mercoledì 31 dicembre 2014
VARIE 8527
1. FARSE CHIOVERE 'NCUOLLO.
Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze.
2. FÀ 'O CALAVRESE. Fare il calabrese, ossia non mantenere la parola data, esser mendace, spergiuro e mancator di parola tal quale un qualsivoglia calabrese che di costituzione malfidente, sospettoso e diffidente usa non tener fede a quanto promesso, giurato o addirittura pattuito nel timore che il contraente piú furbo di lui possa nuocergli... e gli abbia fatto stendere un patto in suo (del calabrese) danno.
3. FARSE 'A PASSIATA D''O RRAÚ.
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale.
4.Stà sempe 'ntridice/’ntririce.
Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, al centro, in vista, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo.
Ora poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che se ne è ricavato l’avverbio a margine e viene fuori l'espressione in esame con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti. etimologicamente‘ntridice/’ntririce = nel mezzo, al centro, in vista è forgiato da un in→’n illativo + tridice/tririce = tredici numerale dal lat. tredecim, comp. di trís 'tre' e decem 'dieci'; nella morfologia tririce da tridice è riscontrabile la rotacizzazione osco-mediterranea della d→r.
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5. Aspettà cu ll'ove 'mpietto.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
6.'A sciorta 'e Cazzette:jette a piscià e se ne cadette.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
7. Attacca 'o ciuccio addò vò 'o patrone
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
8. 'E maccarune se magnano teniente teniente
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
9. Si 'o dicesse 'a mòra, 'e ffemmene jarriano cu 'o culo 'a fora...
Letteralmente: se lo dettasse la moda, le donne andrebbero col sedere scoperto. Ma al di là del significato letterale che in tempi recenti à avuto pratica attuazione, la locuzione viene usata quando si voglia sottolineare lo scorretto comportamento di taluni, che agiscono non secondo logica o raziocinio, ma seguendo il vento del momento o la moda imposta dall'alto.
10. 'Nu maccarone, vale ciento vermicielle.
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce alla pietanza in sè. Il maccherone della locuzione adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità.
11. Acrus est!
Letteralmente: È acre! Cosí esclama un napoletano davanti ad una situazione ineludibile pur essendo difficile da sopportare. Un vecchio sacrestano, per far dispetto al suo parroco, aveva messo dell'aceto nell'ampollina del vino. Giunto al momento di comunicarsi il prete si adontò dicendo, appunto, acrus est - è acre - ed il sacrista replicò: te ll'he 'a vevere (lo devi bere) controreplica del prete: Dopp''a messa t'aspetto dinto a 'a sacrestia - dopo la messa ti attendo in sacrestia... - il sacrista: He 'a vedé si me truove... - È probabile che non mi troverai... -
12. Alesio, Alè, 'stu lucigno quanno se stuta?
Letteralmente: Alessio, Alessio, questo lucignolo quando si spenge? La locuzione viene usata nei confronti di chi fa discorsi lunghi, noiosi, oziosi e ripetitivi nella speranza, il piú delle volte vana, che costui punto dal richiamo, zittisca e la pianti. È da rammentare che in napoletano la parola cantilena si traduce, appunto, cantalesia (dal verbo cantare + il nome proprio).
13. Agge pacienza e fatte jí 'nculo so' 'a stessa cosa...
Porta pazienza e fregati son la medesima cosa!L'invito proposto dalla prima parte della locuzione a sopportare, ad aver pazienza, viene dalla saggezza popolare equiparato a quello ben piú doloroso di lasciarsi sodomizzare!
14. Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna...
Letteralmente: Non sputare verso il cielo, perché ti ritorna in viso. Id est: chi si pone contro la divinità, ne subisce le pronte conseguenze.
15. 'E fodere cumbattono e 'e sciabbole stanno appese.
Letteralmente: I foderi combattono e le sciabole stanno appese. La locuzione viene usata per commentare l'inettitudine di taluni che demandano, per indolenza o incapacità, il loro compito ad altri, cercando di esimersi dal lavoro.
16. Stà 'ncappella.
Letteralmente: stare in cappella Id est: essere male in arnese, stare mal combinati, anzi stare alla fine della vita , al punto di aver necessità degli ultimi sacramenti. La locuzione fa riferimento ai condannati al patibolo della fine del 1600, che, a Napoli, prima dell'esecuzione venivano condotti in una cappella della Chiesa del Carmine Maggiore, adiacente la piazza Mercato, dove era innalzato il patibolo e nella cappella ricevevano l'estremo conforto religioso.
17. Ll' avimmo fatto 'e stramacchio.
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione di stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
18. Chisto è chillo ca tagliaie 'a recchia a Marco.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare un attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione; segnatamente p. es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
19. 'O CUMMANNÀ È MMEGLIO D''O FFOTTERE.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è piú soddisfazione nel comandare che nel coitare. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
20. Mentre 'o miedeco sturéa, 'o malato se ne more.
Letteralmente: Mentre il medico studia, il malato se ne muore. La locuzione è usata per sottolineare e redarguire il lento improduttivo agire di chi predilige il vacuo pensiero alla piú proficua, se rapida, opera.
21. M' hê dato 'o llardo 'int' â fijura
Letteralmente: Mi ài dato il lardo nel santino. L'espressione si usa nei confronti di chi usi eccessiva parsimonia nel conferire qualcosa a qualcuno e prende l'avvio dall'uso che avevano i monaci di Sant'Antonio Abate a Napoli che gestivano in piazza Carlo III un ospedale per cure dermatologiche ed usavano il lardo dei maiali con il quale producevano unguenti curativi. Allorché poi dimettevano un infermo erano soliti consegnare al medesimo, per il prosieguo della cura, una piccolissima quantità di lardo benedetto, avvolto in un santino raffigurante Sant'Antonio abate. Pur se benedetto la quantità del lardo era veramente irrisoria e pertanto assai poco bastevole alla bisogna.
22. Fà cuofeno saglie e cuofeno scenne.
Letteralmente: far cesto sale e cesto scende - Il Cuofeno (dal latino cophinus) è un particolare cesto di vimini piú stretto alla base e provvisto di manici, per il trasporto delle merci piú varie. La locuzione significa: lasciare che le cose vadano secondo la loro naturale inclinazione, evitare di interessarsi di qualche cosa, non curarsi di nulla.
23. Se pava niente? E sedúgneme da capa ô pede!
Letteralmente: Si paga niente? Ed ungimi da capo al piede. Cosí si dice di chi voglia ottenere il massimo da qualsivoglia operazione che sia gratuita ed eccede a quel fine nelle sue richieste come quel cresimando che, saputo che l'unzione sacramentale era gratuita, apostrofò il vescovo con le parole in epigrafe chiedendo di essere unto completamente.
24. 'A ch' è mmuorto 'o cumpariello, nun simmo cchiú cumpare.
Letteralmente: Da quando è morto il figlioccio, non siamo piú compari. Id est: da quando non c'è piú chi ci aveva uniti, è finito anche il legame. La locuzione viene usata con senso di disappunto davanti ad incomprensibili e repentini mutamenti di atteggiamento o davanti ad inattesi raffredamenti di rapporti un tempo saldi e cordiali, quasi che la scomparsa del figlioccio potesse far cessare del tutto le pregresse buone relazioni intercorrenti tra il padrino e i parenti del defunto figlioccio.
25. Ll' ammore da luntano è comme a ll' acqua 'int' ô panaro.
L'amore di lontano è come acqua nel cestino di vimini Id est: è un lavorio inutile che si tramuta in tormento.
