IL VERBO PISCIÀ, I SUOI DERIVATI E LA FRASEOLOGIA
Questa volta prendendo spunto dalla richiesta dell’amico carissimo D.C. (i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome)che nel riportarmi il quesito d’ un suo amico, mi à chiesto di illustrare, chiarire ed esaminare il significato l’ uso e l’ origine di antica espressione partenopea (cfr. ultra sub 1), prendendo spunto appunto da tale richiesta mi soffermerò a dire del verbo in epigrafe dei suoi derivati e della relativa fraseologia. Cominciamo dunque con il dire che il verbo piscià è mingere, orinare
derivato dal tardo lat. pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià);normale nel napoletano l’evoluzione in sci seguíto da vocale della consonante fricativa dentale sorda o sonora (s) sia scempia che doppia purché seguíta da vocale; e veniamo súbito alle voci derivate dal verbo per agglutinazione (In linguistica: a. Riunione in una sola unità grafica e fonetica di due o più elementi lessicali originariamente distinti, ma che si trovano spesso insieme in un sintagma (per es., disotto←di sotto , disopra←di sopra , perlopiú←per lo piú, all’ingrosso, ecc.). Il processo, che come fatto grafico è frequentissimo in antiche scritture e che spesso rispecchia fedelmente l’effettiva realtà fonetica (come in ammodo, eppure, ovvero, sebbene, macché, pressappoco, ecc.), à molta importanza nell’evoluzione diacronica in quanto può dare luogo alla formazione di nuove parole, soprattutto per la fusione (detta in questi casi anche concrezione) dell’articolo o di una preposizione, come per es. il region. loppio (da l’oppio, un albero), l’avv. ant. incontanente (dal lat. tardo in continenti [tempore]), l’ant. e pop. ninferno (da [i] n inferno).Rammento ad abundantiam che ad una agglutinazione e falsa deglutinazione dell’articolo si devono le antiche varianti oncenso, onferno per incenso, inferno, sviluppatesi dalle forme lo ’ncenso, lo ’nferno, scritte e pronunciate loncenso, lonferno)dicevo agglutinazione di una voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià/are) con un avverbio o un sostantivo. Abbiamo dunque
pisciasotto s.vo ed agg.vo m.le e f.le = letteralmente: chi/ che si minge addosso; la voce nasce come s.vo e vale in primis bimbo/a, piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante; usato come agg.vo m.le e fem.le vale timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a ; schivo/a, chiuso/a,introverso/a insicuro; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con avverbio sotto (dal lat. subtus→suttus→sotto, deriv. di sub 'sotto'; il collegamento semantico tra i significati del sostantivo e quelli dell’aggettivo si colgono se solo si considera il fatto che chi è piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante è di per sé timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a etc e mai potrebbe essere coraggioso/a, audace, intrepido/a, ardito/a, impavido/a audace, disinvolto/a, sicuro/a, deciso/a;
piscianzogna s.vo ed agg.vo m.le e solo m.le= letteralmente: chi minge strutto; id est pubere, adolescente; non si tratta di un’iperbolicità divertente o ironica (atteso che non è dato a nessuno poter mingere sugna...), ma solo di una rappresentazione icastica di una manifestazione dell’età evolutiva: è allorché un ragazzo abbia raggiunto la pubertà e sia diventato adolescente che può dar luogo all’emissione di seme spermatico, quel seme che per il suo colore biancastro e la sua viscidità viene assomigliato allo strutto; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con il s.vo ‘nzogna= sugna, strutto sostantivo sul quale mette conto io mi soffermi alquanto; preciso súbito che la voce napoletana ‘nzogna che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta, come ò fatto ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, ( cosí erroneamente scritto e non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. E veniamo alla fraseologia costruita con il verbo in epigrafe; comincio
1)PISCIARSE DÊ RRISA letteralmente mingersi addosso per il troppo ridere, id est scompisciarsi, sbellicarsi;
2)si pisce chiaro, ffa’ ‘e ffiche ô miedeco oppure 2 bis) si pisce chiaro futtatenneoppure fruculeatenne d’ ‘o miedeco = letteralmente nel primo caso Se mingi chiaro fa’pure gli scongiuri alla vista d’un medico o scherniscilo (perché non ne avrai bisogno); nel caso sub 2 bis Se mingi chiaro (addirittura) impípitane del medico (perché mai ne avrai bisogno);
fa’ ‘e ffiche! =fai le fiche!;fà ‘e ffiche= far le fiche è un gesto internazionale di scongiuro e/o di scherno dileggio che à una tradizione millenaria ed appartiene ad un po’ tutto il mondo; consiste nell’introdurre il dito pollice della mano destra serrata a pugno,tra l' indice ed il medio e tenerlo ben dritto accompagnando il gesto con l’agitar la mano con un movimento ripetuto dal basso in alto nell’intento di mimare il coito in atto; rammento in proposito che trattasi di gesto che è diffusissimo ed addirittura nei paesi dell’America meridionale (Brasile in testa) si è soliti produrre delle minuscole statuine apotropaiche in legno di bosso riproducenti il gesto che è stato ovunque abbondantemente studiato e commentato;qui mi limito a rammentare che un tempo in origine il gesto non ebbe significato di scherno o scaramantico, ma fu un palese invito all’atto sessuale rivolto da un uomo alla sua donna o ad un’occasionale conoscenza; va da sé che linguisticamente parlando ‘e ffiche è il pl. di ‘a fica che in napoletano è sí il s.vo f.le usato per indicare il frutto del fico, ma è altresí il s.vo f.le volg. che è uno dei numerosi sinonimi(cfr. alibi) sia del napoletano che dell’italiano dell’insieme degli organi genitali esterni femminili:1 vulva;semanticamente la fica= frutto del fico frutto rosso e carnoso è preso a riferimento per indicar la vulva , cosí come l’altrove usato pummarola = pomodoro, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché isia la vulva che il pomidoro o il frutto del fico ànno il loro interno rosso vivo; | 2 (estens.) donna bella e desiderabile. Etimologicamente è voce dal lat. tardo fīca per fīcus «fico, frutto del fico»; il sign. fig. era già nel gr. σῦκον «fico».
futtatenne e fruculeatenne
Queste in esame sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2 pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m. e f. , sing. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne.
Ma torniamo alle due espressioni in esame e dandone il significato che ovviamente necessiterà d’un giro di parole; il napoletano infatti spessissimo è piú stringato ed gli occorrono meno parole dell’italiano per esprimere incisivamente un concetto. Nella fattispecie sia con l’espressione fruculeatenne (che letteralmente è: stropicciatene!) sia con l’espressione futtatenne (letteralmente impípatene!) si intende quasi imporre oppure pressantemente consigliare (ed ecco perché è usato
l’ imperativo piuttosto che un piú morbido congiuntivo ottativo...) si intende consigliare, dicevo, colui cui venga rivolta una o ambedue le espressioni di impiparsi di un qualcosa, di tenere in non cale un’accadimento, una faccenda, di non curarsi, di infischiarsi di qualcuno o piú spesso di qualcosa.
Piú esattamente l’espressione fruculeatenne(che, mi ripeto letteralmente è: stropicciatene!) è potremmo dire un modo piú dolce e meno duro, quando non addirittura piú frivolo, per significare il medesimo concetto dell’espressione futtatenne che risulta essere piú dura, salutarmente sanguigna pur se addirittura becera; ambedue gli imperativi in epigrafe risultano, comunque incisivamente piú significativi del corrispondente algido impípatene della lingua italiana!
Ora consideriamo piú da presso le due espressioni e cominciamo con
- fruculeatenne come ò già detto si tratta di un imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; e vale morfologicamente esattamentestropícciati di ciò, impípa-tene; l’etimo del verbo fruculeà/fruculià affonda nel lat. fricare= strofinare, stropicciare ed estensivamente frantumare in piccoli pezzi ed è a questa estensione che occorre pensare per percorrere la via semantica seguíta per comprendere il passaggio tra il verbo latino inteso come frantumare in piccoli pezzi ed il napoletano fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; in effetti di qualcosa che venga frantumato in minutissimi pezzi, non vale mettere conto, interessarsene per modo che se ne può impipare tranquillamente, cioè quasi fumarsi nella pipa quei minutissimi pezzi.
E passiamo a
- Futtatenne! Anche per la voce a margine, come ò già détto, ci troviamo a che fare con una voce verbale e cioè con l’imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fotterse-ne= impiparse-ne, infischiarse- ne nella medesima valenza del pregresso fruculeatenne quantunque la voce a margine abbia rispetto alla prima voce in esame un’espressività piú dura, sanguigna, impetuosa, anzi addirittura becera atteso che col verbo di cui è imperativo non richiama la frantumazione di qualcosa in piccoli pezzi di cui disinteressarsi, ma molto piú sanguignamente – direi – chiama in causa una... pratica sessuale (il coito) quasi che la faccenda di cui disinteressarsi sia di nessun conto o non abbia nerbo per cui se ne possa con ogni tranquillità abusare quasi congiungendovisi in un ... rapporto sessuale. In effetti l’etimo del verbo fottere donde il riflessivo fotterse-ne e l’imperativo a margine affonda nel lat. futúere→fúttere (con tipico raddoppiamento della consonante antecedente la ú seguíta da vocale e ritrazione dell’accento) verbo che sta per coire, avere rapporti sessuali oltre che raggirare, imbrogliare. Semanticamente anche in questo caso, come per la precedente voce fruculeatenne occorre pensare che di qualcosa che venga impunemente posseduto carnalmente ad libitum, non vale mettere conto, interessarsene per modo che uno se ne può impipare tranquillamente come si terrebbe in nessun cale un fortuito rencontre con un’occasionale donna.
Preciso ancóra, ad abundantiam, che letteralmente la voce a margine vale Infischiatene, Non dar peso, Lascia correre, Non porvi attenzione. È il pressante invito a tenere i comportamenti indicati rivolto a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Rammento che tale icastico, sanguigno invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un offensivo declassamento del loro santo e allora scrissero a caratteri cubitali sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano consigliare al loro santo patrono di non adontarsi per l’offesa ricevuta e rassicuralo, al contempo, che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma e Gli avrebbero in ogni caso tributato tutta la dulía che sin dal 305 anno del martirio del santo vescovo, gli era stata devotamente riconosciuta.
3)SUNNARSE E PISCIÀ DINT’Ô LIETTO = Letteralmente; sognare e mingere nel letto; id est: dar credito ai sogni, spaventarsene al segno di mingere tra le coltri, reputar vere le ombre, prender per sostanza le apparenze, scambiar sogni e realtà.
sunnarse = sognarsi trattasi del verbo sunnà =sognare addizionato come frequentente accade della particella pronominalese = si in funzione intensiva e/o espressiva]
1 vedere, immaginare in sogno: sunnà(sognare),sunnarse ‘nu cane a ddoje cape( sognarsi un cane a due teste); sognare, sunnarse ‘e vulà(sognarsi di volare); me songo sunnato ca ire partuto(ò sognato che eri partito);
2 raffigurare nella fantasia come reale; desiderare con viva immaginazione; vagheggiare: sunnarse ‘na bbella casa(sognarsi una bella casa);sunnarse ‘e addivintà ricco (sognarsi di diventare ricco) | con riferimento al carattere irreale dei sogni: nun m’ ‘’o ssonno nemmeno!( non me lo sogno neanche!), non ci penso neanche, non lo farei mai, oppure non posso nemmeno sperarlo; nun mme ll’aggiu sunnato!(non me lo sono mica sognato), è vero, è accaduto realmente; ‘a villa ô mare s’ ‘a sonna, s’ ‘a po’ sunnà!(la villa al mare se la sogna, se la può sognare!), non l'avrà mai; nun sunnarte d’ ‘o ffà(non sognarti di farlo), non farlo assolutamente, non pensarci neanche | con riferimento al carattere divinatorio attribuito ai sogni: nun putevo sunnarmelo(non potevo sognarmelo), non potevo saperlo; chi s’ ‘o ffósse sunnato?(chi se lo sarebbe sognato?) chi poteva prevederlo? ||| v. intr. [ pure in napoletanocome accade per l’italiano il sognare(v. intr.) vuole l’aus. avere, mentre se costruito con la particella pron.,vuole l’aus. essere, ] fare sogni: sonna tutte ‘e nnotte(sogna tutte le notti);aggiu sunnato ‘e mamma mia (ò sognato di mia madre); me so’ sunnato d’ ‘e tiempe passate(mi sono sognato dei tempi passati) | me pare ‘e sunna(mi sembra di sognare), si dice di fronte a cosa straordinaria, imprevista o meravigliosa 'sunnà a uocchie apierte ( sognare a occhi aperti), fantasticare. Voce dal lat. somniare→sonniare→sunnà, deriv. di somnium 'sogno'.
dint’ô corrisponde all’italiano nel/nello. Al proposito rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle; dinto è dal lat. dí intro→d(í)int(r)o→dinto 'da dentro'.
4)PISCIÀ ‘NCOPP’Â SCOPA
Prima di illustrare, chiarire ed esaminare il significato, l’ uso e l’ origine dell’espressione in esame mi corre l’obbligo d’una precisazione: l’espressione in esame è molto datata, ma stranamente, di essa non si occupa compiutamente nessuno (con una sola eccezione, di cui dirò…), non si occupa nessuno dei numerosi addetti ai lavori o degli appassionati cultori della napoletanità e suoi usi, costumi ed espressioni linguistiche; nessuno: né il D’Ascoli, né Iandolo, né Zazzera, né altri;quest’ultimo (Zazzera) – per la verità – né dà una timida, e peraltro, erronea interpretazione (pur senza chiarire o argomentare) parlando di un generico rimedio da usarsi quale antidoto del nervosismo; l’unico che ne fa menzione nel suo IL NAPOLETANARIO è l’amico avv.to Renato de Falco, ma anche lui ne dà (e ne dirò in sèguito) una spiegazione erronea o quanto meno riduttiva.
Mi corre perciò l’obbligo di fare da solo, senza il supporto d’altre penne e/o idee. Pazienza, poco male! Non mi spaventerò per questo. Cominciamo con il dire che tradotta ad litteram l’espressione è: Mingere sulla scopa. e piú spesso è usata nella forma imperativa piscia ‘ncopp’â scopa! ossia mingi sulla scopa!
Orbene, lètta cosí semplicemente,nella morfologia con l’infinito l’espressione parrebbe quasi sostanziare, come ipotizza l’amico Renato, un innocuo dispettuccio meschino ed insulso fatto ad altri, come ad esempio, aggiungo io, quello fatto da un ragazzino, un monello che redarguito, sgridato e rimbrottato si vendichi mingendo sulla scopa che forse è stata usata per accompagnare i rimbrotti con qualche sana percossa…
Ma le cose non stanno cosí perché l’espressione non è usata quale fatto di cronaca, ossia non è usata per riportare e riferire il comportamento inurbano, dispettoso e di risentimento di un bambino; tutt’altro! L’espressione è usata (nella morfologia dell’imperativo) a sapido provocatorio commento all’atteggiamento d’ un adulto che si dispiaccia, si adonti di/per qualcosa che gli accada e che non sia di suo gradimento; chiarisco con un esempio. Poniamo che un individuo (maschio o femmina, ma piú spesso càpita con una femmina, adusa piú del maschio a risentirsi, mettere il broncio etc.) abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, abbia ricevuto, dicevo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto un danno ed ovviamente se ne dispiaccia, quando non se ne dolga o lamenti adontandosi e piccandosi, a costui/costei provocatoriamente gli/le si può opporre l’espressione dispettosa dell’epigrafe: E piscia ‘ncopp’â scopa! (Mingi sulla scopa!) che però non è lo stupido consiglio di reagire al rimbrotto, all’offesa, al danno con un dispettuccio infantile, quanto la piú seria esortazione a fare buon viso a cattivo giuoco, a sopportare, ad arrangiarsi, a tollerare adattandosi a ciò che avviene.
L’espressione di origine rurale, nasce prendendo spunto da un’antica pratica dei contadini che allorché dovevavo pulire l’aia provvedevano a bagnarla abbondantemente per evitare di sollevare polvere e quando non avevano sufficiente acqua per inumidire l’aia, si limitavano a bagnare la ramazza, ottenendo un risultato pressoché simile.
