1 Cu chestu lignammo se fanno 'e strommole.
Letteralmente: con questo legno si fanno le trottoline. Id est: Non attendetevi risultati migliori, perché con quel materiale che ci conferite non possiamo che fornirvi cose senza importanza e non altro! In una seconda valenza la locuzione sta a significare: badate che ciò che ci avete richiesto si fa con questo (scadente) materiale, non con altro piú pregiato...
lignammo= legname sost. neutro derivato dal b. lat. ligname(n)con raddoppiamento espressivo della m.
strommole = trottoline plurale irr. femm.le del maschile strummolo = trottolina lignea dal b. lat.*strómbolum→strommolum→strummolo derivato dal greco strómbos.
3 Napule fa 'e peccate e 'a Torre 'e sconta.
Letteralmente: Napoli pecca e Torre del Greco è punita. La locuzione è usata a significare l'incresciosa situazione di chi paga il fio delle colpe altrui. Nel merito della locuzione: per mera posizione geografica e a causa dei venti e delle correnti marine, i liquami che Napoli scaricava nel proprio mare finivano, inopinatamente, sulla costa di Torre del Greco, ridente località rivierasca confinante col capolugo campano.
fio= s. m. (ant.) 1 feudo | (estens.) tributo feudale
2 (fig.) pena, castigo, punizione | pagare il fio, (lett.) scontare la pena; voce derivata dall’antico francese fieu 'feudo'.
4 A- Comme pavazio, accussí pittazio.
B - Pocu ppane, pocu sant'Antonio.
Letteralmente: A - Come pagherai, così dipingerò. B - Poco pane, poco sant'Antonio. Ambedue le locuzioni adombrano il principio di reciprocità insito nel sinallagma contrattuale, per il quale il do è commisurato al des; id est: non si può pretendere un corrispettivo superiore alla retribuzione. La locuzione sub A ricorda l'iscrizione posta da tale F. A. S. GRUE valente ceramista (1618 †1673) è il protagonista del rinnovamento della maiolica abruzzese dietro un celebre vaso da farmacia riccamente miniato detto albarello (per la presenza di un disegno di un pioppo popolarmente detto alberella/albarella) di san Brunone, commissionatogli dai Certosini di san Martino di Napoli ; mentre quella sub B ripropone la risposta data da un pittore non meglio identificato a certi frati parimenti poco noti che gli avevano commissionato un quadro raffigurante sant'Antonio. Alle rimostranze dei frati che si dolevano della lentezza del pittore nel portare innanzi l'opera commissionata, il pittore rispose con la frase in epigrafe (sub B)dolendosi a sua volta dell'esiguità della remunerazione.
5 S' è fatta notte ô pagliaro.
Letteralmente: È calata la notte sul fienile (sbrígati a condurre a temine il lavoro pattuito!...). La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari – abbia già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che altrove si suole chiosare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
6 Quanto è bbello e 'o patrone s''o venne!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione oggi sarcasticamente ci si prende gioco di chi si pavoneggi, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
7 Si 'o gallo cacava, Cocò nun mureva.
Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
8 À perzo 'e vuoje e va cercanno 'e ccorna.
Letteralmente: À perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
9 Pure ll'onore so' castighe 'e Ddio.
Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
10 Madonna mia fa' stà bbuono a Nirone
Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone. È l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico. La locuzione significa pure che per quanto pessimo possa essere un governante ( e Nerone si portava dietro una gran brutta fama...) auguriamoci che il Cielo ce lo conservi in salute per modo che non venga a prendere il suo posto qualcuno peggiore! Ovviamente l’espressione si attaglia non solo con riguardo ai governanti, ma pure ad ogni situazione in cui ci sia da contrattare con un cattivo soggetto che potrebbe avere un successore peggiore di lui.
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mercoledì 30 luglio 2008
PROVERBI E LOCUZIONI VARII 20
1 Nun c'è prereca senza sant' Austino.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430), vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta ad ogni pie’ sospinto, chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
2 'A malanova ll'accumpagna 'o viento.
Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento. Da notare che sotto parola vento è adombrato il passaggio di bocca in bocca: si preferisce cioè trasmettere oralmente e rapidamente le cattive notizie, piuttosto che quelle buone!
