IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 5
35- Paré 'nu sórece 'nfuso 'a ll' uoglio
Letteralmente: Sembrare un topo bagnato (id est: unto)
dall’olio. Cosí, con icastica rappresentazione ci si riferisce a chi abbia il
capo abbondantemente impomatato, lustro ed eccessivamente profumato, tanto da
poter essere appaiato ad un sorcio che introdottosi in un contenitore d’olio,
ne emerga completamente unto e luccicante; rammento che altrove l’uomo che appaia cosí tanto
pettinato, lustro ed impomatato
vien bollato con l’aggettivo alliffato
(unto, impomatato, imbellettato) che è etimologicamente dal greco aléiphar =
unguento, pomata e per estensione belletto;
sórece s.vo m.le = topino domestico, sorcio, dal lat.
sorice(m);
'nfuso = bagnato,
intriso, inzuppato e qui unto voce verb. part. pass. aggettivato dell’infinito
‘nfonnere =bagnare, aspergere,intridere etc. voce dal lat. in→’n+fúndere con la
consueta assimilazione nd→nn;
uoglio s.vo neutro = olio; voce dal lat. oleu(m) dal greco
élaion; dal lat. class. oleu(m) derivò il lat. volg. ŏlju(m) donde uoglio con tipica
dittongazione della ŏ→uo e passaggio del gruppo lj a gli come per familia→familja→famiglia
– filia→filja→figlia;
rammento in coda all’esame dell’espressione che talora i
napoletani meno esperti la usano anche in riferimento a chi, vittima d’un
improvviso acquazzone, a cui non sia sfuggito,
risulti del tutto inzuppato ed intriso d’acqua; per la verità si tratta
di un riferimento improprio: i napoletani d’antan ed amanti della propria
cultura sanno che in caso di acquazzone il paragone da farsi e che meglio regge
non è con un topo, ma con un polpo: cfr. farse/paré comme a ‘nu purpetiello id est: Bagnarsi fino alle ossa come un
piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
36- Paré 'o diavulo e
ll'acquasanta
Ad litteram: Sembrare il diavolo e l’acqua lustrale.
Détto in riferimento a due individui
l’uno (quello adombrato quale acquasanta) d’indole onesta, giusta, virtuosa,
dabbene e proba, l’altro (inteso
diavolo) d’indole cattiva se non pessima, malvagia, perfida, maligna,empia,
crudele, sadica, turpe, spietata etc.,
di caratteri cioè cosí tanto contrastanti da essere addirittura
antitetici ed incompatibili tali da risultare in perenne contrasto attesa la
incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi
di agire.
diavulo s.vo m.le =
diavolo, demonio, spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, personificato
in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli
angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e
talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabōlu(m)→diavulo, dal gr.
diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male,
calunniare'
acquasanta s. f. acqua benedetta per uso liturgico, acqua
lustrale, purificatoria; la voce è formata agglutinando il s.vo acqua (dal lat.
aqua(m)) con l’agg.vo santa (dal lat. sancta(m), propr. part. pass.f.le di
sancire 'sancire').
37- Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai.
Cosí sarcasticamente viene appellato chi si vada
reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure
che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui in
continuazione rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi,
compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso
personaggio di farse pulcinelleche del teatro di Antonio Petito ((Napoli, 22
giugno 1822 –† 24 marzo 1876).
passaguaje neologismo in forma d’agg.vo per significare
poveretto, poveruomo, povero diavolo, malaugurato, infausto, sfortunato,
sciagurato, formato agglutinando il so.vo pl. guaje (guai, sventure, avversità,
traversie, incidenti; difficoltà, preoccupazioni, grattacapi; voce dal germ.*wai
) con, in posizione protetica, la voce verbale passa (3 pers. sg. ind. pres.
dell’infinito passare/à = muoversi, transitare, ma qui subire, sopportare il
passaggio di (dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo').
38 – Paré ‘o càntaro ‘mmiez’â cchiesia.