Nella fattispecie dell’esempio in esame l’uomo o piú spesso la donna che abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto addirittura un danno,l’indivuduo che cioè non possa bagnare la sua metaforica aia, deve adattarsi a ciò che avviene tollerando, facendo buon viso a cattivo giuoco magari arrangiandosi ad inumidire con il proprio metaforico piscio una metaforica scopa. Posta cosí la faccenda l’espressione assume un significato ben piú pregnante del semplice dispettuccio infantile ipotizzato dall’amico Renato, dispettuccio che mal s’attaglia al comportamento di un adulto.
piscia = mingi
voce verbale ( qui 2° p. sg.imperativo, altrove anche 3° p. sg. ind. pres. dell’infinito piscià = orinare, mingere derivata dal tardo lat. pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià);
‘ncopp’â = sopra la; è il modo napoletano di rendere la preposizione articolata sulla; rammento che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e.
Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta o crasi della preposizione articolataa+’a= alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a +’a/’o/’e→’ncopp’â/ô/ê...) o sotto (sott’a. +’a/’o/’e→sott’â/ô/ê...)...) in mezzo (‘mmiez’ a. +’a/’o/’e→’mmiez’â/ô/ê...)..) vicino al/allo (vicino a ‘o/’a/’e→ vicinoâ/ô/ê ) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la.
scopa s. f. arnese di forma varia per spazzare il pavimento, in genere consistente in una sorta di grossa spazzola fatta di rami di erica o saggina, oppure di setole o di filamenti di materia plastica, su cui si innesta un lungo manico 'avé magnato ‘o maneco d’ ‘a scopa (aver mangiato il manico della scopa), (fig.) si dice di persona che cammina rigida e impettita |sicco comme a ‘na scopa (magro come una scopa), (fig.) molto magro; voce dal lat. scopa(s) di scopae -arum pl., perché fatta con i rami della pianta omonima.
5)PISCIÀ ACQUA SANTA P’ ‘O VELLICULO = espressione ironica se non sarcastica che letteralmente è: mingere acqua santa attraverso l’ombellico; id est: accreditare (per il gusto però di burlarsene, non di lodarlo) qualcuno di esser migliore di quanto sia in realtà ritenendolo addirittura capace di poter mingere in luogo dell’orina, dell’acqua lustrale attraverso un orifizio peraltro inesistente! La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa.
velliculo = ombelico; l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus.
6)vulé piscià e gghí ‘ncarrozza
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.
per il verbo gghí = andare cfr. ultra sub 8).
7)vulé piscià tutte dint'ô rinale oppure vulé piscià tutto dint'ô rinale
Ad litteram: voler minger tutti nell'orinale oppure voler mingere completamente nell’orinale ; in ambedue i casi le espressioni stanno per : pretendere l'impossibile; infatti non a tutti è concesso di fare tutte le medesime cose, come non è possibile che tutti possano mingere nell'orinale, qualcuno dovrà contentarsi di farlo all'aperto e - come i cani - contro il muro. Nell’altra espressione si manifesta l’acclarata certezza che orinando non si può depositare tutto l’orina nel pitale; inevitabilmente si finisce per versarne fuori una parte!
rinale s.vo m.le = orinale, pitale, piccolo vaso da notte; voce dal lat. *urinale(m)→rinale per aferesi della u diventata o e deglutinata in quanto inteso articolo: *urinale(m)→ orinale(m)→ ‘o rinale.
8) ‘A sciorta 'e Cazzette:jette a piscià e se ne cadette.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
jette = andò voce verbale (3ª p.sg. pass. remoto dell’infinito jí= andare); il verbo jí merita una particolare attenzione: Il verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito. Premesso che alibi ò esaminato qualcuna di tali locuzioni, preciso qui che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso ghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno.
Qui giunto penso proprio d’aver soddisfatto l’amico D.C. ed interessato qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
domenica 31 ottobre 2010
SCARTE FRÚSCIO E PIGLIE PRIMERA!
SCARTE FRÚSCIO E PIGLIE PRIMERA!
Icastica, sarcastica locuzione esclamativa partenopea che per apparir piú chiara dovrebbe addizionarsi d’un nun(non) diventando scarte frúscio e nun piglie primera! (ma in tal guisa perderebbe tutto il suo gustoso sapore di ironia e sarcasmo e quindi meglio lasciar le cose come sono ed esclamare Scarte frúscio e piglie primera!
Che è un’ esclamazione intraducibile ad litteram che però si può rendere comunque lato sensu con di male in peggio oppure Cader dalla padella nella brace quantunque l’espressione napoletana abbia una sfumatura di malevola soddisfazione (nuance assente nell’espressione italiana) nel constatare la sgradevole situazione di chi – per sua insipienza - abbia scartato un frùscio sperando di avere una primiera e sia rimasto chiaramente a mani vuote, peggiorando cioè la propria situazione,id est cadendo dalla padella nella brace.
Ò parlato di espressione intraducibile ad litteram in quanto è assolutamente fuori luogo (come chiarisco qui di sèguito) tentar di renderla con un inconferente: Scarti flusso (fruscio) e raccogli primiera!
Infatti la parola napoletana frúscio non può esser tradotto, indicando cosa del tutto diversa, non può esser tradotto (come pure inopinatamente fece Raffaele D’Ambra nel suo dizionario napolitano, e come fanno tutti coloro (Altamura, D’Ascoli etc.) che spudoratamente vi attingono…), non può tradursi flusso, frúscio/fruscío, rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega e simili; il napoletano frúscio agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare = frusciare che in primis sta per fare in pezzi, sciupare, consumare ed à poi, nella forma riflessiva frusciarse, i significati estensivi di vantarsi a torto, gloriarsi, pavoneggiarsi senza motivo) vale cosa floscia,insignificante,di scarso valore, inconsistente, moscia, tutte cose che - come è intuitivo - nulla ànno a che spartire con flusso, frúscio (attestato talora soprattuto di vestiti,o foglie come fruscío), rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega etc.; il s.vo e solo s.vo italiano frúscio/fruscío à un’etimologia onomatopeica e connota cosa affatto diversa dal frúscio napoletano che è – come ò détto – è un agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare).
A questo punto, per parlar fuor de ’l velame de li versi strani,
converrà fare un passetto indietro e chiarire cosa siano il frúscio e la primera dell’epigrafe; chiariti i due concetti, forse si chiarirà tutta la portata dell’espressione in esame.
L’espressione attestata già anticamente, è mutuata da un gioco d’azzardo di carte, chiamato appunto primiera (voce derivata da primiero, in quanto la primiera si ottiene possedendo le carte di ogni seme che ànno il punteggio piú alto ( punteggio non facciale, ma prestabilito: i medesimi in uso nel conteggio della primiera nel gioco della scopa e cioè: 7 – 21 punti, 6 – 18 punti ,asso – 16 punti, 5 - 15 punti etc.a decrescere sino alle figure che valgono 10 punti cadauna )); la primiera è dunque un gioco d'azzardo nel quale vince il giocatore che somma il maggior numero di punti con quattro carte di quattro semi diversi; nel medesimo giuoco il fruscio è la somma del maggior numero di punti con quattro carte del medesimo seme; il fruscio è una combinazione secondiara che permette la vincita solo di una posta inferiore a quella destinata alla primiera, ma a chi possieda un fruscio dopo la prima distribuzione di carte, è dato la facoltà di scartarne alcune ( due o tre) e farsele sostituire dal cartaro sperando di riceverne di piú atte a mettere insieme una primiera che dà diritto alla vincita della posta piú alta; va da sé che era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio che comunque dà diritto ad una piccola vincita, per rincorrere la conquista di una primiera difficilissima da conseguire; era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio perché il piú delle volte non si consegue la primiera e si perde anche il fruscio scartato! Giunti a questo punto si comprende dunque la portata ironica se non sarcastica della locuzione partenopea in epigrafe che viene spesso usata con malevola, ostile, rancorosa soddisfazione per le disgrazie altrui, nei confronti di chi abbia lasciato il certo per l’incerto e prendendosi gioco di costui gli si rinfacci ironicamente (giacché in realtà non è avvenuta l’evenienza migliore…attesa, ma non conseguita) di aver scartato un fruscio e preso una primiera (piú chiaramente: di aver scartato un fruscio e(non) aver preso una primiera) d’aver cioè peggiorata la situazione, cadendo dalla padella nella brace.
In coda rammento gli etimi delle voci incontrate e non ancóra esaminate:
scarte = scarti voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito scartà = scartare (denominale di carta con protesi d’una esse distrattiva):
1 togliere un oggetto dalla carta che lo avvolge: scartà ‘nu pacco(scartare un pacco)
2 ( ed è il caso che ci occupa) nei giochi di carte, eliminare o sostituire una carta con particolari intendimenti a seconda del gioco; 3 mettere da parte, respingere come dannoso o inutile: scartare una proposta; scartare i libri superflui; scartare qualcuno alla visita di leva, dichiararlo non idoneo al servizio militare;
piglie pigli voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito piglià = prendere, pigliare ( dal lat. volg. *piliare, dal class. pilare 'rubare, saccheggiare').
Raffaele Bracale
Icastica, sarcastica locuzione esclamativa partenopea che per apparir piú chiara dovrebbe addizionarsi d’un nun(non) diventando scarte frúscio e nun piglie primera! (ma in tal guisa perderebbe tutto il suo gustoso sapore di ironia e sarcasmo e quindi meglio lasciar le cose come sono ed esclamare Scarte frúscio e piglie primera!
Che è un’ esclamazione intraducibile ad litteram che però si può rendere comunque lato sensu con di male in peggio oppure Cader dalla padella nella brace quantunque l’espressione napoletana abbia una sfumatura di malevola soddisfazione (nuance assente nell’espressione italiana) nel constatare la sgradevole situazione di chi – per sua insipienza - abbia scartato un frùscio sperando di avere una primiera e sia rimasto chiaramente a mani vuote, peggiorando cioè la propria situazione,id est cadendo dalla padella nella brace.
Ò parlato di espressione intraducibile ad litteram in quanto è assolutamente fuori luogo (come chiarisco qui di sèguito) tentar di renderla con un inconferente: Scarti flusso (fruscio) e raccogli primiera!
Infatti la parola napoletana frúscio non può esser tradotto, indicando cosa del tutto diversa, non può esser tradotto (come pure inopinatamente fece Raffaele D’Ambra nel suo dizionario napolitano, e come fanno tutti coloro (Altamura, D’Ascoli etc.) che spudoratamente vi attingono…), non può tradursi flusso, frúscio/fruscío, rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega e simili; il napoletano frúscio agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare = frusciare che in primis sta per fare in pezzi, sciupare, consumare ed à poi, nella forma riflessiva frusciarse, i significati estensivi di vantarsi a torto, gloriarsi, pavoneggiarsi senza motivo) vale cosa floscia,insignificante,di scarso valore, inconsistente, moscia, tutte cose che - come è intuitivo - nulla ànno a che spartire con flusso, frúscio (attestato talora soprattuto di vestiti,o foglie come fruscío), rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega etc.; il s.vo e solo s.vo italiano frúscio/fruscío à un’etimologia onomatopeica e connota cosa affatto diversa dal frúscio napoletano che è – come ò détto – è un agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare).
A questo punto, per parlar fuor de ’l velame de li versi strani,
converrà fare un passetto indietro e chiarire cosa siano il frúscio e la primera dell’epigrafe; chiariti i due concetti, forse si chiarirà tutta la portata dell’espressione in esame.
L’espressione attestata già anticamente, è mutuata da un gioco d’azzardo di carte, chiamato appunto primiera (voce derivata da primiero, in quanto la primiera si ottiene possedendo le carte di ogni seme che ànno il punteggio piú alto ( punteggio non facciale, ma prestabilito: i medesimi in uso nel conteggio della primiera nel gioco della scopa e cioè: 7 – 21 punti, 6 – 18 punti ,asso – 16 punti, 5 - 15 punti etc.a decrescere sino alle figure che valgono 10 punti cadauna )); la primiera è dunque un gioco d'azzardo nel quale vince il giocatore che somma il maggior numero di punti con quattro carte di quattro semi diversi; nel medesimo giuoco il fruscio è la somma del maggior numero di punti con quattro carte del medesimo seme; il fruscio è una combinazione secondiara che permette la vincita solo di una posta inferiore a quella destinata alla primiera, ma a chi possieda un fruscio dopo la prima distribuzione di carte, è dato la facoltà di scartarne alcune ( due o tre) e farsele sostituire dal cartaro sperando di riceverne di piú atte a mettere insieme una primiera che dà diritto alla vincita della posta piú alta; va da sé che era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio che comunque dà diritto ad una piccola vincita, per rincorrere la conquista di una primiera difficilissima da conseguire; era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio perché il piú delle volte non si consegue la primiera e si perde anche il fruscio scartato! Giunti a questo punto si comprende dunque la portata ironica se non sarcastica della locuzione partenopea in epigrafe che viene spesso usata con malevola, ostile, rancorosa soddisfazione per le disgrazie altrui, nei confronti di chi abbia lasciato il certo per l’incerto e prendendosi gioco di costui gli si rinfacci ironicamente (giacché in realtà non è avvenuta l’evenienza migliore…attesa, ma non conseguita) di aver scartato un fruscio e preso una primiera (piú chiaramente: di aver scartato un fruscio e(non) aver preso una primiera) d’aver cioè peggiorata la situazione, cadendo dalla padella nella brace.
In coda rammento gli etimi delle voci incontrate e non ancóra esaminate:
scarte = scarti voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito scartà = scartare (denominale di carta con protesi d’una esse distrattiva):
1 togliere un oggetto dalla carta che lo avvolge: scartà ‘nu pacco(scartare un pacco)
2 ( ed è il caso che ci occupa) nei giochi di carte, eliminare o sostituire una carta con particolari intendimenti a seconda del gioco; 3 mettere da parte, respingere come dannoso o inutile: scartare una proposta; scartare i libri superflui; scartare qualcuno alla visita di leva, dichiararlo non idoneo al servizio militare;
piglie pigli voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito piglià = prendere, pigliare ( dal lat. volg. *piliare, dal class. pilare 'rubare, saccheggiare').
Raffaele Bracale
IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ ETC.
IL VERBO NAPOLETANO PIGLIÀ (PIGLIARE) ED I SUOI SIGNIFICATI ESTENSIVI
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione popolare della sillaba d’avvio);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il saporte forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea;
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
- pigliarse 'o spavo 'ncerato
L’espressione che letteralmente si traduce prendersi lo spago impeciato significa: prendersi un gran fastidio, impegnandosi in un'azione lunga noiosa e quindi fastidiosa.
L'espressione è mutuata dal lavoro del calzolaio che quando deve cucire una suola o un tomaio deve fare uso di uno spago che, perchè sia piú resistente, viene prima attentamente impeciato ('ncerato), operazione lunga, noiosa e fastidiosa.
spavo s.vo neutro = spago, funicella sottile formata da due o piú capi ritorti:’nu gliommero ‘e spavo (un gomitolo di spago); attaccà ‘nu pacco cu ‘o spavo(legare un pacco con lo spago) | il filo ritorto e poi impeciato usato dai calzolai: tirà ‘o spavo(tirare lo spago) = fare il calzolaio | dà spavo a quaccuno(dare spago a qualcuno), (fig. fam.) incoraggiarlo con il proprio atteggiamento a parlare liberamente o a prendersi confidenze. L’etimo della voce napoletana è dal lat. spacu(m) con tipico passaggio delle occlusive velari sorde c(a/o/u)- g(a/o/u) a v o viceversa; cfr. ad es. gallo/gallina→ vallo/vallina oppure volpe→golpe gunnella→vunnella conchula→vongola etc.
‘ncerato p. pass. agg.vato dell’infinito ‘ncerà= incerare, ma nella fattispecie impeciare; etimologicamente derivato dal Dal lat. tardo incerare, comp. di in-illativo e cerare, deriv. di círa 'cera'.
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione popolare della sillaba d’avvio);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il saporte forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo incerto trattandosi di voce a carattere gergal-popolare nella cui formazione comunque non manca il riferimento a mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea;
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
- pigliarse 'o spavo 'ncerato
L’espressione che letteralmente si traduce prendersi lo spago impeciato significa: prendersi un gran fastidio, impegnandosi in un'azione lunga noiosa e quindi fastidiosa.
L'espressione è mutuata dal lavoro del calzolaio che quando deve cucire una suola o un tomaio deve fare uso di uno spago che, perchè sia piú resistente, viene prima attentamente impeciato ('ncerato), operazione lunga, noiosa e fastidiosa.
spavo s.vo neutro = spago, funicella sottile formata da due o piú capi ritorti:’nu gliommero ‘e spavo (un gomitolo di spago); attaccà ‘nu pacco cu ‘o spavo(legare un pacco con lo spago) | il filo ritorto e poi impeciato usato dai calzolai: tirà ‘o spavo(tirare lo spago) = fare il calzolaio | dà spavo a quaccuno(dare spago a qualcuno), (fig. fam.) incoraggiarlo con il proprio atteggiamento a parlare liberamente o a prendersi confidenze. L’etimo della voce napoletana è dal lat. spacu(m) con tipico passaggio delle occlusive velari sorde c(a/o/u)- g(a/o/u) a v o viceversa; cfr. ad es. gallo/gallina→ vallo/vallina oppure volpe→golpe gunnella→vunnella conchula→vongola etc.
