martedì 31 agosto 2010

VARIE795

1.È 'na bbella jurnata e nisciuno se 'mpenne.
Ad litteram: È una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
2. 'E meglio affare so' cchille ca nun se fanno.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è piú conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
3. Quanno 'e figlie fòttono, 'e pate so' futtute.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fòttono (voce verbale 3° p. pl. ind. pres. dell’infinito fóttere dal lat. futúere)non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma piú chiaramente quello compiuto a pagamento per divertimento o vizio; il medesimo atto compiuto nell’àmbito del rapporto coniugale esula da quanto affermato in epigrafe.
4. Primma t'aggi''a 'mparà e ppo t'aggi''a perdere....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Cosí son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
5.'Na mela vermenosa ne 'nfraceta 'nu muntone
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale, di indole malvagia o peggiore, per rovinare tutti gli altri.
6. Chella ca ll'aíza 'na vota, ll'aíza sempe.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che, per darsi, tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; piú estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere, o a comportarsi male altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
7. Chella cammisa ca nun vo' stà cu tte, pigliala e stracciala!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.

8. Â sera so' bastimienti, â matina so' varchetelle.
Ad litteram: a sera sono grosse navi, di mattina piccole barche.Con il mutare delle ore del giorno, mutano le prospettive o le proporzioni delle cose; cosí quegli accadimenti che di sera sembrano insormontabili problemi, passata la notte, alla luce del giorno, si rivelano per piccoli insignificanti intoppi.
9. O chesto, o cheste!
Ad litteram: o questo, o queste.La locuzione viene profferita, a Napoli quando si voglia schernire qualcuno con riferimento alla sua ottima posizione economica-finanziaria; alle parole devono essere accompagnati però precisi gesti: e cioè: pronunciando la parola chesto bisogna far sfarfallare le dita tese delle mano destra con moto rotatorio principiando dal dito mignolo e terminando col pollice nel gesto significante il rubare; pronunciando la parola cheste bisogna agitare la mano destra atteggiandola a mo' di corna,(tenendo cioè tesi e distesi indice e mignolo e serrate contro il palmo le altre dita) per significare complessivamente che le fortune di chi è preso in giro sono state procurate o con il furto o con le disonorevoli azioni della di lui moglie, figlia, o sorella, inclini a farsi possedere per danaro.
10.Cu 'o furastiero, 'a frusta e cu 'o paisano 'arrusto.
Ad litteram: con il forestiero occorre usare la frusta (per scacciarlo)mentre con il compaesano bisogna servirlo di adeguato sostentamento, proverbio che viene di lontano ed è attualissimo, quantunque proverbio un po’ strano per la filosofia comportamentale del popolo napoletano,abituato da sempre ad accogliere chicchessia e per solito ligio ai precetti divini del soccorso e dell’aiuto fraterno anche verso gli stranieri.
Furastiero s.vo ed agg.vo m.le= che, chi proviene da un altro paese; voce che è dal fr. ant. forestier, deriv. del lat. foris 'fuori';
paisano s.vo ed agg.vo m.le =1 abitante di paese (talora con sfumatura spreg.)
2 e qui compaesano; voce derivata del sost. paese (che a sua volta è dal lat. *pagensis agg.vo, der. di pagus «villaggio») con l’aggiunta del suff. di appartenenza aneus→ano.
11. A lume 'e cannela spedocchiame 'o pettenale.
Ad litteram: a lume di candela, spidocchiami il pettinale (id est: monte di Venere). Il proverbio è usato per prendersi giuoco o sarcasticamente redarguire chi, per ignavia, rimanda alle ore notturne ciò che potrebbe fare piú agevolmente e proficuamente alla luce diurna.
pettenale s.m. = monte di Venere, pube, pettignone dal lat. pectinale(m).
12.Chi tène mali ccerevelle, à da tené bboni ccosce.
Ad litteram: chi à cattiva testa, deve avere buone gambe. Id est: chi è incline a delinquere, deve avere buone gambe per potersi sottrarre con la fuga al castigo che dovesse seguire al delitto.Inteso in senso meno grave il proverbio significa che chi dimentica di operare alcunché deve sopperirvi con buone gambe per recarsi a pigliare o a fare ciò che si è dimenticato di fare o prendere.
13.Quanno 'e mulinare fanno a ponie, strigne 'e sacche.
Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio.
14.Meglio magnà poco e spisso ca fà unu muorzo.
Ad litteram: meglio mangiar poco e spesso che consumar tutto in un solo boccone. Contrariamente a quel che si possa pensare, il proverbio non è una norma statuita da qualche scuola medica che consigli di alimentarsi parcamente senza dar fondo alle vettovaglie; è invece un consiglio epicureo che spinge a piluccare, (per estendere al massimo - nel tempo -il piacere della tavola), piuttosto che esaurirlo in pochissimo spazio di tempo.
15.Tre songo 'e ccose ca strudono 'na casa: zeppole, pane caudo e maccarune.
Ad litteram:Tre sono le cose che mandano alla rovina una casa: focaccine dolci, pane caldo, maccheroni. Da sempre a Napoli, le spese per l'alimentazione ànno costituito un grosso problema; il proverbio in epigrafe elenca quali furono una volta gli alimenti molto cari, che producevano grossi problemi alle vuote tasche dei napoletani; essi alimenti erano: le focaccine dolci, molto appetite dai golosi, il pane caldo cioè fresco che veniva consumato in quantità maggiore di quello raffermo, ed i famosi maccheroni che all'epoca costavano molto piú della verdura; oggi tutto costa di piú, per cui è difficile fare un elenco delle cose che posson mandare in malora l'economia di una casa.
16.Addó hê fatto 'o palummaro? Dinto â vasca d''e capitune?!
Ad litteram: dove ài imparato a fare il sommozzatore? Nella tinozza dei capitoni?!La frase è usata sarcasticamente quando ci si voglia prender giuoco di qualcuno che si atteggia a baldanzoso esperto di qualcosa di cui in realtà non à esperienza, come di un operaio subacqueo che, in luogo delle profondità marine, manichette o pompe idrovore abbia avuto rapporti con la sola acqua contenuta nelle tinozze dove vengono messi le anguille o i piú grossi capitoni.
Palummaro s.vo m.le = Chi fa il mestiere di scendere sott’acqua, completamente immerso, per compiere una determinata operazione; voce napoletana, voce poi pervenuta nell’italiano come palombaro, usata come ò detto per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palumbariu(m) 'sparviero', perché chi fa tale mestiere, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cali sulla preda.

17. 'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
18. E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.


19.Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
20.Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce e il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
21.A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
22.Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
23.Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
24.Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato. Il proverbio in epigrafe, in fondo rende l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo!
25.Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che le soddisfi le voglie sessuali.
26.Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche ccazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te). Amaro, pessimistico proverbio con il quale si significa che, nella vita, non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono forse - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano soltanto per carpirti qualcosa.
27.Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
28. Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
29.'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere veramente buoni) devono essere di antica data.
30.'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
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FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 4°

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte quarta

N - Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
Ad litteram:parlare come un libro strappato id est: esprimersi in maniera incomprensibile, frammentaria, approssimativa e perciò inutile, come inutile sarebbe il consultare un libro che strappato e ridotto in pezzi non sarebbe nè consultabile, né comprensibile.
comme avv. e cong. = come
avv.
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?(come stai?); comme è gghiuto ‘o viaggio?(come è andato il viaggio?); dimme comme staje(dimmi come sta)i; comme maje (come mai?), perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto?(come mai non è piú partito?) | comm’ è ca?…,comme va ca?(com'è che...?, come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme?!(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?(come dici?), comme hê ditto?(come ài detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme sarria a ddicere?(come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm’è, comme nun è(com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!(come no?!), certamente | comme ve permettite?!(come vi permette?!), si guardi bene dal permettersi
2 quanto (in prop. esclamative):comme chiove!( come piove!); comme sî bbuono!(come sei buono!); | e ccomme!, è proprio cosí!
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): le raccuntaje comme ll’amico sarria partuto(gli raccontò come l'amico sarebbe partito); nun te n’adduone ‘e comme sî ffesso?!(non ti accorgi come sei stupido?!) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose; ecco comme ce se po’ arruvinà (ecco come andarono le cose; ecco come ci si può rovinare)
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è bbello comme credevo; arrivarrà cchiú ttarde ‘e comme aveva avvisiato (è bello come credevo; arriverà più tardi di come aveva annunciato);| in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comm’ ô llatte; ‘a figlia è aveta comm’â mamma; poche so’ sfaticate come a tte; ‘e juorno comme ‘e notte (bianco come il latte; la figlia è alta come la madre; pochi sono pigri come te; di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: mo comme a mmo(ora come ora), oje comme oje(oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo: tu, comme arbitro, nun hê ‘a essere ‘e parte! (tu, come arbitro, devi essere imparziale!); fuje scíveto comme testemmonio(fu scelto come testimone); tutte ‘a vulevano comme mugliera(tutti la richiedevano come moglie)
5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto come tu hê voluto (ò fatto come tu ài voluto; tutto è succieso comme speràvamo (tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lassa ‘e ccose accussí comme so’ (lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): non è accussí tarde come pensavo;(non è cosí tardi come pensavo); tanto ll’une comme ll’ ate ( tanto gli uni come gli altri) ' comme (si), nello stesso modo che, quasi che: rispettalo comme (si) fosse pàteto (rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme non l’êsse ditto come non l’avessi detto, per ritirare una precedente affermazione.
cong.
1 appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje (come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nutizzie erano passate comme arrivavano (le notizie venivano comunicate come arrivavano)
2 (lett.) giacché, siccome (introduce una prop. causale): e comme n’effetto s’aveva avé… ( e siccome un effetto bisognava ottenere…)
‘no oppure’nu = corrisponde ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s.vo o agg.vo che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivere no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure il corrispondente del maschile e neutro no/nuprivi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
libbro s.vo m.le = libro, volume, insieme di fogli, stampati o manoscritti, cucitio incollati insieme secondo un dato ordine e racchiusi da una copertina; etimologicamente è voce derivata dal lat. libru(m)→libbro con consueto raddoppiamento espressivo dell’esplosiva labiale, orig. 'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere;
stracciato = strappato,fatto a pezzi part.pass. agg.vato dell’infinito stracciare/straccià che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre'
O - Parlà assestato
Ad litteram:parlare con cura e precisione,esponendo in maniera chiara responsabile, affidabile, scrupolosa, coscienziosa. Détto di chi, si esprima in modo serio e costruttivo, dimostrando accuratezza, cura, attenzione, meticolosità, diligenza, scrupolosità, ordine, rigore,nonché il raziocinio d’ una mente concretamente in sesto.
assestato part. pass. aggettivato dell’infinito assestà = 1 mettere in sesto, in ordine (anche fig.); sistemare;2 regolare con cura, adattare con precisione; ||| assestarse v. rifl. o intr. pron.
1 sistemarsi; mettersi in ordine, a posto (anche fig.):