Letteralmente : Sembrare il pitale (posto) nel mezzo della
chiesa.Id est : sembrare, ma piú icasticamente, essere qualcosa di incongruo
messo in un contesto, un quadro, un
insieme,una situazione che naturalmente gli siano estranei.Icastica espressione
usata a dileggio di qualcosa o piú spesso di qualcuno entrati a far parte di una condizione, posizione,circostanza,
contingenza, di per sé non inerente alla destinazione di quel qualcosa o alle capacità del qualcuno ; piú
chiaramente un pitale, aggeggio da usarsi quale
vaso di comodo, non potrebbe essere adoperato nel bel mezzo di una
navata di chiesa, contesto che gli è estraneo ; cosí ad esempio un pesante
soprabito in pelliccia usato nei mesi estivi durante una passeggiata sul
lungomare sarebbe inadatto ed incongruo, finendo per l’appunto per esser paragonabile ad càntaro posto nel mezzo di
una chiesa ; alla medesima stregua, sempre ad esempio,qualcuno che si
intestardisse a voler praticare uno sport, o un’attività artistica per i quali non sia tagliato e/o non ne
conosca le regole potrebbe ben dirsi
che appaia un vaso di comodo adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa.
càntaro o càntero alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva
comodamente sedere, vaso di comodo atto
a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è
dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di
non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento
tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una
unità di misura: cantàio= circa un
quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio
‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un
quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e
non occorre spiegare cosa rappresenti
l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati
confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro
‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!),
ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso
di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
Rimando alibi sub càntaro/càntero. per esaminare altre due icastiche frasi e due duri insulti che
chiamano in causa il càntaro/càntero.
‘mmiez’â locuzione
prepositiva di luogo = in mezzo alla, nel mezzo della formata con la
preposizione in→’n→’m
per assimilazione regressiva,dal s.vo m.le miezo (mezzo) dal
lat. medium e dalla preposizione articolata f.le alla nella forma di crasi â
come altrove ô vale al/allo ed ê vale alle oppure a gli (ess. ‘mmiez’ô = in
mezzo al/allo e ‘mmiez’ê = in mezzo alle/a gli);
cchiesia/cchiesa s.vo f.le
1chiesa, luogo di culto, edificio
sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni
cristiane
2 comunità di fedeli che professano una delle confessioni
cristiane,
3 per antonomasia, la chiesa cristiana cattolica;
voce dal lat. (e)cclesia(m)→cchiesia e talora, ma meno
spesso chiesa.
E veniamo infine alle espressioni nelle quali il verbo paré
non appare all’infinito ma coniugato
impersonalmente alla 3ª p. sg. dell’ind. presente ; illustro cioè le
espressioni :
39- Pare brutto!
Letteralmente : Sembra brutto ! nel senso di Sta male
!,è scorretto ! o quanto meno, può
apparire tale. Espressione del piú vieto conformismo usata per ammantare di un perbenismo di
maniera ed epidermico il consiglio fornito nei riguardi di taluni comportamenti
che si raccomanda di non tenére,
non perché ritenuti veramente errati o esecrabili, ma solo perché ipocritamente pensati riprovevoli a gli occhi del mondo.
brutto agg.vo m.le agg.
si dice di persona,
animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga
impressione;
2 cattivo, riprovevole, sconcio (detto di cosa): brutta
abitudine; brutte parole;
3 sfavorevole, negativo: arrivare in un brutto momento;
prendere un brutto voto; fare una brutta figura | grave, doloroso: una brutta
malattia; una brutta notizia
4 che reca danno o molestia; che produce un effetto negativo
5 errato, scorretto,
sleale, disonesto, scortese
Voce dal lat.
brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo.
40- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso.
Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti
potrò vedere vestito della pelle dell'orso (giacché tu non ài nè la forza, nè
la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua
pelle.). La frase viene usata a
sarcastico commento delle azioni iniziate da qualcuno ritenutotanto inetto al punto da non poter portare
mai al termine ciò che
intraprende.Sovente l’espressione è pronunciata preceduta da un esclamatorio
Ahé! Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione
garbatamente ironica da intendersi in
senso antifrastico, id est: Mai ti vedrò vestito da orso!; si tratta di una locuzione usata a mo' di canzonatura davanti alle risibili imprese dei saccenti,
boriosi e supponenti che si imbarchino
(privi come sono delle necessarie forze
fisiche e/o capacità intellettive), in avventure ben superiori alle loro scarse possibilità; va da sé che a causa della penuria di forze e/o
capacità le imprese in cui s’avventurano
son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione
fa le viste di disporsi a catturare un orso per vestirsene della
pelle, ma sciocco, presuntuoso ed
incapace qual è non vi potrà mai
riuscire, per cui facilmente è dato preconizzare che mai lo si potrà
vedere vestito da orso e canzonarlo dicendogli l’espressione in esame; va da sé
che l’orso e la sua cattura son solo un
icastico esempio d’ogni altra impresa intrapresa e non realizzabile per pochezza di forze, mezzi e/o capacità.