‘ncerato p. pass. agg.vato dell’infinito ‘ncerà= incerare, ma nella fattispecie impeciare; etimologicamente derivato dal Dal lat. tardo incerare, comp. di in-illativo e cerare, deriv. di círa 'cera'.
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
LAGNA – LAMENTO & DINTORNI
LAGNA – LAMENTO & DINTORNI
Questa volta è stato il caro amico G. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi di illustrare le eventuali differenze tra le voci in epigrafe e di indicargli le voci dell’idioma partenopeo che le rendono . Accontento lui e qualche altro dei miei ventiquattro lettori,entrando súbito in argomento.
Lagna s.vo f.le
1– Lamento insistente e noioso: finiscila con quella lagna!; per estens., di discorso o faccenda lunghi, interminabili, noiosi: che lagna questa conferenza!; protesta o lamento ripetuto, insistente | (estens.) testo, discorso, brano musicale lento, prolisso, noioso;
fig. anche riferito a persona lagnosa: quella lagna di mia sorella!; sei proprio una lagna, bella mia!
2 -anche cosa molesta, che dia motivo di lagnarsi: Lèvati quinci e non mi dar più lagna (Dante).
Quanto all’etimo è un deverbale del lat. lania(re) 'dilaniare', poi 'dolersi, lamentarsi', dall'abitudine delle prefiche di graffiarsi gli arti ed il volto e strapparsi i capelli in segno di dolore.
Lamento s.vo m.le
1 suono, voce, parola che esprime dolore; per estens., verso di dolore di un animale: emettere, mandare, levare un lamento; un lamento straziante; il lamento di un cane ferito | lamento funebre, (etnol.) manifestazione rituale di cordoglio, espressa davanti alla salma nelle forme consacrate dalla tradizione (grida, nenie, gesti ecc.)
2 (estens.) suono flebile e triste: il lamento di un violino
3 espressione di risentimento; lagnanza, rimostranza: essere sordo ai lamenti altrui
4 componimento in versi, per lo piú di carattere popolare, in cui si esprime il dolore per la morte di una persona, diffuso soprattutto nel medioevo;
5 (mus.) composizione vocale che commemora un personaggio illustre; nell'opera, aria in cui il personaggio esprime la sua disperazione per la morte della persona amata.
Quanto all’etimo è dal lat. lamentu(m);
Gemito s.vo m.le
grido sommesso, lamento; voce di dolore (anche fig.): i gemiti dei feriti; il gemito del vento; il gemito del popolo oppresso. Quanto all’etimo è voce dal lat. gemitu(m)deverbale di gemere;
guaíto s.vo m.le
1 in primis verso acuto, breve e lamentoso emesso da animali, e spec. dal cane quando prova dolore
2 (estens.) lamento | (spreg.) stonatura nel canto, forzatura della voce.
Quanto all’etimo è voce deverbale di guaire che è dal lat. vagire 'vagire', con gu- iniziale di orig. germ.; cfr. ad es. guado(dal lat. vadu(m), connesso con vadere 'andare, passare', con gu- iniziale tipico delle voci di orig. germanica)
;
lamentela s.vo f.le
lamento continuo o ripetuto; lagnanza: è una lamentela generale; si sentono lamentele sul suo conto.
Quanto all’etimo è voce derivata da lamentu(m) con suff. durativo ela come per querela, cautela ecc.
E passiamo alle voci napoletane che rendono quelle dell’italiano:
addiasillo s.vo m.le
lamento continuo o ripetuto; lagnanza, piagnisteo, querimonia; etimologicamente è voce ricavata corrompendo ed agglutinando in un sol termine una parte dell’espressione latina: dies irae, dies illa→(dies irae)diesilla→diasillo con prostesi di un ad intensivo: ad+diasillo→addiasillo; dies irae, dies illa (giorno dell’ira, quel dí) è l’inizio d’una sequenza della liturgia dei defunti del religioso francescano, poeta e scrittore Tommaso da Celano (Celano, circa 1200 – †Val dei Varri, circa 1270) autore appunto dell'inno Dies irae di due vitae di san Francesco d'Assisi, di una vita di santa Chiara, ed almeno due lodi del Poverello.
diasilla s.vo m.le
, mugolio, piagnucolio, lamento, pianto, querimonia, lamentazione, lagno; etimologicamente è voce derivata, come dalla precedente dalla corruzione ed agglutinazione in un sol termine della sola parte finale dell’espressione latina: (dies irae,) dies illa→diasilla (giorno dell’ira, quel dí)
gnagnera s.vo f.le piagnucolio, lamento insistente, fastidioso e non motivato di donna querula; quanto all’etimolo è voce, come attestato nella stragrande maggioranza dei maggiori dizionarii in uso (D.E.I. – Treccani – Garzanti ed altri) palesemente onomatopeica, presente in varie altre parlate regionali con significati analoghi; fa eccezione il solo D’Ascoli che fantasiosamente si inventò una derivazione da un non attestato spagnolo ñaña (lèggi gnagna )(escremento) in un suo bizzarro significato estensivo di fastidio.Dissento dal D’Ascoli toto corde e mi accodo ai D.E.I. – Treccani – Garzanti ed altri.
catalajo s.vo m.le voce antica ed ormai desueta; tuttavia talora la si ritrova, sulla bocca di vecchi partenopei della città bassa, corrotta in cantaguaje riferita a persona che sia solita lamentarsi di sue vere o piú spesso presunte sventure, avversità, traversie; di per sé invece la corretta voce a margine vale lamento, gemito dolente, voce meste e dolorose espresso ad alta voce mesta se non dolorosa ed è etimologicamente costruita sul s.vo lajo (che è dal fr. lais=suono, canto) con protesi di un catà rafforzativo; rammento che il sostantivo lajo/laio è presente anche nella lingua italiana ed indicò in origine, con riferimento alla poesia francese medievale, un componimento lirico di argomento amoroso o fantastico, recitato o cantato con accompagnamento musicale; successivamente il medesimo s.vo anche nel linguaggio poetico della lingua italiana (usato però esclusivam. al plur. lai),indicò voci meste e dolorose, lamenti.
iumisso anzi jumisso s.vo m.le
Voce antica, ma desueta ed assente, purtroppo per me che l’ò cercata, in tutti i repertorii in mio possesso;corrisponde però all’italiano gemito in tutti i suoi significati: grido sommesso, lamento; voce di dolore (anche fig.); in mancanza di possibilità di confronti, ò dovuto far da solo e reputo, a mio modo di vedere, che l’etimo sia un adattamento locale (ge→ju) dal francese gemisse(ment)= gemito; per il passaggio della g palatale ad j cfr. ad es.: jennero che è da generu(m); non meraviglia altresí il passaggio di e ad u cosa normale in sillaba iniziale atona (cfr. perócchio ma purucchiuso, tellína→tunninola etc.);
lagno s.vo m.le nel suo significato primo la voce a margine vale: fossato con acqua, acquitrinio fangoso ma, per traslato vale lamento fastidioso o lagnanza insistente e noiosa, l’uno e l’altra semanticamente vicini al fastidio d’un acquitrinio fangoso ed appiccicaticcio; per quanto riguarda l’ etimo della voce preferisco accodarmi all’idea dell’amico prof. Carlo Iandolo che lègge in questo lagno un agg.vo amnius da amnis=fiume con successiva agglutinazione dell’art. l→ *l-amnius ed esito finale lagnu(s)→lagno , come somniu(m)→sogno, piuttosto che ritener la voce (considerato il suo significato primo) un deverbale di di lagnarsi che, come ò già detto, è dal lat. laniare 'dilaniare', poi 'dolersi, lamentarsi', dall'abitudine delle prefiche di graffiarsi e strapparsi i capelli in segno di dolore.
lamiénto s.vo m.le s. m.
1 suono, voce, parola che esprime dolore; per estens., verso di dolore di un animale:fa unu lamiento (si lamenta in continuazione);’nu lamiento strazziante (un lamento straziante); ‘o lamiento ‘e ‘nu cane feruto(il lamento di un cane ferito) | ‘o lamiento d’’o funnarale( il lamento funebre), (etnol.) manifestazione rituale di cordoglio, espressa davanti alla salma nelle forme consacrate dalla tradizione (grida, nenie, gesti ecc.)
2 (estens.) suono flebile e triste: il lamento di un violino
3 espressione di risentimento; lagnanza, rimostranza: essere sordo ai lamenti altrui
per quanto riguarda l’ etimo la voce è dal lat. lamentu(m);
lòteno s.vo m.le è propriamente un litigio lungo, noioso,ripetitivo che spesso si ripropone a scadenze continue; di tale lòteno la caretteristica precipua è appunto quella d’essere noiosamente ripetitivo ( donde il fastidio affine a quello del pregresso lagno) e quasi appiccicaticcio; etimologicamente lòteno è da collegarsi a lota = fango (dal lat. lutum a sua volta dalla medesima radice di luere=lavare, bagnare; partendo da lota(fango, terra bagnata) si va a lotulum (fangoso, melmoso, appiccicaticcio) donde con dissimilazione l→n il nostro lòteno;
‘nzíria s.vo f.le è il fastidioso, lamentoso capriccio proprio del bambino piccolo, d''o criaturo, capriccio accompagnato spesso dal piagnucolare senza motivo apparente e per ciò indica estensivamente indica anche un prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare,non curartene, non preoccuparti: è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rommento ancóra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra .
Per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira da quelle di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato de Falco nel suo, peraltro informato Alfabeto napolitano vol. 1° e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio, stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza da un latino insidiae; a sua volta da un in + sedeo = sto sopra, mi fermo su,insisto che ben mi pare possa rappresentare semanticamente l’impuntatura fanciullesca che è tipica della ‘nziria.
parafísema attestato (Basile) anche come parafísemo s.vo m.le voce antica e desueta che vale: protesta o lamento ripetuto, insistente fissazione ingiustificata; capriccio irragionevole, poco meno che físema = fisima; quanto all’etimo è voce costruita partendo da un’alterazione del gr. (só)phisma, (deriv. di sophízesthai 'divenire saggio' (da sophía 'sapienza'), poi 'cavillare,reiterare i concetti, valersi di sottili argomentazioni’, tutte cose semanticamente vicine al lamento ripetuto ed insistente), con prostesi della cong. parà = circa, quasi ottenendosi paraphisma e successivo paraphisema mediante l’anaptissi eufonica di una e tra ph= f e s;
píccio s.vo m.le piagnucolío, piagnisteo, lamento prolungato e noioso, tipici di bambini o di donne immature; quanto all’etimo è voce da un lat. volg. *pipiu(m) connesso al verbo pipiare = piagnucolare; per il passaggio della seconda sillaba pi a cci cfr. accio←apium, saccio←sapio etc.
pívulo s.vo m.le letteralmente in primis pigolío, poi per estensione e traslato piagnucolío, piagnisteo etc. come la voce precedente; etimologicamente è voce deverbale di piulà/pivulà che è dal Lat. volg. *piulare→*pivulare (con epentesi di una v eufonica), per il class. pipilare, di orig. onomatopeica;
règnula s.vo f.le lamento a denti stretti, provocatorio, piagnucolío dispettoso, provocatorio e molesto;
quanto all’etimo è voce deverbale da un lat. volg. *ringulare ( da ringi = digrignare i denti) che ebbe anche una forma frequentativa; *ringuljare che per metatesi diede regnuljare = piagnucolare; règnula è però un diretto derivato metatetico di *ringulare→rengulare→regnulare senza transitare per il frequentativo *ringuljare.
riépeto o liépeto s.vo m.le vedi oltre sub taluorno;
sciabbàcco s.vo m.le in primis vale: fracasso, baraonda, schiamazzo, trambusto e poi per estensione e/o traslato lamento, lamentela, reclamo, protesta, querela, piagnisteo (che non possono mancare in una baraonda);etimologicamente è voce dall’arabo šábak= trambusto;
sizia – sizia o siziasizia s.vo m.le lamento querulo e reiterato; la voce viene usata quasi sempre nell’icastica espressione che suona: fa unu sizia-sizia.
letteralmente: fa un sitio- sitio, cioè si lamenta continuamente riferito di solito ad inopportuni bambini o a fastidiose donne che assillano con richieste pressanti ed irritanti richiedere tese ad ottenere qualcosa richiesta appunto con ossessiva petulanza. La voce e la locuzione son ricavate prendendo spunto da un episodio dei Vangeli quello relativo al “Sitio!”(ò sete), una delle sette parole pronunciate da Cristo sulla croce.Rammento che alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli da bere dell'aceto misto ad acqua e ciò non per ulteriormente vilipenderlo, ma solo perché un misto d’acqua ed aceto è la bevanda piú adatta a spegnere l'arsura.
taluórno s.vo m.le lamento reiterato, ripetizione noiosa, canto fastidioso; etimologicamente taluorno non deriva come improvvidamente e fantasiosamente pensò qualcuno (D’Ascoli) da un inesistente latino: tal-urnus: ripetizione; in realtà il termine taluorno è da collegarsi all’antica voce latorno voce che nella lingua ufficiale è ormai desueta tanto da essere addirittura inopinatamente esclusa (manca persino nel Pianegiani!) nei correnti ed accreditati vocabolarî della lingua italiana; tale latorno (etimologicamente deverbale di ritornare con dissimilazione r→l) indicò un lamento reiterato, una ripetizione noiosa, un canto o una persona fastidiosa e con una tipica dittongazione regionale della sillaba to (forse intesa breve) la voce latorno divenne latuorno sia in area calabro-lucana che in area pugliese, dove indicò il tipico lamento funebre delle prefiche (dal lat. praefica(m), f.le dell'agg. praeficus 'messo a capo', deriv. di praeficere 'mettere a capo', perché la prefica era preposta al gruppo delle ancelle che piangevano; in effetti essa prefica fu la donna che, presso gli antichi romani, veniva pagata per piangere e lamentarsi durante le cerimonie funebri; l'usanza ancóra sopravvive in alcune aree mediterranee europee; scherzosamente la voce prefica è usata poi anche per indicare una persona che si lamenti per nulla; ,il lamento funebre, nelle aree soprindicate è detto anche riépeto/liépeto che semanticamente richiamano il latuorno/taluorno con il suo reiterarsi.
riépeto o liépeto s.vo m.le sono un’unica voce con due grafie leggermente diverse cioè con la tipica alternanza/dissimilazione partenopea delle liquide r/l etimologicamente risultano essere deverbali di repetà, che da un lat. medioevale repetare indicò appunto il pianger lamentoso durante i funerali e/o le veglie funebri. Alla luce di tutto quanto detto mi pare che, relativamente all’etimo di taluorno si possa finalmente affermare che in napoletano la voce taluorno indicò dapprima il tipico lamento funebre delle prefiche e poi estensivamente atto noioso e/o ogni fastidio reiterato, e – quanto all’etimo- messo da parte il fantasioso tal – urnus del D’Ascoli, si possa tranquillamente intendere come lettura metatetica di latuorno→taluorno.
trívulo s.vo m.le s. in primis la voce a margine è
1 (bot.) nome di diverse piante spinose | (lett.) pruno, rovo, sterpo:
2 (mil.) ciascuno degli arnesi metallici provvisti di punte che si spargevano anticamente sul terreno per ostacolare l'avanzata della cavalleria;
3 (fig. ed è il caso che ci occupa ) tormento,fastidio preoccupazione, angustia che generano pianto, lamentele, rimostranze, proteste :’na vita ‘ntrivule e ‘ntempesta (una vita fra triboli e tempeste); l’etimo è dal lat. tribulu(m), dal gr. tríbolos 'spino'; normale nel napoletano l’alternanza b/v cfr. barca→varca, bocca→vocca, bótte→vótte etc.
zinfunía s.vo f.le , piagnucolio reiterato , accordo discordante di suoni, lamento continuo ed immotivato , pianto, querimonia, lamentazione, lagno tutti espressi, spesso coralmente ed a gran volume di voce da bambini o donne immature ; etimologicamente è voce derivata dal gr. symphonía , comp. di sy/n- 'sin-' e un deriv. di phoné 'suono'; comune nel napoletano il passaggio della s a z
ziteresélla s.vo f.le voce antichissima, popolaresca, ma desueta nata nella città bassa al tempo(fine 1800 principi 1900) in cui ancóra alcune popolane esercitavano il mestiere di capera (pettinatrice girovaga, ciarliera e pettegola; la voce è dal lat.parlato capa(m)+ il suffisso di attinenza era f.le di iere cfr. salumera ma al m.le salumiere etc. );la voce a margine ziteresélla in primis valse cantafera,cantilena, tiritera, querimonia lunga e tediosa ed estensivamente lamento, lagnanza con riferimento alle noiose tiritere, farcite di lamenti e lagnanze con cui le logorroiche pettinatrici a domicilio solevano condire il loro lavoro errabondo; in effetti etimologicamente la voce è formata dall’agglutinazione del sostantivo zi’ ( che è l’ apocope di zia) usato (in luogo d’un corretto sié) in unione con il nome proprio Teresella (ipocoristico di Teresa) degradato semanticamente a nome comune.Sarebbe vano andare alla ricerca di quella Teresella che – con ogni probabilità – fu una conosciuta ciarliera, lamentosa capera che svolgeva la sua attività nei bassi, fondaci o case della città bassa inondando di lamenti, lagnanze e querimonie le povere clienti che ipso facto servendosi del nome della pettinatrice coniarono il termine ziteresélla per indicare unacantilena,una tiritera,una querimonia lunga e tediosa ed estensivamente unlamento,una lagnanza; rammento comunque che a Napoli piú che il semplice ipocoristico Teresella ,di Teresa è in uso dapprima il diminutivo Teresina e poi il suo vezzeggiativo Teresenella.