2 (ant. lett.) adattarsi, confarsi.
Etimologicamente assestare/assestà è un denominale di sesto (che è dal lat. sextu(m)) s. m.
1 ordine, assetto, disposizione normale di qualcosa:
2 (arch.) curvatura di un arco;
3 (ant.) compasso, sesta:
P - Parlà chiatto e ttunno
Corrisponde all’italiano Parlar chiaro e tondo È l’esatto contrario della precedente I - Parlà mazzecato.
Ad litteramquesta a margine è:parlare grasso e tondo,ma si può rendere con l’italiano parlar chiaro e tondo, quantunque l’espressione napoletana nella sua icasticità sia piú rappresentativa del concetto di profferir parole copiose (chiatto=grasso, abbondante ) e rotonde (tunno= tondo, rotondo, anche sferico, privo di spigolosità) id est parlare senza reticenze; esprimersi senza incertezze, con chiarezza e dovizia di particolari, senza nulla sottacere, usando un eloquio aperto, ampio e rotondo che in napoletano è détto grasso come che ponderoso e privo di spigolosità che se esistessero impedirebbero la necessarie trasparenza e/o chiarezza che son proprie di un parlare chiaro e tondo che cioè non voglia nasconder nulla.
Chiatto e ttunno = copioso, abbondante e rotondo locuzione avverbiale formato dall’unione di due aggettivi: chiatto/a agg.vo m.le o f.le= pingue, grasso/a e dunque copioso/a, abbondante
Voce che è dal greco plat(s) con raddoppiamento espressivo della dentale e consueto passaggio (che è anche in lemmi dal latino) del gruppo pl a chi (cfr. ad es. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.) e tunno/a agg.vo m.le o f.le= tondo/a, rotondo/a, sferico/a e dunque senza spigoli o asperità
Voce che è dal lat. (ro)tundu(m)→tunno con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Q – Parlà a cocoricò
Espressione del parlato e solo del parlato a cui però è quasi impossibile dare una traduzione letterale atteso che la voce cocoricò nell’inteso comune si presta ad una doppia interpretazione; a) pappagalo, b) matto, folle;
Intendendo cocoricò come pappagallo (dandole cioè un etimo onomatopeico che si riallaccia al verso del pennuto uccello esotico addomesticabile, con caratteristico becco adunco e colori smaglianti) l’espressione varrebbe parlar pappagallescamente imitando l’altrui eloquio; intendendo invece, come io penso e ritengo, ntendendo cocoricò una voce derivata dal turco curuk→cucuruco→cocoricò (agg.vo che vale in primis marcio e per traslato folle, matto) ecco che l’espressione parlà a cocoricò acquista la medesima valenza della precedente parlà a spaccastrommole cioè in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti,valenza che semanticamente s’attaglia benissimo al curuk→cucuruco→cocoricò = folle, matto.
Q - Parlà a scampule ‘e mele cotte
Ad litteram: parlare alla maniera (dei venditori) di scampoli di mele cotte id est parlare per tropi ed immagini spesso menzognere e/o fasulle in maniera suadente, ma falsa ed ingannevole nell’intento di convincere l’ascoltatore/cliente ad acquistare scampoli residuali di mele cotte probabilmente invendute per cattiva qualità delle medesime.Analogamente ai venditori di scampoli di mele cotte chiunque usasse, soprattutto a fini illusorî,e/o ingannevoli, un eloquio suadente, ma menzognero potrebbe essere accreditato di parlà a scampule ‘e mele cotte.
scampule s.vo m.le pl. di scampulo s. m.
in primis piccolo taglio di tessuto che avanza da una pezza;
fig. come nel caso che ci occupa avanzo, rimasuglio
etimologicamente la voce scampulo è un deverbale di scampare/scampà =
1uscire salvo da un pericolo(nel caso dello scampolo da quello della vendita); sfuggire a un rischio (idem c.s.) mortale:
2 trovare rifugio in un luogo: scampà all'estero ||| v. tr.
1 proteggere, liberare, salvare da mali e pericoli: scampare qualcuno dalla morte | Dio ci (ce ne) scampi!, escl. che esprime la speranza di non incorrere in un pericolo, di non subire un male
2 evitare, scansare (un male, un danno e sim.); il verbo scampare, a sua volta deriva da campo (di battaglia), col pref. s- che indica allontanamento.

E con questa analizzata avrei esaurito l’esame delle piú usate locuzioni modali costruite con il verbo parlare, ma amor di completezza mi spinge ad illustrare altre due caratteristiche espressioni partenopee costruite usando l’infinito parlà:

R - Nun farme parlà!
Letteralmente: Non farmi parlare! Id est: Fammi tacere, non istigarmi a dire qualcosa di cui potrei pentirmi… Della persona o dell’argomento dei quali vorresti ch’io parlassi conosco cose e circostanze spiacevoli che se le riferissi potrebbero suscitare malumori, dissapori o malintesi di cui sarei responsabile e di cui dovrei pentirmi; per cui Non indurmi a parlare.È preferibile ch’io taccia!
S- Jí a pparlà cu ‘o pato
Letteralmente: Andare a parlare con il padre (della fidanzata). Id est: Ufficializzare una situazione impegnandosi chiaramente a mantenere l’impegno di fare sfociare un fidanzamento nel matrimonio. L’espressione napoletana, in disuso ormai dalla fine degli anni ’60 del 1900 in coincidenza con la rivoluzione dei costumi giovanili e della società, e con il subentro all’istituto del matrimonio, della disdicevole consuetudine della convivenza disimpegnata, libera e senza regole, l’espressione in esame corrisponde ad un dipresso a quella dell’italiano chiedere la mano della sposa Rispetto a quella dell’italiano, l’espressione napoletana coglie al meglio l’importanza della figura paterna (del tutto assente nell’espressione italiana) figura che sino alla fine degli anni ’60 del 1900 ebbe un posto preminente nell’àmbito della famiglia di cui rappresentò l’indiscussa guida materiale e morale responsabile titolare della cosiddetta patria potestas ed occorreva che con lui e con nessun altro l’aspirante promesso sposo parlasse dando garanzie di serietà morale, supportata da un lavoro retribuito e chiarisse le sue serie intenzioni di voler metter su famiglia impalmando la figliola di colui con cui si andava a parlare.
jí corrisponde al verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da un *aditare frequentativo di adire ed è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare'); è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito e per esaminarle rimando alibi. Preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh. È pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita di trovare nella stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti e/o meno noti!), è assolutamente errato rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponessero i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí/gghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno.
cu cong.
Corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da una voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti dell’ idioma napoletano, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano, facendo una sciocchezza sesquipedale atteso che – come ò piú volte détto e provato – il napoletano è un linguaggio del tutto originale ed autonomo, con una propria storia letteraria e di derivazione, come tutti gli altri linguaggi regionali, diretta dal latino volgare, con proprie regole grammaticali e di sintassi e non è tributaria di nessun altra lingua, men che meno dell’italiano/toscano! Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliune; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se venesse a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe) ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazzià?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto scustumatamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i soliti grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della lingua napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
pate s.vo m.le = padre quanto all’etimo dritto per dritto dal lat. pat(r)e(m)→pate con dissimilazione totale della liquida.
Giunto a questo punto penso di non dover aggiungere altro, d’aver contentato l’amico A.B. ed aver interessato qualcun altro dei miei 24 lettori, per cui metto un punto fermo ed annoto: satis est!




raffaele bracale

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 3°

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte terza

I - Parlà mazzecato Ad litteram:parlare masticato, profferir parole masticate id est parlare con reticenza; esprimersi con riluttanza, con vaghezza ed ambiguità sottacendo fattio situazioni anche importanti di cui pertimore o per colpevole menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza non si voglia far verbo come si comporterebbe chi parlasse tenenendo la bocca occupata da un boccone, per cui sarebbe costretto a non esprimersi con chiarezza e lo facesse quasi triturando le parole che risulterebbe non intellegibili, quasi sbocconcellate.
mazzecato = masticato, mordicchiato, triturato con i denti;
etimologicamente è il p.p. aggettivato dell’infinito mazzicare/mazzecare/mazzecà = mordere, masticare dal lat. tardo masticare→mazzicare, che è dal gr. mastichân, deriv. di mástax -akos 'bocca'.

L- Parlà ‘nfijura Ad litteram:parlare in figura, profferir parole figurate id est parlare non chiaramente, ma con tropi,allusioni, metafore esprimersi con circospezione e con vaghezza e ciò soprattutto in presenza di minori affrontando argomenti delicati. L’espressione a lato è una sorta d’invito rivolto ad adulti che si trovassero a parlare in presenza di minori di argomenti non consoni all’età di costoro; la medesima esortazione la si ritrova nell’espressione Mantenímmoce pulite, ca ce stanno 'e ccarte janche!
Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere.