3 E bravo ô fesso!
Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia sarcasticamente plaudire all'operato di chi pretende da saccente e borioso supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentía nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie, transeunte ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco saccente (il fesso dell’espressione) che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria arrogante e boriosa : "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido, oltreché cattivo da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu!
4 Quanno 'o mellone jesce russo, ogneduno ne vo’ 'na fella.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne pretende una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato ed ampiamento semantico , l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
5 Si 'o Signore me pruvvede, m'aggi' 'a fà 'nu quacchero luongo 'nfino ê piede.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e l’aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero ( che di per sé indica- con derivazionedall'ingl. quaker, propr. 'tremolante', deriv. di to quake 'tremare'; nome attribuito per scherno, nel 1650, ai seguaci del movimento, perché il fondatore aveva ammonito i presenti a tremare davanti alla parola di Dio – un seguace di un movimento religioso protestante (Società degli amici) sorto in Inghilterra nel sec. XVII e diffusosi negli Stati Uniti, che pone l'accento sull'ispirazione e sull'illuminazione divina, esprimendosi in un culto di tipo pentecostale; i quaccheri si caratterizzano per lo zelo caritativo e missionario, per il rifiuto di ogni violenza, per l'egualitarismo e la semplicità di vita) nel senso di cappotto è modellata sul termine quaccheri, rammentando i lunghi costumi indossati da costoro.
6 Ll'abbate Taccarella.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; il nome Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià (verbo onomatopeico, ma pure denominale del got. taikn) che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti.
7 T' hê pigliato 'e ccient' ove?
Letteralmente: ài preso le cento uova? ; ài bevuto cento uova? Id est: Sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, e pare ideato da un famosissimo medico dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di seguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo.
8 Frijenno, magnanno.
Letteralmente: friggendo e mangiando. L'uso, tutto napoletano, di mettere in fila due gerundi, senza un apparente modo finito reggente, sta ad indicare che le due azioni debbono essere eseguite quasi contemporaneamente, senza soluzione di continuità, e - nella fattispecie - il cibo una volta fritto deve essere súbito consumato, senza indugio, con immediatezza e rapidità. Il cibo, sottinteso nella locuzione, è rappresentato dalle famosissime paste cresciute, dai tittoli, dai fiori di zucca in pastella e da tutte quelle numerose verdure,leggermente sbollentate e poi fritte assieme a fette di ricotta, uova sode, animelle, panzarottini, arancini, etc. che concorrono a formare quello che erroneamente si dice fritto all'italiana e che sarebbe piú consono dire fritto alla napoletana, giacchè fu in Napoli (fine XVI e pricipio XVII sec. che venne ideato questo tipo di preparazione culinaria da consumarsi velocemente all'impiedi davanti ai banchi delle friggitorie (antenate delle moderne pizzerie) esercizi dove detto fritto veniva preparato ed offerto seduta stante all'avventore anche frettoloso.
9 Fatte 'na bbona annummenata e va'scassanno chiesie.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese. Id est: ciò che conta nella vita è di godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che gode di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
scassanno= rompendo, rovinando, fracassando voce verbale (gerundio) dell’infinito sassare/scassà=rompere, rovinare,fracassare dal b. lat. s+ quassare frequentativo di quatere
10 Ammacca e sala, aulive 'e Gaeta.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sé è la voce - ossia la frase di richiamo - usata dai venditori di olive e con essa si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
11M''o ssento 'e scennere pe dereto ê rine.
Letteralmente: me lo sento colare lungo il filo della schiena. L'espressione viene usata con senso di rammarico se non di timore, quando si voglia comunicare a terzi di avvertire su se stessi la sensazione di un prossimo imminente disastro e/o pericolo e di non potervi porre riparo.
12 Se so' 'ncuntrate 'o sango e 'a capa.
Letteralmente: si sono uniti il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarii al conseguimento di un quid. Locuzione usata però ironicamente anche in senso marcatamente dispregiativo per sottolineare l'incontro di due cattivi sogetti dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo detto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue. Oggi l’incontro avviene al chiuso della cappella del Tesoro nella Cattedrale di Napoli, cappella nella quale sono custoditi sia il busto con il cranio del santo, sia la teca con le ampolline con il sangue; un tempo invece l’incontro avveniva nella zona di Antignano (collina del Vomero) dove sisteva una chiesetta dedicata al santo e dove convergevano due distinte processioni una con il busto, l’altra con la teca: al loro incontro si verificava il miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro.