Faccio ora un passo indietro e chiarisco la faccenda della voce zi’ usata in luogo di sié , ricordando che spesso nel napoletano una voce che nella prima sillaba à la consonante esse, quest’ultima viene letta zeta determinando una confusione tra voci diverse ed inducendo in errore, come capita ad es. con i sostantivi signore e signora che apocopati rispettivamente in si’= si(gnore) e sié = signora (sié è apocope ricostruita di signora dalla voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-(gneuse); per errore tali si’ e sié vengon letti zi’ e zié→zi’ che sono invece l’apocope di zio e zia che sono dal lat. thiu(m)/thia(m) e dunque voci affatto diverse da signore e signora che son voci di rispetto, ma generiche rispetto a zio/zia che indicano un chiaro rapporto parentale che di norma manca nel rapporto interpersonale dei soggetti indicati come signore o signora; rammento al proposito l’espressione essere ‘o si’ nisciuno che ad litteram è : essere il signor nessuno. Espressione usata nei confronti di chi sia ritenuto un’autentica nullità, un essere di nessuna valenza e/o importanza un autentico signor nessuno.Rammento che spesso anche tra napoletani di vecchio conio la locuzione in epigrafe suona, per la ragione ricordata come: essere ‘o zi’ nisciuno sostituendo la sibilante S con una piú dura, ma inesatta Z e persino il grandissimo don Peppino Marotta,si lasciò confondere ed incolse nell’errore di tradurre l’espressione in maniera errata: essere lo zio nessuno , laddove la parola esatta da usarsi nella locuzione è: si’ che comporta la traduzione in signore. In effetti usando lo scorretto zi’ nisciuno ci troveremmo ad avere a che fare con la parola zi’ forma apocopata della voce zio(zio) che è dal lat. thiu(m) e l’espressione in un certo senso si snaturerebbe del suo significato giacché usando zi’ nisciuno (zio nessuno) non si raggiungerebbe l’icastica espressività che è contenuta nell’esatta locuzione che prevede l’uso di si’ nisciuno (signor nessuno) dove si’ è la forma apocopata della parola si(gnore).
Giunto a questo punto potrei anche ritenermi soddisfatto e reputare d’aver contentato l’amico G.G. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori,mettendo un punto fermo; ma prima di farlo mi piace ricordare a vol d’uccello qualche verbo o espressione che si collegano alle voci esaminate:
allamentarse = lamentarsi, lagnarsi; reclamare, protestare, rimostrare;
fà unu sizia-sizia ne ò già détto antea sub sizia-sizia;
lepetà/repetà/ repetïàre/ ïà
dolersi, pianger lamentosamente durante i funerali e/o le veglie funebri. cfr. antea sub taluorno;
Piccïàre/ ïà cfr. antea sub píccio;
regnulïàre/ ïà cfr. antea sub regnula;
sciabbacchïàre/ïà cfr. antea sub sciabbacco
Faccio notare in coda a quest’ultimo elenco che in napoletano tutti i verbi in ïare/ïà comportano una sillaba in piú rispetto ai verbi in iare/à cosa che esige una coniugazione diversa; ad esempio in napoletano esistono i verbi cacciare/à e cacc ïare/ïà; il primo (trisillabo) con etimo dal lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere' vale: 1 mandare via con la forza o sgarbatamente; scacciare (anche fig.): caccià ‘e casa malamente (cacciare di casa, in malo modo); caccià ‘e cattive penziere(scacciare i cattivi pensieri)
2 (fam.) tirar fuori, cavare, estrarre: caccià ‘na cosa ‘e sorde(tirar fuori del danaro)
ed à una normale coniugazione dei verbi di prima cng.che ad es. all’ind. presente è i’ caccio/tu cacce/isse caccia/nuje cacciàmmo/vuje cacciàte/lloro càcciano
Affatto diverso è il quadrisillabo caccïare/ïà che a malgrado abbia il medesimo etimo dal lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere', vale: dare la caccia a un animale selvatico per ucciderlo o catturarlo e non segue la normale coniugazione dei verbi di prima cng ma una che tiene conto della sillaba in piú, per cui ad es. all’ind. presente è i’caccéjo/tu caccíje/isso caccéja/nuje caccíjammo/
vuje caccíjate/lloro caccéjano
Sulla falsariga della coniugazione ora indicata si comportano tutti i verbi in ïare/ïà anche se non esistono loro similari in are/à, per cui i sunnotati verbi in ïare/ïà si adeguano tutti alla medesima coniugazione di caccïare/ïà e non a quella di cacciare/à.
Demumque penso proprio di poter metter ora il mio consueto satis est.
Raffaele Bracale
Questa volta è stato il caro amico G. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi di illustrare le eventuali differenze tra le voci in epigrafe e di indicargli le voci dell’idioma partenopeo che le rendono . Accontento lui e qualche altro dei miei ventiquattro lettori,entrando súbito in argomento.
Lagna s.vo f.le
1– Lamento insistente e noioso: finiscila con quella lagna!; per estens., di discorso o faccenda lunghi, interminabili, noiosi: che lagna questa conferenza!; protesta o lamento ripetuto, insistente | (estens.) testo, discorso, brano musicale lento, prolisso, noioso;
fig. anche riferito a persona lagnosa: quella lagna di mia sorella!; sei proprio una lagna, bella mia!
2 -anche cosa molesta, che dia motivo di lagnarsi: Lèvati quinci e non mi dar più lagna (Dante).
Quanto all’etimo è un deverbale del lat. lania(re) 'dilaniare', poi 'dolersi, lamentarsi', dall'abitudine delle prefiche di graffiarsi gli arti ed il volto e strapparsi i capelli in segno di dolore.
Lamento s.vo m.le
1 suono, voce, parola che esprime dolore; per estens., verso di dolore di un animale: emettere, mandare, levare un lamento; un lamento straziante; il lamento di un cane ferito | lamento funebre, (etnol.) manifestazione rituale di cordoglio, espressa davanti alla salma nelle forme consacrate dalla tradizione (grida, nenie, gesti ecc.)
2 (estens.) suono flebile e triste: il lamento di un violino
3 espressione di risentimento; lagnanza, rimostranza: essere sordo ai lamenti altrui
4 componimento in versi, per lo piú di carattere popolare, in cui si esprime il dolore per la morte di una persona, diffuso soprattutto nel medioevo;
5 (mus.) composizione vocale che commemora un personaggio illustre; nell'opera, aria in cui il personaggio esprime la sua disperazione per la morte della persona amata.
Quanto all’etimo è dal lat. lamentu(m);
Gemito s.vo m.le
grido sommesso, lamento; voce di dolore (anche fig.): i gemiti dei feriti; il gemito del vento; il gemito del popolo oppresso. Quanto all’etimo è voce dal lat. gemitu(m)deverbale di gemere;
guaíto s.vo m.le
1 in primis verso acuto, breve e lamentoso emesso da animali, e spec. dal cane quando prova dolore
2 (estens.) lamento | (spreg.) stonatura nel canto, forzatura della voce.
Quanto all’etimo è voce deverbale di guaire che è dal lat. vagire 'vagire', con gu- iniziale di orig. germ.; cfr. ad es. guado(dal lat. vadu(m), connesso con vadere 'andare, passare', con gu- iniziale tipico delle voci di orig. germanica)
;
lamentela s.vo f.le
lamento continuo o ripetuto; lagnanza: è una lamentela generale; si sentono lamentele sul suo conto.
Quanto all’etimo è voce derivata da lamentu(m) con suff. durativo ela come per querela, cautela ecc.
E passiamo alle voci napoletane che rendono quelle dell’italiano:
addiasillo s.vo m.le
lamento continuo o ripetuto; lagnanza, piagnisteo, querimonia; etimologicamente è voce ricavata corrompendo ed agglutinando in un sol termine una parte dell’espressione latina: dies irae, dies illa→(dies irae)diesilla→diasillo con prostesi di un ad intensivo: ad+diasillo→addiasillo; dies irae, dies illa (giorno dell’ira, quel dí) è l’inizio d’una sequenza della liturgia dei defunti del religioso francescano, poeta e scrittore Tommaso da Celano (Celano, circa 1200 – †Val dei Varri, circa 1270) autore appunto dell'inno Dies irae di due vitae di san Francesco d'Assisi, di una vita di santa Chiara, ed almeno due lodi del Poverello.
diasilla s.vo m.le
, mugolio, piagnucolio, lamento, pianto, querimonia, lamentazione, lagno; etimologicamente è voce derivata, come dalla precedente dalla corruzione ed agglutinazione in un sol termine della sola parte finale dell’espressione latina: (dies irae,) dies illa→diasilla (giorno dell’ira, quel dí)
gnagnera s.vo f.le piagnucolio, lamento insistente, fastidioso e non motivato di donna querula; quanto all’etimolo è voce, come attestato nella stragrande maggioranza dei maggiori dizionarii in uso (D.E.I. – Treccani – Garzanti ed altri) palesemente onomatopeica, presente in varie altre parlate regionali con significati analoghi; fa eccezione il solo D’Ascoli che fantasiosamente si inventò una derivazione da un non attestato spagnolo ñaña (lèggi gnagna )(escremento) in un suo bizzarro significato estensivo di fastidio.Dissento dal D’Ascoli toto corde e mi accodo ai D.E.I. – Treccani – Garzanti ed altri.
catalajo s.vo m.le voce antica ed ormai desueta; tuttavia talora la si ritrova, sulla bocca di vecchi partenopei della città bassa, corrotta in cantaguaje riferita a persona che sia solita lamentarsi di sue vere o piú spesso presunte sventure, avversità, traversie; di per sé invece la corretta voce a margine vale lamento, gemito dolente, voce meste e dolorose espresso ad alta voce mesta se non dolorosa ed è etimologicamente costruita sul s.vo lajo (che è dal fr. lais=suono, canto) con protesi di un catà rafforzativo; rammento che il sostantivo lajo/laio è presente anche nella lingua italiana ed indicò in origine, con riferimento alla poesia francese medievale, un componimento lirico di argomento amoroso o fantastico, recitato o cantato con accompagnamento musicale; successivamente il medesimo s.vo anche nel linguaggio poetico della lingua italiana (usato però esclusivam. al plur. lai),indicò voci meste e dolorose, lamenti.
iumisso anzi jumisso s.vo m.le
Voce antica, ma desueta ed assente, purtroppo per me che l’ò cercata, in tutti i repertorii in mio possesso;corrisponde però all’italiano gemito in tutti i suoi significati: grido sommesso, lamento; voce di dolore (anche fig.); in mancanza di possibilità di confronti, ò dovuto far da solo e reputo, a mio modo di vedere, che l’etimo sia un adattamento locale (ge→ju) dal francese gemisse(ment)= gemito; per il passaggio della g palatale ad j cfr. ad es.: jennero che è da generu(m); non meraviglia altresí il passaggio di e ad u cosa normale in sillaba iniziale atona (cfr. perócchio ma purucchiuso, tellína→tunninola etc.);
lagno s.vo m.le nel suo significato primo la voce a margine vale: fossato con acqua, acquitrinio fangoso ma, per traslato vale lamento fastidioso o lagnanza insistente e noiosa, l’uno e l’altra semanticamente vicini al fastidio d’un acquitrinio fangoso ed appiccicaticcio; per quanto riguarda l’ etimo della voce preferisco accodarmi all’idea dell’amico prof. Carlo Iandolo che lègge in questo lagno un agg.vo amnius da amnis=fiume con successiva agglutinazione dell’art. l→ *l-amnius ed esito finale lagnu(s)→lagno , come somniu(m)→sogno, piuttosto che ritener la voce (considerato il suo significato primo) un deverbale di di lagnarsi che, come ò già detto, è dal lat. laniare 'dilaniare', poi 'dolersi, lamentarsi', dall'abitudine delle prefiche di graffiarsi e strapparsi i capelli in segno di dolore.
lamiénto s.vo m.le s. m.
1 suono, voce, parola che esprime dolore; per estens., verso di dolore di un animale:fa unu lamiento (si lamenta in continuazione);’nu lamiento strazziante (un lamento straziante); ‘o lamiento ‘e ‘nu cane feruto(il lamento di un cane ferito) | ‘o lamiento d’’o funnarale( il lamento funebre), (etnol.) manifestazione rituale di cordoglio, espressa davanti alla salma nelle forme consacrate dalla tradizione (grida, nenie, gesti ecc.)
2 (estens.) suono flebile e triste: il lamento di un violino
3 espressione di risentimento; lagnanza, rimostranza: essere sordo ai lamenti altrui
per quanto riguarda l’ etimo la voce è dal lat. lamentu(m);
lòteno s.vo m.le è propriamente un litigio lungo, noioso,ripetitivo che spesso si ripropone a scadenze continue; di tale lòteno la caretteristica precipua è appunto quella d’essere noiosamente ripetitivo ( donde il fastidio affine a quello del pregresso lagno) e quasi appiccicaticcio; etimologicamente lòteno è da collegarsi a lota = fango (dal lat. lutum a sua volta dalla medesima radice di luere=lavare, bagnare; partendo da lota(fango, terra bagnata) si va a lotulum (fangoso, melmoso, appiccicaticcio) donde con dissimilazione l→n il nostro lòteno;
‘nzíria s.vo f.le è il fastidioso, lamentoso capriccio proprio del bambino piccolo, d''o criaturo, capriccio accompagnato spesso dal piagnucolare senza motivo apparente e per ciò indica estensivamente indica anche un prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare,non curartene, non preoccuparti: è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rommento ancóra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra .
Per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira da quelle di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato de Falco nel suo, peraltro informato Alfabeto napolitano vol. 1° e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio, stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza da un latino insidiae; a sua volta da un in + sedeo = sto sopra, mi fermo su,insisto che ben mi pare possa rappresentare semanticamente l’impuntatura fanciullesca che è tipica della ‘nziria.
parafísema attestato (Basile) anche come parafísemo s.vo m.le voce antica e desueta che vale: protesta o lamento ripetuto, insistente fissazione ingiustificata; capriccio irragionevole, poco meno che físema = fisima; quanto all’etimo è voce costruita partendo da un’alterazione del gr. (só)phisma, (deriv. di sophízesthai 'divenire saggio' (da sophía 'sapienza'), poi 'cavillare,reiterare i concetti, valersi di sottili argomentazioni’, tutte cose semanticamente vicine al lamento ripetuto ed insistente), con prostesi della cong. parà = circa, quasi ottenendosi paraphisma e successivo paraphisema mediante l’anaptissi eufonica di una e tra ph= f e s;
píccio s.vo m.le piagnucolío, piagnisteo, lamento prolungato e noioso, tipici di bambini o di donne immature; quanto all’etimo è voce da un lat. volg. *pipiu(m) connesso al verbo pipiare = piagnucolare; per il passaggio della seconda sillaba pi a cci cfr. accio←apium, saccio←sapio etc.
pívulo s.vo m.le letteralmente in primis pigolío, poi per estensione e traslato piagnucolío, piagnisteo etc. come la voce precedente; etimologicamente è voce deverbale di piulà/pivulà che è dal Lat. volg. *piulare→*pivulare (con epentesi di una v eufonica), per il class. pipilare, di orig. onomatopeica;
règnula s.vo f.le lamento a denti stretti, provocatorio, piagnucolío dispettoso, provocatorio e molesto;
quanto all’etimo è voce deverbale da un lat. volg. *ringulare ( da ringi = digrignare i denti) che ebbe anche una forma frequentativa; *ringuljare che per metatesi diede regnuljare = piagnucolare; règnula è però un diretto derivato metatetico di *ringulare→rengulare→regnulare senza transitare per il frequentativo *ringuljare.
riépeto o liépeto s.vo m.le vedi oltre sub taluorno;
sciabbàcco s.vo m.le in primis vale: fracasso, baraonda, schiamazzo, trambusto e poi per estensione e/o traslato lamento, lamentela, reclamo, protesta, querela, piagnisteo (che non possono mancare in una baraonda);etimologicamente è voce dall’arabo šábak= trambusto;
sizia – sizia o siziasizia s.vo m.le lamento querulo e reiterato; la voce viene usata quasi sempre nell’icastica espressione che suona: fa unu sizia-sizia.
letteralmente: fa un sitio- sitio, cioè si lamenta continuamente riferito di solito ad inopportuni bambini o a fastidiose donne che assillano con richieste pressanti ed irritanti richiedere tese ad ottenere qualcosa richiesta appunto con ossessiva petulanza. La voce e la locuzione son ricavate prendendo spunto da un episodio dei Vangeli quello relativo al “Sitio!”(ò sete), una delle sette parole pronunciate da Cristo sulla croce.Rammento che alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli da bere dell'aceto misto ad acqua e ciò non per ulteriormente vilipenderlo, ma solo perché un misto d’acqua ed aceto è la bevanda piú adatta a spegnere l'arsura.
taluórno s.vo m.le lamento reiterato, ripetizione noiosa, canto fastidioso; etimologicamente taluorno non deriva come improvvidamente e fantasiosamente pensò qualcuno (D’Ascoli) da un inesistente latino: tal-urnus: ripetizione; in realtà il termine taluorno è da collegarsi all’antica voce latorno voce che nella lingua ufficiale è ormai desueta tanto da essere addirittura inopinatamente esclusa (manca persino nel Pianegiani!) nei correnti ed accreditati vocabolarî della lingua italiana; tale latorno (etimologicamente deverbale di ritornare con dissimilazione r→l) indicò un lamento reiterato, una ripetizione noiosa, un canto o una persona fastidiosa e con una tipica dittongazione regionale della sillaba to (forse intesa breve) la voce latorno divenne latuorno sia in area calabro-lucana che in area pugliese, dove indicò il tipico lamento funebre delle prefiche (dal lat. praefica(m), f.le dell'agg. praeficus 'messo a capo', deriv. di praeficere 'mettere a capo', perché la prefica era preposta al gruppo delle ancelle che piangevano; in effetti essa prefica fu la donna che, presso gli antichi romani, veniva pagata per piangere e lamentarsi durante le cerimonie funebri; l'usanza ancóra sopravvive in alcune aree mediterranee europee; scherzosamente la voce prefica è usata poi anche per indicare una persona che si lamenti per nulla; ,il lamento funebre, nelle aree soprindicate è detto anche riépeto/liépeto che semanticamente richiamano il latuorno/taluorno con il suo reiterarsi.
riépeto o liépeto s.vo m.le sono un’unica voce con due grafie leggermente diverse cioè con la tipica alternanza/dissimilazione partenopea delle liquide r/l etimologicamente risultano essere deverbali di repetà, che da un lat. medioevale repetare indicò appunto il pianger lamentoso durante i funerali e/o le veglie funebri. Alla luce di tutto quanto detto mi pare che, relativamente all’etimo di taluorno si possa finalmente affermare che in napoletano la voce taluorno indicò dapprima il tipico lamento funebre delle prefiche e poi estensivamente atto noioso e/o ogni fastidio reiterato, e – quanto all’etimo- messo da parte il fantasioso tal – urnus del D’Ascoli, si possa tranquillamente intendere come lettura metatetica di latuorno→taluorno.
trívulo s.vo m.le s. in primis la voce a margine è
1 (bot.) nome di diverse piante spinose | (lett.) pruno, rovo, sterpo:
2 (mil.) ciascuno degli arnesi metallici provvisti di punte che si spargevano anticamente sul terreno per ostacolare l'avanzata della cavalleria;
3 (fig. ed è il caso che ci occupa ) tormento,fastidio preoccupazione, angustia che generano pianto, lamentele, rimostranze, proteste :’na vita ‘ntrivule e ‘ntempesta (una vita fra triboli e tempeste); l’etimo è dal lat. tribulu(m), dal gr. tríbolos 'spino'; normale nel napoletano l’alternanza b/v cfr. barca→varca, bocca→vocca, bótte→vótte etc.
zinfunía s.vo f.le , piagnucolio reiterato , accordo discordante di suoni, lamento continuo ed immotivato , pianto, querimonia, lamentazione, lagno tutti espressi, spesso coralmente ed a gran volume di voce da bambini o donne immature ; etimologicamente è voce derivata dal gr. symphonía , comp. di sy/n- 'sin-' e un deriv. di phoné 'suono'; comune nel napoletano il passaggio della s a z
ziteresélla s.vo f.le voce antichissima, popolaresca, ma desueta nata nella città bassa al tempo(fine 1800 principi 1900) in cui ancóra alcune popolane esercitavano il mestiere di capera (pettinatrice girovaga, ciarliera e pettegola; la voce è dal lat.parlato capa(m)+ il suffisso di attinenza era f.le di iere cfr. salumera ma al m.le salumiere etc. );la voce a margine ziteresélla in primis valse cantafera,cantilena, tiritera, querimonia lunga e tediosa ed estensivamente lamento, lagnanza con riferimento alle noiose tiritere, farcite di lamenti e lagnanze con cui le logorroiche pettinatrici a domicilio solevano condire il loro lavoro errabondo; in effetti etimologicamente la voce è formata dall’agglutinazione del sostantivo zi’ ( che è l’ apocope di zia) usato (in luogo d’un corretto sié) in unione con il nome proprio Teresella (ipocoristico di Teresa) degradato semanticamente a nome comune.Sarebbe vano andare alla ricerca di quella Teresella che – con ogni probabilità – fu una conosciuta ciarliera, lamentosa capera che svolgeva la sua attività nei bassi, fondaci o case della città bassa inondando di lamenti, lagnanze e querimonie le povere clienti che ipso facto servendosi del nome della pettinatrice coniarono il termine ziteresélla per indicare unacantilena,una tiritera,una querimonia lunga e tediosa ed estensivamente unlamento,una lagnanza; rammento comunque che a Napoli piú che il semplice ipocoristico Teresella ,di Teresa è in uso dapprima il diminutivo Teresina e poi il suo vezzeggiativo Teresenella.
Faccio ora un passo indietro e chiarisco la faccenda della voce zi’ usata in luogo di sié , ricordando che spesso nel napoletano una voce che nella prima sillaba à la consonante esse, quest’ultima viene letta zeta determinando una confusione tra voci diverse ed inducendo in errore, come capita ad es. con i sostantivi signore e signora che apocopati rispettivamente in si’= si(gnore) e sié = signora (sié è apocope ricostruita di signora dalla voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-(gneuse); per errore tali si’ e sié vengon letti zi’ e zié→zi’ che sono invece l’apocope di zio e zia che sono dal lat. thiu(m)/thia(m) e dunque voci affatto diverse da signore e signora che son voci di rispetto, ma generiche rispetto a zio/zia che indicano un chiaro rapporto parentale che di norma manca nel rapporto interpersonale dei soggetti indicati come signore o signora; rammento al proposito l’espressione essere ‘o si’ nisciuno che ad litteram è : essere il signor nessuno. Espressione usata nei confronti di chi sia ritenuto un’autentica nullità, un essere di nessuna valenza e/o importanza un autentico signor nessuno.Rammento che spesso anche tra napoletani di vecchio conio la locuzione in epigrafe suona, per la ragione ricordata come: essere ‘o zi’ nisciuno sostituendo la sibilante S con una piú dura, ma inesatta Z e persino il grandissimo don Peppino Marotta,si lasciò confondere ed incolse nell’errore di tradurre l’espressione in maniera errata: essere lo zio nessuno , laddove la parola esatta da usarsi nella locuzione è: si’ che comporta la traduzione in signore. In effetti usando lo scorretto zi’ nisciuno ci troveremmo ad avere a che fare con la parola zi’ forma apocopata della voce zio(zio) che è dal lat. thiu(m) e l’espressione in un certo senso si snaturerebbe del suo significato giacché usando zi’ nisciuno (zio nessuno) non si raggiungerebbe l’icastica espressività che è contenuta nell’esatta locuzione che prevede l’uso di si’ nisciuno (signor nessuno) dove si’ è la forma apocopata della parola si(gnore).
Giunto a questo punto potrei anche ritenermi soddisfatto e reputare d’aver contentato l’amico G.G. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori,mettendo un punto fermo; ma prima di farlo mi piace ricordare a vol d’uccello qualche verbo o espressione che si collegano alle voci esaminate:
allamentarse = lamentarsi, lagnarsi; reclamare, protestare, rimostrare;
fà unu sizia-sizia ne ò già détto antea sub sizia-sizia;
lepetà/repetà/ repetïàre/ ïà
dolersi, pianger lamentosamente durante i funerali e/o le veglie funebri. cfr. antea sub taluorno;
Piccïàre/ ïà cfr. antea sub píccio;
regnulïàre/ ïà cfr. antea sub regnula;
sciabbacchïàre/ïà cfr. antea sub sciabbacco
Faccio notare in coda a quest’ultimo elenco che in napoletano tutti i verbi in ïare/ïà comportano una sillaba in piú rispetto ai verbi in iare/à cosa che esige una coniugazione diversa; ad esempio in napoletano esistono i verbi cacciare/à e cacc ïare/ïà; il primo (trisillabo) con etimo dal lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere' vale: 1 mandare via con la forza o sgarbatamente; scacciare (anche fig.): caccià ‘e casa malamente (cacciare di casa, in malo modo); caccià ‘e cattive penziere(scacciare i cattivi pensieri)
2 (fam.) tirar fuori, cavare, estrarre: caccià ‘na cosa ‘e sorde(tirar fuori del danaro)
ed à una normale coniugazione dei verbi di prima cng.che ad es. all’ind. presente è i’ caccio/tu cacce/isse caccia/nuje cacciàmmo/vuje cacciàte/lloro càcciano
Affatto diverso è il quadrisillabo caccïare/ïà che a malgrado abbia il medesimo etimo dal lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere', vale: dare la caccia a un animale selvatico per ucciderlo o catturarlo e non segue la normale coniugazione dei verbi di prima cng ma una che tiene conto della sillaba in piú, per cui ad es. all’ind. presente è i’caccéjo/tu caccíje/isso caccéja/nuje caccíjammo/
vuje caccíjate/lloro caccéjano
Sulla falsariga della coniugazione ora indicata si comportano tutti i verbi in ïare/ïà anche se non esistono loro similari in are/à, per cui i sunnotati verbi in ïare/ïà si adeguano tutti alla medesima coniugazione di caccïare/ïà e non a quella di cacciare/à.
Demumque penso proprio di poter metter ora il mio consueto satis est.
Raffaele Bracale
OSTINATO & dintorni
OSTINATO & dintorni
Questa volta per contentar l’amico Umberto Z. ( peraltro dettosi molto soddisfatto di quanto, su suo invito, ò spesso scritto) per contentar, dicevo, l’amico Umberto che me ne à richiesto,autorizzandomi a fare il suo nome,ma non il cognome!, cercherò di illustrare la voce in epigrafe, i suoi sinonimi e quelle corrispondenti dell’ idioma napoletano; cominciamo dunque con ostinato per proseguire con i suoi sinonimi prima di considerare le voci corrispondenti del napoletano:
ostinato/a agg.vo m.le o f.le– 1. a. Di persona, che persiste con caparbia tenacia in un atteggiamento, in un proposito, nelle sue idee o opinioni, spesso nonostante l’evidenza contraria, sia come caratteristica abituale sia come atteggiamento legato a casi e situazioni particolari: un uomo o., una ragazza o.; chi nell’acqua sta fin alla gola, Ben è o. se mercé non grida (Ariosto); è o. come un mulo; essere o. nelle proprie idee, nel non voler riconoscere le ragioni degli altri; è o. avversario di ogni novità. Anche, tenace, costante, sia in senso positivo: un ricercatore, un lavoratore, uno studioso o.; Te o. amator de la tua Musa (Parini); sia in senso limitativo, con sign. analogo ad accanito, impenitente e sim.: peccatore, bevitore, giocatore ostinato. b. estens. di cosa in cui si persiste in modo inflessibile, irremovibile: chiudersi in un o. silenzio, in un mutismo o.; uno studio o.; un’o. difesa; opporre un’o. resistenza. 2. fig. a. Di cosa molesta che dura piú dell’ordinario, che sembra non voler cessare, o di male che resiste a ogni rimedio: una pioggia, una nebbia o.; febbriciattole o.; tosse o.; ò un o. dolore alla spalla destra. b. In musica (anche come s. m.), di figura melodica che si ripete incessantemente, invariata e alla stessa altezza, per tutta una composizione o una parte di essa; appare di solito nel basso, che prende in tal caso il nome di basso o. (v. basso2). Piú genericamente, per indicare la persistenza di un ritmo o di un effetto strumentale (per es., il pizzicato o. nella Sinfonia n. 4 di Čajkovskij);
etimologicamente dal lat. o(b)stinatu(m) part. pass. del verbo obstinare= ostinarsi.
Passiamo ai sinonimi:
Accanito/a agg.vo m.le o f.le1 furioso, violento: odio accanito
2 (fig.) ostinato, tenace: lavoratore, fumatore, giocatore accanito
etimo: p.p. di accanire = Far irritare come un cane: i consigli supplichevoli accaniscono i caparbi (Botta). 2. intr. pron. Imbestialirsi furiosamente, com’è proprio del cane verbo che è denominale di canis.
Caparbio/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc.; ostinato, testardo; quanto all’etimo poco convince una proposta derivazione(Treccani & altri) dal s.vo capo che lascerebbe inevaso mezzo lemma nella parte di arbio; né appare credibile il D.E.I. che ipotizza fantasiosamente uno sconosciuto né attestato *capardo forse accostato a testardo incrociato con superbio (per superbo?) per cui pare piú accettabile l’idea di chi (Pianigiani) vi vide un incrocio tra capra (animale cocciuto) e barbio (dal lat. barbulus= barbuto) : nome dato a piú specie di pesci d’acqua dolce del genere Barbus, famiglia ciprinidi, che presentano generalmente un paio di barbigli simili ad una barbetta di capra, dalle abitudini tenaci se non aggressive che ne rendono complicata la pesca; in Italia vivono due specie, il b. comune (Barbus barbus, con la sottospecie plebejus) e il b. meridionale (Barbus meridionalis), che costituiscono un cibo apprezzato. Il barbo/barbio è figura frequente negli scudi araldici, posto in palo, curvato e di profilo.
Cocciuto/a agg.vo e s.vo m.le o f.le testardo, ostinato, pervicace, tignoso; quanto all’etimo è un denominale di coccia= guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías)
pervicace agg.vo m.le ef.le ostinato, caparbio, accanito (per lo piú nel male); protervo: carattere pervicace; opposizione pervicace etimologicamente è dal lat. pervicace(m), deriv. di pervincere 'vincere completamente, spuntarla', comp. di per, con valore perfettivo (si dice dell'aspetto del verbo che esprime la compiutezza o il compimento di un'azione o di uno stato (p. e. fumò una sigaretta rispetto a fumava una sigaretta, che considera l'azione nel suo svolgimento); , e vincere 'vincere';
protervo/a agg.vo m.le o f.le 1 superbo e arrogante: un individuo, un atteggiamento protervo
2 (ant.) ardito, altero: regalmente ne l'atto ancor proterva (DANTE Purg. XXX, 70, descrivendo Beatrice);
quanto all’etimo è dal lat. protervu(m) composto da pro (avanti) e tero (trito, batto,calpesto);
puntiglioso/agg.vo e s.vo m.le o f.le =che agisce per ostinazione caparbia; che è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione: una persona puntigliosa; avere un carattere puntiglioso; un ragazzo puntiglioso nello studio; come s. m. [f. -a] persona puntigliosa: fare il puntiglioso
quanto all’etimo è aggettivo/sostantivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a al sostantivo puntiglio che è dallo sp. puntillo, dim. di punto (de honor) 'punto (d'onore)';
tenace agg.vo m.le e f.le1 che tiene bene, che fa presa: là dove bolle la tenace pece (DANTE Inf. XXXIII, 143)
2 detto di materiale metallico, che resiste alla deformazione | (estens.) detto di altro materiale, che non si rompe facilmente: filo tenace
3 (fig.) forte, resistente; saldo nei propositi; costante, puntiglioso,: memoria, volontà tenace; un ragazzo tenace; un affetto tenace, che dura molto a lungo
4 (lett.) parco, avaro (ma è poco usato in tale accezione)
L’etimo è dal lat. tenace(m), deriv. di teníre 'tenere'
tignoso/a agg.vo m.le o f.le
1 affetto da tigna
2 (fig. region.) avaro
3 (fig. region.) testardo, ostinato.