‘M - Parlà a spaccastrómmole Ad litteram:parlare a spaccatrottole id est: esprimersi in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti, con la medesima sconclusionata foga d’eloquio di quei scugnizzi (monelli) che nel giuoco dello strummolo (trottolina lignea) quando avessero l’opportunità di sbreccare o addirittuta di spaccare la trottolina dell’avversario perdente si esaltavano al punto da profferire emozionate parole convulse e prive di senso buttate fuori a casaccio.
a spaccastrommole locuzione avverbiale modale formata dalla unione della preposizione semplice a ( dal lat. ab/ad secondo che indichi provenienza oppure destinazione o , come qui, modo) con l’agglutinazione della voce verbale spacca (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito spaccare/spaccà (dal longob. *spahhan 'fendere') con strommole pl. f,le metafonetico del sg. m.le strummolo.
Rammento che con il termine strúmmolo , nella parlata napoletana, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una sorta di trottolina di legno a forma di cono o piccola pigna con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella (talvolta addirittura impeciata per aumentarne resistenza e durata) che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strúmmolo , una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strúmmolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strúmmolo , tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strúmmolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strúmmolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale ultima onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strúmmolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strúmmolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strúmmolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strúmmolo rammentiamo un altro modo di dire: cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno, non con altro, che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strúmmolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strúmmolo scacato.
Nel giuoco dello strúmmolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e per incidens, rammenterò che da tale verbo deriva la parola scugnizzo) il proprio strúmmolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strúmmolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strúmmolo , se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strúmmolo protagonista di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritto per dritto dal greco strómbos che in primis indicò la grossa conchiglia di un mollusco gasteropodo dei mari caldi con conchiglia a spira ripetuta nel disegno delle scanalature della trottolina; lo strómbos greco trasmigrato nel latino fu stròmbus da cui con consueta assimilazione progressiva mb→mm si arrivò a strummus donde con il suffisso diminutivo olus,si ottiene strúmmolo con il suo esatto significato di trottolina.Rammento che il s.vo sg. strummolo è maschile, ma à un doppio plurale: l’uno m.le strummoli (usato ovviamente per indicare piú trottoline) l’altro f.le metafonetico strommole (usato sia per indicare piú trottoline e segnatamente nella locuzione a spaccastrommole sia per indicare per traslato divertito delle sesquipedali fandonie, delle sciocchezze madornali quali sono delle insulse parole o affermazioni appaiabili ad un giuoco come giuoco è lo strummolo.
(segue)
r.b.

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 2°

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte seconda

D-Parlà a schiovere
Ad litteram:parlare a vanvera, quasi a pioggia battente. Détto di chi, non avendo nulla di serio e costruttivo da comunicare, dà libero sfogo alla propria lingua ed a mo' di pioggia inonda il prossimo di vuote parole senza significato e/o costrutto , a ruota libera ed inopportunamente.
Preciso qui che il termine schiovere significa per solito: smettere di piovere, ma - in napoletano - spesso la prostesi di una S ad un termine à funzione intensiva e rafforzativa, non sottrattiva ed è il caso dello schiovere della locuzione qui annotata dove con l’anteporre la S alla parola chiovere (piovere) non si è inteso indicare la cessazione del fenomeno atmosferico, ma al contrario si è inteso aumentarne la portata! Il verbo chiovere è dal lat. tardo plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.)
.
E- Parlà sparo
Letteralmente: parlar dispari, caffo che sta per parlare offensivamente oltraggiosamente ed addirittura minacciosamente; semanticamente la cosa si spiega con il fatto che nel giuoco del paro e sparo (pari e dispari/caffo)sorta di morra in cui si deve indovinare se il numero totale delle dita che i giocatori apriranno sarà pari o dispari, il giocatore che partecipasse al gioco con il massimo dei numeri dispari da lui giocabili cioè il cinque,apriva completamente distendendolo il palmo della mano (in arabo kaff donde l’italiano caffo=dispari ) per mostrare appunto le cinque dita assumendo cioè una posizione quasi aggressiva come se volesse minacciare l’avversario di percuoterlo a mano aperta;per cui chi parlasse offensivamente, minacciosamente oltraggiosamente si disse che parlasse sparo come colui che distendendo interamente la mano giocasse un numero ( il cinque) dispari/caffo = sparo.
sparo agg.vo ed avverbio = dispari, in modo diverso, disuguale e per ampliamento semantico offensivo, oltraggioso, minaccioso etc. per l’etimo si deve risalire al lat. dis+pare(m)→(di)spare(m)→sparo, comp. di dis→s e par paris 'pari' cioè non pari .
F -Parlà sulo Ad litteram:parlar da solo, senza relazionarsi Détto di chi,accreditato d’essere folle o tendente alla pazzia venga isolato negandogli la possibilità di relazionarsi con gli altri e lo si costringa al vuoto ed inconferente soliloquio, al parlar da solo con se stesso che è proprio – per l’appunto – l’atteggiamento irrazionale di chi sia o faccia le viste d’esser pazzo, demente, folle, dissennato, squilibrato, forsennato, irragionevole, malato di mente, mentecatto.
Sulo agg.vo e talora anche avv. (sulo/sulamente) , ma qui aggettivo: isolato, senza compagnia,abbandonato, trascurato, accantonato, reietto, derelitto quanto all’etimo è dal lat. solu(m).

G- Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
Icastica espressione che ad litteram è: parlare con il(filo a) piombo ed il compasso id est: esprimersi ed agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e prudenza,non disgiunte da accortezza, circospezione, avvedutezza, ponderazione, avvertenza, precauzione e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili. L’atteggiamento fotografato dall’espressione a margine è proprio del prudente, spesso pusillanime e di chi sia cauto, accorto, attento, avveduto, giudizioso, previdente, oculato, riflessivo, ponderato, misurato, controllato, vigile, circospetto, guardingo.
chiummo s.vo neutro = piombo, ma qui filo a piombo
la voce è dal lat. plumbeu(m) con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plovere→chiovere – plaga→chiaja etc.);
cumpasso s.vo m.le = compasso, strumento formato da due aste collegate a cerniera, usato per disegnare circonferenze o misurare distanze;
la voce è un deverbale del lat. volg. *cumpassare, comp. di cum 'con' e un deriv. di passus 'passo' = mantenere il medesimo passo.
H- Parlà cu ‘o revettiello
Ad litteram:parlare con la ribattitura id est: parlare con doppiezza, esprimersi con equivocità, finzione, slealtà. Azione tipica di coloro - in ispecie donne -che malevole e per vigliaccheria non aduse ad esprimere apertamente il proprio pensiero, le proprie opinioni, parlano in maniera ostile, sfavorevole, animosa, astiosa, avversa, mai chiaramente ma per traslati, per sottintesi, per allusioni con la doppiezza richiamante il revetto o revettiello s.vi m.li (il secondo è un diminutivo del primo): doppia cucitura rinforzata posta agli orli di gonne e sottogonne per impedirne il logoramento; l’etimo è dal fr. rivet dal verbo river= ribadire, rafforzare.

(segue)
r.b.

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 1°

FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte prima
Per contentare il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di privatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome, per contentare, dicevo, l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò qui di sèguito di alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à.
Cominciamo con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne:
1) Parlà tosco
2) Parlà cu ‘o scio’-sciommo
3) Parlà giargianese/ggiaggianese
4) Parlà a schiovere
5) Parlà sparo
6) Parlà sulo
7) Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
8) Parlà cu ‘o revettiello
9) Parlà mazzecato
10) Parlà ‘nfijura
11) Parlà a spaccastrómmole

