|   13 VARIE  ICASTICHE LOCUZIONI 31.3.21     1-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE 'ABRAMO. Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida
  locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di
  chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid (
  sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia
  di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta
  provenienza.
 fà scennere = far discendere voci
  verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re  l’infinito troncato fa  è scritto fà preferito all’apocopato fa’
   per evitare una possibile
  confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello
  stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú  derivato dal latino (de)scendere,
  comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana
  si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn; cosa= cosa, termine generico usato per indicare
  qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi
  parla o di chi scrive e che riceve...  sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione
   che produsse *cosa(m)  ed il verbo *cosare usato in luogo di
  causare; coglie= testicoli  sostantivo femm. plur. del sing. coglia
   che dal neutro latino coleum (pl.
  colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e
  koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e
  segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della
  borsa che li conteneva  2 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE  Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il
  comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera  e si ammanta di meriti che non possiede, né
  può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere
  che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie
  corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890
  grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è
  impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8
  kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora
  oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al
  Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla
  misura araba rate/ ratl,trasformazione
  a sua volta della parola greca litra, che originariamente
  indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne
  poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in
  Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e
  come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico
  rotolo napoletano. tre agg. num. card. invar.  numero naturale corrispondente a due unità
  piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da
  III: l’etimo è dal latino tre(s); fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto
  del fico, frutto  che invece in  italiano è maschile:  fico, come la pianta da cui deriva;
  l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua
  della voce nordica figa) anche vulva, vagina  con riferimento alla boccuccia, fenditura
  rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal  maschile latino ficus  reso femminile; ficus  è da collegarsi al greco phýo= produco  a sua volta dall’ebraico phag il
  tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già
  presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che  la vulva; nove agg. num. card. numero
  naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è
  rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m); ròtele sost. masch. plurale metafonetico  di ruotolo= rotolo di cui ò già
  detto. 3 - FÀ 
  FETECCHIA: I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati
  nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili  al primario significato di vescia,
  scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che,
  giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col
  termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene
  indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in
  generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon
  fine.  Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno
  risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo
  prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri
  significati c’è una sorta  di non
  olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce
  esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia  è un acc.  lat. volgare feticula(m) per il
  class. foeticula(m).   4 – FETTIARE O FITTIARE I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo
  verbo, scritto con due grafie leggermente diverse)  sono caduti completamente in disuso tanto
  da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello
  scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani
  napoletani. Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa:
  quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in
  maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona
  guardata; in particolare i giovanotti 
  che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza
  insistentemente se la fettiavano fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non
  dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non  chiamasse a propria difesa un fratello, un
  cugino,  un fidato amico che convinceva
  con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il
  verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza
  di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano
  un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una
  pasticceria o trattoria.  Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un
  po’ tutti  una certa disponibilità
  economica  e diventate, le ragazze,
  prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con
  l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la
  rappresentavano. E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in
  napoletano  conserva anche il vocabolo fettíglie  con il significato di noie, molestie e
  consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si
  possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i
  due verbi  la molestia si traduce solo
  nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime
  azioni, un infastidire di lontano.    
  
   
    | 5- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE O NUN S’APPURALetteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La
    fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le
    propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in
    giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo
    e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole
    calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè
    verificato;
 chello = quello, ciò che  pron. dimostrativo neutro che indica cosa
    lontana da chi parla e da chi ascolta,  o cosa non presente della quale si sta
    parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco
    quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg.
    *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat.
    volg. *(ec)cu(m) illa(m), sape = sa  voce verbale (3° pers. sing. ind.
    presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza,
    apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il
    class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio', appura=,  viene a
    conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind.
    presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi,
    ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in
    chiaro  (e nel linguaggio
    tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar=
    depurare→verificare. |  
    | 6 -'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô 
    PICCERILLO. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente:
    il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari
    destinata sempre all'insuccesso quella  se combattuta apertamente  da un piccolo contro un grande.
 pesce = pesce,  animale vertebrato acquatico di varia
    grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne
    per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo,
    usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto
    al soggetto debole o di scarsa valenza 
    economica- sociale   (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m); gruosso= grosso, che/chi  à  dimensioni notevoli (per volume, capacità,
    spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso,
    potente, importante  agg. qual.
    masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o
    di sillaba intesa breve nel
    masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o  prevede la geminazione della gutturale
    d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la
    dittongazione non avviene ; magna = mangia  voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)
    dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con
    etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;  a margine faccio notare
    come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto
    dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua
    italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo)
    in quanto la parlata  napoletana,
    sulla scorta di un antico latino volgare parlato  esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non
    cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò
    visto tuo padre), aggiu chiammato
    ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu
    pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere)  una  a segnacaso che unita all’articolo di
    pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô
    = a+ ‘o(al, allo),â(=
    a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle); piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec.