26. Santa Chiara: dopp'arrubbato, 'e pporte 'e fierro!
Letteralmente - Santa Chiara: dopo subíto il furto, apposero le porte di ferro. La locuzione è usata per redarguire chi è tardo nel porre rimedi o aspetti di subire un danno per correre ai ripari, mentre sarebbe stato opportuno il prevenire che è sempre meglio del curare.
27 'Mmarcarse senza viscuotte.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche. Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua naturalmente marina non ancora inquinata.
28. Quann'è pe vizzio, nun è peccato!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto, si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
29. Passasse ll'ngelo e dicesse: Ammenne!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
30. Va truvanno: 'mbruoglio, aiutame.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
31. Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.
32. Paré 'o pastore d''a meraviglia.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
33. Fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica
34. À fatto 'o pireto 'o cardillo.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienznon può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
35. Pigliarse 'o Ppusilleco.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.
36. Nun lassà 'a via vecchia p''a via nova, ca saje chello ca lasse e nun saje chello ca truove!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se cosí si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
37. Petrusino, ogne menesta.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Cosí è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee.
38. Acqua ca nun cammina, fa pantano e fète.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
39. 'Nfila 'nu spruoccolo dinto a 'nu purtuso!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
40. Astipate 'o milo pe quanno te vène sete.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
41. Puozz'avé mez'ora 'e petriata dinto a 'nu vicolo astritto e ca nun sponta, farmacie 'nchiuse e miedece guallaruse!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
Brak
VARIE 8526
1 PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di A. Petito.
2 PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
3 MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP'Ô MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
4 FUTTATENNE!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si sta adontando o si sta preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNA' FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
5 FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
6 FÀ TRENTA E UNO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno non v'è che un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo non previsto.
6 ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
7 ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
8 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Berta alla nipote: aprì la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
9 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche
10.TRE CCALLE E MMESCAMMÉCE.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Così, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che si intromette nelle faccende altrui, che vuol sempre dire la sua, interessandosi con poco impegno o spesa delle faccende altrui. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione prese il nome di callo. La locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
11.CHI SE FA MASTO, CADE DINT'Ô MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
mastrillo = trappola per topi (dal lat. volg. mustriculu(m)→mustriclu(m)→mastrillo).
12.TUTTO A GIESÚ E NIENTE A MARIA.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente.
13.CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA ‘O MMAGNATO!
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri!
14.PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce, viaggiatore inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
15.FÀ COMME A SANTA CHIARA:
DOPP' ARRUBBATA CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subìto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti a danno della antica chiesa partenopea.
16.ESSERE 'A TINA 'E MIEZO.
Letteralmente: essere il tino di mezzo. Id est: essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta così massimamente sporca, laida e lercia da essere paragonata al grosso tino di legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il letame raccolto.
17.'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. E' il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
18.NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non ha nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
19.TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE; TANTA GLIUOMMERE 'A DO' 'E CCACCE?
Letteralmente: Tu non cuci, non fili e non tessi, tanti gomitoli da dove li tiri fuori? Tale domanda sarcastica la si rivolge a colui che fa mostra di una inesplicabile, improvvisa ricchezza; ed in effetti posto che colui cui viene rivolta la domanda non è impegnato in un lavoro che possa produrre ricchezza, si comprende che la domanda è del tipo retorico sottintendendo che probabilmente la ricchezza mostrata è frutto di mali affari. E' da ricordare anche che il termine GLIUOMMERO (gomitolo)indicava, temporibus illis, anche una grossa somma di danaro corrispondente a circa 100 ducati d'argento.
20.MENARSE DINT'Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (imbracature) proprio perché imbracano la bestia.
21.CHI POCO TÈNE, CARO TÈNE.
Letteralmente: Chi ha poco, lo tiene da conto. Id est: il povero non può essere generoso
22.LASSA CA VA A FFUNNO 'O BASTIMENTO, ABBASTA CA MÒRENO 'E ZZOCCOLE.
Letteralmente: lascia che affondi la nave, purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo precipuo scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi.
23.NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti che per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
24.SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
25.MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. E' una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
26.TU MUSCIO-MUSCIO SIENTE E FRUSTA LLA, NO!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
27. 'E DENARE SO' COMM'Ê CHIATTILLE: S'ATTACCANO Ê CUGLIUNE.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono così tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
Brak
VARIE 8525
1.PARE CA S''O ZUCANO 'E SCARRAFUNE...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- È detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
2.ABBRUSCIÀ 'O PAGLIONE...
Incendiare il pagliericcio( cioè procurare un danno definitivo) - Id est: Darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che, pur di non lasciar nulla nelle mani del sopravveniente nemico vincitore, incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.
3.ÒGNE SCARRAFONE È BBELLO A MMAMMA SOJA...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ciascuno autore la propria opera è, in tutti i casi, bella e meritevole di considerazione.
4.S’È AUNITO, ‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO TIRITEPPE…
Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione...
5.CHI SAGLIE ‘NCOPP’Ê CCORNA ‘E CHILLO, PO’ DDÀ ‘A MANO Ô PATATERNO.
Chi si inerpica sulle corna di quello, può stringer la mano al Signore -(tanto sono alte...)- Iperbole usata furbescamente per indicare un uomo molto tradito dalla moglie.
6.QUANNO 'O DIAVULO TUĴO JEVA Â SCOLA, 'O MIO ERA MAESTRO.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza, scaltrezza, perspicacia ed esperienza; sono piú anziano e dunque piú navigato di te, oltre che piú acuto, perspicace, sagace, sveglio, pronto,!
7.'O CANE MOZZECA 'O STRACCIATO.
IL CANE ASSALE CHI VESTE DIMESSO - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
8.TRE SONGO 'E PUTIENTE:'O PAPA, 'O RRE E CHI NUN TÈNE NIENTE...
tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla; il papa è la massima autorità spirituale, come il re è quella di governo; chi non possiede nulla non può essere fatto oggetto né di furto, né di richieste di aiuto o prestiti.
9. È GGHIUTA 'A FESSA 'MMANO Ê CCRIATURE, 'A CARTA 'E MUSICA 'MMANO Ê BBARBIERE, 'A LANTERNA 'MMANO Ê CECATE...
La vulva è finita nelle mani delle bambine, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi. - l'espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani delle fanciulle o ancóra come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sé dovrebbe rischiarare l'oscurità al vedente.
10.S' A' DDA JÍ A DD' 'O PATUTO, NO A DD' 'O MIEDECO.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
11.AÚRIO SENZA CANISTO, FA' VEDÉ CA NUN L'HÊ VISTO.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre accompagnare i fatti.
12.Ô PIRCHIO PARE CA 'O CULO LL'ARROBBA 'A PETTULA...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
13.CHI FATICA 'NA SARACA, CHI NUN FATICA, 'NA SARACA E MMEZA.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
14. ‘A MAMMA D’ ‘E FESSE È SSEMPE INCINTA.
LA MAMMA DEGLI SCIOCCHI è SEMPRE INCINTA - Cioè: il mondo brulica di stupidi.
15.DICETTE 'O PAPPICE VICINO Â NOCE: DAMME 'O TIEMPO CA TE SPERTOSO!
L'insetto punteruolo disse alla noce: Dammi tempo e ti perforerò - Cioè: chi la dura la vince!
