martedì 31 luglio 2018

ESSERE ‘E DINTO, ESSERE ‘E ‘MIEZO, ESSERE ‘E FORA.


ESSERE ‘E DINTO, ESSERE ‘E ‘MIEZO, ESSERE ‘E FORA.

Ad litteram: Essere di dentro,  essere di  mezzo, esser di fuori. Tipiche espressioni cittadine partenopee usate volta a volta con riferimento a soggetto  proveniente da un ben determinato luogo della città; con esser di dentro ci si riferisce a persona proveniente  da un rione interno , quasi sempre del centro storico della città inteso quasi come un enclave circoscritto   da altri rioni/quartieri ed è la ragione che induce a connaturare quell’enclave con l’uso dell’avverbio dinto (dentro); nel caso invece ci si riferisca a persona  proveniente non  da un rione interno, ma da un luogo aperto, come una piazza ,oppure una strada ampia e spaziosa ecco che s’usa l’espressione essere ‘e ‘miezo (di mezzo); quando infine ci si riferisca a persona proveniente  rione/quartiere esterno della città, quasi  limitrofo del mare cittadino,  si usa l’espressione essere ‘e fora (di fuori).Per cui, esemplificando,avremo: essere ‘e dint’â Sanità,essere ‘e ‘miezo Furia, ‘e miezo Carlo Terzo, essere ‘e fora â Marina. Rammento a margine che oggidí riferendosi a persone provenienti dal Vomero o dai Quartieri spagnoli a monte di Toledo, si usa l’espressione: essere rrobba ‘e copp’ê Quartiere, ‘e copp’ô Vommero, mentre un tempo fu espressione usata solo in riferimento a persona originaria dei Quartieri, mentre per chi provenisse dal Vomero s’usò dire essere rrobba ‘e ‘mez’ê vruoccole nell’inteso che il Vomero era tutta aperta campagna coltivata a broccoli ed affini e non ancóra il quartiere residenziale che poi sarebbe diventato.
Per certo, concludendo, si tratta di espressioni usate in ambito cittadino, ma non è dato sapere, o almeno non ne ò contezza, se anche in ambito provinciale siano usate.
R.Bracale Brak 

- ACCENTO, APOCOPE & ALTRO NELLA GRAFIA DELLE PARLATE DIALETTALI.


 - ACCENTO, APOCOPE & ALTRO NELLA GRAFIA DELLE PARLATE DIALETTALI.
 Durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano per le parole, anche plurisillabi, apocopate dell’ultima sillaba, perciò rese tronche (soprattutto infiniti) usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solamente l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,ed indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori e, tra essi addirittura uno spocchioso compilatore di dizionario (peraltro (cfr. alibi) fautore d’una scrittura dell’idioma napoletano privo di raddoppi consonantici o geminazioni iniziali....) che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti, ma poi presuntuosamente da asini e supponenti, spocchiosi, tronfi, saccenti,quali mostran d’ essere!..., osano accusare di ignoranza e faciloneria chi non si adegua al loro inesatto modo di scrivere! In effetti nella grafia della parlata napoletana non v’à ragione (checché ne dica ad es. A. Altamura) per accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo ad indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:l'accento, inglobando la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna ; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia operare un taglio ad un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
 Per esempio il verbo èssere può essere apocopato (soprattutto in poesia, per particolari esigenze metriche e/o espressive) in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancora ad es. il verbo tégnere, può, per particolari esigenze espressive o metriche, essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde e non cadé!
 Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé).
 A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali (poggiandosi sul fatto che la voce apocope in greco indica appunto il troncamento) confondono l’apocope con il troncamento; quest’ultimo è infatti la caduta di un suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure, qual per quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta per si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma tale caduta è, nella stragrande maggioranza dei casi, caduta di una o piú sillabi finali ad es. nell’italiano: san per santo (almeno per ciò che riguarda il napoletano [nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che per talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)] l’apocope (caduta di suoni rappresentati da una o piú sillabe finali, non di una sola consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non è titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale d’accompagnamento... ) dev’essere indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della sillaba non esiga addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei verbi dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capí che è da capi(re) e cosí via; in questo caso mettere il segno dell’apocope (‘) porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia di parlà o capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in luogo dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere (come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni diacriti quali i due apostrofi accanto a vocali già accentate.
 In napoletano i monosillabi apocopati di una o piú consonanti (che come visto non son rappresentative da sole di un suono) non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che è da mox e non da mo(do)), cu= con (da cum),pe=per (da per)po= poi (da post) etc.) Mi dilungo al proposito sull’avverbio di tempo mo.
 Mo’, mo ed altro.
 Nel napoletano vuoi nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa connota il provinciale.
--mo (è possibile trovarlo anche come mo' o ancóra mò) avv. - Ora, adesso; poco fa Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
 nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo. Rammento che invece che nella forma reiterata mo, mo con la nasale scempia e separate da una virgola l’avverbio è da intendersi quale esclamazione nel senso di Un momento!, Con calma!, Senza affrettarsi!
 Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?
 Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
 vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
 È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola lettera (consonante)o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba ovviamente vocalica;
 ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle,
 Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece,se mancasse, a mio avviso un chiaro segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.).
 A mio avviso infatti è buona norma corredare sempre del segno (‘) d’aferesi le parole che etimologicamente lo richiedano; in un sol caso se ne può fare a meno: solo quando la parola aferizzata, per la sua posizione, richiede anche il segno di elisione e ciò avviene ad esempio per gli aggettivi ‘sto
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
 Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
 Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
 Raffaele Bracale