    per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa
    valenza socio-economica;  l’etimo
    della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il
    medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso
    un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo
    –femm.  renèlla) che indica pochezza, parvità:
    es.: cusariéllo – cusarèlla
    (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello,
    piccerenèlla(piccino/a); |  
    | 7 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione
    vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della
    realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi
    chiunque faccia  del bene ad un altro,
    in realtà  mira certamente al proprio
    tornaconto che da tale azione apparentemente benefica  gliene deriverà o potrà derivare prima o
    poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si
    lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí  del bene; infatti  in realtà e  fuor di vane illusioni,   il
    fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio
    tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli
    insaccati ed affini  che dalla
    macellazione del maiale si posson ricavare)
 puorco  sost. masch. = maiale, porco
    , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente
    persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in
    imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con
    etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch.
    uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco
     masch. ma porca femm. ‘ngrassa =ingrassa  voce
    verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare,
    impinguire, allevare all’ingrasso  con etimo denominale  da un 
    lat.tardo  in (illativo)
    + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio
    con grossus 'grosso'; sacicce = salsicce  sost. femm. plur. di saciccia, salciccia
    plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne
    di maiale; ; etimologicamente derivante  da un 
    tardo lat.  salsicia,
    neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia
    'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; |  
    | 8 –TE PIENZE CA VACO  
    METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE? Letteralmente:  Pensi forse che io
    vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta  sarcasticamente nei confronti specialmente
    dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie,
    per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose
    richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di
    notte; la medesima espressione interrogativa la si usa   anche
    nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La
    locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a
    significar loro che chi parla  non si
    può certamente  equiparare  a quei masnadieri d’antan  che nottetempo erano soliti tendere lungo
    le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e
    carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di
    rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano
    essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale
    far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati  e/o figlioli incontentabili.
 te pienze = pensi tu?  voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.)
    dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre  etc.con etimo  dal tardo  lat. pensare, intensivo di pendere
    'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale
    in napoletano il passaggio di ns→nz; vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di
    mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing.
    ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire;
    le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno  come tema vac= vad  sono derivate  dal lat volgare  vadere 'andare'come quelle
    italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo  voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere=
    mettere, porre, situare etc.   con etimo dallat. mittere'mandare'
    e 'porre, mettere'; funa= fune, corda, cavo  sost. femm.  dal lat. volg. *funa(m) per il
    class. fune(m); ‘e notte= di notte  loc.
    avv. temporale  dove ‘e= di
     sta per durante  e notte  è il sostantivo femminile  indicante la  parte del giorno solare, dal
    tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal
    lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.   |  
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    | 9 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo
    augurio  che vale : Possa tu
    morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis,
    transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e   diretti al Camposanto, per cui augurare a
    qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un
    corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il
    protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
 puozze= possa tu voce
    verbale  (2° pers. sing. congiunt.
    pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal
    lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su
    po°tens -e°ntis;    passà= passare, transitare  voce verbale infinito passare/passà  con etimo dal lat. volg. *passare,
    deriv. di passus 'passo'; loggia = loggia  di per sé edificio o parte di edificio
    aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma
    anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui  come luogo di riunione di persone che
    esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla
    medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso –
    appartenenti ad una stessa  città di
    provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della
    città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano  i loro traffici e commerci  autoamministrandosi;attualmente la Loggia
    di Genova,  ubicata un tempo a
    Napoli  tra il c.d. Rettifilo  e quello che poi sarebbe diventato il Borgo
    degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel
    detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un
    tempo vi fu la Loggia ‘e Genova; loggia sost. femm. talvolta a Napoli,
    impropriamente sinonimo di terrazzo  (la loggia napoletana  come elemento architettonico in
    realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato,  quasi mai 
    con calpestio piastrellato ed è  circondata su tre lati da un parapetto in
    muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e
    piastrellato  può essere anche
    coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in
    ferro non un parapetto in muratura)  loggia etimologicamente è dal  fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m),
    e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco'; Genova  è la
    città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della
    quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed
    ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di
    mercanti si stabilirono automministrandosi ed  aprendo botteghe per i loro traffici e
    commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un
    ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in
    fitto dal vicereame napoletano; 10 – CHI NUN TENE DENARE, T’’E ‘MPRESTA, CHI
    NUN TENE FIGLIE T’’E ‘MPESTA E CCHI NUN TENE MARITO NN’ ‘O CACCIA. Letteralmente: Chi non à denari, te
    li impresta, chi non à figli, te li appesta e chi non à marito, lo scaccia. Icastica locuzione che, sulle
    prime,almeno nella prima e terza delle sue proposizioni, parrebbe
    incomprensibile,ma ad un attento esame è pregna di significato nella
    scetticità della sua filosofia esistenziale per la quale nessuno è disposto
    a concedertiun prestito in denaro, se non colui che ne è privo, solo una
    donna  che non conosca quanto sia
    importante e vantaggiosamente profittevole l’avere un consorte, può
    liberarsene, scacciandolo e, nella convinzione che chi non abbia figli
    proprî non possa essere buon maestro di quelli  d’altri,chi è privo di figli non puó
    che  corrompere, guastare, depravare,
    pervertire quegli altrui. |  
    | 11 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA. Letteralmente: Cuor contento alla
    Loggia. Cosí il popolo partenopeo  suole apostrofare ogni persona che faccia
    le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi  propensa com’è , anche
    ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con
    la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine
    dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò
    detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli
    alla Repubblica marinara di Genova, territorio  dove i genovesi svolgevano i loro
    commerci, autoamministrandosi;  il
    medesimo appellativo se lo  meritò
    uno scrittore nolano tale  Michele
    Somma  che pubblicò agli inizi
    del 1800 una raccolta  amena e faceta
    di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli
    Orefici, nei pressi appunto  della
    Loggia de’ Genovesi  dove stazionava  la colonia degli abitanti di Genova,
    residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono
    osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle
    e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori)
    il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno
    non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta
    ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú
     e si dovette contentare d’affiancarlo,
    diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa
    strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi
    non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile
    in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e
    non  è riuscita neppure ad affiancare
    il famosissimo pesto alla genovese. Ora  qui di sèguito, segnalo la tradizionale
    ricetta della napoletana  genovese.