Brak
VARIE 8524
1.'O dulore è dde chi 'o sente, no 'e chi passa e ttène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
2.'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, cosí dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
3.A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
4.Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
5.Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono cosí eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
6.'Mparate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA); in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai, vivendo ugualmente benissimo.
7.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a gatta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte; tale terzo profittatore è spesso rappresentato dal/dagli erede/i che gode/godono fino allo scialacquamento del patrimonio del de cuius.
8.'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ) la voce chiancarella (panconcello) deriva quale diminutivo (cfr. suff. r+ ella) dal lat. planca (asse di legno); normale il passaggio di pl a chi (cfr. plus→cchiú – plumbeum→ chiummo – plaga→chiaja etc.).
9.A 'stu nunno sulo 'o càntero/càntaro è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è la salute e per essa il nutrirsi bene e il digerire meglio. In effetti con la parola càntero/càntaro - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare proprio la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola càntero/càntaro (dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos) non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il ccàntero/càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
A margine rammenterò ora di non confondere le voci càntero/càntaro con un’altra voce partenopea : cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
10.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
11.Essere aúrio 'e chiazza e tríbbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto e simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
12.Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
13.Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; renditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
14.A -Appennere 'a giacchetta. B - Appennere 'o cazone.
A- Appendere la giacca B- Appendere il pantalone. Si tratta in fondo di due indumenti - per solito indossati dall'uomo, ma quanto diverso tra loro il significato sottinteso dalle due locuzioni. Quello sub A - fa riferimento alla giacca e sta a significare che si è smesso di lavorare e ci si è pensionati, rammentando che - normalmente - specie per lavori manuali l'uomo è solito liberarsi della giacca e lavorare in maniche di camicia; per cui disfarsi del tutto della giacca significa che non si è intenzionati a rimettersi al lavoro. Diverso e di significato piú grave la locuzione sub B;essa adombra il significato di decedere, lasciando una vedova, tenendo presente che della giacca ci si libera per lavore, mentre del calzone lo si fa per coricarsi anche definitivamente.
15. bbona 'e Ddio!
Letteralmente: Con il benvolere di Dio. Id est: ci assista Dio. E' l'augurio che ci si autorivolge nel principiar qualsiasi cosa affinché la si possa portare a compimento senza noie o pericoli. Traduce ad litteram l'augurio A la buena de Dios che i naviganti spagnoli solevano rivolgersi scambievolmente al levar delle àncore.
16.Scuntà a ffierre 'e puteca.
Letteralmente: scontar con utensili di bottega. Id est: saldare un debito conferendo non il dovuto danaro, ma una prestazione di lavoro confacente al proprio mestiere, con l'uso dei ferri da lavoro usati nella propria bottega.
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VARIE 8523
1 PARÉ 'O MARCHESE D''O MANDRACCHIO.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
2 NCARISCE, FIERRO, CA TENGO N'ACO 'A VENNERE!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grossi beni o sostanziose capacità operative da conferire in qualsivoglia contrattazione.
3 CHIANU CHIANO 'E CCÒGLIO E SSENZA PRESSA, 'E VVENGO.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
4 FÀ COMME Ê FUNARE.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari. Quando poi la corda era stata fabbricata i cordari, divelti i chiodi di sostegno lasciavano che i capi delle corde cadessero in terra con le corde ammatassate, donde nacque l’espressione: tirà ‘o capo ‘nterra per indicare d’aver terminato alcunché, espressione usata anche nella forma dell’imperativo tirammo ‘stu capo ‘nterra per esortare a terminare qualcosa o a por fine ad una questione.
5 DÀ ZIZZA PE GGHIONTA.
Letteralmente: dar carne di mammella per aggiunta di derrata, un di piú generosamente concesso, ma trattandosi di vile mammella la concessione non è poi veramente positiva e tutta l'espressione è da intendere in senso ironico ed antifrastico equivalente ad accrescere un danno, conciar male qualcuno, cagionandogli ulteriori danni.
6 MA ADDÓ T'ABBÍE SENZA 'MBRELLO?
Letteralmente: Ma dove ti dirigi senza ombrello (se già piove?)? La domanda traduce sarcasticamente l'avvertimento di non affrontare qualsivoglia situazione se non si è preparati e pronti, armati cioè oltre che della buona volontà, degli strumenti atti alla bisogna e a farti da scudo ove ne occorra il caso.
7 MEGLIO ESSERE CAP' 'ALICE CA CODA 'E CEFARO.
Letteralmente: meglio (esser) testa di alice che coda di cefalo. Id est: meglio comandare, esser primo sia pure in un ristretto consesso, che ultimo in un'imponente accolta.
8 SE PIGLIANO CCHIÚ MMOSCHE CU 'NA GOCCIA 'E MÈLE, CA CU 'NA VOTTA 'ACITO.
Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre.
9 A PPAVÀ E A MMURÍ, QUANNO CCHIÚ TTARDE SE PO’.
A pagare e a morire quando piú tardi sia possibile. Trattandosi di due faccende dolorose, la filosofia popolare le à accomunate, consigliando di procrastinarle ambedue sine die.
10 SI 'O CIUCCIO NUN VO’ VEVERE AJE VOGLIA D''O SISCÀ.
Se l'asino non vuol bere, puoi fischiare quanto vuoi per indurlo a bere, non otterrai nulla. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare la testarda mancanza di volontà di qualcuno, stante la quale tutte le esortazioni sono vane...
11 ARIA SCURA E FFÈTE 'E CASO!
Letteralmente: Aria torbida che puzza di formaggio. Lo si dice a salace commento di errate affermazioni di qualcuno che abbia confuso situazioni diverse tra di loro e le abbia messe in relazione incorrendo in certo errore come accadde a Pulcinella che, confondendo la porta della dispensa con la finestra, si espresse con la frase in epigrafe...
12 CHI TÈNE CCHIÚ SSANTE VA 'MPARAVISO.
Letteralmente: Chi à piú santi va in Paradiso; ma è chiaro che la locuzione non si riferisce al premio eterno, ma molto piú prosaicamente ai beni terreni,a prebende e posti di comando e ben remunerati; e i santi - manco a dirlo - non sono quelli che ànno praticato in maniera eroica le virtú cristiane, ma molto piú semplicemente coloro che son capaci di dare una spinta, di raccomandare o - come eufemisticamente si dice oggi, di segnalare qualcuno a chi gli possa giovare nel senso suaccennato.
13 I' TE CUNOSCO PIRO A LL' UORTO MIO.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni: perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero, tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe, volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe tributato onori di sorta.
14 ESSERE FETENTE DINT' A LL' OSSA.
Letteralmente: essere fetente fin dentro le ossa. Id est: appalesarsi perfido, spregevole, di animo cattivo, ma non solo esteriormente quanto fin dentro la quintessenza dell'essere.
15 'O PATATERNO DÀ 'O PPANE A CHI NUN TÈNE 'E DIENTE I 'E VISCUOTTE A CCHI NUN S''E PPO’ RUSECÀ...
Letteralmente: Il Signore concede il pane a chi non tiene i denti e i biscotti a chi non può sgranocchiarli... Id est: Spesso nella vita accade di esser premiati oltre i propri meriti o di venire in possesso di fortune che si è incapaci di gestire.
16 'A CARCIOFFOLA S'AMMONNA A 'NA FRONNA Â VOTA.
Letteralmente: il carciofo va mondato brattea a brattea. Id est: le cose vanno fatte con calma e pazienza, se si vogliono ottenere risultati certi bisogna procedere lentamente e con giudizio, paulatim et gradatim.