ESPRESSIONI 21


1. MENTRE O MIEDECO STUREJA, 'O MALATO SE NNE MORE. Letteralmente: Mentre il medico studia, il malato se ne muore. La locuzione è usata per sottolineare e redarguire il lento improduttivo agire di chi predilige il vacuo pensiero alla piú proficua, se rapida, opera.
2.M' HÊ DATO 'O LLARDO 'INT' Â FIJURA Letteralmente: Mi ài dato il lardo nel santino. L'espressione si usa nei confronti di chi usi eccessiva parsimonia nel conferire qualcosa a qualcuno e prende l'avvio dall'uso che avevano i monaci di Sant'Antonio Abate a Napoli che gestivano in piazza Carlo III un ospedale per cure dermatologiche ed usavano il lardo dei maiali con il quale producevano unguenti curativi. Allorché poi dimettevano un infermo erano soliti consegnare al medesimo, per il prosieguo della cura, una piccolissima quantità di lardo benedetto, avvolto in un santino raffigurante Sant'Antonio abate. Pur se benedetto la quantità del lardo era veramente irrisoria e pertanto assai poco bastevole alla bisogna.
3. FÀ CUOFENO SAGLIE E CCUOFENO SCENNE
Ad litteram: Far (sí che un) corbello  salga e (l’altro)  scenda.
Antica icastica espressione, mutuata dal lavoro dei muratori (come qui di seguito chiarirò) da intendersi nel senso di: evitare di intralciare il normale iter dell’umane faccende, cercando di non intervenire per mutarne il corso vuoi in senso positivo che in senso negativo; lasciare  che tutto vada secondo il fato o il destino limitandosi ad osservare tenendosi estraneo da ogni faccenda e mostrandosi impassibile innanzi ad ogni accadimento , anche davanti a quelli che dovessero riguardarci tanto da presso da coinvolgerci e tutto ciò nella convinzione che sia impossibile ed inutile opporsi ai voleri del fato o destino che sia.L’espressione in esame è usata altresí  con altra accezione quale imperioso consiglio a non affrettarsi nell’operare limitandosi a tenere il normale ritmo delle cose e ciò tenendo presente che l’operazione descritta nella locuzione à di per sé un andamento blando e non precipitoso. Come ò accennato l’espressione fu mutuata dal lavoro dei muratori  e faceva riferimento al consiglio/ordine che il cosiddetto capomanipolo dava ad ogni sottoposto addetto allo sgombero dei calcinacci di demolizione o al trasporto dei materiali da costruzioni calati(i primi) o issati (i secondi) per il tramite di funi e carrucole affinché non impedissero con malaccorti interventi la salita e la discesa delle ceste ricolme. Un tempo il lavoro predetto veniva effettuato servendosi di un paranco provvisto di funi e carrucole cui erano attaccati due cesti, uno riempito del materiale di sgombero, l’altro vuoto; ora mentre il cesto pieno con il suo peso si spostava lentamente dall’alto in basso, contemporaneamente l’altro cesto svuotato risaliva con pari velocità. Oggidí nell’intento di accelerare le operazioni si sono aboliti  paranco funi e carrucole e ci si serve di alcuni tronchi di cono di  robusta plastica  impilati l’uno sull’altro nei quali vengono versati  i calcinacci di demolizione che velocemente precipitano dall’alto in basso ed ecco che la locuzione à perduto il suo sapido significato di partenza.
Cuofeno s.vo m.le [dal latino cophǐnus, marcato sul greco kóphinos] è un particolare cesto di vimini piú stretto alla base e provvisto di manici,usato  per il trasporto delle merci piú varie.