13 Essere d''o bettone.
Letteralmente: essere del bottone Id est: appartenere ad un medesima consorteria, ad una stessa associazione e perciò essere nella condizione di poter chiedere e ricevere aiuto ed assistenza dai propri sodali. Il bottone della locuzione è, senza dubbio, il distintivo, cioè il segno esteriore della appartenenza ad un determinato consesso, ma è inesatto ritenere il distintivo della locuzione quello fascista, perché l'espressione, a Napoli, era nota e si usava fin dall'epoca dei Borbone.
14 Tirarse 'a cauzetta.
Letteralmente: tirarsi la calza. Id est: starsene sulle proprie, darsi delle arie, farsi eccessivamente pregare prima di condiscendere sia pure ad un colloquio, guardare dall'alto in basso i richiedenti, dimostrarsi arroganti e reticenti. La locuzione che fotografa quasi il sopracciò, il rancoroso che mantiene le distanze, deriva dall'usanza spagnola di ritenere elegante e perciò importante chi portasse le calze molto aderenti alle gambe e tirate su il piú possibile.
15 I' faccio pertose e tu gaveglie.
Letteralmente: Io faccio buchi e tu cavicchi. Id est: mi remi contro. La locuzione la si usa quando si voglia redarguire qualcuno che proditoriamente e senza apparenti giustificati motivi, anzi quasi per dispetto, si adopera per vanificare l'opera di chi si sta affannando in un'azione di senso contrario come nella locuzione càpita a chi si sta adoperando a fare buchi e trova chi invece si dà da fare per confezionare cavicchi atti a turare detti buchi.
pertose = buchi plur. irr. femm. del maschile pertuso derivato dal b. lat. pertusju(m) dal verbo pertundere normale il passaggio di sj ad esse + voc. (so).
gaveglie = cavicchi, stecchi sost. femm. plurale di gaveglia= stecco, cavicchio, piolo dal tardo lat. cavicla.
16Quanno scioscia viento 'e terra, 'o pesce nun zompa dint' â tiella.
Letteralmente: quando spira il maestrale il pesce non salta in padella. Id est: i giorni spazzati dal vento di maestrale sono i meno adatti per la pesca. Piú in generale il proverbio sta a significare che per ottenere buoni risultati occorre attendere il momento propizio e non bisogna avventurarsi in alcuna opera quando spiri vento avverso.
17 Tre songo 'e putiente: 'o papa, 'o rre e chi nun tène niente.
Letteralmente: Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non possiede nulla. Ed è facile capire il perché della locuzione. Il Papa non à concorrenti, per cui nel suo àmbito è da ritenersi veramente un potente; idem valga per il re inteso come despota. E non meravigli che sia considerato un potente il nullatenente, che basa proprio sulla sua penuria di mezzi la propria forza, potendosi infischiare di tutti, non temendo assalti da parte di nessuno, giacchè a nessuno verrebbe in mente di attaccare qualcuno a cui in caso di vittoria non si avrebbe alcunché da sottrarre.
18 Signore 'e unu cannelotto.
Letteralmente: signore da un solo candelotto. Cosí a Napoli viene appellato chi pretende di avere nobili ascendenti, ed invece risulta essere di nessuna nobiltà. La locuzione risale al tempo in cui l'illuminazione dei palchi del teatro san Carlo, massimo teatro lirico della città partenopea, era assicurata da alcuni candelabri che venivano noleggiati dalla direzione del teatro agli spettatori che ne facessero richiesta. Il prezzo del noleggio variava con il numero dei candelabri richiesti e questo dalle possibilità economiche dello spettatore. Va da sè che minore era il numero di candele, minore era la possibilità economica dimostrata e conseguenzialmente minore il grado di nobiltà; per cui un signore da un candelotto era da ritenersi proprio all'infimo gradino della scala sociale.
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Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430), vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta ad ogni pie’ sospinto, chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
2 'A malanova ll'accumpagna 'o viento.
Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento. Da notare che sotto parola vento è adombrato il passaggio di bocca in bocca: si preferisce cioè trasmettere oralmente e rapidamente le cattive notizie, piuttosto che quelle buone!