ca cong. o ca/che
pronome relativo che;
come congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con
il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca
te decidisse; nun penzo ca chillo vene;
te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o
capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí
| con valore enfatico: nun è ca sta
malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al
congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.):
cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a
pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione
di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo
ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al
congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se
stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle
quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno;
aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella
formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne
vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a
farlo, primma ca è troppo tarde;
ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca
nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in
loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso
ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun
s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a
partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative,
correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato)
ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria
cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí
| entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca,
senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià
‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno
ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al
congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo
fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con
il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse
non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia
ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace
sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun
chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi
di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio
quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s.
o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú
arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú
difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca
dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo
di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.:
songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca
maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc.
congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto
ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
Circa l’etimo di questa congiunzione qualcuno ipotizza, ma poco
convincentemente, un’aferesi di
(poc)ca=poiche mentre mi appare piú
corretto l’etimo dal lat.
quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca
congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe stata
buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i
fatti, fortunatamente, non stanno cosí!
Per il pronome ca mi
limito a ricordare che corrisponde al
che pron. rel. invar.
corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella
forma ca
1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a
persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore
ca/ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e
perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje; ‘o ggiurnale ca/che staje liggenno è
chillo d’ajere
2) talvolta è usato
come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in
cui (temporale e locale):’a staggiona ca/che ce simmo ‘ncuntrate; paese ca
vaje/ che vvaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in
funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in
altre espressioni dell'uso comune è usato solo nella forma che : (nun) tene ‘e
che s’ allamentà, (non) à motivo di
lamentarsi; (nun) tene ‘e che vivere,
(non) à risorse economiche; | nun c'è che ddicere, nulla da
eccepire,espressione di consenso
3) la quale cosa (con
valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.)anche in questo caso si usa
sempre il che : te sî miso a sturià, ‘o
cche te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, ‘a che aggiu capito ca nun
le passa manco p’’a capa chill’affare; | come
pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e
indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a cche pienze?; ma ‘e che
te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che te lamiente; è spesso
rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa
vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà
| che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?,
a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e
cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore
polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che
dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter.,
nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú
spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» |
cca ( e non ca)avv. di luogo
= qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da
notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo)
l’avverbio a margine va scritto senza
alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo
che non ingenera confusione con altri; nel
napoletano esistono , per vero,come abbiamo visto, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e
congiunzione che però si
rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto
sempre con la c iniziale geminata (
cca) e basta ciò ad evitar confusione tra
i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece –
purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati
scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere
l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non
è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad
errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso
che, ripeto, non v’è alcuna sillaba
finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a
quanto fin qui détto, mi occorre però
aggiungere un’ultima osservazione:
è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli)
registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca
(che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata
forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli
albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato
nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano
né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare
il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica
parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la
c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse
lasciandosi fuorviare dal cà registrato
dai suoi omologhi. Dal tempo però dei
varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie
à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad
altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli ad
alcuni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei
quali qualcuno addirittura cattedratico accademico, colpevolmente a digiuno di
regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a
fantasiose, erronee soluzioni grafiche!
mo avv. di tempo ora,
adesso
Nel napoletano vuoi
nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente
spessissimo il vocabolo in epigrafe usato – come ò détto - per significare:
ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con
il medesimo significato.Ciò che voglio segnalare è innanzitutto il suono da assegnare alla
vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia
scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter
tranquillamente definire cittadino o
provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o
aperta connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa connota il provinciale.