L’etimo è dal lat. tine-osu(m), deriv. di tinea 'tigna'.
E veniamo finalmente al napoletano dove abbiamo numerosi aggettivi che rendono quello dell’epigrafe ed i suoi sinonimi; li considero qui di sèguito:
Capaglione/a agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano tignoso/a;
L’etimo è da un lat.regionale *capalione(m) da capale (Du Cange pg. 861);
Capa tosta /capetuosto agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano testardo;
ambedue i termini sono etimologicamente formati o dall’accostamento o addirittura dell’agglutinazione di capa/cape =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) con l’aggettivo tosta/tuosto = duro, sodo (dal lat. tosta→tosta/tostu(m)→tuosto, part. pass. di torríre 'disseccare, tostare, render duro';
Capoteco/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc e cioè corrisponde ad un dipresso all’italiano caparbio; quanto all’etimo è voce formata partendo da capa→capo =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) piú il suffisso durativo òteco/a←òticu(m)/òtica(m) (cfr. (id)òticus;
cervecone/a agg.vo m.le o f.le = vale tal quale il precedente capaglione di cui è una sorta di accrescitivo (cfr. il suff. one/a); in origine però non fu aggettivo, ma un sostantivo indicante la nuca,la cervice, la collottola del capo e fu poi usato quale aggettivo indicante chi è ostinato o testardo; tale passaggio è semanticamente spiegato con il fatto che nell’inteso comune la cervice (da cui etimologicamente la voce trae) è spesso détta dura, quantunque morfologicamente la collottola o nuca, posta alla base del cranio sia piuttosto molle e non dura; la voce come détto è da un tardo lat. *cervicone(m) modellato su cervix= cervice e risolve comodamente in un unico termine il giro di parole (di dura cervice) dell’italiano;
Criccuso/a agg.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano puntiglioso e cioè: che/chi è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione con l’aggiunta peggiorativa d’essere dispettoso e/o capriccioso; quanto all’etimo è aggettivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a o al sostantivo cricchio (voce onomatopeica che vale ticchio, ghiribizzo) o piú probabilmente al sostantivo cricco (dal fr. cric martinetto, quello con cui si solleva un autoveicolo quando si deve sostituire una ruota); semanticamente, oltre che morfologicamente trovo piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio= ghiribizzo; infatti criccuso mi pare che ripeta, semanticamente, la forza puntigliosa(quasi dispettosa) esercitata con il cricco per raggiungere lo scopo del sollevamento d’un autoveicolo, laddove non mi par di poter trovare attinenze semantiche tra un’idea improvvisa e stravagante quale quella del ghiribizzo e l’applicazione costante e finalizzata del criccuso/puntiglioso; ugualmente morfologicamente trovo molto piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio(= ghiribizzo) voce che probabilmente avrebbe potuto evolversi in cricchiuso (mai però attestato) e non in criccuso;
‘mbizzuso/a agg.vo m.le o f.le di per sé in primis capriccioso/a, lunatico/a; scontroso/a e quindi per estensione testardo, ostinato, forte, resistente, costante, puntiglioso, saldo nei proprî propositi stravaganti e/o bizzarri; quanto all’etimo è aggettivo formato premettendo un in→’m rafforzativo ed aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa al sostantivo bizza (
1.breve stizza, capriccio stizzoso, ma di breve durata, senza serio motivo, anche fig.: il bimbo fa le bizze; il motore fa le bizze.
2.(per ampliamento semantico)impuntatura, ira, collera; etimologicamente molti dizionarî registrano la voce come d’etimo incerto, il D.E.I. e precisamente Carlo Battisti o Giovanni Alessio che si presero la responsabilità delle voci sotto la lettera B ipotizzarono (ma a mio avviso poco convincentemente) una derivazione dal lat. vitiosus per il tramite dell’aggettivo bizz(i)oso; semanticamente non trovo molta corrispondenza tra il vizio(che in latino vale errore, mancanza) ed il capriccio o l’impuntatura che son proprî della bizza; migliore m’appare la proposta di Ottorino Pianigiani che legge bizza come forma varia ed intensiva di izza battezzando ambedue come provenienti dall’antico sassone hittja→hizza = ardore): trovo l’ardore semanticamente molto piú vicino del vizio all’impuntatura,alla ira o anche solo ad una breve stizza!);
ncucciuso – ncucciosa agg.vo m.le o f.le ripete all’incirca le valenze del precedente cervecone/a nei significati di persona dalla testa dura ,persistentemente caparbia, testarda, puntigliosa, testona, cocciuta; quanto a l’etimo è termine formato da una n eufonica (per la quale non necessita alcun segno diacritico di aferesi che non c’è stata, (segno che necessiterebbe nel caso che la n fosse aferesi di un (i)n→’n illativo), n eufonica premessa alle voci cucciuso cucciosa nate addizionando la voce cuccia per coccia ← coccia (guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías) con il suffisso lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, che indica presenza, caratteristica, qualità ecc. (, curaggiuso/curaggiosa,perecchiuso/perucchiosa= pidocchioso/a, schifuso/schifosa).
;
ncucciuto/a agg.vo m.le o f.le è il medesimo aggettivo precedente con una morfologia un po’ diversa; in questo a margine il suffisso non è quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, ma quello verbale uto/a del part. passato, usato spesso per la formazione di aggettivi; la cosa da notare è che se l’agg.vo a margine fosse etimologicamente un reale p.p. dell’infinito ncuccià =ostinarsi, colpire, prendere etc., avrebbe dovuto essere ncucciato e non ncucciuto che potrebbe essere p.p. d’un inesistente ncuccí ;
ncanuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: stizzoso, sdegnoso e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie idee, da non lasciar spazio alle altrui idee o azioni, quasi come un cane da guardia. Etimologicamente è voce costruita con una n eufonica ( che non è residuo di un in→’n illativo e dunque non necessita(come ò già détto antea) del segno diacritico d’aferesi la cui apposizione, (come pure m’è occorso di trovare in taluni importanti (sic!) scrittori, sedicenti esperti dell’esatta grafia dell’idioma partenopeo) sarebbe inutile e pleonastica, n eufonica anteposta al sostantivo cane (lat. cane(m)) seguito dal suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncanato/a agg.vo m.le o f.le voce analoga alla precedente nel significato di ostinato, cocciuto, testardo, caparbio, pertinace, puntiglioso, che agisce alla maniera d’un cane da guardia; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, come la precedente sul s.vo cane (lat. cane(m), à una morfologia affatto diversa: in questa a margine infatti la ‘n d’avvio non è una consonante eufonica, ma è un residuo di un in→’n illativo e dunque necessita del segno diacritico d’aferesi; il suffisso adottato poi è quello (ato/a) delle desinenze verbali (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncanarse (comportarsi come un cane);
‘ncapunito/a agg.vo m.le o f.le intestardito, testardo, caparbio, come chi abbia una testa tanto grossa da farlo definire testone,testardo, pervicace, tignoso, persona ostinata ma poco intelligente; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, sul s.vo capone = grosso capo cui è anteposta un in→’n illativo che dunque necessita del segno diacritico, adotta come suffisso quello (ito/a) delle desinenze verbali di terza coniugazione (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncapunirse (intestardirsi, incaparbirsi, fissarsi, impuntarsi);
ncrapicciuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: estroso, bizzarro, originale, stravagante, insolito, strambo; civettuolo, e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie pretese balzane, bizzose,eccentriche, strampalate, assurde; ; etimologicamente la voce a margine è costruita sul s.vo crapiccio = voglia improvvisa e stravagante, desiderio bizzarro, ghiribizzo, sostantivo per il cui etimo si sospetta (D.E.I.- GARZANTI) una derivazione con lettura metatetica di cap(o)riccio = capo con i capelli rizzati per la paura, quindi manifestazione stravagante; trovo però migliore un’adattamento del fr. caprice sempre con lettura metatetica; al s.vo crapiccio è anteposta una n eufonica che dunquenon necessita del segno diacritico, e gli fa seguito il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncurnato/a agg.vo m.le o f.le ad litteram varrebbe incornato/a cioè colpito/a da una cornata, ma è inteso nei significati traslati di testardo, sfrontato, insolente, cocciuto, che fa di testa propria incurante di moniti o suggerimenti,accezioni tutte semanticamente spiegate con il fatto che esistono delle bestie (ovini – bovini) dal comportamento cocciuto ed il cui capo è spesso provvisto di corna s.vo su cui è modellato l’aggettivo a margine secondo il seguente iter: al s.vo cu(o)rn(a)←corna è anteposta un in→’n illativo che in quanto tale necessita del segno diacritico, ed al s.vo fa seguito il suffisso ato/a) delle desinenze verbali di 1° cng. (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncurnarse (comportarsi cocciutamente come una bestia provvista di corna);
di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘nzallannòmmene agg.vo e s.vo m.le e solo m.le: non è attestato come f.le= in primis zuccone, sciocco, stolto, scimunito; (fam.) tonto; poi per estensione semantica protervo, spocchioso, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciato, sfrontato, insolente e da ultimo testardo, ostinato, disorientatore,chi frastorna, turba, confonde, frastorna, sconcerta, scombussola con atti o discorsi ostinati, tenaci, perseveranti, caparbi, testardi, puntigliosi; è voce deseutissima che rappresenta quasi la voce attiva rispetto alla voce passiva ‘nzallanuto/a che connota colui o colei che subiscono l’azione del disorientamento, frastornamento, turbamento, confusione, , sconcertamento, scombussolamento con atti o parole ad opera di un ‘nzallannòmmene (ad litteram: frastorna-uomini).
Etimologicamente sia ‘nzallannòmmene che ‘nzallanuto/a sono deverbali di ‘nzallaní di cui ‘nzallanuto/a è il participio passato, mentre ‘nzallannòmmene è formato agglutinando la radice ‘nzallan di ‘nzallaní (con raddoppiamento espressivo della nasale dentale n: ‘nzallaní →‘nzallanní) con il so.vo òmmene per uòmmene(dal lat. (h)omine(s) con radd. espressivo della nasale bilabiale m) pl. di ommo = uomo (dal lat. (h)omo con radd. espressivo della nasale bilabiale m); occorre solo chiarire ora significato ed etimo del verbo ‘nzallaní; dirò perciò che accanto alla voce ‘nzallaní, nel napoletano è in uso anche ‘nzallanirsi e questa seconda voce rappresenta la forma riflessiva della prima, e son verbi che entrarono ed ancóra entrano nel comune parlato partenopeo soprattutto nella forma di participio passato aggettivato ‘nzallanuto/a e spessissimo in unione con i sostantivi viecchio e vecchia: viecchio ‘nzallanuto, vecchia ‘nzallanuta nei significati di confondere/ confondersi, stordire/stordirsi, intontire/intontirsi e dunque confuso/a, stordito/a, intontito/a, che spesso icasticamente riproducono l’atteggiamento ed il comportamento di persone avanti negli anni, persone che si mostrano, in quasi tutte le occasioni distratti ed addirittura talora rimbambiti. I verbi in esame in senso transitivo, come si evince, si riferiscono alle malevole azioni di coloro che con il loro fastidioso agire intralciano l’altrui vivere inducendo gli altri in confusione, in istordimento, in intontimento e/o distrazione tali da indurre in errore (cfr. Statte zitto ca me staje ‘nzallanenno!= Taci ché mi stai frastornando!), mentre usati in senso riflessivo raccontano la confusione, lo stordimento l’intontimento in cui incorrono spontaneamente soprattutto le persone anziane che usano mostrarsi anche coscientemente e per cattiva volontà, distratti, disattenti, frastornati quasi gloriandosi di questo loro status che ritengono ineludibile e di pertinenza della loro età avanzata.
Ma spesso si tratta di un atteggiamento di comodo!
Ciò detto veniamo a trattare della questione etimologica dei verbi in esame.
La faccenda non è delle piú tranquille; una prima scuola di pensiero (cui peraltro aderisce accanto ad Antonio Altamura, anche l’amico prof. Carlo Iandolo) mette in relazione i verbi ‘nzallaní – ‘nzallanirse con il verbo latino insanire (impazzire – perdere i lumi) che avrebbe generato (attraverso l’inserimento di una non spiegata o chiarita sillaba lu) *insalunire donde per metatesi sillabica, aferesi iniziale, cambio ‘ns→’nz e raddoppiamento espressivo della l→ll ‘nzallanire. Ipotesi interessante ma, tutto sommato, morfologicamente molto articolata e tortuosa. Trovo forse piú perseguibile l’etimo proposto dall’altro amico l’ avv.to Renato de Falco che alla medesima stregua del fu (parce sepulto!) prof. Francesco D’ Ascoli pensano di collegare i verbi in epigrafe con il greco selenizomai= esser lunatico e dunque stordito, confuso ed inebetito , oppure al verbo zalaino di significato simile al precedente;l’amico de Falco fa anche di piú e collega al greco zalaino anche l’aggettivo sostantivato partenopeo zallo che è lo sciocco,l’inesperto, il credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtú.
Per ciò che riguarda i verbi esaminati mi pare di potere accettare l’ipotesi di de Falco e di D’Ascoli; ma per quanto riguarda la voce zallo sono di diverso parere e cioè che il vocabolo zallo, sia o possa essere un adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs); di per sé il tallo è il germoglio, la talea, la giovane foglia tenera , il virgulto che semanticamente ben potrebbe, per traslato, indicare con la sua tenera inconsistenza, la accondiscendenza credula dell’inesperto zallo; normale infatti il passaggio del gruppo th a z (cfr. thiu(m)→zio);
tuttavia per la voce zallo mi sento di poter formulare anche un’altra ipotesi, ipotesi che espongo qui di sèguito.
Atteso che con il termine zallo (aggettivo sostantivato) nella parlata napoletana si intese ed ancóra si intende il babbeo, l’allocco, lo stupido credulone, occorre rammentare che le medesime accezioni le à la voce zanno che ripete in napoletano il termine italiano zanni equivalente di Giovanni famoso personaggio della commedia cinquecentesca bergamasca dove lo zanni/Giovanni era il servo sciocco e credulone; di talché non è azzardato ipotizzare una rilettura popolare di zanno diventato zallo con sostituzione (magari a dispetto di qualche norma che presiede la linguistica!) delle nasali dentali nn con le piú comode consonanti laterali alveolari ll.
Ultimissima ipotesi è poi che zallo (=babbeo, allocco, stupido credulone) usato spessissimo in riferimento (cfr. R. Viviani) ad un graduato tutore della legge, ad uno sbirro intesi sempre sciocchi, stupidi e creduloni (ibidem: ‘o zallo s’ammocca= lo sciocco sbirro prende per buona… una fandonia ), possa essere corruzione di comodo di un originario zaffio o zaffo che con derivazione dall’iberico zafio vale uomo violento, sbirro, ma non è da escludere un collegamento ad un lat. med. zaffo= servitore all’ordine d’un magistrato (sbirro).
