IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 4
12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle
Ad litteram: Sembrare la mosca nel miele. Détto
icasticamente in riferimento a chi tenga un atteggiamento di contento piacere e
grossa soddisfazione; costui viene rapportato ad una mosca che penetrata senza
(per sua fortuna) restarne invischiata,
in un barattolo di miele se ne satolli ad libitum traendone grande
godimento.
mosca s.vo f.le mosca;
1 insetto dal corpo scuro, con proboscide protrattile e un
paio di ali trasparenti (ord. Ditteri): uno sciame di mosche; scacciare una
mosca | mosca carnaria, insetto dittero con livrea a riflessi metallici, le cui
larve si sviluppano su sostanze in putrefazione (fam. Calliforidi) | mosca tse
tse, insetto del genere glossina, diffuso nelle zone tropicali, che trasmette
il tripanosoma, agente della malattia del sonno | essere ‘na mosca janca(essere
una mosca bianca), (fig.) si dice di persona o cosa rarissima | nun facesse
male a ‘na mosca(non farebbe male a una mosca), (fig.) si dice di persona molto
mite | non si sentiva volare una mosca, (fig.) c'era un silenzio assoluto |
mosca!, zitto e mosca!, (fam.) silenzio! | restà cu ‘e mmosche ‘mmano(restare
con un pugno di mosche), (fig.) restare deluso, non aver ricavato il minimo
profitto da qualcosa | fa zumpà ‘a mosca ô naso(far saltare la mosca al naso),
(fig.) far perdere la pazienza, provocare uno scatto di collera | uccello
mosca, specie di colibrí | pesi mosca, (sport) nel pugilato e nella lotta,
categoria che comprende atleti del peso minimo; un (peso) mosca, atleta che
appartiene a tale categoria.
2 (fig.) persona noiosa, petulante, insopportabile | ‘a mosca
cucchiera( la mosca cocchiera), (lett.) chi si attribuisce, senza fondamento, i
risultati di azioni altrui, credendo di svolgere compiti e avere responsabilità
di direzione
3 nella pesca con l'amo, qualunque esca artificiale che
imiti insetti, larve
4 neo finto che un tempo le donne si applicavano al viso o
sulle spalle
5 pizzetto di barba, molto piccolo, portato sotto il labbro
inferiore
6 chicco di caffè tostato che si aggiunge ad alcuni liquori:
ànnese cu ‘a mosca – sammuca cu ‘a mosca(anice con la mosca -sambuca con la
mosca).
dal lat. musca(m)
dint’ ô/ ‘int’ ô
prep. art.m.le nel, dentro il preposizione formata da dinto (dal lat. de+intus)
addizionato della preposizione articolata ô (= a + ‘o= allo, ); ricordo
che si ànno altre preposizioni articolate
formate dall’unione degli articoli ‘o
(lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una
preposizione articolata di tipo
agglutinata resa graficamente con
particolari forme contratte: â = a+ ‘a
(a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); nel caso
che ci occupa ci troviamo cioè di fronte
ad un tipico caso della la parlata
napoletana e della costruzione di espressioni con dentro, sopra, sotto
ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano. In questo caso accade che
un napoletano che scrivesse in napoletano non potrebbe pensare in toscano e
fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per
esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa,
non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’
trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione
articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero
napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi
usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e così
via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e
non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche
per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per
dentro non disdegnano le costruzioni:
dentro al, dentro alla accanto alle piú
classiche dentro il, dentro la. Peccato che la stragrande parte di sedicenti
scrittori e/o poeti napoletani(grandi, meno grandi e grandissimi…) si ostinino
a rifiutare l’uso dell’accento circonflesso e delle crasi e e si rifugiano negli erronei dint’ ‘a,
dint’ ‘o - ‘ncopp’ ‘a, sott’ ‘o - annante ‘a, arret’ ‘o etc. intestardendosi
cioè impropriamente ad usare, per far
degli esempi dint’ ‘a casa, dint’ ‘o cunvento; dint’ ‘e stanze; dint’ ‘e vicule
; oppure ‘ncopp’ ‘a casa,oppure annante’ ‘a chiesa etc.in luogo come ò détto
dei corretti dint’ â casa, dint’ ô
cunvento; dint’ ê stanze; dint’ ê vicule
; oppure ‘ncopp’ â casa,oppure annante’
â chiesa incorrendo nel colpevole errore
di ritenere il napoletano tributario dell’ italiano, laddove è risaputo che la
parlata napoletana, se si esclude il latino tardo e/o parlato, che l’à generata
non è tributaria di nessun linguaggio e men che meno della lingua di Alighieri
Dante!
mèle s.vo neutro
miele,
1 sostanza zuccherina, quasi sciropposa, di color biondo,
molto dolce, prodotta dalle api: mèle naturale, vergine,’e castagno(miele
naturale, vergine; miele di (fiori di) castagno), quello prodotto da api che si
nutrono del nettare di tali fiori | doc e comm’ ô mmèle(dolce come il miele),
dolcissimo | mèle rusato(miele rosato), (farm.) collutorio a base di miele e
infuso di petali di rosa
2 (fig.) dolcezza, soavità: ‘na femmena tutta mèle(una
donna tutta miele; parole ‘e mèle(parole
di miele) zuccherose, eccessivamente leziose.
come agg. invar. si
dice di colore biondo ambrato.
dal nom.vo lat. mel
13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato variante
13 bis È gghiuta ‘a mosca dint’ ô Viscuvato
Ad litteram: Sembrare la mosca nella cattedrale; variante È
finita la mosca nella cattedrale.
Détti icasticamente
di qualsiasi cosa che in un raffronto risulti estremamente piú piccola o
contenuta dell’altra cui si ponga in rapporto. Segnatamente però l’espressione,
(nella forma della variante) viene usata
come icastico commento profferito da chi si lamenti d' un risibile
asciolvere somministratogli, che non gli abbia tolto la fame. In effetti un
boccone nello stomaco (adombrato sotto il nome di cattedrale), vi si sperde quasi, come una mosca entrata in una Cattedrale...