Questo mo è
possibile passim trovarlo anche
come mo' o ancóra mò), ma è pur
sempre l’ avv. ora, adesso; poco fa. Concorrente di ora ed adesso, mo à una lunga
tradizione storica, ma non si è quasi
mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato
all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della
consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo
in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la
parola in epigrafe?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia
della parola, unica strada forse da
percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta
soluzione;
vi sono infatti parecchi
scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine
dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di
ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno
scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata
di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino
mox = ora, súbito, come io reputo che
sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice
e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando
un termine, per motivi etimologici,
perde una sola o piú consonanti in fin
di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare
graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che ciò
che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la
parola cu (con) derivante dal latino cum
per pe (per), per po (poi)che è
dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia consonante ( m – r - st ) e non una sillaba
non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile,
pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio
napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano
sono ambedue derivati dal lat.
(i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario
accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano
là dove è presente l’omofono ed omografo
la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’ che necessita dell’apostrofo finale: è il
po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta
da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po =
poi e po’ = può.
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale
cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un
segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene
apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (
articolo un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non
addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di
rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico
alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na
senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un
piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie, inchiostro o appesantisse la pagina scritta e il non
apporlo non fosse invece, quale a mio avviso invece è, segno di sciatteria, pressappochismo dello
scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú
fino ad E.De Filippo e chi piú ne à piú ne metta!)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe
derivare da mox in quanto, pare, che una
doppia consonante come cs cioè x non
possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada
specie per una dentale intervocalica
come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole
linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la
voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino
re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta x ,
anche ammettendo, dicevo che il
napoletano mo discenda da modo e non da mox
non si capisce perché esso
mo andrebbe apocopato (mo’) o
addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi
vanno accentati solo quando,nell’àmbito di
un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel
toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di
modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il
termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno
diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
Te pron. pers. di seconda pers. sg.
1 forma complementare tonica del pron. pers. tu, che si usa
come compl. ogg. quando gli si vuol dare particolare rilievo e nei complementi
retti da prep.; può essere rafforzato con stesso o medesimo: vonno proprio a
tte(vogliono proprio te); pe tte fosse meglio(per te sarebbe meglio); fràteto
venarrà cu tte o cu ttico(tuo fratello verrà con te); ce vedimmo dimane addu
te(ci vedremo da te domani); fallo a ppe tte(fallo da te), da solo; quanto a
tte, facimmo ‘e cunte aroppo(quanto a te, faremo i conti dopo), per ciò che ti
riguarda; allora, pe tte è sbaggliato?(allora, per te è sbagliato?), secondo il
tuo parere | si usa nelle esclamazioni: povero a tte!(povero te!) viato a
tte!(beato te!); nelle comparazioni dopo come e quanto: ne saccio quanto a
tte(ne so quanto te); nun è comme a tte (non è come te); come predicato dopo i
verbi essere, parere, sembrare, a meno che il sogg. non sia tu (espresso o
sottinteso): i’ nun songo te (io non sono te) (ma nun sî cchiú tu(non sei più
tu
2 si usa in luogo del pron. pers. ti in presenza delle forme
pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, in posizione sia
enclitica sia proclitica: te ‘o ddico io(te lo dico io); te nn’ànno parlato?(te
ne ànno parlato?); te ne pentarraje(te ne pentirai); accattatelo(compratelo);
sturiàtelo(studiatelo) | nel linguaggio familiare, con semplice valore
rafforzativo: e senza dicere ata t’ ‘o mettette for’ â porta(e senza aggiungere
altro, te lo mise fuori dalla porta).
veco = vedo voce verbale (1ª pers. sg. ind. pres.
dell’infinito vedé= vedere (dal lat. vid-íre), ma per la voce a margine che à
una radice diversa da vid occorre riferirsi ad un lat. volg. *vidic-are
frequentativo attraverso il suff. ico di vid-íre: la radice vidic è stata
manipolata con la caduta della dentale e crasi delle due residue ii→e sino ad ottenere vi(d)ic→vec, con medesimo
procedimento operato per talune le voci
verbali del verbo andare dove accanto alle voci derivate dalla radice di ji-re
si à la voce derivata da *vadic-are
donde l’italiano vad(ic)→vado ed il napoletano va(di)c→vaco.
vestuto = vestito voce verbale: p. p. agg.to
dell’infinitovèstere = vestire (dal lat. vestíre, deriv. di vestis 'veste' ).