 4.SE PAVA NIENTE? E SEDÚGNEME DA CAPA Ô PEDE! Letteralmente: Si paga niente? Ed ungimi da capo al piede. Cosí si dice di chi voglia ottenere il massimo da qualsivoglia operazione che sia gratuita ed eccede a quel fine nelle sue richieste come quel cresimando che, saputo che l'unzione sacramentale era gratuita, apostrofò il vescovo con le parole in epigrafe chiedendo di essere unto completamente.
5.DA CH' È MMUORTO 'O CUMPARIELLO, NUN SIMMO CCHIÚ CUMPARE. Letteralmente: Da quando è morto il figlioccio, non siamo piú compari. Id est: da quando non c'è piú chi ci aveva uniti, è finito anche il legame. La locuzione viene usata con senso di disappunto davanti ad incomprensibili e repentini mutamenti di atteggiamento o davanti ad inattesi raffredamenti di rapporti un tempo saldi e cordiali, quasi che la scomparsa del figlioccio potesse far cessare del tutto le pregresse buone relazioni intercorrenti tra il padrino e i parenti del defunto figlioccio.
6.LL' AMMORE DA LUNTANO È COMME A LL' ACQUA 'INT' Ô PANARO. L'amore di lontano è come acqua nel cestino di vimini Id est: è un lavorio inutile che si tramuta in tormento.
7.SANTA CHIARA: DOPP'ARRUBBATO, 'E PPORTE 'E FIERRO! Letteralmente - Santa Chiara: dopo aver subíto il furto, (apposero) le porte di ferro. La locuzione è usata per redarguire chi è tardo nel porre rimedi o aspetti di subire un danno per correre ai ripari, mentre sarebbe stato opportuno il prevenire che è sempre meglio del curare; l’espressione ironizza sul correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti a danno della antica chiesa partenopea.
8.'MBARCARSE SENZA VISCUOTTE. Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche. Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua naturalmente marina non ancora inquinata.
9.S'À DDA FÀ 'O PIRETO PE CQUANTO È GGRUOSSO 'O CULO. Letteralmente: occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati.
10.CHI SE METTE CU 'E CRIATURE, CACATO SE TROVA. Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto piú giovani di lui è destinato a fine ingloriosa, come chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, che derivano dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini.
11.'A GALLINA FA LL'UOVO E Ô VALLO LL'ABBRUSCIA 'O MAZZO. Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora e un altro si lamenta della fatica che non à fatto. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o che si voglia convincere qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non à compiute, e di cui invece fa le viste di portare il peso.
12.MO ABBRÚSCIALE PURE 'A BBARBA E PPO DICE CA SO' STAT' IO! Letteralmente: Adesso ardigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa. Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdí santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e cosí via. Nell'agitazione dell'eloquio finí per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
13.QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO. Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli. 14.QUANNO SI 'NCUNIA STATTE E QUANNO SI MARTIELLO VATTE Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
15.À FATTO 'O PIRETO 'O CARDILLO. Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienznon può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
Brak

