A LA SANFRASÒN oppure SANFASÒN E DINTORNI
Ad litteram: alla carlona; détto di tutto ciò che venga
fatto alla meno peggio, senza attenzione e misura, in modo sciatto e
volutamente disattento, con superficialità e senza criterio.L’espressione è
formata con le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari,
corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se
non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba
si possono permettere il lusso di terminare
per consonante in luogo di una consueta
vocale evanescente paragogica finale
(e/a/o) e raddoppiamento espressivo della consonante etimologica: normalmente
in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come
altrove barre per e da bar o tramme per e da tram
etc.
Fare qualcosa alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn vale dunque come ò accennato – operare in maniera colpevolmente distratta,
sconsiderata, trascurata, negligente, superficiale, svogliata, approssimativa;
dal che si evince che l’espressione à
un valore, un’accezione,un senso, un
significato,una nuance, una sfumatura, un tono, un carattere marcatamente
negativi per cui l’espressione non può esser confusa o usata al posto di
quell’altra che recita FÀ ‘NA COSA SCIUÉ SCIUÉ
id est: fare una cosa in maniera semplice, spoglia, disadorna, sobria,
essenziale ma non raffazzonata come càpita quando una cosa sia fatta alla sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn;
l’espressione sciué sciué è usata
quasi come aggettivazione per indicare
qualsiasi cosa venga fatta con
superficialità, alla buona, senza eccessivo impegno, insomma in maniera
fluente, scorrevole, con semplicità.
Per ciò che attiene all’etimologia, una scuola di pensiero
reputa che l’espressione provenga dal
francese e precisamente dalla voce: échoué participio passato dal verbo échouer che significa: non riuscire,andare a
vuoto. Orbene, è vero che la voce échoué suona, nella lettura esciué, in maniera molto simile allo sciué napoletano,
ma la locuzione partenopea non indica
mai qualcosa di non riuscito o di andato a vuoto, mancato, ma sempre
qualcosa di condotto a termine sia pure in maniera semplice, scorrevolmente,
senza porsi problemi.
Penso perciò che questa ipotesi non sia percorribile.
Altra ipotesi proposta è quella che collega la locuzione
napoletana in epigrafe all’ arabo shoué shoué.; ipotesi affascinante alla luce
delle numerose invasioni arabe che dal 1000 in poi tormentarono Napoli ed il
suo reame, e le numerose parole che il napoletano à mutuato dall’arabo, ma l’ipotesi penso sia da scartare in quanto
l’espressione araba non significa: velocemente, alla buona, ma – al contrario -
piano piano. Reputo – a questo punto - molto piú vicina al vero l’ipotesi che
fa derivare dall’immarcescibile latino la locuzione
napoletana sciué sciué.
Infatti morfologicamente e semanticamente si può pervenire a sciué sciué, partendo
da un reiterato fluens part. presente di
fluere=scorrere, insomma fluens fluens che tradotto suona fluente,
scorrevole con il medesimo significato
di sciué sciué.
A favore di questa ipotesi oltre il medesimo significato,
gioca il fatto che il gruppo FL latino
trasmigrato nel napoletano diviene sempre SCI, come nel caso di flos
(fiore) divenuto: sciore o flumen(fiume) diventato sciummo. Torno
all’espressione donde ci siamo mossi e cioé alla sanfrasòn/zanfrasòn = alla
carlona, e vi torno per rammentare che esiste nell’usato popolare una
simpaticissima locuzione, non volgare ma – nella sua icasticità – un tantino
greve, locuzione che riferendosi ad un soggetto che agisca con colpevole
approssimazione, senza attenzione e/o precisione, in maniera mprecisa, sciatta,
incoerente e spesso illogica, lo
definisce argutamente masto a uocchio, masto ‘e capocchia! che ad litteram è :
maestro (che agisce) ad occhio (è) un maestro
del glande! In effetti chi agisce ad occhio cioè senza la dovuta precisione quasi certamente
non può raggiungere l’esatto fine dell’attività intrapresa per cui non merita
d’esser definito vero maestro, ma solo un maestro della parte terminale del pene e per ovvia
sineddoche dell’intero membro.
masto s.vo m.le = mastro, maestro, artigiano specializzato
o di grande esperienza che spesso à alle dipendenze degli apprendisti. voce
dall’acc.vo lat. magistre(m) con sincope della sillaba gi e semplificazione di stre→ste→sto donde
magistre(m)→ma(gi)st(r)e(m)→maste→masto;
capocchia s.vo f.le = 1 in primis e come nel caso che ci
occupaglande, parte terminale del pene, di forma conoide, costituita da un
rigonfiamento del corpo cavernoso dell'uretra 2 per ampiamento semantico parte
terminale di qualunque oggetto oblungo; voce dal lat.volg. *capa per il class. caput addizionato del suff. occhia f.le di
occhio suffisso diminutivo di sostantivi
che continua il lat. uculum→uclum→ uclu(m)→occhio;per cl→chi cfr. clausum→chiuso, ecclesia→chiesa,
clavum→chiuovo etc.
In coda di tutto quanto détto rammento un’espressione
analogarelativa ad azione sconsiderata,
trascurata, negligente, superficiale, svogliata, approssimativa,di carattere
marcatamente negativo. Dico cioè di quella locuzione che suona FÀ ‘NA COSA A SCAMPULE ‘E MELE COTTE che ad
litteram è: fare una cosa a mo’ di
rimanenza di mele cotte (invendute), id est operare negligentemente ,
superficialmente, svogliatamente, con la medesima approssimazione posta nel
vendere un residuo,una rimanenza di merce scadente , venduta sottocosto tal quale
delle residuali mele cotte che, scartate dai primi acquirenti perché ritenute
dozzinali, mediocri, modeste al confronto con altre, sul finire del mercato
vengono cedute ad un prezzo modestissimo pur di disfarsene. Rammento infine la locuzione icasticamente
becera che suona
FÀ ‘NA COSA A
CCAZZE 'E CANE SPIERTO che è: fare una cosa a membro di cane randagio cioè alla
men peggio contendasi di ciò che capita e di ciò che si ottiene, a guisa di un
cane randagio che non è monogamo, ma copula con chi càpita, dove càpiti senza
alcuna remora, né si perita dei risultati. Raffaele Bracale
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