12)Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
13) Parlà assestato
14) Parlà chiatto e ttunno
15) Parlà a cocoricò
16) Parlà a scampule ‘e mele cotte
In coda ed in aggiunta all’analisi delle locuzioni modali or ora elencate dirò poi due icastiche espressioni che pur non essendo modali chiamano in causa il verbo parlare:
17)Nun farme parlà!
18) Jí a pparlà cu ‘o pato
Prima di soffermarmi sulle singole espressioni mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parlare/parlà (che etimologicamente deriva dal latino volg. *parabolare→par(abo)lare→parlare, deriv. di parabola 'parabola', poi 'discorso, parola' ); parlare è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per:
1 pronunciare parole; esprimere con parole pensieri o sentimenti: parlare a, con qualcuno; parlare con voce chiara, forte; parlare a voce alta, bassa; parlare lentamente, sottovoce; parlare col, nel naso, con voce nasale; parlare a fior di labbra, piano; parlare tra i denti, in modo indistinto; parlare da solo, fare un soliloquio; parlare tra sé (e sé), pronunciare qualche parola a voce bassissima, rivolgendosi a sé stesso, quasi per riassumere i propri pensieri; parlare stentatamente, con fatica, per debolezza fisica, per mancanza di prontezza o per scarsa conoscenza della lingua ' parlare in punta di forchetta, (fig.) con parole affettate, ricercate ' parlare chiaro, dire le cose come stanno ' parlare a vanvera, a caso, senza riflettere ' bada a come parli, modo per invitare qualcuno a non offendere, a misurare le parole ' con rispetto parlando, formula di scusa che si premette o si fa seguire immediatamente a un'espressione o a una parola non troppo conveniente ' parlare bene, male di qualcuno, con benevolenza, con malevolenza ' parlare a cuore aperto, col cuore in mano, (fig.) sinceramente e disinteressatamente ' parlare con qualcuno a quattrocchi, da solo a solo, senza testimoni ' parlare al muro, al vento, (fig.) inutilmente, a chi non vuole ascoltare | chi parla?, con chi parlo?, formule che si usano al telefono quando non si sa chi sia l'interlocutore
2 sostenere una conversazione; ragionare, discutere, dialogare: parlare di letteratura, d'arte, di politica; parlare del più e del meno, conversare di argomenti vari e poco importanti ' far parlare di sé, suscitare l'interesse, la discussione, i commenti della gente ' tutti ne parlano, si dice di fatto o persona che è oggetto di chiacchiere, di pettegolezzi oppure di discussioni, di interesse' la gente parla, mormora, fa pettegolezzi | senti chi parla!, si dice a persona che è la meno adatta a pronunciarsi su qualcosa ' non se ne parla neanche, si dice di cosa che non si vuole assolutamente fare ' non parliamone più, si dice per troncare una discussione, una lite ' non me ne parlare!, si dice a chi tocca argomenti penosi o delicati
3 tenere una lezione, una conferenza, un discorso pubblico: parlare al popolo; parlare in un comizio; parlare alla radio, alla televisione | parlare dal pulpito, (fig.) assumere un tono saccente e professorale ' parlare a braccio, improvvisando
4 (estens.) esprimere un pensiero, trattare di un argomento per iscritto; anche, esprimere pensieri o sentimenti con mezzi diversi dalla parola: tutti i giornali parlano del processo; l'autore parla in questo libro di due personaggi storici; parlare a gesti, con gli occhi; i muti parlano a segni
5 manifestare un'intenzione; far progetti riguardo a qualcosa: parlano di andare in Spagna; di quella legge si parla da dieci anni | non se ne parla più, si dice di un progetto ormai accantonato
6 rivelare segreti; confessare: l'imputato non si decide a parlare
7 (fig.) essere particolarmente espressivo; suscitare, ispirare sentimenti: occhi che parlano; musica che parla al cuore | luoghi che parlano di qualcosa, che la ricordano, che ne portano i segni | i fatti parlano, sono la prova eloquente di qualcosa
8 (fig.) manifestarsi attraverso fatti o parole: in lui è l'invidia che parla, che lo spinge a dire o a fare determinate cose; lasciar, far parlare la coscienza, la ragione, ascoltarne la voce, i suggerimenti ||| v. tr.
1 usare, per esprimersi, una determinata lingua; conoscere una lingua in modo da potersi esprimere correntemente: parlare russo (o il russo); parlare bene, male l'inglese | parlare ostrogoto, turco, arabo, (fig. fam.) esprimersi poco chiaramente, non farsi intendere
2 esprimersi in un certo modo, usare un determinato linguaggio: parlare un linguaggio franco, chiaro, oscuro
3 (lett.usato transitivamente) dire: possa... parlare alquante parole alla donna vostra ||
parlarsi v. rifl. rec.
1 rivolgersi reciprocamente la parola: si parlavano da un lato all'altro della strada
2 (antiq. pop.) amoreggiare
3 avere rapporti amichevoli, essere in buoni rapporti: dopo quel litigio non si parlano più
A- Parlà tosco
L’antica, desueta espressione napoletana a margine peraltro assente in tutti i numerosi repertorî napoletani antichi e moderni,in mio possesso ma viva e vegeta fino a tutti gli anni cinquanta del 1900 sulla bocca degli abitanti della città bassa partenopea fu usata in due diverse accezioni:
a) per significare un parlare eccessivamente forbito e ricercato che eccedesse una normale comprensibilità, come accadeva quando in un dialogo uno degli interlocutori invece di usare la comprensibile parlata locale, s’azzardava ad adoperare la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili; di costui si diceva che parlasse tosco dove con l’agg.vo tosco non si voleva intendere, con derivazione dal lat. tuscu(m), toscano , ma ci si riferiva ad altro agg.vo tosco quello che con derivazione dall'albanese toske, indica l’astruso linguaggio di una popolazione albanese di religione musulmana, stanziata a sud del fiume Shkumbi.Chi cioè parlasse non in napoletano, ma in un italiano forbito e rifinito veniva accreditato nell’immaginario popolare comune d’usare, quasi per certo a fini truffaldini, un linguaggio volutamente incomprensibile, simile appunto all’astruso linguaggio dialettale tosco di una popolazione albanese;
b) la seconda accezione del parlar tosco era riferita a chi, sempre a fini truffaldini fosse eccessivamente esoso nelle sue richieste di compenso per un lavoro fatto o da farsi; di costui si diceva che parlasse tosco non perché adoperasse la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili, ma perché, pur parlando magari in istretto napoletano,con parole chiare e comprensibili, fosse cosí esoso nelle sue richieste d’apparire disonesto o truffaldino se non addirittura ladro tale da sconsigliare di tener mercato con lui.
Quando poi un interlocutore non solo parlasse in italiano piú o meno forbito, ma sconfinasse nella lingua francese veniva accreditato di parlare cu ‘o scio’-sciommo;
B- parlare cu ‘o scio’-sciommo
è infatti un’espressione intraducibile ad litteram che viene ancóra usata per canzonare il risibile modo affettato e falsamente raffinato dell'incolto che pensando erroneamente di esprimersi in corretto toscano, in realtà si esprime in modo ridicolo e falso con un idioma che scimmiotta solamente la lingua di Dante, risultando spesso piú simile ad una lingua francese malamente appresa però, della quale vengon colti essenzialmente molti fonemi intesi come sci (←ch); da tale suono è stato tratto l’onomatopeico sciommo che reiterato nella prima parte (sciò) à dato lo scio’-sciommo inteso sostantivo neutro.
C-parlà giargianese/ggiaggianese
L’espressione in esame si avvale di una vecchia parola (fine 19° sec) che quasi sparita nel corso del tempo, ricomparve d’improvviso, negli anni ’40 del 1900, sia pure leggermente modificata quanto alla morfologia , ma non nel significato; la parola in esame è giaggianese (che piú opportunamente in corretto napoletano andrebbe scritta con la geminazione iniziale: ggiaggianese), voce che poi divenne giargianese parola che nel significato estensivo di imbroglione ed in quello primo di straniero dal linguaggio incomprensibile si ritrovò e talvolta si ritrova ancóra nel salentino: giaggianese, nel pugliese: giargianaise e qui e lí in molti altri linguaggi centro-meridionali dove è: gjargianese, gjorgenese.
12) L’originaria voce ggiaggianése fu coniata sul finire del 19° sec., modellata per corruzione sul termine viggianese e fu usata per indicare alternativamente o taluni caratteristici suonatori ambulanti, o déi piccoli commercianti lucani che arrivavano alle latitudini centro-meridionali per acquistare uve e/o mosto semilavorato; di tali piccoli commercianti e/o suonatori solo una piccola parte provenivano effettivamente da Viggiano centro in prov. di Potenza, ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto comprensibile si finí per considerarli tutti viggianesi e dunque ggiaggianise/i plur. metafonetico di ggiaggianese; fu cosí che con il termine ggiaggianese si indicarono tutti gli stranieri che non parlassero un linguaggio noto o comprensibile; va da sé che poiché, nell’inteso partenopeo, chi non parla in modo chiaro e comprensibile lo fa per voler imbrogliare, ecco che ggiaggianese estensivamente indicò l’imbroglione pericoloso ed in tali accezioni ( suonatore ambulante, commerciante, straniero incomprensibile, imbroglione) la voce fu usata a lungo nel parlato comune; a mano a mano poi quasi per naturale consunzione essa sparí dall’uso e non se ne ritrova memoria neppure nei calepini piú o meno noti od usati ( che ànno il torto d’essere compilati basandosi esclusivamente sugli scritti dei classici che mai presero in considerazione la voce di cui tratto). Come d’incanto la voce riapparve nell’uso del parlato comune intorno agli anni ’40 del 1900, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. sciamarono le truppe alleate che parlavano un linguaggio incomprensibile, ad un dipresso un linguaggio tale (per non essere intellegibile facilmente) da potersi appaiare a quello tipico dei ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di ammodernamento, allorché (come nel 1961, con felice intuizione chiarí il grandissimo prof. Rohlfs ) accostando a ggiaggianese il nome proprio George usatissimo fra gli alleati si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni surriportate.
(segue)
r.b.