Per traslato la locuzione e la sua variante vengono usate ogni volta che ciò
che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
Viscuvato s.vo m.le
vescovado, di per sé 1 dignità, ufficio di vescovo: innalzare al
vescovado
2 territorio sottoposto alla giurisdizione di un vescovo |
l'edificio in cui il vescovo risiede; per ampliamento semantico la cattedrale
(il tempio sede della cattedra del vescovo); voce dal lat. tardo episcopatu(m),
deriv. di episcopus 'vescovo'
è gghiuta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pass.
pross.) dell’infinito jí/ghí/gghí dal
lat. ire
14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo
Ad litteram: Sembrare Arturo sul filo (corda). Détto con
sarcastica ironia con due valenze: a) riferimento a tutti coloro che per necessità, ma piú
spesso, per colpevole insipienza o temerarietà si mettano in situazioni
insicure e/o difficoltose alla medesima stregua di quel non meglio identificato
mitico Arturo saltimbanco acrobatico che si lucrava la giornata esibendosi in
piazza del Mercato camminando pericolosamente su di una malferma ed
oscillante corda tesa tra due edifici ad
una altezza di circa dieci metri dal suolo; b) la seconda valenza fa
riferimento a chiunque abbia un incedere malsicuro,esitante, vacillante o traballante
alla maniera del suddetto Arturo.
‘ncopp’ ô locuzione prepositiva articolata m.le (sul, sopra
il, sopra al) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’o cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12
filo s.vo m.le lett. filo, 1 il prodotto della filatura di
una fibra tessile, naturale, artificiale o sintetica, che serve per tessere,
cucire, ricamare ecc., 2 (estens.)ed è il caso che ci occupa: qualsiasi corpo
assai lungo e sottile, di sezione circolare uniforme; cavo, corda, gomena, 3
(estens.) oggetto filiforme: filo d’erba, filo di paglia, 4 ognuno dei tiranti
con cui vengono azionati dall'alto i burattini5 (fig.) quantità, cosa minima:
un filo di vita, di speranza; 6 (fig.) andamento, ordine, direzione: il filo
del discorso,
la voce è dal lat. filu(m).
15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente
Ad litteram: Sembrare un topo con gli occhiali.
Divertente ed icastica
espressione di dileggio riferita a tutti quegli anziani uomini spesso
magri, secchi, scarni dal viso lungo ed affilato, provvisto di un congruo naso
semita sotto il quale vegetano cespugliosi o affilati baffetti e sul quale
poggiano spessi occhiali da miope o piú spesso da presbite; spesso costoro
svolgono mansioni d’archivista presso studi notarili o uffici pubblici e
segaligni, ossuti ed allampanati, si aggirano tra polverosi faldoni di
documenti con il loro divertente aspetto di vecchio topo… provvisto d’occhiali.
Zoccola s.vo f.le
grosso topo di fogna, ratto, surmolotto, roditore dannoso sia per
la voracità sia per le malattie che puó
trasmettere. La voce è dal lat. sorcula(m) con tipica assimilazione regressiva
cr→cc e consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata
alveolare sorda (z);
llente/lente s.vo f.le pl. di lenta = lente, occhiale
1 sistema ottico elementare costituito da una sostanza
rifrangente, gener. vetro o plastica trasparente, limitata da due superfici di
cui almeno una è curva: lente convergente o d'ingrandimento, con almeno una
superficie convessa, che ingrandisce l'immagine e corregge la presbiopia e
l'ipermetropia; lente divergente, con almeno una superficie concava, che
rimpiccolisce l'immagine e corregge la miopia; lente biconvessa, biconcava, con
entrambe le superfici curve con raggio di curvatura uguale e opposto; lente a
menisco, con entrambe le superfici curve, ma con raggio di curvatura diverso e
orientato nello stesso senso; lente sferica, con le due superfici sferiche o
una sferica e l'altra piana; lente cilindrica, torica, con almeno una
superficie cilindrica, torica, per correggere l'astigmatismo; lente prismatica,
con le superfici ad assi concorrenti, per correggere la tendenza allo strabismo
| lente a contatto o corneale, piccola lente di plastica che si applica alla
cornea, dove è trattenuta da un velo di liquido lacrimale | lente cristallina,
(anat.) il cristallino dell'occhio
2 pl.come nel caso che ci occupa, gli occhiali o altrove le lenti a contatto: portare
le lenti
3 elemento, oggetto a forma di lente: la lente del pendolo,
la massa metallica all'estremità inferiore dell'asta oscillante
4 (ant. , region.) lenticchia.
Voce dal lat.
leªnte(m) 'lenticchia'; il sign. di 'lente ottica' si è sviluppato modernamente
(dal sec. XVII).
16 – Paré variante fà
‘a sporta d’’o tarallaro
Ad litteram: Sembrare variante fare la cesta del venditore di taralli.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione sia nella morfologia
di Paré ‘a sporta d’’o tarallaro:
Sembrare la cesta del venditore dei taralli, che nella sua
variante: fare la cesta del venditore di
taralli è usata innanzi tutto per
indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposti
continuamente, come appunto un venditore
di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi
giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione.
Poiché gli avventori dei venditori di taralli son soliti servirsi con le proprie
mani affondandole nella cesta colma di tartalli, per scegliere a proprio
piacimento , alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e
servirsi delle sue cose, o di se stesso ma lo fa piú per indolenza che per
magnanimità, anche se poi se ne lamenta dicendo: - “Ma che m’avite pigliato
p’’a sporta d’’o tarallaro?” (Mi avete forse confuso con la cesta del tarallaio?)
sporta = cesta dal lat. sporta(m)
tarallaro = venditore di taralli; voce formata dall’unione
del s.vo tarallo + il suff. di
pertinenza aro/aio dal lat. arius; Tarallo s.m. s. biscotto a forma di
ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito con zucchero e semi
d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto,
tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un meridionalismo, attese le regioni
(tutte meridionali: Campania, Abruzzo, Calabria e Puglia) dove vengono prodotti
tali tipici biscotti. Voce penetrata nel lessico dell’italiano vista la gran
diffusione peninsulare ( per
esportazione dalle regioni produttrici)
del prodotto che va sotto il nome di tarallo. Quanto all’etimo della
voce a margine non vi sono certezze e si vaga nel campo delle ipotesi; tutti i calepini a mia disposizione, a
cominciare dal D.E.I. nicchiano o si rifugiano dietro il
solito pilatesco etimo incerto;non so dire chi l’abbia
formulata ma esiste un’ipotesi che
riferirebbe la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente ipotizzo
il latino torus (= toro: modanatura inferiore della colonna,cordone);
semanticamente in ambedue i casi ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la
forma del toroide che quella del toro di colonna, richiamano quella del tarallo, ma
morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in linguistica non
sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú complesso spiegare
da dove salti fuori quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia
ipotesi!), a meno che questo allo non sia un adattamento locale di un
originario suffisso diminutivo
ello←ellus proprio dei sostantivi con tema in r; oppure un adattamento metaplasmatico ed espressivo di un originario
suffisso diminutivo olo←olus;accettando una delle due ipotesi si potrebbe
ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo oppure olo→alo→allo)
cordone (torus); dopo lungo almanaccare,
mi son fatto convinto di questa idea, quantunque neppure la grammatica del RHOLFS faccia
menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso, se si accettasse, per l’etimo di tarallo la
mia idea di tor-(us) + il suff. ello→allo oppure olo→alo→allo forse si potrebbe , indegnamente, dare scacco persino al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò
una sequenza di ipotesi giudicandole tutte però improponibili o non
perseguibili..., con la sola eccezione, forse!,
di una voce macedone: dràmis = focaccia, voce che però il curatore della
lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo paleograficamente
corretto dràllis. Stimo, e quanto! G.