Da zaffo a zallo il passo non è lungo, come ugualmente non lungo potrebbe esserlo (con buona pace dei linguisti) quello da zanno a zallo!; epperò penso che la prima ipotesi quella cioè che ritiene zallo adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs) sia la migliore e quella piú perseguibile;
proffediosa agg.vo e s.vo f.le e solo f.le: non è attestato come m.le= in primis zuccona, sciocca, stolta, scimunita; tonta; poi per estensione semantica proterva, perfida,malvagia, spocchiosa, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciata, sfrontata, insolente e da ultimo testarda, ostinata,subdola, tenace, perseverante in atteggiamenti (tipici delle donne) malvagi e spesso crudeli; è voce purtroppo deseutissima etimologicamente formata sul s.vo perfidia (dal lat. perfidia(m), deriv. di perfidus) letto metateticamente prefidia→preffidia→proffidia con raddoppiamento espressivo della consonante fricativa labiodentale sorda e cambio della e (intesa lunga) in o e aggiunta del suffisso di pertinenza osa←osus/osa
scurzone/a - scurzato/a – scurzuso/osa tre agg.vi m.li o f.li morfologicamente poco diversi (cambiano i suffissi)che valgono tutti in primis spilorcio/a, avaro/a e poi per ampiamento semantico tutti ostinato/a, fermo/a nei proprî propositi come chi sia di dura scorza (corteccia) e non si lasci intaccare da nulla; etimologicamente tutti sono costruiti sul s.vo scorza (dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle') 1-rivestimento del fusto e delle radici degli alberi; 2 – ( estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti 3 ed è il caso che ci occupa: pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): avere la scorza dura, (fig.) aspetto esteriore, apparenza; dicevo che tutti I tre aggettivi sono costruiti sul s.vo scorza; al primo è aggiunto il suffisso accrescitivo one/ona ,al terzo quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, mentre al secondoquello verbale ato/a del part. Passato dei verbi di 1° cngz, usato spesso per la formazione di aggettivi, tanto da poter far sospettare che scurzato/a sia il p.p. dell’infinito scurzà =privare della buccia o scorza da intendersi però in senso antifrastico come chi non si lascia intaccare la propria buccia;
e veniamo all’ultimo termine che rende in napoletano quello italiano dell’epigrafe:
vinciuto/a agg.vo m.le o f.le in primis prepotente, viziato,petulante, fastidioso,, arrogante, ostinato nelle pretese,diseducato,abituato ad averle tutte vinte: è ‘nu criaturo/’na criatura vinciuto/a (è un bambino/una bambina viziato/a); etimologicamente ci troviamo in presenza di una forma verbale (part. pass. aggettivato ) dell’infinito véncere (dal lat. vincere) vincere,sconfiggere, superare, sbaragliare, schiacciare, annientare; conquistare, espugnare etc.,
ma ci troviamo ad aver che fare, a mio avviso, con un uso improprio di un participio passato che solitamente viene usato per indicare un’azione non solo passata, ma pure subíta: in italiano vinto (part. passato di vincere) indica il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, mentre è il part. presente vincente ad indicare colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno; alla medesima stregua in napoletano vinciuto (part. passato di vencere) dovrebbe indicare il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, e non (come invece avviene)colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno, anzi colui che le à sempre vinte tutte!, ma è d’uso ormai sia nel parlato che nello scritto napoletano considerare vinciuto sinonimo di vittorioso, vincente, forse sottintendendo un che à→ c’à in posizione protetica a vinciuto: ad es.: è ‘nu criaturo vinciuto cioè è ‘nu criaturo(c’ à) vinciuto; ma non saranno le mie parole a rimettere ordine in codesto groviglio semantico.
Satis est.
Raffaele Bracale
Questa volta per contentar l’amico Umberto Z. ( peraltro dettosi molto soddisfatto di quanto, su suo invito, ò spesso scritto) per contentar, dicevo, l’amico Umberto che me ne à richiesto,autorizzandomi a fare il suo nome,ma non il cognome!, cercherò di illustrare la voce in epigrafe, i suoi sinonimi e quelle corrispondenti dell’ idioma napoletano; cominciamo dunque con ostinato per proseguire con i suoi sinonimi prima di considerare le voci corrispondenti del napoletano:
ostinato/a agg.vo m.le o f.le– 1. a. Di persona, che persiste con caparbia tenacia in un atteggiamento, in un proposito, nelle sue idee o opinioni, spesso nonostante l’evidenza contraria, sia come caratteristica abituale sia come atteggiamento legato a casi e situazioni particolari: un uomo o., una ragazza o.; chi nell’acqua sta fin alla gola, Ben è o. se mercé non grida (Ariosto); è o. come un mulo; essere o. nelle proprie idee, nel non voler riconoscere le ragioni degli altri; è o. avversario di ogni novità. Anche, tenace, costante, sia in senso positivo: un ricercatore, un lavoratore, uno studioso o.; Te o. amator de la tua Musa (Parini); sia in senso limitativo, con sign. analogo ad accanito, impenitente e sim.: peccatore, bevitore, giocatore ostinato. b. estens. di cosa in cui si persiste in modo inflessibile, irremovibile: chiudersi in un o. silenzio, in un mutismo o.; uno studio o.; un’o. difesa; opporre un’o. resistenza. 2. fig. a. Di cosa molesta che dura piú dell’ordinario, che sembra non voler cessare, o di male che resiste a ogni rimedio: una pioggia, una nebbia o.; febbriciattole o.; tosse o.; ò un o. dolore alla spalla destra. b. In musica (anche come s. m.), di figura melodica che si ripete incessantemente, invariata e alla stessa altezza, per tutta una composizione o una parte di essa; appare di solito nel basso, che prende in tal caso il nome di basso o. (v. basso2). Piú genericamente, per indicare la persistenza di un ritmo o di un effetto strumentale (per es., il pizzicato o. nella Sinfonia n. 4 di Čajkovskij);
etimologicamente dal lat. o(b)stinatu(m) part. pass. del verbo obstinare= ostinarsi.
Passiamo ai sinonimi:
Accanito/a agg.vo m.le o f.le1 furioso, violento: odio accanito
2 (fig.) ostinato, tenace: lavoratore, fumatore, giocatore accanito
etimo: p.p. di accanire = Far irritare come un cane: i consigli supplichevoli accaniscono i caparbi (Botta). 2. intr. pron. Imbestialirsi furiosamente, com’è proprio del cane verbo che è denominale di canis.
Caparbio/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc.; ostinato, testardo; quanto all’etimo poco convince una proposta derivazione(Treccani & altri) dal s.vo capo che lascerebbe inevaso mezzo lemma nella parte di arbio; né appare credibile il D.E.I. che ipotizza fantasiosamente uno sconosciuto né attestato *capardo forse accostato a testardo incrociato con superbio (per superbo?) per cui pare piú accettabile l’idea di chi (Pianigiani) vi vide un incrocio tra capra (animale cocciuto) e barbio (dal lat. barbulus= barbuto) : nome dato a piú specie di pesci d’acqua dolce del genere Barbus, famiglia ciprinidi, che presentano generalmente un paio di barbigli simili ad una barbetta di capra, dalle abitudini tenaci se non aggressive che ne rendono complicata la pesca; in Italia vivono due specie, il b. comune (Barbus barbus, con la sottospecie plebejus) e il b. meridionale (Barbus meridionalis), che costituiscono un cibo apprezzato. Il barbo/barbio è figura frequente negli scudi araldici, posto in palo, curvato e di profilo.
Cocciuto/a agg.vo e s.vo m.le o f.le testardo, ostinato, pervicace, tignoso; quanto all’etimo è un denominale di coccia= guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías)
pervicace agg.vo m.le ef.le ostinato, caparbio, accanito (per lo piú nel male); protervo: carattere pervicace; opposizione pervicace etimologicamente è dal lat. pervicace(m), deriv. di pervincere 'vincere completamente, spuntarla', comp. di per, con valore perfettivo (si dice dell'aspetto del verbo che esprime la compiutezza o il compimento di un'azione o di uno stato (p. e. fumò una sigaretta rispetto a fumava una sigaretta, che considera l'azione nel suo svolgimento); , e vincere 'vincere';
protervo/a agg.vo m.le o f.le 1 superbo e arrogante: un individuo, un atteggiamento protervo
2 (ant.) ardito, altero: regalmente ne l'atto ancor proterva (DANTE Purg. XXX, 70, descrivendo Beatrice);
quanto all’etimo è dal lat. protervu(m) composto da pro (avanti) e tero (trito, batto,calpesto);
puntiglioso/agg.vo e s.vo m.le o f.le =che agisce per ostinazione caparbia; che è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione: una persona puntigliosa; avere un carattere puntiglioso; un ragazzo puntiglioso nello studio; come s. m. [f. -a] persona puntigliosa: fare il puntiglioso
quanto all’etimo è aggettivo/sostantivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a al sostantivo puntiglio che è dallo sp. puntillo, dim. di punto (de honor) 'punto (d'onore)';
tenace agg.vo m.le e f.le1 che tiene bene, che fa presa: là dove bolle la tenace pece (DANTE Inf. XXXIII, 143)
2 detto di materiale metallico, che resiste alla deformazione | (estens.) detto di altro materiale, che non si rompe facilmente: filo tenace
3 (fig.) forte, resistente; saldo nei propositi; costante, puntiglioso,: memoria, volontà tenace; un ragazzo tenace; un affetto tenace, che dura molto a lungo
4 (lett.) parco, avaro (ma è poco usato in tale accezione)
L’etimo è dal lat. tenace(m), deriv. di teníre 'tenere'
tignoso/a agg.vo m.le o f.le
1 affetto da tigna
2 (fig. region.) avaro
3 (fig. region.) testardo, ostinato.
L’etimo è dal lat. tine-osu(m), deriv. di tinea 'tigna'.
E veniamo finalmente al napoletano dove abbiamo numerosi aggettivi che rendono quello dell’epigrafe ed i suoi sinonimi; li considero qui di sèguito:
Capaglione/a agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano tignoso/a;
L’etimo è da un lat.regionale *capalione(m) da capale (Du Cange pg. 861);
Capa tosta /capetuosto agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano testardo;
ambedue i termini sono etimologicamente formati o dall’accostamento o addirittura dell’agglutinazione di capa/cape =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) con l’aggettivo tosta/tuosto = duro, sodo (dal lat. tosta→tosta/tostu(m)→tuosto, part. pass. di torríre 'disseccare, tostare, render duro';
Capoteco/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc e cioè corrisponde ad un dipresso all’italiano caparbio; quanto all’etimo è voce formata partendo da capa→capo =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) piú il suffisso durativo òteco/a←òticu(m)/òtica(m) (cfr. (id)òticus;
cervecone/a agg.vo m.le o f.le = vale tal quale il precedente capaglione di cui è una sorta di accrescitivo (cfr. il suff. one/a); in origine però non fu aggettivo, ma un sostantivo indicante la nuca,la cervice, la collottola del capo e fu poi usato quale aggettivo indicante chi è ostinato o testardo; tale passaggio è semanticamente spiegato con il fatto che nell’inteso comune la cervice (da cui etimologicamente la voce trae) è spesso détta dura, quantunque morfologicamente la collottola o nuca, posta alla base del cranio sia piuttosto molle e non dura; la voce come détto è da un tardo lat. *cervicone(m) modellato su cervix= cervice e risolve comodamente in un unico termine il giro di parole (di dura cervice) dell’italiano;
Criccuso/a agg.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano puntiglioso e cioè: che/chi è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione con l’aggiunta peggiorativa d’essere dispettoso e/o capriccioso; quanto all’etimo è aggettivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a o al sostantivo cricchio (voce onomatopeica che vale ticchio, ghiribizzo) o piú probabilmente al sostantivo cricco (dal fr. cric martinetto, quello con cui si solleva un autoveicolo quando si deve sostituire una ruota); semanticamente, oltre che morfologicamente trovo piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio= ghiribizzo; infatti criccuso mi pare che ripeta, semanticamente, la forza puntigliosa(quasi dispettosa) esercitata con il cricco per raggiungere lo scopo del sollevamento d’un autoveicolo, laddove non mi par di poter trovare attinenze semantiche tra un’idea improvvisa e stravagante quale quella del ghiribizzo e l’applicazione costante e finalizzata del criccuso/puntiglioso; ugualmente morfologicamente trovo molto piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio(= ghiribizzo) voce che probabilmente avrebbe potuto evolversi in cricchiuso (mai però attestato) e non in criccuso;
‘mbizzuso/a agg.vo m.le o f.le di per sé in primis capriccioso/a, lunatico/a; scontroso/a e quindi per estensione testardo, ostinato, forte, resistente, costante, puntiglioso, saldo nei proprî propositi stravaganti e/o bizzarri; quanto all’etimo è aggettivo formato premettendo un in→’m rafforzativo ed aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa al sostantivo bizza (
1.breve stizza, capriccio stizzoso, ma di breve durata, senza serio motivo, anche fig.: il bimbo fa le bizze; il motore fa le bizze.
2.(per ampliamento semantico)impuntatura, ira, collera; etimologicamente molti dizionarî registrano la voce come d’etimo incerto, il D.E.I. e precisamente Carlo Battisti o Giovanni Alessio che si presero la responsabilità delle voci sotto la lettera B ipotizzarono (ma a mio avviso poco convincentemente) una derivazione dal lat. vitiosus per il tramite dell’aggettivo bizz(i)oso; semanticamente non trovo molta corrispondenza tra il vizio(che in latino vale errore, mancanza) ed il capriccio o l’impuntatura che son proprî della bizza; migliore m’appare la proposta di Ottorino Pianigiani che legge bizza come forma varia ed intensiva di izza battezzando ambedue come provenienti dall’antico sassone hittja→hizza = ardore): trovo l’ardore semanticamente molto piú vicino del vizio all’impuntatura,alla ira o anche solo ad una breve stizza!);
ncucciuso – ncucciosa agg.vo m.le o f.le ripete all’incirca le valenze del precedente cervecone/a nei significati di persona dalla testa dura ,persistentemente caparbia, testarda, puntigliosa, testona, cocciuta; quanto a l’etimo è termine formato da una n eufonica (per la quale non necessita alcun segno diacritico di aferesi che non c’è stata, (segno che necessiterebbe nel caso che la n fosse aferesi di un (i)n→’n illativo), n eufonica premessa alle voci cucciuso cucciosa nate addizionando la voce cuccia per coccia ← coccia (guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías) con il suffisso lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, che indica presenza, caratteristica, qualità ecc. (, curaggiuso/curaggiosa,perecchiuso/perucchiosa= pidocchioso/a, schifuso/schifosa).
;
ncucciuto/a agg.vo m.le o f.le è il medesimo aggettivo precedente con una morfologia un po’ diversa; in questo a margine il suffisso non è quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, ma quello verbale uto/a del part. passato, usato spesso per la formazione di aggettivi; la cosa da notare è che se l’agg.vo a margine fosse etimologicamente un reale p.p. dell’infinito ncuccià =ostinarsi, colpire, prendere etc., avrebbe dovuto essere ncucciato e non ncucciuto che potrebbe essere p.p. d’un inesistente ncuccí ;
ncanuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: stizzoso, sdegnoso e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie idee, da non lasciar spazio alle altrui idee o azioni, quasi come un cane da guardia. Etimologicamente è voce costruita con una n eufonica ( che non è residuo di un in→’n illativo e dunque non necessita(come ò già détto antea) del segno diacritico d’aferesi la cui apposizione, (come pure m’è occorso di trovare in taluni importanti (sic!) scrittori, sedicenti esperti dell’esatta grafia dell’idioma partenopeo) sarebbe inutile e pleonastica, n eufonica anteposta al sostantivo cane (lat. cane(m)) seguito dal suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncanato/a agg.vo m.le o f.le voce analoga alla precedente nel significato di ostinato, cocciuto, testardo, caparbio, pertinace, puntiglioso, che agisce alla maniera d’un cane da guardia; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, come la precedente sul s.vo cane (lat. cane(m), à una morfologia affatto diversa: in questa a margine infatti la ‘n d’avvio non è una consonante eufonica, ma è un residuo di un in→’n illativo e dunque necessita del segno diacritico d’aferesi; il suffisso adottato poi è quello (ato/a) delle desinenze verbali (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncanarse (comportarsi come un cane);
‘ncapunito/a agg.vo m.le o f.le intestardito, testardo, caparbio, come chi abbia una testa tanto grossa da farlo definire testone,testardo, pervicace, tignoso, persona ostinata ma poco intelligente; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, sul s.vo capone = grosso capo cui è anteposta un in→’n illativo che dunque necessita del segno diacritico, adotta come suffisso quello (ito/a) delle desinenze verbali di terza coniugazione (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncapunirse (intestardirsi, incaparbirsi, fissarsi, impuntarsi);
ncrapicciuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: estroso, bizzarro, originale, stravagante, insolito, strambo; civettuolo, e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie pretese balzane, bizzose,eccentriche, strampalate, assurde; ; etimologicamente la voce a margine è costruita sul s.vo crapiccio = voglia improvvisa e stravagante, desiderio bizzarro, ghiribizzo, sostantivo per il cui etimo si sospetta (D.E.I.- GARZANTI) una derivazione con lettura metatetica di cap(o)riccio = capo con i capelli rizzati per la paura, quindi manifestazione stravagante; trovo però migliore un’adattamento del fr. caprice sempre con lettura metatetica; al s.vo crapiccio è anteposta una n eufonica che dunquenon necessita del segno diacritico, e gli fa seguito il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncurnato/a agg.vo m.le o f.le ad litteram varrebbe incornato/a cioè colpito/a da una cornata, ma è inteso nei significati traslati di testardo, sfrontato, insolente, cocciuto, che fa di testa propria incurante di moniti o suggerimenti,accezioni tutte semanticamente spiegate con il fatto che esistono delle bestie (ovini – bovini) dal comportamento cocciuto ed il cui capo è spesso provvisto di corna s.vo su cui è modellato l’aggettivo a margine secondo il seguente iter: al s.vo cu(o)rn(a)←corna è anteposta un in→’n illativo che in quanto tale necessita del segno diacritico, ed al s.vo fa seguito il suffisso ato/a) delle desinenze verbali di 1° cng. (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncurnarse (comportarsi cocciutamente come una bestia provvista di corna);
di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘nzallannòmmene agg.vo e s.vo m.le e solo m.le: non è attestato come f.le= in primis zuccone, sciocco, stolto, scimunito; (fam.) tonto; poi per estensione semantica protervo, spocchioso, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciato, sfrontato, insolente e da ultimo testardo, ostinato, disorientatore,chi frastorna, turba, confonde, frastorna, sconcerta, scombussola con atti o discorsi ostinati, tenaci, perseveranti, caparbi, testardi, puntigliosi; è voce deseutissima che rappresenta quasi la voce attiva rispetto alla voce passiva ‘nzallanuto/a che connota colui o colei che subiscono l’azione del disorientamento, frastornamento, turbamento, confusione, , sconcertamento, scombussolamento con atti o parole ad opera di un ‘nzallannòmmene (ad litteram: frastorna-uomini).