lunedì 30 agosto 2010

VARIE 794

1 -Turnà 'a stima a quaccuno
Ad litteram: render la stima a qualcuno; id est: riconfermare la fiducia o anche il rispetto a qualcuno cui, per errore o transeunti, futili motivi erano stati tolti.
2 -Una ne fa e cciento ne penza
Ad litteram: una ne fa e cento ne progetta Locuzione che fotografa il comportamento iperattivo di chi si dedichi , ma non si sa con quanto successo, a troppe iniziative di varia portata; la locuzione è usata altresí per stigmatizzare,anche se bonariamente, la ipercinecità di un ragazzo attivamente impegnato a fare innumerevoli marachelle.
3 - Uocchie chine e mane vacante
Ad litteram: occhi pieni e mani vuote; cosí si suole dire di chi, o per suo demerito o per sopravvenute contrarietà insormontabili, non riesce a raggiungere il risultato sperato e resti a bocca asciutta o mani vuote e si debba contentare di veder prossimo il risultato sperato, senza però avere la capacità o possibilità di toccarlo con le mani ossia
realizzarlo; in chiave piú becera, ma simpatica la locuzione fu usata per stigmatizzare la situazione di chi, attratto da procaci, provocatorie rotondità femminili si doveva contentare di guardare, senza poter toccar con mano e quindi senza potersi regolare nel modo ricordato altrove.
4 -Uocchie 'nfronte nun ne tiene?
Ad litteram: occhi sulla fonte non ne ài? Icastica ed ironica domanda retorica che si suole rivolgere, per redarguirlo, a chi colpevolmente distratto o disattento sia incorso in errori che si ritenga siano stati provocati dal fatto che egli non abbia esattamente guardato o badato a ciò che faceva, quasi non fosse munito di occhi.
5 -Uh, anema d''e piere 'e puorche!
Locuzione esclamativa intraducibile ad litteram atteso che è impossibile che le zampe di un maiale abbiano quell'anima che iperbolicamente, ma erroneamente, nella locuzione viene chiamata in causa;
il senso celato della locuzione è: che esagerazione!, cosa mi vai raccontando?, è incredibile ciò che mi dici!, come incredibile sarebbe un maiale provvisto nelle zampe o altrove di anima.
6 -Uocchie sicche
Ad litteram:occhi seccati, o - meglio - seccanti,cioè: occhi capaci di seccar, prosciugare(ossia arrecar danno) coloro contro cui vengon rivolti. Cosí, come in epigrafe, vengono chiamati i menagramo, gli jettatori, tutti coloro che con i loro sguardi sono ritenuti capaci di grandemente danneggiare qualcuno, non con azioni proditorie, ma semplicemente guardandolo.
7 -Uso nun mettere e uso nun levà
Ad litteram: non creare (nuove) abitudini e non toglierne; id est: lascia stare il mondo cosí com'è; non impegnarti a tentare di cambiarlo introducendo nuove abitudini che specialmente se si concretano in liberalità, omaggi e donativi nei confronti di terzi, diventano con il trascorrere del tempo eccessivamente onerosi e difficili se non impossibile toglier via; la cosa vale anche quando si trattasse di togliere inveterate abitudini; il tentativo di estirparle potrebbe ingenerare malumori nei terzi che vedendo eliminati o lesi alcuni pregressi privilegi potrebbero ribellarsi anche violentemente.
8 -Uh, ssevere 'e pazze !
Esclamazione impossibile da tradurre ad litteram che viene pronunciata nell'osservare situazioni o accadimenti ritenuti cosí strani ed improbabili da destare gran meraviglia, stupore e/o rabbia, nell'intento di sottolineare che quelle situazioni o accadimenti son cose da matti, quasi incredibili.
Strana locuzione quella in epigrafe dove con ogni probabilità il termine ssevere è corruzione dell'espressione francese: c'est vrai ( de foux) (è veramente da folli); la stranezza della espressione napoletana consiste nel fatto che ci si è limitati nella sua formulazione, alla sola corruzione della prima parte di quella francese: c'est vrai, completandola con il termine toscano: pazzi esatta traduzione del francese foux.
9 - Va' fà 'e ppezze
Ad litteram: vai a raccattare cenci.
Eufemistica espressione usata in luogo di altra piú corposa anche se becera, che qui di seguito illustrerò, per invitare un importuno, fastidioso individuo a liberarci della sua sgradita presenza, ed andare a raccattare cenci.
10 -Va' fà 'nculo ma meglio vallo a piglià 'nculo
Superfluo tradurre questi conosciutissimi modi di rendere l'italiano: va' a quel paese!La variante è sí piú becera, ma quanto piú corposa, esplicita e dura, atteso che colui cui è rivolta la locuzione è invitato a tenere nell'ipotetico rapporto sodomitico la posizione soccombente, non quella attiva prevista dalla prima locuzione; ambedue però, come quella del num. precedente, si rivolgono ad un importuno, fastidioso soggetto, invitato qui a dedicare il suo tempo ad altre attività che non quella di infastidirci.
11 -Va' te cocca
Ad litteram: va' a coricarti Altro modo di invitare qualcuno a togliersi di torno, ad andar via, a sparire per non importunarci o tediarci. Qui con modi piú contenuti e gentili rispetto a quelli dei numeri precedenti, lo si vuol convincere di liberarci della sua presenza, andandosene a dormire. Talvolta però, atteso che per coricarsi occorre stendersi su di un letto, con la locuzione in epigrafe si adombra il pessimo desiderio che il soggetto contro cui è rivolta debba giacere definitivamente disteso!
12 -Vatte a ffà fottere
Ad litteram: va' a farti possedere Ma è il medesimo perentorio invito a farsi sodomizzare - sia pure metaforicamente - contenuto nella variante di cui precedentemente.
13 -Vedé 'a morte cu ll'uocchie
Ad litteram: vedere la morte con gli occhi ; e sarebbe sciocco ed inopportuno chiedere: e con che altro si può vedere?, atteso che il napoletano è ricchissimo di simili tautologie, come appunto:'a vista 'e ll'uocchie, puorto 'e mare, palazzo 'e case, etc. tutte però necessarie a quel tipico barocchismo dell'eloquio partenopeo.La locuzione si usa per riferire di essersi trovati in situazioni di vita di relazione o di salute cosí gravi e/o pericolose da vedere la morte in viso e di esserne fortunatamente venuti fuori tanto da raccontarne.
14 -Vedé comme se mettono 'e ccose
Ad litteram: vedere come evolvono le cose; id est: mettersi in prudente attesa, vagliare e soppesare le situazioni e decidersi all'azione solo quando ci si sia resi ben conto di quali pieghe posson prendere o stanno prendendo le faccende che ci occupano
15 -Vedersene bbene
Locuzione, impossibile da tradurre alla lettera, dalla doppia valenza: in primis: profittare di ciò che ci venga messo a nostra disposizione, godendone ampiamente, senza remore o misura; con altra valenza la locuzione è usata per indicare il franco, disinibito comportamento di chi apertamente affronti qualcuno e gli dica a muso duro tutto il fatto suo, senza scrupoli e/o timori reverenziali.
16 -Vederse pigliato da 'e turche
Ad litteram: vedersi preso dai Turchi Id est: Essere assalito da grande timore e disperazione , trovandosi in situazioni pericolose o cosí ingarbugliate e contorte da non poterne venire fuori, come temporibus illis dovevano trovarsi i rivieraschi assaliti continuamente da quei pirati saraceni, tutti ritenuti e detti Turchi adusi alle piú efferate violenze.
17 -Vení frisco frisco
Ad litteram: giungere fresco fresco; detto di chi con tranquilla faccia tosta si presenti ed entri nel merito di un accadimento già da gran tempo avviato ed in corso e senza dimostrare di essersi impegnato per parteciparvi o di avere conclamate capacità organizzative o risolutive, voglia imporre il proprio punto di vista a dispetto di quanti stiano da gran tempo e con grande impegno lavorando al progetto de quo.
18 -Vení frisco e d''a grotta.
Ad litteram: giunger fresco e dalla grotta; locuzione simile alla precedente con l'aggravante qui che il soggetto cui si riferisce avrebbe dovuto concorrere all'accadimento in questione ed invece se ne è a lungo disinteressato, per presentarsi a reclamare il proprio utile a giuochi fatti, quando le asperità sono state affrontate e livellate da altri.
L'immagine della locuzione ripete quella del cocomero che arriva in tavola solo a fine pasto dopo essere stato tenuto al fresco artificiale del ghiaccio o a quello naturale d'una cantina.
19 -Vencere 'o punto
Ad litteram: vincere il punto; id est: riuscire, in un contrasto, a far prevalere il proprio punto di vista, affermandolo e mantenendolo quasi che esso fosse un premio da conseguire.
20 -Vení o scennere d''a muntagna
Ad litteram: venire o scendere dalla montagna; Detto di chi sia ritenuto sciocco, stupido e credulone, nella erronea convinzione che coloro che vivono in luoghi impervii ed appartati siano, nel confronto con i cittadini cosí corrivi, sempliciotti e creduloni da poterli facilmente circuire ed imbrogliare.
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VARIE 793