Alessio, ma – nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto
mortale (senza rete), pericoloso
esercizio in cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non
mi sento di seguirlo! Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis a
tarallo d’acchito non si còglie!
A margine di questa espressione mi piace ricordare quello
che fu uno degli ultimi, se non certamente l’ultimo venditore girovago di
taralli, ch’io vidi tra gli anni ’50 e ’60 del 1900 percorrere in lungo e largo
la città di Napoli armato della sua ballonzolante cesta colma di taralli,cesta mantenuta con
l’epa e sorretta da una correggia di cuoio
poggiata sul collo.All’epoca ch’io lo seppi, questo venditore girovago sempre allegro se
non addirittura ridanciano, che rispondeva al nome di Fortunato era un
vecchio ometto piccolo e grassoccio con
delle gambette arcuate, nascoste da certe consunte braghe d’un colore
indefinibile che, in origine, non dovevano essere state sue : erano infatti troppo larghe e sbuffanti; indossava nei mesi
primaverili ed estivi una maglietta di
cotone bianco a mezze maniche e portava sul capo un berretto a caciottella di
panno bianco, del tipo di quelli indossati dai marinai sulle divise da fatica;
d’inverno sostituiva la caciottella bianca con uno zucchetto di lana a piú
colori ed infilava sulla solita maglietta di cotone bianco a mezze maniche, una
sdrucita giacchetta del medesimo indefinito colore delle breghe, giacchetta
che,anch’essa in origine, non doveva essere stata sua: troppo larga e
sbuffante;completava l’abbigliamento invernale una unta e bisunta sciarpa di
lana a piú colori ch’egli portava come un sacerdote porta la stola e che gli incorniciava il viso
segnato dal tempo con una ragnatela di rughe profonde, ma sul quale
tuttavia brillavano due occhi vivaci e
talvolta addirittura lampeggianti. La piega amara (angoli all’ingiú) della bocca
sdentata completava il disegno del volto di questo vecchio omettino che si
annunziava di lontano con una sorta di squillante, musicale cantilena: “Furtunato tène ‘a rrobba bbella!
‘Nzogna, ‘nzo’!” E quale era mai la roba
bella sottolineata da quello: ‘Nzogna, ‘nzo’ ?
Ma è chiaro che si trattava dei suoi gustosissimi, croccanti taralli ‘nzogna e ppepe
,impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, taralli ancóra caldi ( e sfido io: li portava in
giro protetti sotto una doppia coltre di tela di sacco...) Poi passarono gli
anni ed un giorno, anzi un brutto giorno improvvisamente non intesi piú quella
squillante, musicale cantilena:
Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’! Con ogni probabilità Fortunato
aveva esteso il suo giro ed era passato
a proporre a san Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e
pepe ed io mi dovetti rassegnare a
cercare altrove per trovare i taralli che Fortunato non mi avrebbe piú
venduti. Per buona sorte mia (una volta nella vita!) facendo appena quattro passi in piú scovai
proprio difronte all’Orto Botanico la bottega che don Leopoldo Infante aveva
aperto. E mi andò da Dio; Furtunato teneva ‘a rrobba bbella? Ma don Liopoldo
nun s’’o vedeva proprio!
17 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo
Ad litteram: Sembrare un gatto aggrappato al lardo
Divertentissima sarcastica locuzione dal duplice
significato; nel primo, con la similitudine rammentata (che parla di un gatto
appigliato ad un gran pezzo di lardo sospeso al soffitto d’una cantina o cucina
d’ antan) ci si riferisce mordacemente a
taluni inguaribili ghiottoni (appaiati al gatto de quo) che desiderosi di
rimpinzarsi d’ un qualche alimento, avutolo sottomano, lo ghermiscono
avidamente, abbrancandolo con ingordigia,dando l’impressione di temere quasi
che qualcun altro glielo possa sottrarre; nel secondo significato con la
medesima similitudine ci si riferisce in
maniera solo divertita, ma non scortese a quelle vecchie, malconce,esili signore che nell’incedere, per tema di
cadere, si aggrappino vistosamente a chi le sorregga. Anche costoro, come i
pregressi ghiottoni, sono appaiate ad un gatto avvinghiato ad un pezzo di
lardo.
appesa voce verbale
part. pass.f.le agg.vato dell’infinito appennere = attaccare, agganciare,
appiccare; sospendere; appennere è, con consueta assimilazione progressiva nd→nn,
dal lat. appendere 'pesare', poi 'appendere', comp. di ad e pendere
'sospendere'
ô preposizione art. m.le al, allo; morfologicamente è lacrasi di a + ‘o =
a+il/lo come altrove â = a+ ‘a (a+ la), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);
llardo/lardo s.vo neutro
lardo
1 lo strato di grasso sottocutaneo del maiale, che si
conserva salato o affumicato per uso di cucina: fare il battuto col lardo |
nuotare nel lardo, (fig.) vivere nell'abbondanza
2 (estens.) grasso eccessivo | una palla di lardo, (scherz.)
persona o animale molto grasso
3 (nell’italiano, impropriamente, anche) strutto.
La voce è dal lat.
lār(ĭ)du(m)→lardu(m).
18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola
Ad litteram: Sembrare che il culo gli sottragga la falda
della camicia. Divertentissima icastica espressione riferita con sarcastico
dileggio nei confronti di chiunque (uomo o donna) sia tanto
inguaribilmente avaro/a, spilorcio/a,
pidocchioso/a, tirchio/a ed al contempo
preoccupato/a, dubbioso/a, allarmato/a da giungere a temere che il suo
stesso fondo schiena gli porti via la falda della camicia che insiste sul
medesimo fondo schiena.
culo s.vo m.le s.
1 deretano, sedere, fondo schiena | essere culo e cammisa,:
stare sempre insieme, andare molto d'accordo.
