mercoledì 11 novembre 2009

VARIE 456

1. Chi tène lengua va ‘nSardegna.
Ad litteram: a) chi sa parlare arriva in Sardegna, ma anche b)chi parla troppo finisce in Sardegna.
Locuzione, come si vede,che può avere una doppia valenza o interpretazione: quella sub a) fa riferimento al comportamento di chi abbia padronanza di eloquio e non disdegni di richiedere informazioni che possano aiutarlo a raggiungere la Sardegna , regione ritenuta temporibus illis molto lontana e difficile da raggiungere; la valenza sub b) si riferisce invece a chi sia troppo linguacciuto al segno di mancare di rispetto, a mo’ di esempio, ad un suo superiore, che può punirlo trasferendolo in Sardegna , terra ritenuta inospitale oltreché lontana.
2. Chi è mmuorto e me l’ à ditto?
Ad litteram: Chi è defunto e me lo à detto? cioè chi è morto e mi à lasciato questo legato testamentario? Locuzione usata in tono risentito da chi si trovi coinvolto - a suo malgrado - in situazioni nelle quali deve conferire delle prestazioni che non si sente in animo di compiere ed allora retoricamente si autorivolge la domanda in epigrafe volendo significare: non sono tenuto a compiere quanto mi si chiede, non essendo obbligato verso alcun dante causa; infatti nessuno à lasciato scritto in un testamento, che io mi debba far carico di simili prestazioni.
3. Chi ‘a vo’ cotta e chi ‘a vo’ crura...
Ad litteram: chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. La locuzione fa riferimento alla grande inconciliabilità di gusti esistente nel vivere comune, inconciliabilità per la quale c’è continua discordanza di pareri e di modi di vedere ed allorché questa discordanza si manifesta tra coloro che dovrebbero concorrere alla realizzazione di un’opera comune, quest’ultima difficilmente si potrà compiere.
Con molta probabilità, ma non con certezza, la locuzione nacque in una cucina e fu pronunciata da un cuoco che doveva seguire la cottura delle carni poste sullo spiedo e non sapeva decidersi a levar lo spiedo dal fuoco stante il fatto che tra i commensali non c’era un’auspicabile concordia e qualcuno voleva la carne ben cotta, altri la preferivano piuttosto cruda.
4. Chiavarse ‘a lengua ‘nculo specie nell’imperativo chiàvate ‘a lengua ‘nculo
Ad litteram: mettersi la lingua nel culo specie nell’imperativo póniti la lingua nel culo id est: zittire, tacere,specie nell’imperativo taci, zittisci, non profferir piú oltre parole.Locuzione icastica, ma chiaramente iperbolica, stante la impossibilità fisica di compiere quanto indicato nell’imperativo, che viene pronunciata soprattutto nei confronti dei saccenti e supponenti che sono soliti porre bocca in ogni occasione ed esprimere un loro parere il piú delle volte non richiesto e perciò fastidioso. A tali categorie di persone a Napoli si suole consigliare o talvolta si impone di porsi la lingua nel culo, invece di farla a sproposito vibrare nel cavo orale,nella speranza che il predetto, accolto l’invito o recepita l’imposizione, taccia una buona volta senza piú replicare.
5. Chianu chiano ‘e ccòglio e senza pressa ‘e vvengo.
Ad litteram:Pian piano li raccolgo e senza fretta li vendo Locuzione divertita usata nei confronti di chi operi tutte le sue cose, senza darsi fretta, con calma e circospezione, quasi con studiata lentezza,beandosene e sfruttando per intero tutto il tempo a sua disposizione; locuzione nata chiaramente nell’àmbito dei contadini che invece - per solito - sono molto alacri nel raccogliere i frutti e porli in vendita; ma ogni regola à la sua eccezione.