1 -Te pareva!
Locuzione esclamativa che non va tradotta pedissequamente ad litteram: ti sembrava!, non avendo cosí alcun significato, ma che deve intendersi nel senso di: Siamo alle solite!, Me lo aspettavo!, Ci risiamo!, Non poteva mancare! e viene usata con un senso di risentito rammarico o da chi sia inopinatamente coinvolto in faccende temute che à cercato invano di evitare; o anche da chi debba, con dispiacere, notare che il comportamento tenuto da qualcuno nei suoi riguardi sia monotonamente , reiteratamente, prevaricante e deleterio e non si discosti mai da tale pessima linea di condotta.
2 -Te sî ffatto ‘e sorde?!
Ad litteram: ài fatto soldi?! Id est: ti sei arricchito?! Domanda retorica pronunciata nei confronti di chi, normalmente sodale con qualcuno, abbia fatto perdere le proprie tracce e si sia fatto rivedere solo dopo lungo tempo, facendo quasi sospettare di essere stato baciato dalla fortuna, ma non volendola condividere con i vecchi amici si sia reso irreperibile per parecchio tempo.
3 -Tieneme ca me tengo
Ad litteram: Règgimi, ché mi reggerò Locuzione usata per sarcasticamente descrivere il pessimo stato di salute di qualcuno, cosí debole e male in arnese che solo se retto da un soccorritore potrà reggersi in piedi.
4 - Tinco tinco specie nella locuzione venirsene tinco tinco
Modo di dire che è impossibile tradurre ad litteram, non esistendo un vocabolo preciso in italiano che ne indichi il significato.
Rammenterò qui che il napoletano non conosce il superlativo assoluto e lo rende con l'iterazione dell'aggettivo di grado positivo; ciò premesso dirò che la locuzione è usata per descrivere il comportamento pronto e sollecito, sebbene imperturbabile di chi, senza darlo a vedere o ad intendere persegue scaltramente uno scopo che si sia prefissato .
5 -Tirà 'o capo 'nterra
Ad litteram: tirare il capo a terra Detto con riferimento alla decisa attività di chi riesca a portare al termine positivamente un affare, a chi solertemente consegua un risultato, con linguaggio mutuato dai fabbricanti di cordame che per saggiare la consistenza di una fune fabbricata dovevano legarne un capo al muro ed ispezionare la corda procedendo a mo' di gambero; è chiaro che per potere fare tutto ciò dovevano prima reperire il capo della matassa .
6 -Tirà 'a recchia
Ad litteram: tirare l'orecchio ma il padiglione auricolare non c'entra nulla; la locuzione è un simpatico modo di dire per intendere: giocare a carte, con riferimento al noto tipico movimento che compiono le mani per spizzicare le carte tenute con una mano, mentre con l'altra si stropicciano l'una contro l'altra stringendone l'angolo superiore , per solito, destro e soffregandolo contro il similare di un' altra carta, tenuta sotto, per scoprire lentamente il seme ed il valore della carta nascosta; la posizione dell'angolo fa pensare quasi che si tratti di un metaforico orecchio della carta da giuoco.
7 -Tira a campà!
Ad litteram: continua a vivere! Invito perentorio ad andare avanti, senza mollare, procedendo per la strada intrapresa, senza lasciarsi condizionare né dalle persone, né da imprevisti accadimenti ostativi, senza dar peso a nulla e non ostante tutto, senza fermarsi.
8 -Tirarse 'a cazetta
Ad litteram: tirar su la calza Id est: estraniarsi da una vicenda, star sulle proprie, disinteressandosi di ciò che avviene attorno; ma anche: lasciarsi molto pregare o attendere prima di concedere alcunché; la locuzione richiama l'abitudine che avevano le iberiche persone di medio-alto rango che negli anni del 17° secolo, erano usi indossare lunghe calze di seta, e per distinguersi da quelli di piú basso ceto, che indossavano calze corte o cadenti, usavano tirarle continuamente verso il ginocchio. Tali altolocati personaggi erano quelli che, per abitudine evitavano di interessarsi a ciò che accedeva intorno a loro sia per non lasciarsi coinvolgere sia per non esser fatti destinatari di richieste o aiuti ai quali - comunque - avrebbero provveduto solo dopo molte preghiere.
9 -Trica e vene pesante
Ad litteram: Ritarda, ma giungerà pesante; ottimistica locuzione usata per rincuorare o assicurare qualcuno impegnato in un'operazione apparentemente lunga ed inconferente, rammentandogli che, sí: l'attesa sarà lunga e sofferta, ma - quasi certamente - il risultato sarà importante e sostanzioso, per cui non bisogna perdersi d'animo ed insistere nell'operato.
10 -Trasí 'e spichetto
Ad litteram: entrare di straforo; id est: entrare alla chetichella, per il rotto della cuffia, obliquamente; per estensione: godere immeritatamente di un qualche beneficio; lo spichetto in realtà è un ritaglio di stoffa tagliato obliquamente in forma triangolare ed inserito nei margini di un taglio per consentire uno slargamento dell'indumento cui venga applicato;per traslato sta ad indicare lo straforo della traduzione.
11 -Truvà 'a forma d''a scarpa soja
Ad litteram: trovare la forma della (propria) scarpa id est: imbattersi in qualcuno fatto come noi e perciò capace di contrastarci adeguatamente, rendendoci pan per focaccia, mettendoci un freno e magari riducendoci al silenzio atteso che costui abbia la nostra medesima conformazione, anzi iperbolicamente sia titolare di quella forma su cui è stata impiantata la nostra scarpa, ossia il nostro modo di essere.
12 -Trasí dint' â scazzetta d''o parrucchiano
Ad litteram:entrare nello zucchetto del prevosto; id est: ficcare il naso in faccende altrui che non dovrebbero riguardare, tentare di por bocca nelle questioni riservate degli affari non di nostra competenza, come non ci dovrebbe riguardare cosa nasconda lo zucchetto del sacerdote.
13 -Tu me cieche e i' te foco nella locuzione facimmo tu me cieche e io te foco.
Ad litteram: Tu mi accechi ed io ti strangolo nella locuzione facciamotu mi accechi ed io ti strangolo.
Espressione usata, in ispecie con la locuzione indicata, per indicare che si intende rispondere per le rime ad ogni azione ricevuta, ricambiando male con male, cattiveria con cattiveria, al segno che i rapporti derivanti saranno di lotta perenne, atteso che nessuno dei contendenti à in animo di voler recedere e di sopportare un torto subíto ; la locuzione un tempo era normalmente usata a sapido commento dei rapporti turbolenti dei ragazzi di casa in perenne contrasto tra di loro.
14 -Turnà a coppe
Ad litteram: tornare a coppe id est: ribadire continuamente ed ostinatamente i medesimi concetti, ritornare impudentemente sui medesimi argomenti, già abbondandemente trattati e sceverati e farlo quindi inutilmente se non irritantemente. Modo di dire richiamante una ipotetica fase del giuoco del tressette, allorché un cattivo giocatore, contravvenendo i desideri del compagno, ritornasse erroneamente a mettere in tavola il seme di coppe.Difficile, se non impossibile stabilire perché, dei quattro possibili: denari, spade, coppe e bastoni, per il modo di dire in epigrafe si sia scelto il seme di coppe; azzardo l'ipotesi, sulla quale però non son disposto a giurare, che sia avvenuto per un inconscio richiamo al manuale del giuoco del tressette scritto in latino maccheronico e napoletano arcaico da un giocatore del 1700, tale Chitarrella, il quale ebbe a scrivere: si nun tiene che ghiucà, joca coppe(se non ài di che giocare, gioca coppe) ammantando di immeritata importanza il seme ricordato; ma è solo un'ipotesi che per quanto probabile, non è avvalorata da alcun riscontro storico.
15 -Tu nun cuse, nun file e nun tiesse: tanta gliuommere 'a do' t''e ccacce?
Ad litteram: Tu non cuci, non fili, né tessi, tanti gomitili da dove li tiri fuori?
E' questa l'ironica e chiaramente retorica domanda che si suole rivolgere a chi, notoriamente non occupato a fare oneste attività produttive, sia improvvisamente ed inspiegabilmente pervenuto ad accumulare ingenti quantità di danaro; lo gliummero della locuzione, normalmente - con derivazione dal lat. glomere(m) - significa gomitolo , ma talvolta sta per peculio, ed in particolare per una somma pari a ca. cento ducati d'argento che poteva esser messa insieme, senza lavorare , solo truffaldinamente.
16 -Tutto a Giesú e niente a Maria
Ad litteram: Tutto a Gesú e niente a Maria Cosí si suole stigmatizzare l'errato comportamento di chi, per mere simpatie, non supportate - per altro - da alcuna ragione, prediliga e privilegi qualcuno, a discapito di altri ugualmenti meritevoli di stima ed attenzione. Con la frase in epigrafe un anziano prevosto ebbe a redarguire il suo sacrista che, comandato ad addobbare gli altari dedicati al Cristo ed alla Vergine, riempí di fiori e ceri quello del Salvatore e lesinò gli addobbi a quello di Maria Ss.
17 -Tròvate chiuso e pierdete chist'accunto
Ad litteram:tròvati ad esser chiuso e perditi questo cliente.
Sarcastica locuzione che viene usata per significare la deprecabile situazione in cui si venga a trovare chi debba contrattare con cose o piú spesso persone fastidiose, noiose se non cattive e prevaricanti comeironicamente si afferma di un commerciante che inopinatamente si trovi a tener chiuso l'esercizio e non possa servire un avventore che in realtà risulta essere cattivo pagatore ed incontentabile, avventore che la locuzione lascia intendere che sarebbe piú opportuno perdere che trovare. Accunto = cliente (dal lat. ad-cognitu(m)→accognitu→accunto (conosciuto, noto come è ogni assiduo frequentatore di un esercizio commerciale).
18 -Tutt''o stuorto, s''o pporta 'a zappa
Ad litteram:Tutto l'irregolare viene portato via dalla zappa ; id est: il lavoro appiana le deformità, pone rimedio all'errato; per estensione: l'impegno attento e costante fa superare ogni difficoltà, come il taglio della zappa appiana le asperità del terreno.
19 -Tutte 'e cane pisciano 'nfacci' ô muro
Ad litteram: Tutti i cani mingono sul muro; id est: allorché un atteggiamento, anche se errato o riprovevole , sia tenuto da tutti quanti finisce per esser considerato giusto ed accettabile; locuzione che in maniera icastica rende a suo modo l'antico brocardo latino: error communis facit jus (l'errore comune diventa legge).
20 -Tomo tomo
Locuzione avverbiale che pur partendo da un aggettivo di grado positivo, nell'evidente iterazione non intende configurare, come invece nel caso di tinco tinco, un superlativo, ma solo ribadire fortemente un concetto e coè la subdola flemma di chi con apparente noncuranza e studiata seriosità mira ad un preciso scopo, senza volerlo far capire. Spesso la locuzione in epigrafe si accompagna allo scopo di aumentarne la portata a quella di cacchio, cacchio.
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VARIE 792