2 fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di
una bottiglia ' culi di bicchiere, (scherz.) brillanti falsi, di vetro.
Voce dal lat. culu(m) marcato sul greco koilos;
péttola/péttula s.vo
f.le
Con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda
posteriore della camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni,
insiste sul fondoschiena;
estensivamente, con i medesimi termini, si indica quella
che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del
mattèrello (e non mattarello che è un dialettismo romanesco) con il quale su di una apposita spianatoia si stende e si
assottiglia, portandolo ad un consono spessore,
l’impasto di farina, uova e/o
altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliato e/o riempito, pasta
alimentare o altre preparazioni culinarie;
per traslato, con i termini in epigrafe, si indica una donnaccia o anche
una donnetta ciarliera e petulante; ancóra:
con il diminutivo:pettulélla che stranamente è inteso maschile ‘o
pettulélla ci si suole riferire all’impenitente dongiovanni, al femminiere aduso
a perennemente correr dietro le gonne femminili, mentre con 'o pettulélla ‘e mammà ci si riferisce ad un uomo, che a malgrado dell'età
raggiunta, non si decide ad abbandonare le gonne materne anzi la falda della
camicia della sua genitrice o l'ala protettiva di mammà!Ed oggi, a ben vedere,
è la consueta situazione attuale quando la stragrande maggioranza dei giovani
non intende metter su famiglia, abbandonando la casa dei genitori ed anche
quando lo fa, resta legata a filo doppio
con la propria genitrice dimostrando che ci si trova indefettibilmente davanti a dei pettulélle ‘e
mamma!
Ciò detto, passiamo all'etimologia del termine
péttola/péttula.
Cominciamo col dire che la radice pat che pure dà vita a
parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti
l’azione del distendere, allargare etc.,
non si può riferire alla péttola/péttula ;ciò è in tutti i testi da me
compulsati al riguardo.
Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno
derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale
T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia
meraviglia: si pensi a su cosa insiste la péttola!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la péttola/péttula
si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m)
e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può
solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non
indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario,
un’ampia falda.
19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune
Ad litteram: Sembrare che lo suggono gli scarafaggi.
Va da sé che si tratta di un’enfatizzazione, non di un fatto
reale; si tratta di una divertita presa
in giro fatta nei confronti di soggetti tanto smunti, macilenti, sciupati,
patiti, scavati, smagriti e rinsecchiti d’apparire quasi del tutto asciutti dei
proprî umori vitali iperbolicamente succhiati da degli scarafaggi. Nella realtà ciò non è assolutamente
possibile in quanto, pur essendo vero che le blatte sono avide di liquidi, non
avrebbero mai possibilità o modo di prosciugare un corpo umano!
zúcano voce verbale
(3ªpers. pl.) ind. pres. dell’infinito zucare = suggere, succhiare,aspirare i
succhi; voce dal lat. *sucare denominale del lat. sucus con il consueto passaggio della fricativa
dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);
scarrafune/i s.vo m.le pl.metafonetico del sg. scarrafone =
blatta, scarafaggio; l’etimo di scarrafone
è dal lat. scarabaeu(m) + il suff. accrescitivo one e con il passaggio di
influsso osco della consonante occlusiva
bilabiale sonora (b) alla consonante fricativa labiodentale sorda (f) cfr.
enfrice← lat. imbrice(m), runfà← dal gr. rhómbos, scrofola← lat. scrobula(m).
20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta
Alla lettera: Sembrare Ciccibbacco sulla botte. Ironico,
colorito riferimento a chi non si lascia turbare da niente e nessuno e persegue
il suo fine indifferente a tutto ciò che
gli accada intorno; con l’espressione si prende a modello una tipica figurina
presepiale: il mitico guidatore (cui la
tradizione popolare assegnò l’intraducibile nome di Ciccibbacco) di un carro
trainato da una pariglia di buoi, carro usato per il trasporto di botti di vino,
sulle cui botti trionfalmente assiso il panciuto conducente con esasperata
lentezza (i buoi non son trottatori ed
il peso delle botti piene si fa sentire e rallenta il cammino…) ed incurante
sia dell’evento natalizio che della folla dei pastori, folla che incolonnata si
reca alla santa grotta, tira innanzi per la sua via deciso a portare a termine
la lucrosa consegna delle botti alle rivendite sue clienti.
‘ncopp’ â prep. art.
f.le (sulla, sopra la,al disopra della) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+
a+’a cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’
ô del n.ro 12;
votta s.vo f.le =
botte, s. f.
1 recipiente di legno fatto di doghe arcuate e più strette
alle estremità, tenute unite da cerchi di ferro, per cui ha forma simile a
quella di un cilindro ma panciuta; serve per la conservazione e il trasporto di
liquidi (spec. vino), o anche di pesci salati, olive e prodotti simili:
spillare il vino dalla botte; una botte di aringhe | essere in una botte di
ferro, (fig.) essere al sicuro da ogni rischio | dare un colpo al cerchio e uno
alla botte, (fig.) barcamenarsi fra due persone, due partiti, due esigenze in
contrasto fra loro | volere la botte piena e la moglie ubriaca, (fig.) cercare
di ottenere contemporaneamente due cose fra loro incompatibili | prov. : nelle
botti piccole sta il vino buono, per sottolineare le buone qualità di una
persona di statura piccola. DIM. botticella, botticina
2 la quantità di liquido o di altra sostanza contenuta in
una botte
3 appostamento galleggiante a forma di botte aperta nel lato
superiore, usato per la caccia nelle paludi
4 volta a botte, (arch.) volta a sezione semicircolare
5 a Roma, carrozza pubblica a cavalli; botticella
6 antica unità di misura per liquidi, con valori diversi da
regione a regione | (mar.) antica unità di misura di stazza, equivalente alla
tonnellata.
Voce dal lat. butte(m) con tipica alternanza partenopea.
21 - Paré don Titta e
'o cane (in origine Paré san Rocco e ‘o cane)
Ad litteram:sembrare
don Titta ed il cane Locuzione usata
per fotografare la situazione che veda due individui che procedano
indissolubilmente legati fra di loro al
segno che quasi l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa. Chiarisco qui che il don Titta della
locuzione non à riferimenti né storici, né letterarî con alcun personaggio
esistito o di fantasia; è usato nella locuzione per un malinteso senso di
rispetto, al posto di san Rocco,
che – come ò indicato – in origine fu il protagonista della locuzione;
ed in effetti il santo pellegrino e taumaturgo, nella iconografia tradizionale
è rappresentato accompagnato sempre da un cane; in seguito, per una sorta di
bigottismo,la locuzione popolare fu modificata ed al nome del santo fu sostituito quello di un
non meglio codificato don Titta, che non è -sia chiaro!- il boia pontificio,
personaggio mai entrato nella cultura partenopea che aveva in un mastro Austino
il boia di sua pertinenza.