17 ACQUA SANTA E TTERRA SANTA, PURE LOTA FANNO.
Letteralmente: acqua santa e terra santa pure fango fanno. Id est: l'unione di due cose di per sè buone, non è detto che non possano produrre effetti spiacevoli. Lo si dice con riferimento alla società di due individui che, presi singolarmente, mai farebbero sospettare esser capaci di produrre danno e che invece, uniti, producono grave nocumento ai terzi.
18 CHI SE METTE PAURA, NUN SE COCCA CU 'E FFEMMENE BBELLE.
Letteralmente: chi à paura, non va a letto con le donne belle. È l'icastica trasposizione dell'algido toscano: chi non risica, non rosica. Nel napoletano è messo in relazione il comportamento coraggioso, con la possibilità di attingere la bellezza muliebre, che è un gran bello rosicchiare.
19 ESSERE 'O RRE CUMMANNA A SCOPPOLE.
Letteralmente. essere il re comanda a scappellotti. Cosí è detto chi voglia comandare o decretare maniere comportamentali altrui senza averne né l'autorità certificata, né il carisma derivante da doti morali o conclamate esperienze, un essere insomma che potrebbe comandare giusto ai ragazzini, magari assestando loro qualche scappellotto, per essre ubbidito.
20 CCA SOTTO NUN CE CHIOVE!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disoposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
21 'A CERA SE STRUJE I 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto.
22 TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile.
23 ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo.
24 AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
25 VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.
26 VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e allora si avverte l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
27 FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
28 'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
29 'O PURPO S' À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo va fatto cuocere con la sola acqua di cui è pieno. La locuzione si usa quando si voglia commentare l'inutilità degli ammonimenti, dei consigli et similia, che non vengono accolti perché il loro destinatario, è di dura cervice e non intende collaborare a recepire moniti e o consigli che allora verranno da lui accolti quando il soggetto si sarà autoconvinto della opportunità di accoglierli.
30 ACQUA ANNANZE E VVIENTO ARRETO...
Letteralmente: Acqua davanti e vento dietro. È il malevolo augurio con cui viene congedato una persona importuna e fastidiosa cui viene indirizzato l'augurio di essere attinto di faccia da un violento temporale e di spalle da un impetuoso vento che lo spingano il piú lontano possibile.
31 ABBUFFÀ 'A GUALLERA.
Letteralmente: gonfiare l'ernia. Id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno al punto di procurargli una metaforica enfiagione di un'ipotetica ernia. Si consideri però che in napoletano con il termine "guallera"[dall’arabo wadara] si indica oltre che l'ernia anche il sacco scrotale, ed è ad esso che con ogni probabilità fa riferimento questa locuzione.
32 QUANNO 'A FEMMENA VO’ FILÀ, L'ABBASTA 'NU SPRUOCCOLO.
Letteralmente: quando una donna vuol filare le basta uno stecco - non à bisogno di aspo o di fuso.Id est: la donna che vuole raggiungere uno scopo, una donna che voglia qualcosa, è pronta ad usare tutti i mezzi pur di centrare l'obbiettivo, non si ferma cioè davanti a nulla...
33 TENÉ 'E GGHIORDE.
Letteralmente: essere affetto da giarda, malattia che colpisce giunture ed estremità di taluni animali; le parti colpite si gonfiano impedendo una corretta andatura. La locuzione è usata nei confronti di chi appare pigro, indolente e scansafatiche quasi avesse difficoltà motorie causate da enfiagione delle gambe che appaiono come contratte ed attanagliate da nodi. In turco, con il termine jord si indica il tipico doppio nodo dei tappeti - da jord a gghiorde il passo è breve.
34 FARSE CHIOVERE 'NCUOLLO.
Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze.
35 FÀ 'O CALAVRESE.
Fare il calabrese, ossia non mantenere la parola data, esser mendace, spergiuro e mancator di parola tal quale un qualsivoglia calabrese che, malfidente di costituzione, sospettoso e diffidente usa non tener fede a quanto promesso, giurato o addirittura pattuito nel timore che il contraente, piú furbo di lui possa nuocergli... e gli abbia fatto stendere un patto in suo (del calabrese) danno.
36 FARSE 'A PASSIATA D''O RRAÚ.
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale.
37.STÀ SEMPE 'NTRIDICE/’NTRIRICE.
Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, al centro, in vista, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo.
Ora poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che se ne è ricavato l’avverbio a margine e viene fuori l'espressione in esame con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti. etimologicamente‘ntridice/’ntririce = nel mezzo, al centro, in vista è forgiato da un in→’n illativo + tridice/tririce = tredici numerale dal lat. tredecim, comp. di trís 'tre' e decem 'dieci'; nella morfologia tririce da tridice è riscontrabile la rotacizzazione osco-mediterranea della d→r.
...
38 ASPETTÀ CU LL'OVE 'MPIETTO.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
39'A SCIORTA 'E CAZZETTA:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
40 ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÒ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
41 'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
42 T'AMMERETAVE 'A CRUCE (oppure CROCE) GGIÀ 'A PARICCHIO..
Ad litteram: ti meritavi (nel senso di: avresti meritato) la croce già da parecchio tempo. A Napoli, la locuzione in epigrafe è usata per prendersi gioco pesantemente di coloro che, avendo ottenuta una croce di cavaliere o di commendatore, montano in superbia e si gloriano eccessivamente per il traguardo, quasi certamente, immeritatamente raggiunto; ebbene a costoro (soprattutto quando siano bottegai e/o liberi professionisti), con la locuzione in epigrafe, si vuol sarcasticamente rammentar loro che ben altra croce e già da gran tempo, avrebbero meritato intendendoli classificare e ritienerli malfattori, delinquenti, masnadieri tali da poter meritare piú che il premio della commenda o del cavalierato (con relativo emblema di una croce nastrata), il supplizio della crocefissione quella cui, temporibus illis, erano condannati tutti i ladroni...e/o truffatori.
ammeretave letteralmente meritavi (voce verbale 2 pers. sing. imperfetto ind. dell’infinito ammeretà), ma nell’espressione a margine, più che valore di imperfetto à il valore di condizionale passato; ammeretà=esser degno di avere, di guadagnare rafforzativo attraverso la prostesi della prep. ad di meritare (ad+meritare→ammeretà) con etimo dal latino meritare derivato di meritus p.p. di merere;
cruce/croce= croce (segno di distinzione, ma pure strumento di morte infamante) con etimo dall’acc.vo lat. cruce(m) da crux-crucis; da notare la particolarità che il napoletano conserva sia la voce cruce (con la vocale etimologica chiusa u) sia la voce croce forse per suggestione dell’italiano che muta, stranamente, l’originaria u nella vocale o sia pure chiusa (ó) per conservare la chiusura della u e se ciò non meraviglia per l’italiano, per il napoletano è cosa inusuale: infatti il napoletano conserva quasi sempre tali qual sono le originarie sillabe e vocali lunghe e tende a chiuderle ulteriormente, piuttosto che ad aprire le sillabe d’avvio etimologiche che se brevi tendono alla dittongazione;
ggià =già, prima d’ora, prima d’allora avverbio di tempo dal lat. iam;
‘a paricchio = da parecchio (tempo) loc. avv.le di tempo formata dalla prep. sempl. ‘a (da) +paricchio= parecchio, non poco; agg. indefinito, in nap. usato in modo indeclinabile, che indica quantità o numero rilevante, ma leggermente inferiore rispetto a molto (tuttavia i due agg. vengono spesso usati come sinonimi):doppo paricchi juorne (dopo parecchi giorni); nce stevano paricchi persone (c'erano parecchie persone); l’etimo è dal lat. volg. *pariculu(m), dim. di par paris pari.