‘a =1) la art. determ. f.le sg. si premette ai vocaboli femminili singolari
(es.: ‘a mamma, ‘a scola, ‘a scala); deriva dal lat. (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; l’aferesi
della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno
diacritico (‘); 2) la prima di un verbo è pronome f.le (es.: ‘a veco cca = la
vedo qui); 3) come nel ns. caso = da preposizione semplice dal lat. de ab nei
valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a
luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.
urzo s.vo m.le = orso, 1 (zool.) genere di grossi mammiferi
plantigradi, dalle forme tozze e robuste, con testa grossa, arti brevi, forti
unghioni, coda corta e pelo foltissimo, che vivono isolati o in gruppi poco
numerosi (ord. Carnivori): orso bruno, specie europea e asiatica con pelliccia
di colore bruno; orso bianco (o polare), specie che abita le zone artiche
circumpolari; orso grigio, grizzly; orso nero, baribal | vendere la pelle
dell'orso prima che sia morto (o prima che sia preso), (fig.) disporre di una
cosa prima che la si abbia in possesso.
2 per le sue movenze lente e impacciate è assunto a simbolo
di goffaggine fisica: muoversi, ballare come un orso, in maniera goffa,
sgraziata | per le sue abitudini di animale solitario, può anche indicare una
persona scontrosa, scarsamente socievole: è un orso, non ha amici, non vede mai
nessuno
3 nel gergo della borsa, ribassista; anche, situazione di
mercato tendente al ribasso.
Voce dal lat. ursu(m) con tipico passaggio della la fricativa
dentale sorda (s) all’affricata alveolare sorda (z).
41 -Pare ca mo 'o vveco…
Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò… Id est: campa
cavallo!, mai vedrò (che ciò avvenga)! Locuzione sarcastica di portata molto
simile alla precedente, ma di valore piú generico che si usa
in presenza di una imprecisata previsione di un risultato fallimentare
cui è comunque destinata l'azione
intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno
qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato.
‘o ‘o/’u = a) ‘o/’u
lo art. determ. m. sing. si premette ai
vocaboli maschili o neutri singolari; la
forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali
e/o dell’entroterra; la derivazione
sia di ‘o che di ‘u è
dal lat. (ill)u(m), acc.vo di
ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa
indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è
che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la
geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o
ppane voce neutra etc.);
b) ed è il ns. caso ‘o talora anche lo ma sempre eliso in
ll’ se proclitico; = lo pronome personale
m.le di terza pers. sing. [forma complementare atona di isso(egli)
(forma tonica lui), esso]
1 si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, in
posizione sia enclitica sia proclitica; si può elidere dinanzi a vocale purché
non crei ambiguità: ‘o’ mmidio assaje (lo invidio molto); ll’aggiu accattato pe
tte(l'ò comprato per te); liéggelo(leggilo); vulesse averlo(vorrei averlo); ‘o
‘í ccanno(eccolo);
2 può assumere il valore di ciò, riferito a una prop.
precedente o con funzione prolettica: vo’ riturnà, me ll’à ditto isso(vuole
ritornare, me lo ha detto lui); ‘o ssapevo ca succedeva(lo sapevo che sarebbe
accaduto) | con lo stesso sign. in funzione predicativa: diceva d’essere figlio
sujo, ma nun ll’era(diceva di essere suo figlio, ma non lo era); era janca ‘e
capille, ll’era addiventata dinto a ppochi mise
(era bianca di capelli, lo era diventata in pochi mesi). Amargine di
tutto ciò rammento che nel napoletano oltre ‘o (articolo o pronome) esiste un
altro ‘o di cui dico qui a seguire:
o’ non è come a prima
vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il)
o del precedente pronome ‘o errata
scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare
inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che
per mancanza di tempo o ignavia non
usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che
in napoletano gli artt. lo/il ed il pronome lo
vanno resi con ‘o e non con o’) a
meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’
(apocope dello of inglese che vale
l’italiano de/De).