22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone (in origine Paré ‘o
ciuccio ‘mmiez’ ê suone)
Ad litteram: Sembrare un asino tra i suoni, cioè un asino
frastrornato; détto ironicamente, soprattutto di ragazzo o persona anziana che
in una situazione chiassosa (che magari, in caso di ragazzi, sia concorso a
determinare)si senta intontito,
istupidito, stranito, disorientato quando non incerto, indeciso, irresoluto
alla medesima stregua d’un asino (bestia notoriamente e per solito paziente e
paciosa) che nel vocío e nel tramestío di un mercato perde quasi la bussola
comportandosi conseguentemente in maniera disorientata, strana, inconsueta,atipica.
In ordine al problema linguistico rammento che la locuzione
nata, come tutte le altre esaminate, tra il popolo e sulla sua bocca ebbe in
origine una formulazione che – come ò segnalato nell’epigrafe dell’espressione
– prevedeva l’uso del termine napoletano
e popolaresco:ciuccio in luogo della
voce letteraria aseno = asino voce quasi
certamente pedestremente adottata da un qualche sedicente uomo di lettere che
pretese ignobilmente e scioccamente di italianizzare l’ espressione che invece sulla bocca del
popolo suonava incisiva e robusta chiamando in causa il popolano ciuccio e non l’adattato aseno scimmiottatura di
asino. Talora i letterati fanno, poveri loro delle sesquipedali, imperdonabili
sciocchezze!
àseno s.vo m.le sciocco ed inutile adattamento dell’italiano
asino
ciuccio s.vo m.le
asino, ciuco, quadrupede
domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e
diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda,
ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché)
ignorante; varie sono le proposte circa
l’origine della parola :chi dal lat. cicur=
mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che
l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico=
piccolo, a malgrado che sia
ipotesi che appaia semanticamente
perseguibile. Non mi convincono
altresí, in quanto m’appaiono forzate,
l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o
all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la
eventuale strada morfologica seguita per
giungere a ciuccio partendo da ciuco;
d’altro canto non amo qui come
altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce
onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non
con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú
perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano
ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che
meno poi mi solletica l’idea che ciuccio
possa derivare dall’italiano ciocco=
grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed
estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è
bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la
voce ciuccio vada collegata
etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il
verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico:
(s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con
evidente derivazione dalla medesima
radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
23 - Paré
mill'anne
Ad litteram: Sembrare (che debbano trascorrere) mille anni
(prima che si giunga alla conclusione della faccenda o dell’opera intrapresa o
ancóra prima che si verifichino le tanto auspicate evenienze attese ed ancóra
in fieri.). Iperbolica espressione in tutto in linea con il consueto ampolloso,
enfatico, prolisso magniloquente, spagnolesco ricercato, manierato, affettato
eloquio partenopeo che ama l’iperbole e l’enfatizzazione tanto è vero che si è
soliti usare l’espressione in esame anche quando la faccenda o l’opera si sia
intrapresa da pochissimo, o le evenienze attese in realtà lo siano solo da poco
tempo.
mille agg. num. card.
invar.
1 numero naturale corrispondente a dieci centinaia; nella
numerazione araba è rappresentato da 1000, in quella romana da M;
2 con valore iperbolico, indica un numero indeterminato
assai elevato; moltissimo; l’etimo è dal lat. mille
anne s.vo m.le pl. di anno s. m.
1 (astr.) tempo impiegato dal Sole per il suo ritorno
apparente all'equinozio di primavera;
2 periodo di dodici mesi, compreso tra un primo gennaio e il
successivo, che rappresenta l'unità di tempo fondamentale per la determinazione
delle date, a partire dalla nascita di Cristo;
3 l'unità di tempo fondamentale per indicare l'età di una
persona o l'epoca da cui una cosa esiste;
4 (iperb.) periodo di tempo indeterminato di cui si vuol
sottolineare la lunghezza;
5 arco di tempo, non coincidente con l'anno civile, durante
il quale si svolge un ciclo di attività.
La voce anno è dal lat. annu(m).
24 - Paré Lillo e
Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.
Ad litteram: Sembrare Lilloe Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai
piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe ci si riferisce con
bonario divertimento a tutte le
attempate coppie di coniugi in ispecie quelli che si recano insieme a partecipare a quotidiane funzioni
religiose o anche quelle coppie di
anziani che non ricevono mai visite di
parenti od amici e si devono contentare
della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati
coniugi realmente esistiti e dimoranti
in quella strada napoletana détta ‘a
‘nfrascata, coniugi che non si volevano
rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella
privata della zona a prostarsi davanti
all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente
(data la tarda età) non ebbero e
restarono indefettibilmente soli.
L’espressione in esame nacque in origine come Lillo, Lélla e
‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad
un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia
di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione
napoletana dal conte Giovan Battista di
Tocco di Montemiletto (abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta
della suddetta strada detta ‘a
‘nfrascata) discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo
di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo.
L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era
esposta dal conte in occasione della
ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo
tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava –
come è lecito supporre! - solo di un
reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500
principio ‘600) di smaccata credulità
popolare era stata accreditata come autentica reliquia; questo piede di
sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san
Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella
'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare,
infastidire, tediare qualcuno molestandolo
con continuità asfissiante.
La locuzione si
riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di
avvertimento, sulle labbra di un
servitore veneto posto a guardia di un
bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi,
come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a
guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti
pezzetti (frecole) della verga, insomma
di non sfregolarla o sfruculià.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo
preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e
‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato poi trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’
Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai
piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione
non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto
e con l’espressione si voleva indicare non la venerazione d’un piede della
santa, ma si indicava l’abitudine di prostrarsi ai piedi della santa per
chiedere grazie e/o protezione, per cui non l’articolo ‘o (il) ma la
preposizione articolata ô (= al);ô è infatti la crasi di (a+ ‘o)= al).
25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera
Ad litteram: Sembrare l’uomo sulla saliera. Id est:
sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel
talTom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad
esibirsi in un circo equestre; costui fu
uomo molto piccolo e ridicolo e per
questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a
tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato,
l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini
che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono
invece l'esatto opposto.