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43 'NU MACCARONE, VALE CIENTO VERMICIELLE.
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce alla pietanza in sè. Il maccherone della locuzione adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità.
44 ACRUS EST!
Letteralmente: È acre! Cosí esclama un napoletano davanti ad una situazione ineludibile pur essendo difficile da sopportare. Un vecchio sacrestano, per far dispetto al suo parroco, aveva messo dell'aceto nell'ampollina del vino. Giunto al momento di comunicarsi il prete si adontò dicendo, appunto, acrus est - è acre - ed il sacrista replicò: te ll'he 'a vevere (lo devi bere) controreplica del prete: Dopp''a messa t'aspetto dinto a 'a sacrestia - dopo la messa ti attendo in sacrestia... - il sacrista: He 'a vedé si me truove... - È probabile che non mi troverai... -
45 ALESIO, ALÈ, 'STU LUCIGNO QUANNO SE STUTA?
Letteralmente: Alessio, Alessio, questo lucignolo quando si spenge? La locuzione viene usata nei confronti di chi fa discorsi lunghi, noiosi, oziosi e ripetitivi nella speranza, il piú delle volte vana, che costui punto dal richiamo, zittisca e la pianti. È da rammentare che in napoletano la parola cantilena si traduce, appunto, cantalesia (dal verbo cantare + il nome proprio).
46 AGGE PACIENZA E FATTE JÍ 'NCULO SO' 'A STESSA COSA...
Porta pazienza e fregati son la medesima cosa!L'invito proposto dalla prima parte della locuzione a sopportare, ad aver pazienza, viene dalla saggezza popolare equiparato a quello ben piú doloroso di lasciarsi sodomizzare!
47 NUN SPUTÀ 'NCIELO CA 'NFACCIA TE TORNA...
Letteralmente: Non sputare verso il cielo, perché ti ritorna in viso. Id est: chi si pone contro la divinità, ne subisce le pronte conseguenze.
48 'E FODERE CUMBATTENO I 'E SCIABBOLE STANNO APPESE.
Letteralmente: I foderi combattono e le sciabole stanno appese. La locuzione viene usata per commentare l'inettitudine di taluni che demandano, per indolenza o incapacità, il loro compito ad altri, cercando di esimersi dal lavoro.
49 STÀ 'NCAPPELLA.
Letteralmente: stare in cappella Id est: essere male in arnese, stare mal combinati, anzi stare alla fine della vita , al punto di aver necessità degli ultimi sacramenti. La locuzione fa riferimento ai condannati al patibolo della fine del 1600, che, a Napoli, prima dell'esecuzione venivano condotti in una cappella della Chiesa del Carmine Maggiore, adiacente la piazza Mercato, dove era innalzato il patibolo e nella cappella ricevevano l'estremo conforto religioso.
50 LL' AVIMMO FATTO 'E STRAMACCHIO.
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione di stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
51 CHISTO È CCHILLO CA TAGLIAJE 'A RECCHIA A MARCO.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare un attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione; segnatamente p. es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
52 'O CUMMANNÀ È MMEGLIO D''O FFOTTERE.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è piú soddisfazione nel comandare che nel coitare. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
53 MENTRE 'O MIEDECO STURÉA, 'O MALATO SE NE MORE.
Letteralmente: Mentre il medico studia, il malato se ne muore. La locuzione è usata per sottolineare e redarguire il lento improduttivo agire di chi predilige il vacuo pensiero alla piú proficua, se rapida, opera.
54 M' HÊ DATO 'O LLARDO 'INT'Â FIJURA
Letteralmente: Mi ài dato il lardo nel santino. L'espressione si usa nei confronti di chi usi eccessiva parsimonia nel conferire qualcosa a qualcuno e prende l'avvio dall'uso che avevano i monaci di Sant'Antonio Abate a Napoli che gestivano in piazza Carlo III un ospedale per cure dermatologiche ed usavano il lardo dei maiali con il quale producevano unguenti curativi. Allorché poi dimettevano un infermo erano soliti consegnare al medesimo, per il prosieguo della cura, una piccolissima quantità di lardo benedetto, avvolto in un santino raffigurante Sant'Antonio abate. Pur se benedetto la quantità del lardo era veramente irrisoria e pertanto assai poco bastevole alla bisogna.
55 FÀ CUOFENO SAGLIE E CUOFENO SCENNE.
Letteralmente: far cesto sale e cesto scende - Il Cuofeno (dal latino cophinus) è un particolare cesto di vimini piú stretto alla base e provvisto di manici, per il trasporto delle merci piú varie. La locuzione significa: lasciare che le cose vadano secondo la loro naturale inclinazione, evitare di interessarsi di qualche cosa, non curarsi di nulla.
56 Se pava niente? E sedúgneme da capa ô pede!
Letteralmente: Si paga niente? Ed ungimi da capo al piede. Cosí si dice di chi voglia ottenere il massimo da qualsivoglia operazione che sia gratuita ed eccede a quel fine nelle sue richieste come quel cresimando che, saputo che l'unzione sacramentale era gratuita, apostrofò il vescovo con le parole in epigrafe chiedendo di essere unto completamente.
57 'A CH' È MMUORTO 'O CUMPARIELLO, NUN SIMMO CCHIÚ CUMPARE.
Letteralmente: Da quando è morto il figlioccio, non siamo piú compari. Id est: da quando non c'è piú chi ci aveva uniti, è finito anche il legame. La locuzione viene usata con senso di disappunto davanti ad incomprensibili e repentini mutamenti di atteggiamento o davanti ad inattesi raffredamenti di rapporti un tempo saldi e cordiali, quasi che la scomparsa del figlioccio potesse far cessare del tutto le pregresse buone relazioni intercorrenti tra il padrino e i parenti del defunto figlioccio.
58 LL' AMMORE DA LUNTANO È COMME A LL' ACQUA 'INT' Ô PANARO.
L'amore di lontano è come acqua nel cestino di vimini Id est: è un lavorio inutile che si tramuta in tormento.
59 SANTA CHIARA: DOPP'ARRUBBATO, 'E PPORTE 'E FIERRO!
Letteralmente - Santa Chiara: dopo subíto il furto, apposero le porte di ferro. La locuzione è usata per redarguire chi è tardo nel porre rimedi o aspetti di subire un danno per correre ai ripari, mentre sarebbe stato opportuno il prevenire che è sempre meglio del curare.
60 'MBARCARSE SENZA VISCUOTTE.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche. Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua naturalmente marina non ancora inquinata.
61 'O SPARAGNO NUN È MMAJE GUADAGNO...
Il risparmio non è mai un guadagno... Id est:non bisogna mai fidarsi dell’apparente facile guadagno, perché nasconde sempre la fregatura
62 S'À DDA FÀ 'O PIRETO PE CQUANTO È GGRUOSSO 'O CULO.
Letteralmente: occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati.
63 CHI SE METTE CU 'E CRIATURE, CACATO SE TROVA.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto piú giovani di lui è destinato a fine ingloriosa, come chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, che derivano dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini.
64 'A GALLINA FA LL'UOVO E Ô GALLO LL'ABBRUSCIA 'O MAZZO.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora e un altro si lamenta della fatica che non à fatto. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o che si voglia convincere qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non à compiute, e di cui invece fa le viste di portare il peso.
