo giorno dal novilunio è completamente piena; per traslato il paragone è usato a mo' di sfottò anche nei confronti di uomini vistosamente grassi e panciuti.

A margine rammento che al proposito della forma del pancione delle donne incinte prossime a condurre al termine la gestazione, un tempo vi fu un simpatico modo di dire che sostanziava un curioso, ma quasi sempre veridico metodo di conoscenza del sesso del nascituro, senza la necessità di ricorrere ad esami medici ed ecografie: panza tonna (cioè sferica) appronta ‘a scionna,panza a pponta,spunto e  bbasso appronta  (pancia sferica, prepara la fionda (gioco/arnese destinato ad un maschio) pancia a punta prepara fuso e gonna (destinate alle donne).

‘nquintadecima (jurnata) = nel quindicesimo giorno;

tonna  agg.vo f.le metafonetico del m.le tunno  lett. rotonda; che presenta una forma piena, rotondeggiante; ma qui piú esattamente, sferica; tunno/tonna derivano dal lat. lat. (ro)tundu(m)/*(ro)tunda, (deriv. di rota 'ruota') con normale assimilazione progressiva nd→nn: (ro)tundu(m)/*(ro)tunda→tunno/tonna.

scionna  s.vo f.le  = fionda, 1 arma da getto costituita da due strisce di corda o di cuoio collegate da una tasca entro cui si colloca il proiettile; si usa facendola roteare al di sopra della testa e lasciando poi una delle due strisce

2 arnese/giocattolo per lanciare sassi, formato da una forcella con un elastico assicurato alle due estremità.voce dal lat. flunda(m) con tipico passaggio del digramma lat. fl + vocale al napoletano sci (cfr. flumen→sciummo – flore-m→sciore – flamma(m)→sciamma – flaccare→sciaccà etc.;) ed assimilazione progressiva nd→nn.

spunto = fuso, spuntone s.vo m.le da non confondere con l’omografo ed omofono spunto agg.vo m.le di tutt’altro etimo (da ponta con protesi di una esse intensiva) e significato (acre, pungente,inacidito); invece questo s.vo a margine derivato dal lat. expunctu(m), part. pass. di expungere, vale fuso, arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle estremità,ma privo di vere punte,  arnese che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola;  spuntone;

bbasso/basso s.vo m.le lunga ed ampia gonna; in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. Ernesto  Murolo (Napoli, 4 aprile 1876 – † Napoli, 30 ottobre 1939)) fu usato per indicare un tipico  indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu  détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma   inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.

Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare.

appronta  voce verbale qui imperativo 2ª pers. sg. altrove anche 3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito apprunt-are/à = preparare, tener pronto allestire,  verbo che è un denominale del lat.  ad+promptu(m) part. pass. di promere 'trarre fuori' con assimilazione regressiva  dp→pp.

33 -  Paré 'nu píreto annasprato(o, ma raramente, con riferimento ad una donna:  paré 'na péreta annasprata).

 

Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo

si dice salacemente quasi esclusivamente(è rarissima l’espressione coniugata al femminile)  di tutti quegli uomini  che arroganti, boriosi, superbi, presuntuosi e supponenti  si diano troppe arie, atteggiandosi a superuomini, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, ma non si sa come, risulti inzuccherato,o piú esattamente glassato di naspro,  ma che -  per quanto coperto di ghiaccia dolce -  resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.

píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat.  pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);

 annasprato/a agg.vo m.le o f.le =coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sg. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;

la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa, ghiaccia  atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata, usata per ricoprire e migliorare  dei biscotti in origine dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e  quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa ghiaccia zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.

Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che quando ne venni a conoscenza poco mi convinse ed ancóra  poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi tuttavia  non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo (peraltro accolta con un sí convinto dall’amico glottologo  prof. Carlo Iandolo) è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro  si potrebbe pensare ad un latino (no)n+ asperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros.

 

34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato

(o con riferimento ad una donna:  paré 'na péreta ‘ncantarata).

Letteralmente: Sembrare un peto esploso in un pitale, cioè sembrare un rumoroso peto che esploso in un pitale (che gli fa da cassa di risonanza) risulta fragorosissimo. Anche in questo caso con l’espressione a margine ci si intende riferire ad una donna (con la versione al femminile) o – piú spesso – con la primaria versione al maschile -   ad un uomo saccente, supponente, vanesio, arrogante, presuntuoso, altezzoso, superbo, tracotante, protervo e sentenzioso che   si dia, ma ovviamente  a sproposito,  le arie di valente superuomo, parli a casaccio  ed a vanvera, dia consigli non richiesti,propugni per sé l’infallibilità papale   ed essendo  in realtà privo di ogni concreto  supporto e fondamento alle sue pretese ed inesistenti  virtú, mancante com’è di scienza o conoscenza  può solo esser paragonato ad un peto che, sebbene risuonante e ridondante, rimane pur sempre la stomachevole, fetida  cosa che è.

Per píreto  vedi antea sub 33; péreta ne è il metafonetico femminile usato non solo come sinonimo maggiorato del maschile (ricordo che nel napoletano un oggetto o cosa che sia,  è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie dunque una péreta è intesa piú vasta o rumorosa del maschile píreto); péreta è usato dicevo non solo come sinonimo accresciuto di píreto, ma per traslato è usato anche  per riferirsi offensivamente  ad una donna… di scarto, quale è ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare,  sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi sia una demi vierge o che voglia apparir tale… una donna cioè dalle pessime qualità fisiche e/o morali che goda a  strombazzare le sue pessimi qualità,  comportandosi  alla medesima stregua di un peto, manifestando cioè rumorosamente la sua presenza, donna  che ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di péreta.

Per completezza dirò poi che tale donna becera e volgare, altrove, ma  con medesima valenza è anche détta alternativamente lòcena, lumèra  o anche lume a ggiorno; chiarisco:  lòcena = di scarto;la voce è nel suo precipuo significato di vile, scadente   è forgiata come il toscano ocio  ed il successivo locio (dove è  evidente  l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia  e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena che nel napoletano indica in primis un taglio di carne che pur essendo  gustosissimo,forse il piú gustoso,  è un taglio che  ricavato dal quarto anteriore della bestia,   (il taglio meno pregiato e meno costoso) è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto); lumèra  o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume  l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresì maleolenti tali  quale una péreta.

Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura  questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Péreta for’ ô balcone  per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine  péreta da nome comune è divenuto quasi nome proprio.

‘ncantarato/a agg.vo m.le o f.le   letteralmente: contenuto in un càntaro (pitale); agg.vo  formato, come se fosse una voce verbale,  quale  part. pass. masch./f.le sing. aggettivato di un inesistente ’infinito *incantarà = contenere in càntaro;in pratica si ipotizza l’esistenza d’un verbo denominale di càntaro con prostesi di un in→’n illativo; a sua volta càntaro o càntero è un s.vo m.le che indica un antico, desueto  alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,vaso  atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea  cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un  quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani (e tra costoro spiace trovare persino supponenti ed applauditi autori sedicenti esperti d’usi e costumi oltre che dell’idioma napoletani…)  sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!

 

(SEGUE)