6. Ce vô ‘nu mazzo ‘arucola e ‘na panella
Ad litteram: occorre un fascio di rughetta ed una pagnotta! Id est: con i mezzi che state usando, non conseguirete mai quanto vi siete prefisso; occorrerà ben altro! Locuzione esclamativa usata a commento di un avvenimento che si presume difficile da portare a compimento, per il cui raggiungimento si ritiene occorrano accorgimenti piú impegnativi di quelli normalmente usati; nella fattispecie si pensa che per portare a termine l’opera intrapresa bisognerà far ricorso all’uso di un ipotetico fascio di rughetta che per essere di sapore amarognolo è preso ad emblema del faticoso impegno occorrente al conseguimento del risultato; oltre al fascio di rughetta occorrerà peraltro l’uso ed il consumo di un’intera pagnotta di pane per poter contare sulla forza fisica necessaria, forza derivante dagli zuccheri contenuti nella pagnotta.
7. Che vaco mettenno ‘a funa ‘e notte?!
Ad litteram: vado forse tendendo la fune, di notte?! Id est: pensi forse che io sia un ladrone che va tendendo la fune di notte?! Cosí un tempo solevano fare i ladroni di strada che tendendo una fune attraverso la strada facevano sí che i viandanti sia a piedi che in carrozza inciampando nel teso ostacolo, stramazzassero per terra e venissero facilmente rapinati.
L’espressione in epigrafe veniva olim pronunciata, in maniera risentita, soprattutto dai genitori che alle richieste eccessive e perciò costose dei propri figliuoli, opponevano una penuria di mezzi in linea con la conclamata onestà di essi genitori non adusi a procurarsi danaro con mezzi da masnadieri. Oggi, elevatasi generalmente la condizione economica di tutte le famiglie, è difficilissimo cogliere la locuzione in epigrafe sulla bocca dei genitori, proclivi - nei confronti dei figli - ad allargare i cordoni della borsa, nella convinzione che sia cosa giusta concedere ai figliuoli tutto ciò che chiedono, anche al costo - forse - di tendere la fune, di notte.
8. Chiammà a san Paulo, primma ‘e vedé ‘a serpe.
Ad litteram:Invocare l’aiuto di san Paolo prima di imbattersi in un serpente. Id est: correre ai ripari prima che si sia verificato un danno. Detto di chi per eccesso di prudenza o per innato timore, precorra gli eventi, ponendosi in posizione di difesa anche quando l’avvenimento paventato sia di là da venire.In tutto il meridione, l’apostolo delle genti è ritenuto, ma ne ignoro il motivo, il protettore contro gli attacchi delle serpi. Addirittura in taluni paesi delle Puglie e delle Calabrie si celebrano riti religiosi culminanti con la processione dell’effigie del santo portata in giro ricoperta da un gran numero di serpenti.
9. Che s’à dda fà pe campà!
Ad litteram: Che bisogna fare per vivere! Non è una domanda, ma una amara esclamazione che viene pronunciata da chi per sbarcare il lunario e procurarsi mezzi di sostentamento, o deve sottoporsi a fatiche molto grandi o deve sopportare cocenti umiliazioni delle quali chiama quasi a testimoni gli astanti; infatti spesso la locuzione è completata da un Vide (vedi) anteposto alla frase in epigrafe.
10. Che m’accucchie? oppure Che m’ammacche?
Ad litteram: nell’una e l’altra maniera cosa metti assieme? Id est: cosa vai cianciando? Locuzioni usate quando si voglia fare intendere ad un interlocutore che le cose che va asserendo sono vacue sciocchezze, senza nesso né logico né conseguenziale con ciò di cui si sta parlando. Spesso le locuzioni in epigrafe vengono pronunciate seguite da quella riportata al num. 85.
11. Cu ‘na bbona salute!
Ad litteram:Vi giovi alla salute! Un tempo in questo modo, in luogo dell’algido e quasi minaccioso: Buon appetito, il padrone di casa soleva sollecitare i commensali perché principiassero a mangiare, ed augurava che il cibo giovasse alla loro salute. Probabilmente non tutti sanno che il “buon appetito” normalmente usato, non è un augurio, ma originariamente era e forse ancòra lo è un duro comando imposto dal ciambellano a tutti i commensali invitati alla tavola del principe affinché mangiassero con appetito , mostrando cosí di gradire il pranzo offerto. Oggi dismessa l’abitudine delle riunioni conviviali, l’augurio in epigrafe è rimasto, ma si è ridimensionato diventando un modo di salutare in luogo del consunto, cameratesco ed etimologicamente troppo remissivo ciao(in veneziano: schiavo).
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