65 MO ABBRUSCIALE PURE ‘A BBARBA E PPO DICE CA SO' STAT' IO!
Letteralmente: Adesso ardigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa. Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdí santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e cosí via. Nell'agitazione dell'eloquio finí per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
66 QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.
67 QUANNO SI 'NCUNIA STATTE E CQUANNO SI MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
68 MIÉTTELE NOMME PENNA!
Letteralmente: Chiamala penna! La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi piuma d'uccello. La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, come sparisce un oggetto prestato a qualcuno che per solito non restituisce ciò che à ottenuto in prestito. A maggior conferma del fatto si usa dire che se il prestito fosse una cosa buona, si impresterebbe la moglie... a margine rammento che con il nomme penna si intendeva anche una vilissima monetina che si spendeva con facilità, senza remore o pentimenti; la moneta détta penna ebbe il valore esiguo di 1 carlino, questa stessa moneta per il motivo ricordato è ricollegabile al détto qui esaminato: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento appunto ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri; la monetina s’ebbe il nome di penna giacché su di una delle facce (verso) v’era effigiata un’ala pennuta, quella dell’arcangelo Gabriele che sul dritto era il protagonista dell’Annunciazione.
69 QUANN'È PPE VVIZZIO, NUN È PPECCATO!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto, si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per dolo, ma per mero difetto o errore.
70 PASSASSE LL' ANGELO E DICESSE: AMMENNE!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con il congiuntivo ottativo la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à con il suo assenso prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
71 VA TRUVANNO: 'MBRUOGLIO, AIUTAME.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
72 PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di A. Petito.
73 PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
74 FÀ 'O FARENELLA.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto, le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla economica farina.
75 À FATTO 'O PIRETO 'O CARDILLO.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienznon può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
76 PIGLIARSE 'O PPUSILLECO.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.
77 NUN LASSÀ 'A VIA VECCHIA P''A VIA NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se cosí si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
78 PETRUSINO, OGNE MENESTA.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Cosí è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee.
79 ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FFÈTE.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
80 'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
81 ASTIPATE 'O MILO PE CQUANNO TE VÈNE SETE.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
82 PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE 'NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
83 Brak
CULO & DINTORNI
CULO & DINTORNI
L’amico G.J. O. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi à chiesto di occuparmi della voce italiana/napoletana in epigrafe, di indicargli altri eventuali sinonimi nel napoletano, ed eventuali espressioni verbali collegate. L’accontento illico et immediate cominciando a parlare della voce culo cui farò seguire i tanti sinonimi che mi son noti dicendo sia di quelli vivi e vegeti che di quelli antichi e desueti. Cominciamo dunque con
culo s.vo m.le = in origine l’orifizio anale delle bestie poi per sineddoche il culo, il posteriore, il didietro, il sedere, il complesso delle natiche degli esseri umani ; etimologicamente è voce dal lat. culum che è dal greco koîlos ; questa voce napoletana a margine fu accolta temporibus illis anche nella lingua nazionale e viene tuttora usata ancorché catalogata, ma non se ne comprende il motivo, come voce volgare o popolare. Un tempo da qualcuno si ipotizzò che etimologicamente la voce potesse essere un adattamento del lat. caelu(m)(cielo) pigliando a riferimento semantico la concavità e dell’uno e dell’altro. Idea balzana stante la presenza diretta come ò détto della voce lat. culum marcata sul greco koîlos (vuoto, concavo) donde anche kolon= intestino; tuttavia rammento che la voce caelu(m)(Cielo) fu usata, quale nome proprio, al posto di Ciullo ( che della voce culo era stato un adattamento di comodo attraverso l’epentesi eufonica di una (I) ed il raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (L) ed infatti quel poeta di Alcamo nato nella prima metà del XIII secolo, e che fu uno dei piú significativi rappresentanti della poesia popolare giullaresca della scuola siciliana s’ ebbe in origine il nome di Ciullo d’Alcamo ( e cioè Culo di Alcamo)per essere il piú famoso pederasta passivo della sua città e successivamente al tempo del bigotto perbenismo didattico vide il suo nome mutato in Cielo d'Alcamo per non turbar la mente dei/delle giovani discenti.
Manco a dirlo la voce culo entra in numerosissime locuzioni alcune delle quali icastiche, ma dignitose, altre incisive sí, ma dure e becere; tra le prime ricordo
SCIORTA E CAUCE 'NCULO, VIATO A CCHI NNE TÈNE!
Beato chi à buona fortuna e calci in culo cioè spintarelle e/o raccomandazioni.
STÀ CULO E CCAMMISA Ad litteram: stare culo e camicia; id est: Stare sempre insieme, andare molto d'accordo; e lo si dice di amici,compagni adusi ad una frequentazione assidua.
Altra interessante locuzione è
PIGLIÀ P’ ‘O CULO
La lucuzione in epigrafe nella sua esposizione completa è: Piglià p’ ‘o culo a quaccheduno. L’espressione ad litteram vale pigliare/prendere per il culo e fuor del velame sta per
prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, prenderlo per i fondelli, farlo oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione.È interessante rammentarsi da quale situazione storico-ambientale tragga origine la locuzione in esame. Essa si riallaccia alla ignominosa cerimonia detta in napoletano zitabona che comportava, per il debitore insolvente dopo di averla compiuta, la necessità di andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era infatti quello il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove pronunciando l’espressione Cedo bona spesso corrotta in Cedo bonis dichiarava fallimento manifestando la sua insolvibilità; la cerimonia [che adattando il Cedo bona latino diventava – in napoletano - zitabona]prevedeva oltre la pronunzia della formula, il dover poggiare le nude natiche su di una colonnina posta a Napoli innanzi al tribunale della Vicaria a dimostrazione di non aver piú niente. Altrove, ad es. a Firenze la cerimonia era la medesima, ma in luogo della colonnina occorreva sedersi, a nude natiche, su di un cuscino di pietra. La cerimonia diede vita a Napoli anche all’espressione Jirsene cu ‘na mano annante e n’ata arreto che si usò e si usa a dileggio di chi, non avendo concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.Va da sé che l’esser costretti a mostrarsi a natiche nude in pubblico, comportasse il diventare oggetto di beffa, burla, canzonatura, motteggio, irrisione da parte degli astanti, situazione che diede vita all’espressione in esame piglià p’ ‘o culo che – come ò détto – vale prendersi gioco di qualcuno, schernirlo, deriderlo, beffare, burlare, canzonare, irridere, dileggiare, prendere (in giro) a causa del culo.
Tra le locuzioni dure e becere rammento
VA’ A FFÀ ‘NCULO e VALLO A PPIGLIÀ ‘NCULO
Ci troviamo a che fare con due icastiche, sebbene grevi, triviali espressioni che si colgono sulle labbra di chi abbia perso la pazienza per essere o essere stato troppo irritato ed infastidito da un importuno, un seccatore,un scocciatore,un rompiscatole e lo apostrofi perciò con decisione se non fermezza ed energia nel tentativo di liberarsene.La prima locuzione ad litteram vale : Vai a fare (id est: a coire) nel culo! Cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e va’ ad occupare diversamente il tuo tempo dedicandoti a pratiche sodomitiche piuttosto che ad infastidire me.