1 - Storta va, deritta vène
Ad litteram:va storto, ma viene dritto id est: parte negativamente, ma si conclude positivamente; locuzione emblematica di una filosofia ottimistica con cui si afferma la certezza, o almeno la speranza, che le cose principiate in modo errato o che sembrano procedere distortamente, si concluderanno in maniera esatta e conferente.
2 - Stuorto o muorto
Ad litteram: storto o morto Modo di dire riferito ad una azione condotta in porto alla bell'e meglio o alla meno peggio sia pure con impegno e sacrificio.
3- Strujere 'e pprete
Ad litteram: consumare le pietre Riferito al comportamento di chi tenga diuturnamente a piedi sempre il medesimo percorso e ne consumi quasi le pietre; per traslato e sarcasticamente riferito a chi perda accidiosamente il suo tempo, inutilmente bighellonando per istrada.
Tale comportamento viene altresí indicato con la locuzione: jí 'ncasanno 'e vasule (andar pestando le pietre di copertura della strada).
4 -Sunnarse 'o tramme elettrico
Ad litteram: sognare il tram (a motore) elettrico id est: fantasticare, fare castelli in aria illudendosi di poter raggiungere un improbabile traguardo. Locuzione nata quando ancora le vetture tramviarie erano mosse dai cavalli e la sperata elettrificazione del motore era di là da venire.
5 - Sunà 'o pianefforte
Ad litteram:suonare il pianoforte ma il riferimento del modo di dire non riguarda lo strumento musicale; attiene invece alla leggerezza di mano dei borseggiatori che le usano con lieve maestria simile a quella dei suonatori di piano.
6 -T''a faje cu ll'ova 'a trippa.
Ad litteram: Te la fai con le uova la trippa Cosí, con ironia e sarcasmo , si usa rivolgersi a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua ingrata necessità di adoperarsi per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato; come se si volesse consigliare chi fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, a renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova.
7 - T''a faje fritta cu 'a menta
Ad litteram: te la fai fritta con la menta Cosí ironicamente si suole dire di tutte le cose ritenute inutili e di cui, conseguenzialmente non si sa cosa farsene.Semanticamente l’espressione si spiega col fatto che la frittura addizionata di menta è riservata a taluni ortaggi ( zucca e zucchine) di per sé senza molto sapore, quasi inutili.
8 -Taglià 'a recchia a Marco
Ad litteram: tagliare l'orecchio a Marco. Si dice che sia adatto a tagliare l'orecchio a Marco quel coltello che avendo perduto il filo del taglio non è piú adatto alla bisogna; per estensione la locuzione è usata ironicamente in riferimento ad ogni oggetto che abbia perduto la sua capacità iniziale di esatta, determinata destinazione.
Il Marco dell'epigrafe in realtà è corruzione del nome Malco servo del sommo sacerdote cui san Pietro, nell'orto degli ulivi, intervenendo in difesa di Cristo, recise un orecchio, che però il Signore immediatamente risanò; tradizione vuole che da quel momento il coltello usato da san Pietro non fu piú in grado di tagliare alcunché.
9 -Taglià 'e panne 'ncuollo
Ad litteram: recidere i panni addosso id est: sparlare di qualcuno, e farlo protervamente e lungamente quasi metaforicamente mettendolo a nudo con il taglio degli abiti da colui indossati.
10 - Tanno pe tanno
Ad litteram: allora per allora, lí per lí; locuzione temporale usata per indicare l'immediatezza di un accadimento che si verifica con estrema contemporaneità rispetto ad un altro o - nel caso di un ordine - quando venga eseguito senza por tempo in mezzo. L’avverbio tanno è dal lat. tande(m)con normale assimilazione nd→nn.
11 -Tené 'a bbotta dint' â scella
Ad litteram: avere un colpo nell'ala Locuzione usata per sarcasticamente commentare il comportamento di chi tenti disperatamente di dissimulare o tener nascosta una colpa o magagna a lui attribuibili; di costui, costretto ad arrangiarsi per non far scoprire quanto tenga noscosto, si dice che tene 'a bbotta dint' â scella (à un colpo nell'ala) si comporti cioè quasi come un uccello che, ferito ad un ala, è costretto a ricorrere alle piú strane posizioni e circonvoluzioni per continuare a volare.
12 -Tené 'a capa a ppazzia
Ad litteram: tenere la testa al giuoco. Detto di chi, contrariamente a quanto ipotizzabile dati la sua congrua età ed il suo status sociale, si mostri eccessivamente incline al giuoco, prendendo tutto a scherzo, non dimostrando serietà alcuna né nel lavoro, né nei rapporti interpersonali.
13 -Tené 'a capa a tre asse
Ad litteram: tenere la testa a tre assi id est: essere nervoso e preoccupato; locuzione mutuata dal giuoco del tressette dove un giocatore in possesso di tre assi,che valgono ciascuno un punto intero, sebbene ipoteticamente possa conquistare i relativi tre punti, in realtà si preoccupa, non essendo certo che potrà raggiungere lo scopo atteso che gli assi possono venir facilmente catturati dall'avversario che sia in possesso del due o del tre del medesimo seme degli assi; il due ed il tre infatti, sebbene valgano un terzo di punto ciascuno, sono nella scala gerarchica delle prese superiori all'asso e possono catturarlo.
14 -Tené 'a capa a vviento
Ad litteram: tenere la testa nel vento id est: essere una banderuola, un essere poco affidabile e/o raccomandabile.
15 - Tené 'a capa fresca
Ad litteram: tenere la testa fresca id est: non coltivare pensieri serii, anzi - al contrario - essere occupato solo da fandonie, quisquilie, scherzi e futilità cose tutte che, lasciando la mente sgombra di preoccupazioni, tengono la testa fresca, al contrario dei pensieri serii che, altrove, si dice fanno cocere 'o fronte (fanno scottar la fronte).
16 -Tené 'a capa 'e provola
Ad litteram: tenere la testa di provola Détto di chi abbia la testa bernoccoluta, con la tipica protuberanza della provola gustoso formaggio fresco, dalla caratteristica forma; al di là però del riferimento alla forma del latticino, la locuzione è usata anche per significare che colui che à la testa di provola non è particolarmente intelligente e manca perciò di sale cosí come la suddetta provola, che pur essendo piú gustosa della mozzarella da cui è ricavata, non essendo un formaggio stagionato, è piuttosto sciapito.
17 -Tené 'a capa gluriosa
Ad litteram: tenere la testa gloriosa Si dice cosí di chi sia incline ad improvvisazioni assurde, astruse trovate, soluzioni ardite quando non pericolose, espedienti improvvisati.
18 - Tené 'a capa sciacqua.
Ad litteram: tenere la testa annacquata. Si dice cosí, offensivamente , ma anche solo causticamente di chi si ritenga non abbia la testa a posto, e sia dotato di minime qualità intellettive quasi che nella testa abbia non il cervello, ma dell' acqua .
19 -Tené 'a capa pe spartere 'e rrecchie
Ad litteram: tenere la testa per dividere le orecchie Locuzione di valenza molto simile alla precedente riservata a coloro che inveteratamente sciocchi, stupidi ed incapaci si ritenga che abbiano la testa - priva di cervello e dunque di raziocinio -solo, iperbolicamente, come elemento necessario alla separazione delle orecchie.
20 -Tené 'a capa tosta
Ad litteram: tenere la testa dura id est: esser caparbio, cocciuto, ma anche: ben fermo nelle proprie opinioni; estensivamente, poi: esser duro di comprendonio, tardo all'apprendimento.
21 -Tené 'a cazzimma
Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile.
Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo:
d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe.
22 -Tené 'a cimma 'e scerocco
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
23 -Tené 'e cazze ca ce abballano pe capa
Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini.
24 -Tené 'a magnatora vascia
Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica e comportarsi conseguentemente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese.
25 -Tené 'a neve dint' â sacca
Ad litteram: tenere la neve in tasca Detto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente la meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca.
brak

1° GIORNATA NAPOLI – FIORENTINA 1 - 1

1° GIORNATA NAPOLI – FIORENTINA 1 - 1
Doje parole ‘ncopp’ ‘a primma jurnata
‘O campionato nun puteva accummincià meglio…’A juventús à perduto! Me so’ arrecriato! Mannasse ‘na pareglia ‘e casecavalle a Vventura e a tutto ‘o Bbari, p’ ‘o rialo ca m’à fatto ‘e mazzulià ‘a vecchia zoccola janca e nnera! Alleluja, alleluja,alleluja!
Quanto a Quagliarella, à avuto tre ppalle bbone e ll’à sbagliate tutt’ ‘e tre! Vulite vedé ca âmmo ammullato â
juventùs ‘nu ddio ‘e pacco?!
Venimmo ô Napule:sí, penzo proprio ca âmmo truvato 'o centravanti: Cavani! Epperò n’ata ponta bbona ce vo’; Lucarelli (guallera a pparte) quanno è trasuto, ‘e primme dduje intervente so’ state dduje falle e p’ ‘o riesto à aizato póvera. Comunque'o prublema overo rummane chillo d' 'a difesa: nun è possibbile jucà cu 'nu centrale ca joca sistematicamente ê spalle d' 'o centravante e nun è ccacchio maje d'anticiparlo nè 'e capa, nè 'e piere... e s'è visto ajere: Cannavaro faceva 'o francobollo ê spalle 'e Gilardino e ll'à dato 'a pussibbilità e devià 'e pietto 'o pallone verzo D'Agostino ca po à futtuto a De Sanctis...Ora mo è overo ca 'o gollo nuosto era miezo appezzuttato, ma visto ca ce ll'avevano dato pecché perdere 'accasione 'e vencere 'a partita?
N'atu prubblema è 'mmiez' ô campo; sperammo ca torna súbbeto Pazienza mentre aspettammo 'stu Principito, pecché cu Blasi lla 'mmiezo nun è proprio cosa: è 'nu scarparo cu 'e piede dint’ê fforme! Ajere à sbagliato Mazzarri ca appena ‘o scarparo era stato ammunito ‘a primma vota, ll'avev' 'a levà súbbweto, spustà Campagnaro cchiù annante e fà trasì Grava 'ndifesa! P’o riesto po ‘a partita ll’avevam’ ‘a chiudere ô primmo tempo quanno tenevamo ancòra ‘a forza e ll’avevam’ ‘a cuntené ô secondo tempo; pe fa chesto però Lavezzi e Marekiaro avevan’ ‘a fà coccosa ‘e cchiú, e nun ll’annu fatto! ‘Ncuncrusionecomunque dicimmo ca è gghiuto bbuono accussí; nun era facile a Ffirenze soprattutto doppo d’avé jucato ggiovedí, alla fine se so’ viste ‘e cosce mosce! Cu quacche ato bbuono acquisto putessemmo arrivà luntano: ce servono comme ô ppane jucature ‘e ricambio (visto ca chille ca tenevamo se ll’annu vennute a ttutte quante!...) pe puté affruntà tutte ‘e cumpetizzione.
FORZA NAPOLI – CIUCCIO FA’TU E maledizzione â juventús!
Brak

CODARDO, PAUROSO & dintorni

CODARDO, PAUROSO & dintorni

Questa volta per tener dietro al suggerimento/richiesta dell’amico E. V. amico di cui al solito (per questione di privatezza) mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome, prenderò in esame le voci italiane in epigrafe, altre omologhe, quelle collegate e le corrispondenti del napoletano.
Cominciamo con
codardo/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le
1 che fugge i pericoli e viene meno ai suoi doveri: un soldato codardo
2 che denota o nasce da viltà, pusillanimità: comportamento codardo
come s. m. [f. -a] persona codarda, che manca di coraggio;
etimologicamente è voce dal fr. ant. couard 'con la coda bassa', deriv. di cou 'coda';
fifone/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le
1 si dice di persona pusillanime: un ragazzo fifone; è un gran fifone.
2 spreg. o scherz. – persona molto paurosa: tua sorella è una fifona;
etimologicamente è voce denominale di fifa (= paura,voce del gergo militare, di origine settentrionalePiemonte/Lombardia probabilmente modellata sullo spagnolo fofa= molle);

pauroso/a, agg.vo m.le o f.le
1 che abitualmente à paura, anche senza motivo: una bambina paurosa | spaventato/a, impaurito/a: se ne stava tutto pauroso in un angolo
2 che incute paura: uno spettacolo pauroso | che desta profonda impressione per la sua gravità: un pauroso incidente
3 (fam.) straordinario, fuori del comune: à una cultura paurosa
etimologicamente è voce denominale di paura che è adattamento del lat. pavore(m) 'timore';
pavido/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le di uso letterario
che, chi è pieno di paura; codardo: soldati pavidi; etimologicamente è voce dal lat. pavidu(m), deriv. di pavíre 'temere';
pusillanime, agg.vo e s.vo m.le e f.le
si dice di chi è d'animo debole, meschino, pauroso, o di ciò che denota viltà, mancanza di coraggio e di forza d'animo: un uomo, un combattente pusillanime; comportamento pusillanime; una ragazza pusillanime;
come s. m. e f. persona pusillanime.
etimologicamente è voce dal lat. tardo pusillanime(m), comp. di pusillus 'meschino' e animus 'animo';