L’ o’ napoletano a
margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei
vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera
oj è usata in genere nei vocativi come
oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj
viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e
famosissimi scrittori e/o poeti
partenopei – riportato in una scorrettissima
forma oje con l’aggiunta di una
pletorica inesatta semimuta e, aggiunta
che costringe il vocativo oj a
trasformarsi nel sostantivo oje = oggi
con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di
mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del
napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante
inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o
famosissi scrittori e/o poeti
partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non
alligna, né trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza
spocchiosa...
42– Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino
Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni
mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra
il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica,
disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia simile ad un famoso carro che veniva usato a
Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione
promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella
era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano
precise notizie biografiche , ma tra il 1619
ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un
organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino
operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che -
nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due
organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e
la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del
fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da
cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto
con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494),
figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di
Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in
materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome,
era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran
numero di musici e cantori.In ricordo di
détto accadimento carro, ogni mezzo di
locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione
disordinata e chiassosa si dice che
sembri il carro di Battaglino.
carro s.vo m.le carro,
veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú
animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica.
43 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia
Letteralmente: Sembra un pastore della meraviglia.
Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o
donna) mostri di avere l'aria
imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine
(pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose
stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in
terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto
pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca
che scrisse: pastores mirati sunt.
pastore s.vo m.le
letteralmente pastore, 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e
il governo: fare il pastore; la vita dei pastori; un pastore di pecore, di
capre | (fig.) membro dell'Accademia dell'Arcadia.
2 (fig.) capo, guida; in partic., guida spirituale,
sacerdote: pastore di anime; il Buon Pastore, Cristo | nelle chiese
protestanti, il ministro del culto
3 denominazione di cani di diversa razza, adatti alla
guardia delle greggi.
Ma nell’espressione con il termine pastore non si intende
segnatamente l’accezione sub 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e
il governo:, ma qualsiasi personaggio (statuine di terracotta)che popoli il
presepe napoletano settecentesco.
La voce è dal lat. pastore(m), deriv. di pascere
'pascolare'.
maraviglia s.vo
f.le meraviglia, 1 (come nel caso che ci
occupa) sentimento di viva sorpresa suscitato da qualcosa di nuovo, strano,
straordinario o comunque inatteso; 2 persona o cosa che per la sua bellezza o
il suo carattere straordinario suscita ammirazione.
La voce è dal lat. mirabilia, propr. 'cose meravigliose',
neutro pl. poi inteso femminile
dall'agg. mirabilis 'meraviglioso' da mirabilia si perviene a maraviglia
per il tramite d’un’ assimilazione regressiva della prima i alla successiva a,
alternanza b→v (cfr. bocca→vocca – barca→varca etc.) ed ilia→ilja→iglia (cfr.
familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;)
44 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a
cora fràceta! Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora
fràceta!
Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed
anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata a Napoli ,e ne
dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929),
usata in riferimento a chi realmente sia o in riferimento a chi faccia le viste di essere di salute
estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o
grandi, cosa che gli impedisce di
attendere adeguatamente con costanza e
congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che
devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto
veridicamente) malmesso, malaticcio,
cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di
proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato originariamente per piccoli trasporti di derrate alimentari
e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú
punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza
però dell’individuo cui è paragonato il
solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito
costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il
piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso,
abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni,
acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò
precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione,
riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.
ciuccio s.vo m.le =
asino, ciuco, quadrupede domestico da
tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello
grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e
cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della
parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto
domestico; chi dal lat. *cillus da
collegare al greco kíllos= asino; chi
dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo
del cavallo; son però tutte ipotesi che
non mi convincono molto; e segnatamente
non mi convince (in quanto morfologicamente troppo arzigogolata) quella che si richiama all’iberico chico=
piccolo, a malgrado che sia
ipotesi che appaia semanticamente
perseguibile. Non mi convincono
altresí, in quanto m’appaiono forzate,
l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o
all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la
eventuale strada morfologica seguita per
giungere a ciuccio partendo da ciuco;
d’altro canto non amo qui come
altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce
onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non
con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile
l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il
contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa
derivare dall’italiano ciocco= grosso
pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente
ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed
arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la
voce ciuccio vada collegata
etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il
verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico:
(s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con
evidente derivazione dalla medesima radice
sciach dell’arabo sciacharà= ragliare;
trentatré
agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre;
nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;
3 come s.vo m.le la
parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del
torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni
circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop.
volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl.
trigintatre(s);
chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della
pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a
rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di
piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il
corpo.