Piú acconciamente della prima locuzione, la seconda (pur restando nel medesimo àmbito) ad litteram vale : Vai a prenderlo (e quale sia il quid da prendere è intuibile) nel culo cioè a dire: Non mi importunare piú, liberami della tua presenza e, piuttosto che infastidirmi, va’ ad occupare il tuo tempo in pratiche sodomitiche, tenendo però non la parte attiva, ma quella passiva che è la soccombente, meno gradevole e piú dolorosa!
Ò parlato di piú acconciamente perché ritengo che una persona spazientita piú che invitare il suo seccatore a prendersi un divertimento intenda invitarlo ad assoggettarsi ad una sordida sofferenza...
Altre espressioni icasticamente scurrili sono:
FÀ TREMMÀ ‘O STRUNZO ‘NCULO
Ad litteram: far tremare lo stronzo nel culo; id est: incutere in qualcuno, attraverso gravi minacce, tanto timore o spavento da procurargli, iperbolicamente, un convulso tremore degli intestini e del loro contenuto prossimo ad essere espulso. CHILLO SE ‘MPIZZA 'E DDETE 'NCULO E CACCIA 'ANIELLE.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
NUN FÀ PÉRETE A CCHI TÈNE CULO ed alibi
NUN DÀ PONIE A CCHI TÈNE MANE.
Ad litteram: Non far peti a chi sia provvisto di culo ed alibi Non dar pugni a chi abbia le mani
I due consigli in esame, con parole diverse mirano in fondo allo stesso scopo: avvertire colui cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere (secondo un noto principio fisico) in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
A questo punto vale la pena rammentare che furbescamente nell’inteso comune popolare esistono vari tipi di culo:
CULO A BUTTIGLIONE, CULO A MMAPPATA, CULO A PPURTERA, CULO A TTAMMURRO, CULO A MMANDULINO,
Ad litteram: culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni di un fondoschiena e segnatamente di un fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino. Il fondoschiena a buttiglione (accrescitivo di butteglia) è invece quello vasto, massiccio ed inelegante (tal quale una grossa bottiglia) di una donna tozza e grassa il cui fondoschiena faccia da pendant con la rotondità della pancia. Il fondoschiena a mappata (quantità di roba che si contiene in un tovagliolo, fagotto,fardello) è quello vasto ed inelegante come che inviluppato in troppi panni che ne nascondano la forma. Il fondoschiena a ppurtèra ( adattamento al femminile di purtiére= portinaio, guardaportone) è quello informe, schiacciato ed inelegante come nell’inteso comune si pensa sia il fondoschiena di una portinaia adusa a stare seduta tutto il giorno in guardiola sino ad averne il fondoschiena schiacciato. Infine il fondoschiena che ci occupa è quello a tammurro cioè quello scostumato e risuonante di una popolana adusa a rumorosamente scorreggiare.
Ciò détto passo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
mazzo s.vo m.le di per sé in primis è l’ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano complesso che è tipico degli esseri umani e degli animali quadrupedi di grossa taglia; gli uccelli come il gallo (cfr. ultra) non son forniti di natiche, ma del solo ano; cionnonpertanto nella locuzione che esaminerò si preferisce mantenere la voce mazzo riferito al gallo, voce piú rapida e forse meno volgare di ‘o buco d’’o culo con cui in napoletano, accanto ad altre voci come fetillo,feticchio, taficchio, màfaro etc. si indica l’ano;etimologicamente la voce mazzo è dall’acc. lat. matia(m)=intestino e la voce femminile matiam è stata poi maschilizzata ed in luogo di dare mazza à dato mazzo;la maschilizzazione si rese necessaria per scongiurare la confusione tra un’eventuale mazza (ano) e la mazza (bastone) e si addivenne al maschile mazzo anche tenendo presente che nel napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie l’ano, per vasto che possa essere, è certamente piú piccolo d’ un bastone e dunque mazzo l’ano/il sedere e mazza il bastone.
A margine di questa voce rammento che nel napoletano esiste un omofono ed omografo mazzo che vale però fascio (di fiori, ortaggi o carte da giuoco) ed à un diverso etimo non derivando dall’acc. lat. matia(m)=intestino , ma da un nom. lat. med. macĭus. La voce mazzo(ano/sedere) concorre alla formazione di
smazzato/a, agg.vo e s.vo m.le o f.le voce furbesca a carattere gergale o popolaresco; letteralmente 1.fortunato/a,sodomizzato/a e
(per traslato) malizioso/a,furbo/a;
(per ampl. sem.) cattivo, malevolo,
etimologicamente si tratta del part. pass. del verbo smazzà = rompere il sedere, che deriva dal sostantivo mazzo (culo, fondoschiena) dal lat. matea= intestino; nel parlato popolare della città bassa sono in uso ancóra i diminutivi che seguono
smazzatiéllo/smazzatèlla s.vo ed agg.vo m.le o f.le monello/a,vivace,vispo/a,furbo/a,lazzaroncello/a,sbarazzino/a; etimologicamente si tratta come ò détto d’un furbesco diminutivo (cfr. i suff. i +éllo - ella) dell’ agg.vo smazzato (=fortunato, sodomizzato);
smallazzo s.vo neutro che di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente,voce relativamente recente, risalente com’è a gli anni ’40 del 1900, di etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare la cui formazione probabilmente è derivata dall’incrocio tra la voce ted. schmalz [strutto ( che è untuoso, viscido e scivoloso) ] e mazzo (culo, deretano, sedere); il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce
sciuliamazzo s.vo neutro = scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare.
Tra le locuzioni che usano la voce a margine rammento:
'A GALLINA FA LL'UOVO E Ô VALLO LL'ABBRUSCIA 'O MAZZO.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora o sopporta pesi e disagi ed un altro si lamenta della fatica che non à fatto, o fa le viste di avere sulle proprie spalle il peso di disagi altrui. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o quando si voglia esortar qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non abbia compiute, e di cui invece faccia le viste di portare il peso.
TENÉ 'E FRUVOLE DINT' Ô MAZZO.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole (dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle, nonché alternanza metaplasmatica g→v o v→g come in gallo→vallo, gallina→vallina,vorpa→gorpa, vulio→gulio) sono i fulmini, le folgori.
Continuiamo a trattare i sinonimi della voce testé esaminata; abbiamo
chiuotto/chiotto s.vo m.le di doppia morfologia una volta con la dittongazione della o breve, una volta senza; voce antica e desueta che valse come il pregresso mazzo ano e poi per sineddoche il culo, il sedere,il deretano, il complesso delle natiche e dell’ ano; la voce etimologicamente è attestata nel Du Cange come lat. med. clŏt = buco donde sortiscono i fetidi materiali del ventre; normale nel napoletano il metaplasmo cl→ch seguito da vocale (cfr.clausum→(n)chiuso, clavu(m)→chiuovo, ecclesia→(ec)clesia→chiesia, clurima→clur[i]ma→chiorma).