ESPRESSIONI 20


1.Ô RICCO LLE MORE 'A MUGLIERA,  Ô PEZZENTE LLE MORE 'O CIUCCIO.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à  da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. A PPAZZE I A CCRIATURE, 'O SIGNORE LL'AJUTA.
Ad litteram: a pazzi ed a bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3.SI COMME TIENE 'A VOCCA, TENISSE 'O CULO, FACÍSSE CIENTO PIRETE E NUN TE N'ADDUNASSE.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
*culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
**pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
***addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sg.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4.SI 'ARENA È RROSSA, NUN CE METTERE NASSE.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. SI 'A TAVERNARA È BBELLA E  BBONA, 'O CUNTO È SSEMPE CARO.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. NUN TE DÀ MALINCUNÍA, NÈ PPE MALU TIEMPO, NÈ PPE MALA SIGNURÍA.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7.'AMMUINA* È BBONA P''A GUERRA...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
* ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8.ASTÍPATE 'O PIEZZO JANCO* PE QUANNO VENONO 'E JUORNE NIRE.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
* ‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo;  non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. MALE E BBENE A FFINE VÈNE.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. CHI TÈNE  O PPANE E VVINO, 'E SICURO È GIACUBBINO.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati rimunerati dai nuovi governanti.
 Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. DICETTE 'O PAGLIETTA: A TTUORTO O A RRAGGIONE, 'A CCA À DDA ASCÍ 'A ZUPPA E 'O PESONE*.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata. *pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O DIAVULO, QUANNO È VVIECCHIO, SE FA MONACO CAPPUCCINO.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. CHI TÈNE 'O LUPO PE CCUMPARE, È MMEGLIO CA PURTASSE 'O CANE SOTT'Ô MANTIELLO.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à  cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. SI 'O CIUCCIO NUN VO' VEVERE, AJE VOGLIA D''O SISCÀ...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15. MO M'HÊ ROTTE CINCHE CORDE 'NFACCI' Â CHITARRA E 'A SESTA POCO TENE.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura. 16. Tené tiérmene e ccrianza
Ad litteram: Avere parole (consone) e buona educazione. Id est: Nei rapporti interpersonali bisogna sempre usare un linguaggio improntato alla buona educazione, alla urbanità soprattutto quando colui/colei con cui ci si confronti sia persona meritevole, per il suo status,di rispetto,  dideferenza, d’ossequio, di riguardo,  di compitezza, di gentilezza. L’espressione viene spesso usata, coniugata all’imperativo, a mo’ di ammonimento rivolto dagli adulti ai minori per metterli sull’avviso di non usare nei confronti dei superiori un linguaggio men che corretto  deferente, rispettoso, un linguaggio che sia privo di  maleducazione, scortesia, inciviltà, villania pur se celate. Rammento che in origine l’espressione in esame, nel medesimo significato  si usò nella morfologia: Tené tiérmene ‘e crianza (usare parole di educazione,di cortesia, di garbo); successivamente nel parlato popolare della città bassa la preposizione ‘E (di) fu confusa con la congiunzione E    e l’espressione diventò quella riportata a margine con la necessaria geminazione della consonante iniziale di crianza e venne usata come Tené tiérmene e ccrianza mantenendo inalterato il senso dell’espressione.
tiérmine s.vo m.le pl. di tiérmino = parola, espressione,  vocabolo; voce dal  lat. tĕrmine(m);
crianza s.vo f.le creanza, buona educazione, urbanità,compitezza, gentilezza dallo sp. crianza, deriv. di criar 'allevare, educare', che è dal lat. creare 'creare'.