 Dosi per 6 persone2 Kg  cipolle dorate
 1 Kg di Spezzato  di manzo adulto
    (preferibilmente ricavato  dalla
    pancia o dalla corazza)
 o in
    alternativa  1 kg. di fettedi locena (soggolo) di manzo da cui
    ricavare  involti (brasciole) imbottiti di uva passita,
    pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale,  pepe nero  e legati con spago da cucina
 una   carotauna costa di sedano
 due bicchieri vino bianco secco
 un bicchiere e mezzo  di olio
    extravergine di oliva
   Un pomodoro pelato 
    (facoltativo)sale fino e pepe nero macinato q.s.
  600 gr. di rigatoni 1 etto di  pecorino
    possibilmente laticauda  grattugiato
 Procedimento
 Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne
    sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la
    carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro
    spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le
    cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido;  solo quando la cipolle saranno abbastanza
    asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco
    bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.
 
 Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere
    l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50
    minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!)
    facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se
    il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di
    acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
 Con questo sugo  condite i rigatoni
    lessati al dente e mandateli in tavola 
    spolverizzati  di formaggio
    grattugiato  e di abbondante pepe
    nero.
 La carne la servirete come pietanza accompagnata  da un’insalata verde o patate fritte. Mangia
    Napoli, bbona salute!!!! e ringraziatemi. 12. PUOZZE SCULÀ! Letteralmente: Possa scolare!Icastica malevola  invettiva/maledizione napoletana rivolta
    verso un/a inveterato/a nemico/a, o un/a fastidioso/a interlocutore/trice
    cui si augura addirittura di decedere per esser posto/a poi, secondo
    un’antica usanza,ad accomodarsi (da cadavere) su approntate vaschette di
    pietra(détte:cantarelle) dove la salma cedesse, per gravità,  attraverso un sistema di canaletti le
    proprie secrezioni umorali,fino a che 
    una volta essiccata,non fósse  pronta per l’inumazione o l’imbalsamazione. Rammento a precisazione che la locuzione, cosí come riportata
    in epigrafe, fu la corruzione/contaminazione della piú immediata e popolare
    locuzione usata originariamente 
    nella città bassa, dove suonò: VA’
    SCOLA! Si coglie infatti d’acchito che il puozze [  che, come détto antea,  vale: possa tu  è voce verbale  (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore
    ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto
    al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;] è di marcatamente
    libresco ed è frutto del filtro di chi è aduso a studiare, laddove
    l’espressione originaria popolare,piú bella è quella    coniugata all’imperativo VA’ SCOLA!  Risultando   di immediata fruibilità ed immediatezza
    espressiva. 13. TE
    SCHIFO PE MMANO ‘E LEGGE Ad litteram: Ti ò a schifo, detesto,disprezzo per mano (id
    est: attraverso) la legge. Espressione di fastidio che si può cogliere
    sulle labbra di chi voglia lasciare intendere a qualcuno verso cui provi
    repulsione, disprezzo, abominio, biasimo, disdegno, disgusto, disistima che
    o  tali sentimenti sono  così tanto 
    grandi da  esser disposto ad
    esser chiamato in giudizio per giustificarsi di eventuali offese arrecate
    allo schifato, oppure e meglio  che
    il dispregio,la  noncuranza,lo
    spregio,lo sprezzo provati nei suoi confronti gli siano  dovuti in quanto, addirittura! stabiliti
    per legge.                                          Raffaele
    Bracale        |  
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