2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le
piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio
puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú
3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere
una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga),
rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja
(mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato,
imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione
4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na
chiaja(sei una piaga, fai la piaga).
Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi
(cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo – plattu-m→chiatto etc.)
córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli
animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento
della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m)
con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.
fràceta agg.vo f.le
(al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le
di fracidu(m) con sostituzione
espressiva della occlusiva dentale sonora (d)
con l’occlusiva dentale sorda (t).
Fechélla
letteralmente piccola fica in
quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. élla) di fica (= albero
e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m)
femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il
medesimo significato traslato osceno; piú spesso in luogo del diminutivo
f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello
con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr.
balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un
soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una
persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto
da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un
piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione,
originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra
il 1928 ed il 1930, servendosi di un
vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo barroccio, forniva
servizio di modesto trasporto di vettovaglie e/o masserizie nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti
(rione di case popolari edificato nella zona orientale della città, voluto
da Luzzatti Luigi uomo politico ed
economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia
1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta
don Mimí Ascione(Fechella) ed il suo asino erano notissimi cosí che
quando nella zona fu edificato per le partite
di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A.,
abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale
società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A;
fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di
ascendenze semitiche, Giorgio
Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – † ivi 12 marzo 1930) con il nome di
Associazione Calcio Napoli, ed assunse
poi l'attuale denominazione nel 1964.
Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del
Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e
non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate.
Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel
1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona
fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione
del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato
nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti", sulle tribune dell'impianto costruite in legno, inizialmente denominato
"Stadio Vesuvio"),sulle tribune,dicevo, tra i
20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la
squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati
ottenuti furono tutt’altro che
esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima
sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la
voce d’uno spettatore, quella d’un tal
Raffaele Riano, tifoso azzurro e
frequentatore della redazione del settimanale satirico ”Vaco ‘e pressa” ,molto
diffuso a Napoli negli anni ’20; costui, avvezzo a motti di spirito, esclamò tra l’ilarità degli spettatori a lui
prossimi:”Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!”
(Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!);da quel
momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato,
ma l’umile paziente laborioso asinello, segnato dalle piaghe procuategli dal
basto.
45 - Pare ‘na pupata ‘e Guidotte
Letteralmente: Sembra una bambola di Guidotti; id est:
essere bella affascinante ed elegante tal quale una figura di Guidotti.
Per venire a capo dell’espressione occorre dire súbito di Guidòtti,
Paolo, detto il Cavalier Borghese. Costui fu pittore, scultore, architetto e
scienziato (Lucca 1560 circa - †Roma 1629). Dipinse, prediligendo ampie forme
tardomanieriste e una luce intensa e drammatica, affreschi ed alcune pale
d'altare a Roma (S. Luigi dei Francesi, S. Francesco a Ripa, ecc.), a Napoli
(S. Maria del parto: Gesú, la presentazione al tempio), a Pisa, a Lucca, ecc.
Come studioso del volo umano fu uno dei piú fedeli seguaci delle idee
leonardesche, che arrivò a mettere personalmente in pratica in un tentativo,
peraltro sfortunato, realizzato attraverso un paio di ali artificiali.
Le figure femminili
dei suoi dipinti agghindate
anacronisticamente sempre in abiti cinquecenteschi erano belle, formose ed elegantissime, al segno che
a Napoli divenne proverbiale la locuzione in esame Paré ‘na pupata ‘e
Guidotte (sembrare una bambola di
Guidotti) per riferirsi ad una donna che apparisse molto bella ed affascinante
e vestisse in maniera sontuosa e ricercata. E qui penso di poter chiudere queste
lunghissime pagine, augurandomi d’avere accontentato l’amico A.B. ed
interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale
(FINE)
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