Etimologicamente sia ‘nzallannòmmene che ‘nzallanuto/a sono deverbali di ‘nzallaní di cui ‘nzallanuto/a è il participio passato, mentre ‘nzallannòmmene è formato agglutinando la radice ‘nzallan di ‘nzallaní (con raddoppiamento espressivo della nasale dentale n: ‘nzallaní →‘nzallanní) con il so.vo òmmene per uòmmene(dal lat. (h)omine(s) con radd. espressivo della nasale bilabiale m) pl. di ommo = uomo (dal lat. (h)omo con radd. espressivo della nasale bilabiale m); occorre solo chiarire ora significato ed etimo del verbo ‘nzallaní; dirò perciò che accanto alla voce ‘nzallaní, nel napoletano è in uso anche ‘nzallanirsi e questa seconda voce rappresenta la forma riflessiva della prima, e son verbi che entrarono ed ancóra entrano nel comune parlato partenopeo soprattutto nella forma di participio passato aggettivato ‘nzallanuto/a e spessissimo in unione con i sostantivi viecchio e vecchia: viecchio ‘nzallanuto, vecchia ‘nzallanuta nei significati di confondere/ confondersi, stordire/stordirsi, intontire/intontirsi e dunque confuso/a, stordito/a, intontito/a, che spesso icasticamente riproducono l’atteggiamento ed il comportamento di persone avanti negli anni, persone che si mostrano, in quasi tutte le occasioni distratti ed addirittura talora rimbambiti. I verbi in esame in senso transitivo, come si evince, si riferiscono alle malevole azioni di coloro che con il loro fastidioso agire intralciano l’altrui vivere inducendo gli altri in confusione, in istordimento, in intontimento e/o distrazione tali da indurre in errore (cfr. Statte zitto ca me staje ‘nzallanenno!= Taci ché mi stai frastornando!), mentre usati in senso riflessivo raccontano la confusione, lo stordimento l’intontimento in cui incorrono spontaneamente soprattutto le persone anziane che usano mostrarsi anche coscientemente e per cattiva volontà, distratti, disattenti, frastornati quasi gloriandosi di questo loro status che ritengono ineludibile e di pertinenza della loro età avanzata.
Ma spesso si tratta di un atteggiamento di comodo!
Ciò detto veniamo a trattare della questione etimologica dei verbi in esame.
La faccenda non è delle piú tranquille; una prima scuola di pensiero (cui peraltro aderisce accanto ad Antonio Altamura, anche l’amico prof. Carlo Iandolo) mette in relazione i verbi ‘nzallaní – ‘nzallanirse con il verbo latino insanire (impazzire – perdere i lumi) che avrebbe generato (attraverso l’inserimento di una non spiegata o chiarita sillaba lu) *insalunire donde per metatesi sillabica, aferesi iniziale, cambio ‘ns→’nz e raddoppiamento espressivo della l→ll ‘nzallanire. Ipotesi interessante ma, tutto sommato, morfologicamente molto articolata e tortuosa. Trovo forse piú perseguibile l’etimo proposto dall’altro amico l’ avv.to Renato de Falco che alla medesima stregua del fu (parce sepulto!) prof. Francesco D’ Ascoli pensano di collegare i verbi in epigrafe con il greco selenizomai= esser lunatico e dunque stordito, confuso ed inebetito , oppure al verbo zalaino di significato simile al precedente;l’amico de Falco fa anche di piú e collega al greco zalaino anche l’aggettivo sostantivato partenopeo zallo che è lo sciocco,l’inesperto, il credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtú.
Per ciò che riguarda i verbi esaminati mi pare di potere accettare l’ipotesi di de Falco e di D’Ascoli; ma per quanto riguarda la voce zallo sono di diverso parere e cioè che il vocabolo zallo, sia o possa essere un adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs); di per sé il tallo è il germoglio, la talea, la giovane foglia tenera , il virgulto che semanticamente ben potrebbe, per traslato, indicare con la sua tenera inconsistenza, la accondiscendenza credula dell’inesperto zallo; normale infatti il passaggio del gruppo th a z (cfr. thiu(m)→zio);
tuttavia per la voce zallo mi sento di poter formulare anche un’altra ipotesi, ipotesi che espongo qui di sèguito.
Atteso che con il termine zallo (aggettivo sostantivato) nella parlata napoletana si intese ed ancóra si intende il babbeo, l’allocco, lo stupido credulone, occorre rammentare che le medesime accezioni le à la voce zanno che ripete in napoletano il termine italiano zanni equivalente di Giovanni famoso personaggio della commedia cinquecentesca bergamasca dove lo zanni/Giovanni era il servo sciocco e credulone; di talché non è azzardato ipotizzare una rilettura popolare di zanno diventato zallo con sostituzione (magari a dispetto di qualche norma che presiede la linguistica!) delle nasali dentali nn con le piú comode consonanti laterali alveolari ll.
Ultimissima ipotesi è poi che zallo (=babbeo, allocco, stupido credulone) usato spessissimo in riferimento (cfr. R. Viviani) ad un graduato tutore della legge, ad uno sbirro intesi sempre sciocchi, stupidi e creduloni (ibidem: ‘o zallo s’ammocca= lo sciocco sbirro prende per buona… una fandonia ), possa essere corruzione di comodo di un originario zaffio o zaffo che con derivazione dall’iberico zafio vale uomo violento, sbirro, ma non è da escludere un collegamento ad un lat. med. zaffo= servitore all’ordine d’un magistrato (sbirro).
Da zaffo a zallo il passo non è lungo, come ugualmente non lungo potrebbe esserlo (con buona pace dei linguisti) quello da zanno a zallo!; epperò penso che la prima ipotesi quella cioè che ritiene zallo adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs) sia la migliore e quella piú perseguibile;
proffediosa agg.vo e s.vo f.le e solo f.le: non è attestato come m.le= in primis zuccona, sciocca, stolta, scimunita; tonta; poi per estensione semantica proterva, perfida,malvagia, spocchiosa, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciata, sfrontata, insolente e da ultimo testarda, ostinata,subdola, tenace, perseverante in atteggiamenti (tipici delle donne) malvagi e spesso crudeli; è voce purtroppo deseutissima etimologicamente formata sul s.vo perfidia (dal lat. perfidia(m), deriv. di perfidus) letto metateticamente prefidia→preffidia→proffidia con raddoppiamento espressivo della consonante fricativa labiodentale sorda e cambio della e (intesa lunga) in o e aggiunta del suffisso di pertinenza osa←osus/osa
scurzone/a - scurzato/a – scurzuso/osa tre agg.vi m.li o f.li morfologicamente poco diversi (cambiano i suffissi)che valgono tutti in primis spilorcio/a, avaro/a e poi per ampiamento semantico tutti ostinato/a, fermo/a nei proprî propositi come chi sia di dura scorza (corteccia) e non si lasci intaccare da nulla; etimologicamente tutti sono costruiti sul s.vo scorza (dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle') 1-rivestimento del fusto e delle radici degli alberi; 2 – ( estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti 3 ed è il caso che ci occupa: pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): avere la scorza dura, (fig.) aspetto esteriore, apparenza; dicevo che tutti I tre aggettivi sono costruiti sul s.vo scorza; al primo è aggiunto il suffisso accrescitivo one/ona ,al terzo quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, mentre al secondoquello verbale ato/a del part. Passato dei verbi di 1° cngz, usato spesso per la formazione di aggettivi, tanto da poter far sospettare che scurzato/a sia il p.p. dell’infinito scurzà =privare della buccia o scorza da intendersi però in senso antifrastico come chi non si lascia intaccare la propria buccia;
e veniamo all’ultimo termine che rende in napoletano quello italiano dell’epigrafe:
vinciuto/a agg.vo m.le o f.le in primis prepotente, viziato,petulante, fastidioso,, arrogante, ostinato nelle pretese,diseducato,abituato ad averle tutte vinte: è ‘nu criaturo/’na criatura vinciuto/a (è un bambino/una bambina viziato/a); etimologicamente ci troviamo in presenza di una forma verbale (part. pass. aggettivato ) dell’infinito véncere (dal lat. vincere) vincere,sconfiggere, superare, sbaragliare, schiacciare, annientare; conquistare, espugnare etc.,
ma ci troviamo ad aver che fare, a mio avviso, con un uso improprio di un participio passato che solitamente viene usato per indicare un’azione non solo passata, ma pure subíta: in italiano vinto (part. passato di vincere) indica il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, mentre è il part. presente vincente ad indicare colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno; alla medesima stregua in napoletano vinciuto (part. passato di vencere) dovrebbe indicare il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, e non (come invece avviene)colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno, anzi colui che le à sempre vinte tutte!, ma è d’uso ormai sia nel parlato che nello scritto napoletano considerare vinciuto sinonimo di vittorioso, vincente, forse sottintendendo un che à→ c’à in posizione protetica a vinciuto: ad es.: è ‘nu criaturo vinciuto cioè è ‘nu criaturo(c’ à) vinciuto; ma non saranno le mie parole a rimettere ordine in codesto groviglio semantico.
Satis est.
Raffaele Bracale
sabato 30 ottobre 2010
CAVATAPPI &dintorni
CAVATAPPI &dintorni
Vorrei parlare di quell’utensile munito di una punta a spirale con cui si estraggono i tappi di sughero (e oggi anche di silicone) da bottiglie o fiaschi: in lingua italiana viene detto alternativamente cavatappi oppure cavaturaccioli, mentre in napoletano il medesimo oggetto è chiamato tirabbusciò/tirabusciò. Vorrei esaminare le tre voci riportate: cavatappi, cavaturaccioli, tirabbusciò/tirabusciò cominciando col dire che le due voci dell’italiano sono molto meno precise della voce napoletana. Infatti sia cavatappi che cavaturaccioli sono sostantivi formati agglutinando una volta il sostantivo tappi (plurale di tappo, dal francone tappo), e l’altra il sostantivo turaccioli (plurale di turacciolo, derivazione di turare, dal latino volgare turare), con la voce verbale cava (terza persona singolare dell’infinito cavare che à l’etimo nel latino cavare «render cavo», derivato di cavus «cavo»). Cavare à appunto il significato primo di scavare, fare una buca in profondità e poi, con gratuiti ampliamenti semantici: levarsi, togliersi di dosso qualcosa (cavarsi il cappello, cavarsi un capriccio, una voglia, soddisfarli, cavarsi la fame, mangiare a sazietà, cavarsela, superare piú o meno brillantemente una situazione difficile), ricavare, ottenere (da quell’individuo non si cava nulla di buono). E solo con un’evidente forzatura semantica il verbo cavare vale estrarre, tirar fuori, estirpare (cavare un dente, non riuscire a cavare nulla di bocca a qualcuno, non riuscire a farlo parlare | non cavare un ragno dal buco, non riuscire a nulla). Ma di per sé il verbo cavare contiene in sé l’idea dello scavare, del render cavo e non si comprende proprio in quale occasione e in che modo il cavatappi o cavaturaccioli adempiano il compito di scavare o render cavo alcunché. In realtà gli aggeggi di cui dico servono solo ad estrarre, a tirar fuori dal collo di bottiglie o fiaschi i tappi o turaccioli e tale occorrenza è piú esattamente rappresentata dal sostantivo napoletano tirabbusciò/tirabusciò (derivato dritto per dritto dal francese tire-bouchon = tira-tappo). Ed è un termine più esatto in quanto la voce napoletana è formata da un’agglutinazione che parte dalla voce verbale tira (3ª p. sg. ind. pr. del verbo tirare, dal latino volgare tirare, alterazione del classico trahere, «estrarre»). E a sua volta il verbo tirare è molto piú adatto di cavare per indicare l’azione operata dall’utensile con cui si estraggono i tappi di sughero e oggi anche di silicone, da bottiglie o fiaschi. A questo punto e alla luce di tutto quel che ho detto, penso proprio (e ne lancio la provocatoria proposta) che anche in italiano (mettendo da parte cavatappi e cavaturaccioli) si possa accogliere il napoletano tirabusciò ringraziando il francese che ce lo à fornito. Raffaele Bracale- NAPOLI
Vorrei parlare di quell’utensile munito di una punta a spirale con cui si estraggono i tappi di sughero (e oggi anche di silicone) da bottiglie o fiaschi: in lingua italiana viene detto alternativamente cavatappi oppure cavaturaccioli, mentre in napoletano il medesimo oggetto è chiamato tirabbusciò/tirabusciò. Vorrei esaminare le tre voci riportate: cavatappi, cavaturaccioli, tirabbusciò/tirabusciò cominciando col dire che le due voci dell’italiano sono molto meno precise della voce napoletana. Infatti sia cavatappi che cavaturaccioli sono sostantivi formati agglutinando una volta il sostantivo tappi (plurale di tappo, dal francone tappo), e l’altra il sostantivo turaccioli (plurale di turacciolo, derivazione di turare, dal latino volgare turare), con la voce verbale cava (terza persona singolare dell’infinito cavare che à l’etimo nel latino cavare «render cavo», derivato di cavus «cavo»). Cavare à appunto il significato primo di scavare, fare una buca in profondità e poi, con gratuiti ampliamenti semantici: levarsi, togliersi di dosso qualcosa (cavarsi il cappello, cavarsi un capriccio, una voglia, soddisfarli, cavarsi la fame, mangiare a sazietà, cavarsela, superare piú o meno brillantemente una situazione difficile), ricavare, ottenere (da quell’individuo non si cava nulla di buono). E solo con un’evidente forzatura semantica il verbo cavare vale estrarre, tirar fuori, estirpare (cavare un dente, non riuscire a cavare nulla di bocca a qualcuno, non riuscire a farlo parlare | non cavare un ragno dal buco, non riuscire a nulla). Ma di per sé il verbo cavare contiene in sé l’idea dello scavare, del render cavo e non si comprende proprio in quale occasione e in che modo il cavatappi o cavaturaccioli adempiano il compito di scavare o render cavo alcunché. In realtà gli aggeggi di cui dico servono solo ad estrarre, a tirar fuori dal collo di bottiglie o fiaschi i tappi o turaccioli e tale occorrenza è piú esattamente rappresentata dal sostantivo napoletano tirabbusciò/tirabusciò (derivato dritto per dritto dal francese tire-bouchon = tira-tappo). Ed è un termine più esatto in quanto la voce napoletana è formata da un’agglutinazione che parte dalla voce verbale tira (3ª p. sg. ind. pr. del verbo tirare, dal latino volgare tirare, alterazione del classico trahere, «estrarre»). E a sua volta il verbo tirare è molto piú adatto di cavare per indicare l’azione operata dall’utensile con cui si estraggono i tappi di sughero e oggi anche di silicone, da bottiglie o fiaschi. A questo punto e alla luce di tutto quel che ho detto, penso proprio (e ne lancio la provocatoria proposta) che anche in italiano (mettendo da parte cavatappi e cavaturaccioli) si possa accogliere il napoletano tirabusciò ringraziando il francese che ce lo à fornito. Raffaele Bracale- NAPOLI
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