'ncopp'â locuzione
prepositiva articolata f.le (sulla, sopra la, sopra alla) derivata da
‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a cfr.
antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12
salera s.vo f.le = saliera
recipiente in cui si mette il sale per l'uso di cucina o per la tavola.
Denominale di sal-is addizionato del suff. di competenza era (al maschile iere
cfr. ad es. salum-era ma salum –iere).
26 – Paré ‘na lacerta vermenara
Ad litteram: Sembrare una lucertola rimpinzantesi
famelicamente di vermi. Divertente, ironico, beffardo riferimento a persona
magra e/o macilenta, ma dotata di formidabile appetito, persona che, a malgrado che non l’assimili, continuamente assume cibo, per questo
appaiata ad una lucertola notoriamente avida di vermi di cui è solita
satollarsi.
lacerta s.vo f.le
= geco: piccolo rettile terrestre dei
paesi mediterranei, con i polpastrelli delle dita muniti di organi adesivi che
gli consentono di arrampicarsi sui muri; si ciba di vermi; lucertola: genere di
piccoli rettili terrestri con capo appiattito, corpo terminante in una lunga
coda sottile, zampe corte, lingua bifida; in senso traslato con la voce a margine
viene indicata una persona estremamente magra allampanata, denutrita, gracile,
mingherlina, esile ; la voce è dritto per dritto dal lat. cl. lacerta(m) che
diede poi il lucerta(m) del lat. volg. donde lucertola dell’italiano.
vermenara di per sé
s.vo f.le e vale matassa di vermi; parassitosi,
elmintosi (che,con derivazione da eliminto [ che è dal gr. ἕλμινς –ινϑος
(elmins – elmintos) «verme»], nel linguaggio medico,indica la presenza di vermi parassiti nell’intestino,
nell'apparato gastrointestinale, ma possono trovarsi anche nel fegato o in
altri organi dell’uomo e degli animali,
ma per traslato di causa ed effetto la voce a margine indica uno
spavento ragguardevole, il massimo del
panico tali da procurare, come un tempo si credette, nel pacco intestinale
soprattutto dei ragazzi, la nascita di lunghi e sottili vermi;ovviamente la
scienza medica stabilí che ben altre son
le cause delle infestazioni da elminiti, cause sulle quali non mi esprimo o
dilungo (mancandomene una competenza), ma anche quando la medicina si fu
espressa, non venne meno la radicata
credenza cui accennavo ed il termine
vermenara continuò ed ancóra continua,
tra il popolo della città bassa, ad essere usato per traslato di causa ed effetto indicando uno spavento ragguardevole, il
massimo del panico.ò détto che la voce a
margine è di per sé un s.vo f.le e vale
matassa di vermi ma talora come nel caso che ci occupa è usato (sia pure
impropriamente) come aggettivo in luogo di vermenosa per indicare chi, come la
lucertola, sia ghiotto o avido di vermi. La voce è un denominale di vermen addizionato o del suff. ara (al m.le aro suffisso che continua il lat.
–arius e compare in sostantivio agg.vo derivati dal latino, che indicano
mestiere ( oppure persona luogo, ambiente,
pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa) oppure addizionato o del suff. osa (al m.le
oso suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat.
-osu(m) che indica presenza, caratteristica, qualità ecc.).
27 – Paré n’anema pezzentella
Ad litteram: Sembrare un’ anima poverella, un’ anima in
pena; détto, per icastico traslato, di chi
smunto, macilento, sciupato, patito, appaia sofferente e bisognoso di un
aiuto materiale o morale; in realtà, come chiarisco qui di sèguito con il
termine di anima pezzentella di per sé non ci si intenderebbe – se non per
traslato - a persona viva e vegeta, ma ci si riferisce a quelle anime di
defunti ipotizzati nel purgatorio. Pezzentella
agg.vo f.le del m.le pezzentiello
piccolo/a mendicante; sia pezzentiello
che pezzentella (che non va confuso con analogo, omofono ed omografo
s.vo f.le che indica tutt’altro) sono agg.vi diminutivi (cfr. i suffissi iello
ed ella derivati dal s.vo pezzente : mendicante, straccione; persona che vive
in condizioni di estrema miseria: andare vestito come un pezzente; sembrare un
pezzente | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fare il
pezzente. Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenura anche nell’italiano,
ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere
l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere'; in
effetti con la voce a margine in napoletano non si indica propriamente la
piccola mendicante che chieda obolo di monete, ma si indica in unione al s.vo
anema ( che è dal lat. anima(m)): anema pezzentella quell’anima che si trova in purgatorio che secondo la dottrina
cattolica tradizionale è lo stato temporaneo di espiazione cui sono assogettate
le anime di coloro che, pur morendo in stato di grazia, debbono espiare i
peccati veniali e le pene conseguenti ai peccati mortali, di per sé già
perdonati; si indica cioè quell’anima che trovandosi in uno
dei regni dell'oltretomba cristiano, dove si espiano le colpe commesse sulla
terra prima di poter passare in paradiso, e desiderando abbreviare – per quanto
possibile – il loro transitorio, ma doloroso stato, chiedono, pietiscono dai
vivi delle preci suffragatorie; ll’ anema pezzentella: l’anima poverella è comunque un’anima che soffre, che patisce
e chiede refrigerio e ad essa è apparentato chi
smunto, macilento, sciupato, patito,o sofferente per una qualsiasi
ragione, appaia patire ed essere bisognoso di un aiuto materiale o morale che
lenisca le sue pene. Ripeto ad abundantiam,
in chiusura di questa espressione che la voce pezzentella è un
denominale di pezzente (povero) ed è voce merid., propriamente part. pres. del
napoletano pezzire/pezzí =chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire,
per il class. peteªre 'chiedere'; in coda a questo pezzire/pezzí rammento
altresí che in napoletano se ne usa anche il participio passato pezzuto/a in unione quasi esclusiva con il sostantivo
messa (‘a messa pezzuta che è quella messa fatta celebrare in suffragio delle
anime dei defunti, elemosinando l’offerta necessaria alla sua celebrazione.
28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche
Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica
locuzione, ora quasi desueta che si
soleva un tempo riferire a sapido dileggio
soprattutto di attempate signore o piú spesso vecchie
inguaribili nubili che andavano in giro
con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano
tentativo di nascondere i danni del tempo;
tali signorine erano paragonate alle
pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre
durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero
di fichi secchi imbiancati all’uopo di polverosa
glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini.
Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era
anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a
malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti
da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del
tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione
(che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da
vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce -
come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore
settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – †
Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato
della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove,
come ò détto e ripeto, le parti delle
commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano
riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche
quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto
giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che
alla costosa cipria, alla economica
farina.
pupata s.vo f.le =
bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla
bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m).
ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale
della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal
masch. lat. ficum(che corrisponde al
greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che
il passaggio al femminile dal maschile fico
è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende
un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un
termine maschile quando si voglia
indicare una cosa intesa piú grande della
corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di
cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di
tavulo, tammorra piú grande di tammurro,
carretta piú grande di carretto
etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di
tiano e caccavella piú piccola del
caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco e
malizioso, in napoletano, si identifica
la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso
che anche in greco con la voce
sýcon su cui fu marcato il latino
ficu(m)= fico, si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.
29 – Paré ‘na úfara
Letteralmente: Sembrare una bufala; détto di chi in preda ad
un rabbioso, virulento accesso di
nervi si lasci andare a manifestazioni
tese, ansiose, irrequiete, isteriche quando non impetuose, travolgenti,
furiose, rovinose, violenti tali da
poter esser messo a paragone al temibile
comportamento di una bufala iraconda, rabbiosa, stizzosa, e si parla di bufola
e non di bufalo perché è risaputo che nel mondo animale, ma forse pure in
quello umano!..., le manifestazioni piú violente, aggressive,
isteriche,irruente,veementi,combattive, battagliere, bellicose son delle
femmine e non dei maschi!
úfara s.vo f.le =
bufala 1 femmina del bufalo;
2 (fig. scherz.) errore madornale; panzana,
corbelleria;
3 notizia giornalistica totalmente infondata; voce dal lat.
tardo *bufala(m)←bufalu(m), per il class. bubalu(m), dal gr. bóubalos
'antilope'
30 – Paré ‘nu capone sturduto
Ad litteram:sembrare un cappone stordito
Détto di chi si dimostri per le piú varie ragioni
scombussolato, stonato, frastornato incerto e confuso al segno di essere incapace
di attendere compiutamente al suo
dovuto, alla medesima stregua di un
pollo che ridotto a cappone veda segnati
i suoi inutili giorni dallo
stordimento e viva solo per
ingrassare. Rammento che un tempo le
mamme che vedevano a tarda sera i propri
figli stanchi e ciondolanti,
incapaci sia di attendere allo studio,
ma pure di portare a termine acconciamente il pasto serale, usavano bollare i
ragazzi con la locuzione in epigrafe.
capone s.vo m.le =
cappone, pollo maschio ma castrato, perciò piú grosso del gallo e con
gustose carni piú tenere;
la voce napoletana deriva dritto per dritto dal lat. class. capone(m), in relazione con il
gr. kóptein 'tagliare' piuttosto che dal lat.
volg. *cappone(m) che à dato la voce italiana cappone.
sturduto =stordito, stonato, rintronato, scombussolato
agg.vo m.le anzi p.p. agg.vato
dell’infinito sturdí= stordire, stonare, rintronare, scombussolare; con
derivazione da un basso lat. *exturdire da collegarsi a turdus= tordo e poi sciocco, confuso.
31 – Paré n’auciello ‘e malaurio
Ad litteram:sembrare
un uccello del malaugurio
Détto di chi
pessimista di natura profetizzianche velatamente o sommessamente per sé e/o per gli altri,guai e disgrazie
continuate; costui a cui spesso il
malaugurio si legge in volto viene
assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette, barbagianni
e consimili ritenuti apportatori di
disgrazie; rammento che già anticamente quando i presagi venivano tratti dagli
àuguri dal volo degli uccelli, un inatteso passaggio di volatili notturni era
ritenuto di cattivo auspicio.
auciello s.vo m.le =
uccello, volatile voce dal lat. tardo aucĕllu(m)→auciello, accanto ad
aucella(m), da *avicellus (*avicella), dim. del class. avis 'uccello'
malaurio s.vo m.le =
cattivo presagio, spiacevole auspicio;
voce formata dalla agglutinazione dimalo(cattivo,spiacevole,triste dal
lat. malu(m)) + aurio (augurio, auspicio, presagio, pronostico, vaticinio
dal lat. au(gu)riu(m)→aurio 'presagio'.
32 -Paré 'na luna 'nquintadecima.
Ad litteram:sembrare una luna nel quindicesimo giorno.
Cosí in tono scherzoso,simpatico ma non offensivo ci si suole rivolgere alle
donne incinte di parecchi mesi che inalberino un pancione grosso e sferico paragonato, nella divertente locuzione alla luna che solo nel quindecesimo giorno dal
novilunio è completamente piena; per traslato il paragone è usato a mo' di sfottò
anche nei confronti di uomini vistosamente grassi e panciuti.
A margine rammento che al proposito della forma del pancione
delle donne incinte prossime a condurre al termine la gestazione, un tempo vi
fu un simpatico modo di dire che sostanziava un curioso, ma quasi sempre
veridico metodo di conoscenza del sesso del nascituro, senza la necessità di
ricorrere ad esami medici ed ecografie: panza tonna (cioè sferica) appronta ‘a
scionna,panza a pponta,spunto e bbasso
appronta (pancia sferica, prepara la
fionda (gioco/arnese destinato ad un maschio) pancia a punta prepara fuso e
gonna (destinate alle donne).
‘nquintadecima (jurnata) = nel quindicesimo giorno;
tonna agg.vo f.le
metafonetico del m.le tunno lett.
rotonda; che presenta una forma piena, rotondeggiante; ma qui piú esattamente,
sferica; tunno/tonna derivano dal lat. lat. (ro)tundu(m)/*(ro)tunda, (deriv. di
rota 'ruota') con normale assimilazione progressiva nd→nn:
(ro)tundu(m)/*(ro)tunda→tunno/tonna.
scionna s.vo
f.le = fionda, 1 arma da getto
costituita da due strisce di corda o di cuoio collegate da una tasca entro cui
si colloca il proiettile; si usa facendola roteare al di sopra della testa e
lasciando poi una delle due strisce
2 arnese/giocattolo per lanciare sassi, formato da una forcella
con un elastico assicurato alle due estremità.voce dal lat. flunda(m) con
tipico passaggio del digramma lat. fl + vocale al napoletano sci (cfr.
flumen→sciummo – flore-m→sciore – flamma(m)→sciamma – flaccare→sciaccà etc.;)
ed assimilazione progressiva nd→nn.
spunto = fuso, spuntone s.vo m.le da non confondere con
l’omografo ed omofono spunto agg.vo m.le di tutt’altro etimo (da ponta con
protesi di una esse intensiva) e significato (acre, pungente,inacidito); invece
questo s.vo a margine derivato dal lat. expunctu(m), part. pass. di expungere,
vale fuso, arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle
estremità,ma privo di vere punte, arnese
che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla
spola; spuntone;
bbasso/basso s.vo m.le lunga ed ampia gonna; in napoletano
il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare
in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900
cfr. Ernesto Murolo (Napoli, 4 aprile
1876 – † Napoli, 30 ottobre 1939)) fu usato per indicare un tipico indumento femminile: un’ampia e lunga gonna,
quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr.
l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig.
gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che
scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à
senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che
coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir
le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non
sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita,
ma inforcandola dal basso id est: dal
di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.
Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti
( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò
trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna in nessuno dei numerosi
calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto
consultare.
appronta voce verbale
qui imperativo 2ª pers. sg. altrove anche 3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito
apprunt-are/à = preparare, tener pronto allestire, verbo che è un denominale del lat. ad+promptu(m) part. pass. di promere 'trarre
fuori' con assimilazione regressiva
dp→pp.
33 - Paré 'nu píreto
annasprato(o, ma raramente, con riferimento ad una donna: paré 'na péreta annasprata).
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo
si dice salacemente quasi esclusivamente(è rarissima
l’espressione coniugata al femminile) di
tutti quegli uomini che arroganti,
boriosi, superbi, presuntuosi e supponenti
si diano troppe arie, atteggiandosi a superuomini, pur non essendo in
possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui
vengono ipso facto paragonati ad un peto che, ma non si sa come, risulti
inzuccherato,o piú esattamente glassato di naspro, ma che -
per quanto coperto di ghiaccia dolce -
resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli
intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv.
di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde
pēditu(m)→piritu(m)→píreto);
annasprato/a agg.vo
m.le o f.le =coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sg. aggettivato
dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;
la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a
quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio
regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali
(Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo
nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine
glassa, ghiaccia atteso che nel
linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una
spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata, usata per
ricoprire e migliorare dei biscotti in
origine dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro
colorato per ricoprire delle torte dolci e
quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu
festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio
coperto di spessa ghiaccia zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel
significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.
Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non
trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove
risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a
riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco
àspros=bianco, ipotesi che quando ne venni a conoscenza poco mi convinse ed
ancóra poco mi convince in quanto
morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à
origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi tuttavia non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi
che formulo (peraltro accolta con un sí convinto dall’amico glottologo prof. Carlo Iandolo) è che trattandosi di una
preparazione molto dolce per naspro si
potrebbe pensare ad un latino (no)n+ asperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad
un (n?)àspros.
34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato
(o con riferimento ad una donna: paré 'na péreta ‘ncantarata).
Letteralmente: Sembrare un peto esploso in un pitale, cioè
sembrare un rumoroso peto che esploso in un pitale (che gli fa da cassa di
risonanza) risulta fragorosissimo. Anche in questo caso con l’espressione a
margine ci si intende riferire ad una donna (con la versione al femminile) o –
piú spesso – con la primaria versione al maschile - ad un uomo saccente, supponente, vanesio, arrogante,
presuntuoso, altezzoso, superbo, tracotante, protervo e sentenzioso che si dia, ma ovviamente a sproposito,
le arie di valente superuomo, parli a casaccio ed a vanvera, dia consigli non
richiesti,propugni per sé l’infallibilità papale ed essendo
in realtà privo di ogni concreto
supporto e fondamento alle sue pretese ed inesistenti virtú, mancante com’è di scienza o conoscenza può solo esser paragonato ad un peto che,
sebbene risuonante e ridondante, rimane pur sempre la stomachevole, fetida cosa che è.
Per píreto vedi antea
sub 33; péreta ne è il metafonetico femminile usato non solo come sinonimo
maggiorato del maschile (ricordo che nel napoletano un oggetto o cosa che
sia, è inteso se maschile piú piccolo o
contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande
rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o
tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú
piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno
eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a
caccavella; nella fattispecie dunque una péreta è intesa piú vasta o rumorosa
del maschile píreto); péreta è usato dicevo non solo come sinonimo accresciuto
di píreto, ma per traslato è usato anche
per riferirsi offensivamente ad
una donna… di scarto, quale è ritenuta una donna becera, villana,
sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed,
a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi sia una demi vierge o
che voglia apparir tale… una donna cioè dalle pessime qualità fisiche e/o
morali che goda a strombazzare le sue
pessimi qualità, comportandosi alla medesima stregua di un peto,
manifestando cioè rumorosamente la sua presenza, donna che ben si può meritare con icastico, seppur
crudo linguaggio, l’appellativo di péreta.
Per completezza dirò poi che tale donna becera e volgare,
altrove, ma con medesima valenza è anche
détta alternativamente lòcena, lumèra o
anche lume a ggiorno; chiarisco: lòcena
= di scarto;la voce è nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiata come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente
l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una
forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di
una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena
che nel napoletano indica in primis un taglio di carne che pur essendo gustosissimo,forse il piú gustoso, è un taglio che ricavato dal quarto anteriore della
bestia, (il taglio meno pregiato e meno
costoso) è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto); lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna
becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale
prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di
quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresì maleolenti tali quale una péreta.
Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella
Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Péreta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che
faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il
termine péreta da nome comune è divenuto
quasi nome proprio.
‘ncantarato/a agg.vo m.le o f.le letteralmente: contenuto in un càntaro
(pitale); agg.vo formato, come se fosse
una voce verbale, quale part. pass. masch./f.le sing. aggettivato di
un inesistente ’infinito *incantarà = contenere in càntaro;in pratica si
ipotizza l’esistenza d’un verbo denominale di càntaro con prostesi di un in→’n
illativo; a sua volta càntaro o càntero è un s.vo m.le che indica un antico,
desueto alto e vasto cilindrico vaso
dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,vaso atto a contenere le deiezioni solide;
etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua
volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine
con un’altra voce partenopea cantàro
(che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa
seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa
un quintale ed è a tale misura che si
riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e
cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di
un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti
napoletani (e tra costoro spiace trovare persino supponenti ed applauditi
autori sedicenti esperti d’usi e costumi oltre che dell’idioma
napoletani…) sprovveduti e poco
informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu
càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel
culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con
un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
(SEGUE)
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