E (pronunzia chiusa) = e congiunzione coordinante comporta il raddoppiamento della consonante iniziale successiva (es.lloro e nnuje – i’ e tte – venco e vvaco etc.) è dal lat. e(t).
‘E(pronunzia chiusa) forma aferizzata della preposizione de→’e = di  1 stabilisce una relazione di specificazione, in cui determina il concetto più ampio espresso dal nome da cui dipende, continuando la funzione che era stata del genitivo latino; 2 rientrano nell'ambito della specificazione talune relazioni particolari; di possesso o appartenenza: ‘e casa ‘e fràtemo; ‘e ffiglie ‘e sòreta (la casa di mio fratello;le figlie di tua sorella) 3 in funzione partitiva, indica un insieme di cui si considera o si sceglie solo una parte: tre ‘e ll’amice suĵe (tre dei suoi amici); 4 in dipendenza da nomi che indicano quantità, insieme, numero, oppure da aggettivi sostantivati o pronomi che indicano una quantità indefinita, introduce ciò a cui quella quantità o quell'insieme si riferisce: ‘nu chilo ‘e pane;’nu paro ‘e cape ‘e sacicce; ‘nu tummolo ‘e guaje  (un chilo di pane;due rocchi di salsicce una dozzina di uova; un tomolo di guai) ; 5 davanti a un nome proprio (spec. di città, località, persona) in funzione denominativa, stabilisce una relazione di tipo appositivo: ‘a città ‘e Roma  (la città di Roma); 6 limita l'ambito, l'aspetto per cui è valida una qualità, una condizione: sano ‘e cuorpo(sano di corpo); 7 introduce l'argomento di un discorso, di uno scritto, di un'opera: parlà ‘e pallone (discutere di calcio); 8 nelle comparazioni può introdurre il secondo termine di paragone: Mario è cchiú aveto ‘e Giuvanne (Mario è piú alto di Giovanni); 9 esprime una modalità: è bbuono ‘e core (è di buon cuore) 10 introduce una causa: scuppià ‘e caudo (scoppiare di caldo); 11 definisce un mezzo o strumento: spurcà ‘e gnostia(sporcare d'inchiostro); 12 stabilisce il fine o scopo:freno ‘e sicurezza; dama ‘e cumpagnia (freno di sicurezza; dama di compagnia); 13 introduce una relazione di moto da luogo (in senso proprio o fig.): ascí ‘e casa, ‘e mente (uscir di casa, di mente); | in correlazione con in: spustarse ‘e paese ‘mpaese; va ‘e male ‘mpeggio(spostarsi di paese in paese; va di male in peggio) | con sfumatura di allontanamento o separazione: fujrsene ‘e casa; ascirsene ‘e galera(scappar via di casa; uscire di prigione)
14 esprime origine, provenienza:essere ‘e Milano, n’avvocato ‘e Napule  essere di Milano; un avvocato di Napoli | discendenza familiare, paternità:’na guagliona ‘e bbona famiglia (una ragazza di buona famiglia
15 introduce una specificazione di tempo determinato: ‘e matina; ‘e dummeneca;’e maggio;’e carnevale  (di mattina; di domenica; di maggio; di carnevale)  può anche indicare un tempo continuato:’nu viaggetto  ‘e tre gghiuorne; ‘na lezziona ‘e doje ore (un viaggio di   di tre giorni; una lezione di due ore) | in correlazione con in: ‘e juorne ‘nghiuorno; ‘e semmana ‘nsemmana(di giorno in giorno, di settimana in settimana);
16 in correlazione con in, oltre alle funzioni locativa e temporale, può esprimere una funzione distributiva: ‘e tre ‘ntre (di tre in tre); 17 à funzione rafforzativa in talune espressioni enfatiche: nn’à cumbinate ‘e guaje! (ne à combinati di guai!); 18 introduce prop. infinitive con funzione di oggetto o di soggetto:penza ‘e avé sempe raggiona (crede di aver sempre ragione); 19 concorre alla formazione di loc. prepositive: primma ‘e, fora ‘e, doppo ‘e  (prima di, fuori di, dopo di). (voce dal lat. )
Questo ‘E preposizione qui esaminato non va confuso con
‘E(pronunzia chiusa)  = i, gli, le art. determ. m.le e f.le plurale.  si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat.  (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; la  caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘e pate voce maschile, ma ‘e mmamme  voce femminile, ‘e figlie= i figli voce maschile, ma ‘e ffiglie= le figlie voce femminile etc.); la geminazione è ovviamente  prevista quando la consonante iniziale del vocabolo femminile sia seguita da una vocale e non da un’altra consonante (ad es. ‘e ppatane= le patate, ma ‘e stanze= le stanze);
17. ESSERE ‘NA BBONA PELLA P’’O LIETTO
Ad litteram: Essere una buona pelle (utile) a letto; id est: essere un’ottima meretrice. Antichissima espressione risalente all’antichità latina allorché con il termine scortum ci si riferiva sia alla pelle propriamente detta che alla meretrice semanticamente raccostati probabilmente perché la meretrice fa esposizione della propria pelle.
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