proso/prozo98989989 s.vo m.le d’uso gergale (parlesia dei suonatori ambulanti) è la parola che indica esattamente il culo,il deretano; la voce si ritrova a fondamento dei verbi ‘mprusà/ ‘mpruzà che è precisamente l’andare in culo, il sodomizzare e poi per traslato l’ingannare, l’imbrogliare, il raggirare etc; sulla medesima parola proso è forgiato il termine ‘mprusatura o ‘mpruzatura e con alternanza p b anche ‘mbrusatura o ‘mbruzatura che sono esattamente il raggiro, l’imbroglio, l’inganno;trattandosi per la voce a margine di un termine gergale questa volta è pressoché impossibile risalire a l’etimo, né vale azzardare ipotesi che si fonderebbero sul vuoto ancorché qualcuno legga in proso una metatesi del greco býrsa→brýsa→proso (sacco/borsa), cosa che però non mi convince affatto non riuscendo a trovare nessun rapporto semantico, né di forma, né di utilizzo tra il fondoschiena ed un sacco od una borsa. Andiamo oltre e troviamo
pitoffio s.vo m.le voce d’uso nel parlato popolare per identificare l’ano dell’essere umano e, raramente, per sineddoche il culo, il deretano.È voce infatti usata quasi esclusivente nell’espressione mettere a pitoffio che vale sodomizzare ed in senso esteso danneggiare, ledere qualcuno sia in senso materiale che, piú spesso, in senso morale; per quanto riguarda l’origine della voce pitoffio si tratta d’ un adattamento della voce pataffio = persona grossa e rozza, uomo grosso e paffuto donde per metinomia il suo vasto deretano e segnatamente l’ano; la voce pataffio poi corrotta in pitoffio è un’alterazione popolare di epitaffio→(e)pitaffio→pataffio =iscrizioni su lastre marmoree o di pietra semanticamente riconducibili alla grossezza e rozzezza dell’uomo grosso e paffuto accreditato d’avere un gran deretano.
funnamiento s.vo m.le antica e desueta voce d’uso nel parlato popolare nel significato di posteriore, quale parte posta al fondo del busto umano; la voce in effetti non vale fondamento/fondazione come qualcuno equivocando potrebbe pensare..., bensí posto al fondo ed è dal lat. fundamentu(m), deriv. di fundare = mettere al fondo; sempre nel parlato popolare la voce a margine la si ritrova come sfunnamiento con la protesi di una S intensiva nel significato traslato di grande fortuna
sedicino s.vo m.le antica, ma non desueta voce che vale di suo e senza alcuna metinomia deretano, didietro, sedere, culo; si tratta etimologicamente di voce denominale dell’ agg.vo num.le card.le invar.le sedici numero naturale corrispondente a una decina piú sei unità che nella smorfia napoletana indica appunto il culo. Con il numero sedici rammento che si indicò un tempo altresí l’artista che dipinge o scolpisce ed il tamburo; è possibile, benché non sia semplice cogliere l’accostamento del culo conl’artista che dipinge o scolpisce e con il tamburo; tuttavia li chiarirò: il primo accostamento lo si coglie pensando che tra il tardo ‘600 ed il ‘700 vi furono moltissimi pittori e scultori che produssero gran copia di dipinti o statue molti dei quali raffiguranti nudi femminili o maschili con prorompenti anatomie tali da farle accostare all’artista che le aveva dipinte (o scolpite);per l’altro accostamento rimando a ciò che ò détto antea. Proseguiamo.
màfero/màfaro s.vo m.le di doppia morfologia
con il termine màfero/màfaro in primis esattamente si intende il cocchiume, cioè il foro situato sul diametro massimo della botte e per estensione si intende anche il tappo di legno o sughero che serve a chiuderlo; poi per traslato il termine màfero/màfaro indica pure l'ano e per metinomia il culo tutto, donde poi con evidente traslato semantico si indica anche la fortuna (cfr. l'espressione "Vi' che mmàfaro" per dire "Che fortuna!"Etimologicamente la voce màfero/màfaro è d'origine osca: mamphar attraverso un tardo latino "mamphur".
fetillo/feticchio s.vi m.li voci che (con contenuta differenza morfologica) in primis esattamente indicano l’ano e poi come abbiamo piú volte visto, per metinomia il culo tutto, il deretano etc. Si tratta etimologicamente di voci ricavate quali furbeschi deverbali dal lat. foetíre= puzzare atteso che l’ano è la parte del posteriore esattamente deputata all’emissione delle maleolenti feci e/o dei puzzolenti gas intestinali.
culippo s.vo m.le antica voce talvolta ancóra in uso con la quale in primis esattamente e furbescamente si intende un fondoschiena femminile tanto estroflesso e pronunciato da potersi quasi appaiare a quello d’ una cavalla da tiro. Si tratta infatti etimologicamente di voce ricavata dall’agglutinazione del lat. cul(um)= culo adizionato del greco ippo(s)= cavallo;
suatto s.vo m.le antica e desueta voce che nel suo preciso significato identificò un contenuto, benformato elegante fondoschiena d’una giovane donna; voce etimologicamente marcata sul s.vo francese séant che genericamente vale sedere; questo il percorso morfologico: séant→súant→súatt(o);
Anche le successive tre voci sono termini antichi e desueti:
tafanario s.vo m.le voce che in primis vale ano e poi per sineddoche vasto ed ingombrante sedere di uomo o donna , ampio fondoschiena, deretano di grosse proporzioni; etimologicamente la voce è dall’omofono ed omografo spagnolo tafanario d’uguale significato;
tàfaro s.vo m.le voce che vale ampio,grosso fondoschiena sia delle bestie di grossa taglia,che – maliziosamente – degli essere umani grossi ed ingombranti voce marcata sull’arabo tafar = sottocoda;
taficchio s.vo m.le voce che in primis vale ano, buco e poi per sineddoche minuto sedere di uomo o donna , ridotto fondoschiena, snello deretano di piccole proporzioni etimologicamente per alcuni (D’Ascoli e quelli che vi attingono) la voce è da collegarsi al pregresso tafanario ma non è spiegato quale sia il percorso morfologico; a mio avviso la voce è invece un adattamento metatetico del precedente feticchio→teficchio→taficchio.
E qui potrei diredi avere esaurito l’argomento, ma mi resta ancóra da parlare delle ultime tre voci seguenti che di proposito ò relegato in fondo a queste paginette trattandosi di voci non d’uso generale, ma circoscritto e particolare.
Abbiamo dunque, per concludere:
campo 'e fave ad litteram campo di fave locuzione letterario/poetico (cfr. Raffaele Viviani, Castellammare di Stabia 10 /1/1888 †Napoli22/3/ 1950 ne La Rumba degli scugnizzi: Pacchiané chi s’ ‘o ppenzava, tiene chistu campo ‘e fave?) con cui si indica un formoso fondoschiena d’una giovane donna/contadinella accreditato furbescamente d’essere un campo per coltivarci le fave e sotto il termine fava maliziosamente si adombra (come anche nell’italiano) il membro maschile, il pene;
cufenaturo s.vo m.le 1 in primis conca, grosso vaso di terracotta o metallico usato per convogliarvi i panni da bucato; 2 (per traslato e come nel caso che ci occupa) giocoso riferimento ad un greve, ingombrante fondoschiena slombato, tipico delle anziane donne addette alla lavatura a mano dei panni
culo ‘e reto Ad litteram: culo di dietro locuzione espressiva tautologica tipica del napoletano (cfr. alibi vista ‘e ll’uocchie, palazzo ‘e case,puorto ‘e mare,troppo assaje, pacca ‘e culo,strunzo ‘e mmerda etc.) che manco a dirlo indica esattamente il culo, il sedere, il deretano, posto ovviamente dietro cioè nella parte posteriore del corpo.
reto/areto/arreto avv. di luogo = dietro; la voce è sempre la medesima: dal lat. ad + retro→arretro donde arreto con dissimilazione totale della (R) di tro; questo il percorso per giungere da arreto alla semplificazione reto: arreto→a(r)reto→areto→(ar)reto.
Ora veramente mi pare che non ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico G.J. O. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
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