timoroso/a, agg.vo m.le o f.le
che è pieno di timore: uno sguardo timoroso; la bambina avanzò tutta timorosa;
ansioso/a, preoccupato/a, dubbioso/a, incerto/a, titubante; etimologicamente è voce denominale del lat. timore(m), deriv. di timíre 'temere' addizionato (come tutte le altri voci terminanti in oso (es.: pauroso)) del suff. oso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m)/osa(m); indica presenza, caratteristica, qualità ecc. (amoroso, coraggioso,pauroso, timoroso etc.);
vigliacco/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le
che, chi manca di coraggio, evitando ogni occasione di pericolo e subendo passivamente sopraffazioni e prepotenze: gente vigliacca;
che, chi è prepotente con i deboli: comportarsi da vigliacco.
(per est.) basso, ignobile, abietto, infame;
etimologicamente è voce denominale dello spagnolo bellaco 'malvagio', con influsso di vile;
vile, agg.vo e s.vo m.le e f.le
1 si dice di persona che manca di coraggio: uomo, soldato vile; un vile calunniatore; essere vile di fronte al dolore, temerlo troppo, non sopportarlo;
2 si dice di cosa, atto che denota viltà: un vile tradimento; una vile calunnia; parole vili; niente è piú vile che approfittare delle disgrazie altrui
3 (lett.) si dice di merce che costa o vale pochissimo: roba vile | vendere a vil prezzo, a prezzo bassissimo | la vile moneta, il vile metallo, (scherz.) il denaro, l'oro;
avere, tenere (a) vile, non tenere in nessun conto, disprezzare: e vederete come / tien caro altrui chi tien sé cosí vile (PETRARCA Canz. CXXVIII, 72-73)
4 (lett.) non nobile, umile: essere di vili natali
come s.vo m.le e f.le persona vile: comportarsi da vile etimologicamente è voce dal lat. vile(m) 'di basso prezzo, di poco valore'.
A questo punto veniamo alle voci del napoletano dove troviamo
cacasotto,agg.vo e s.vo m.le e f.le
lett.: colui/colei che per conseguenza di moti di paura si defeca addosso, sporcandosi di sotto;
vigliacco/a,vile, codardo/a, pauroso/a, timoroso/a, etimologicamente è voce formata con la voce verbale caca (3° p. sg. ind. pr. dell’infinito cacare (dal lat. cacare) addizionata dell’avv. di luogo sotto(dal lat. subtus/suptus , deriv. di sub 'sotto');
cacacazúne, agg.vo e s.vo m.le e solo m.le lett.:
lett.: colui che in conseguenza di moti di paura si defeca addosso, lordandosene i calzoni;
di persona che, per viltà e pusillanimità, venga meno ai proprî doveri manifestando eclatantemente la propria
codardía, paura, timore;
etimologicamente è voceformata con la voce verbale caca (3° p. sg. ind. pr. dell’infinito cacare (dal lat. cacare) addizionata del s.vo cazune/cauzune pl. di cazone/cauzone che nel significato di braghe aderenti è un accrescitivo di cauza= calza (dal lat. mediev. calcea(m), dal class. calceus 'scarpa, stivaletto'); normale in napoletano il passaggio di al ad au semplificato in a(u)(cfr. auto/aveto per al-to oppure autro/ato per al-tro);

cacarone/a, agg.vo e s.vo m.le e f.le
lett.: colui/colei che per conseguenza di moti di paura è solito/a abbandonarsi a ripetute e continuate deiezioni;
molto vigliacco/a, eccessivamente vile, enormentepauroso/a e/o timoroso/a,
etimologicamente è voce deverbale di cacare addizionato del suff. accrescitivo aggettivale one/ona (suffissi che derivano dal suffisso nominale lat. -one(m)*ona(m) e forma l'accrescitivo di aggettivi e/o sostantivi; unito ad una base verbale o nominale, forma aggettivi o sostantivi che indicano abitudine o eccesso nel fare qualcosa (spalatrone,struncone chiacchiarone etc.) o mettono in rilievo una particolare caratteristica (baffone);

carogna, s.vo m.le e f.le
1 corpo di animale morto | (spreg.) cadavere d'uomo
2 (estens. spreg.) bestia vecchia, malandata, che non serve più a nulla; anche, uomo di aspetto sgradevole, sudicio o di salute malferma
3 (fig. spreg.come nel ns. caso) persona vile, scellerata;
etimologicamente è voce dal lat. volg. *caronia(m), deriv. di caro carnis 'carne'; difficile cogliere il collegamento semantico tra i significati sub 1 e 2 e quello che ci occupa sub 3; il collegamento comunque pare si debba trovare nel fatto che in origine il s.vo in esame fu riferito come aggettivo ad un animale ritenuto vile (la iena) in quanto usa non a cacciare ma a nutrirsi di corpi d’animali morti (carogne) donde per sineddoche la voce caragna fu attribuita spregiativamente a persona che avesse un comportamento poco coraggioso ed addirittura vile, pusillanime; pavido, imbelle;
carugniello/èlla,carugnone/a, s.vi m.li o f.li sinonimi del precedente, quantunque in forma alterata essendone in realtà o diminutivi(cfr. i suff. iello/èlla) o accrescitivi (cfr. i suff.one/a); va da sé che per l’etimologia occorra far riferimento al s.vo carogna è voce
crapone/a, s.vo m.le o f.le
1 capro, irco
2 (fig.) uomo dall'aspetto rozzo e grossolano;
3(fig. come nel caso che ci occupa) vile, vigliacco, chi agisce con arroganza e prepotenza contro chi è più debole quando sia certo di restare impunito; semanticamente il collegamento tra il comportamento vile di chi agisce con arroganza e prepotenza contro chi è più debole e l’irco, il capro si coglie nel fatto che quest’animale quando non sia controllato dal pastore è solito attaccare i suoi pari piú deboli in maniera dura e prepotente;
etimologicamente è voce accrescitiva (cfr. i suff. one/ona) di crapa (lettura metatetica del lat. capra(m)→crapa(m)→crapa→crapone/ona);
pisciasotto, agg.vo e s.vo m.le e f.le
lett.: colui/colei che per conseguenza di moti di paura è solito mingersi addosso, restandone imbrattato/a di sotto;
(fig.come nel caso che ci occupa)vigliacco/a,vile, codardo/a, pauroso/a, timoroso/a;
detto altresí di bambino/a troppo piccolo/a per poter controllare le proprie funzioni fisiologiche;
etimologicamente è voce formata con la voce verbale piscià (3° p. sg. ind. pr. dell’infinito pisciare (dal lat.tardo pi(ti)ssare→pisciare) addizionata dell’avv. di luogo sotto(dal lat. subtus/suptus , deriv. di sub 'sotto');

rapa,s.vo f.le, e solo f.le
voce che etimologicamente è dal lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi inteso f.le sg. e che indica, nel linguaggio figurato una persona non ancóra matura, di scarsa intelligenza,e talora anche mancator di parola,vigliacca tale da mettere in essere corbellerie, insulsaggini, banalità e sciocchezze ed addirittura tradimenti e/o azioni vigliacche;
schiantuso/osa, agg.vo e s.vo m.le o f.le
facile allo spavento,
pronto/a alla paura, al timore, allo sgomento;
(iperb.) angosciato/a, ansioso/a, chi si lasci prendere dall’orrore, dal terrore, dal panico;
etimologicamente è voce denominale di schianto (=dolore acuto, pena lancinante;deverbale del lat. explantare) addizionato del suff. uso/osa che continuano oso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m)/osa(m); indica presenza, caratteristica, qualità ecc.;

temmeruso/osa, agg.vo e s.vo m.le o f.le
Che è pieno di timore, che mostra timore, che esprime paura o insicurezza: senne steva lla tutta temmerosa(se ne stava là tutta timorosa), s’ avutaje â via d’isso cu ‘na faccia temmerosa e preoccupata(si volse a lui con un viso t. e preoccupato). Serve soprattutto a indicare uno stato d’animo non abituale, determinato da cause particolari che possono essere espresse da un complemento: è cchiuttosto temmerosa ‘e comme fernesce ‘o cuncorzo(è piuttosto t. circa l’esito del concorso); è t. di fronte a ogni tipo di cambiamento; sono t. di non superare l’esame; essenno temmerosa ‘e sciulià cammenava chianu chiano (essendo timorosa di scivolare, procedeva adagio adagio), insicuro, indeciso:s’è mustrato temmeruso mentre faceva ‘a fatica soja ‘nnante a ttutte quante( si è mostrato t. mentre svolgeva il lavoro davanti a tutti). etimologicamente è voce deverbale del lat. timíre con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale (m) addizionato del suff. uso/osa che continuano oso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m)/osa(m); indica presenza, caratteristica, qualità ecc.;

vilacchione/a agg.vo e s.vo m.le o f.le vigliaccone, vilissimo/a, codardissimo/a, paurosissimo/a; persona pavidissima, meschina, priva di volontà e di forza d’animo: etimologicamente è voce dal lat. vile(m) 'di basso prezzo, di poco valore'addizionato del suffisso composto alterativo/accrescitivo/ spregiativo acchione formato dal suff. acchio (suffisso alterativo corrispondente al lat. –aculum→aclum→acchio che contribuisce alla formazione dei suff. composti ) e da quello accrescitivo aggettivale one/ona (suffissi che derivano dal suffisso nominale lat. -one(m)*ona(m) e forma l'accrescitivo di aggettivi e/o sostantivi; unito ad una base verbale o nominale, forma aggettivi o sostantivi che indicano abitudine o eccesso nel fare qualcosa (spalatrone,struncone chiacchiarone etc.) o mettono in rilievo una particolare caratteristica (baffone);nella fattispecie si è partiti da vile(m) che addizionato di acchio+ à dato vilacchio + one→ vilacchione.


E con ciò penso proprio d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico E.V. ed interessato qualche altro dei miei ventiquattro lettori e penso di poter dire Satis est.
Raffaele Bracale