3 E bravo ô fesso!
Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia sarcasticamente plaudire all'operato di chi pretende da saccente e borioso supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentía nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie, transeunte ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco saccente (il fesso dell’espressione) che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria arrogante e boriosa : "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido, oltreché cattivo da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu!
4 Quanno 'o mellone jesce russo, ogneduno ne vo’ 'na fella.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne pretende una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato ed ampiamento semantico , l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
5 Si 'o Signore me pruvvede, m'aggi' 'a fà 'nu quacchero luongo 'nfino ê piede.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e l’aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero ( che di per sé indica- con derivazionedall'ingl. quaker, propr. 'tremolante', deriv. di to quake 'tremare'; nome attribuito per scherno, nel 1650, ai seguaci del movimento, perché il fondatore aveva ammonito i presenti a tremare davanti alla parola di Dio – un seguace di un movimento religioso protestante (Società degli amici) sorto in Inghilterra nel sec. XVII e diffusosi negli Stati Uniti, che pone l'accento sull'ispirazione e sull'illuminazione divina, esprimendosi in un culto di tipo pentecostale; i quaccheri si caratterizzano per lo zelo caritativo e missionario, per il rifiuto di ogni violenza, per l'egualitarismo e la semplicità di vita) nel senso di cappotto è modellata sul termine quaccheri, rammentando i lunghi costumi indossati da costoro.
6 Ll'abbate Taccarella.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; il nome Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià (verbo onomatopeico, ma pure denominale del got. taikn) che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti.
7 T' hê pigliato 'e ccient' ove?
Letteralmente: ài preso le cento uova? ; ài bevuto cento uova? Id est: Sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, e pare ideato da un famosissimo medico dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di seguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo.
8 Frijenno, magnanno.
Letteralmente: friggendo e mangiando. L'uso, tutto napoletano, di mettere in fila due gerundi, senza un apparente modo finito reggente, sta ad indicare che le due azioni debbono essere eseguite quasi contemporaneamente, senza soluzione di continuità, e - nella fattispecie - il cibo una volta fritto deve essere súbito consumato, senza indugio, con immediatezza e rapidità. Il cibo, sottinteso nella locuzione, è rappresentato dalle famosissime paste cresciute, dai tittoli, dai fiori di zucca in pastella e da tutte quelle numerose verdure,leggermente sbollentate e poi fritte assieme a fette di ricotta, uova sode, animelle, panzarottini, arancini, etc. che concorrono a formare quello che erroneamente si dice fritto all'italiana e che sarebbe piú consono dire fritto alla napoletana, giacchè fu in Napoli (fine XVI e pricipio XVII sec. che venne ideato questo tipo di preparazione culinaria da consumarsi velocemente all'impiedi davanti ai banchi delle friggitorie (antenate delle moderne pizzerie) esercizi dove detto fritto veniva preparato ed offerto seduta stante all'avventore anche frettoloso.
9 Fatte 'na bbona annummenata e va'scassanno chiesie.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese. Id est: ciò che conta nella vita è di godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che gode di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
scassanno= rompendo, rovinando, fracassando voce verbale (gerundio) dell’infinito sassare/scassà=rompere, rovinare,fracassare dal b. lat. s+ quassare frequentativo di quatere
10 Ammacca e sala, aulive 'e Gaeta.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sé è la voce - ossia la frase di richiamo - usata dai venditori di olive e con essa si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
11M''o ssento 'e scennere pe dereto ê rine.
Letteralmente: me lo sento colare lungo il filo della schiena. L'espressione viene usata con senso di rammarico se non di timore, quando si voglia comunicare a terzi di avvertire su se stessi la sensazione di un prossimo imminente disastro e/o pericolo e di non potervi porre riparo.
12 Se so' 'ncuntrate 'o sango e 'a capa.
Letteralmente: si sono uniti il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarii al conseguimento di un quid. Locuzione usata però ironicamente anche in senso marcatamente dispregiativo per sottolineare l'incontro di due cattivi sogetti dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo detto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue. Oggi l’incontro avviene al chiuso della cappella del Tesoro nella Cattedrale di Napoli, cappella nella quale sono custoditi sia il busto con il cranio del santo, sia la teca con le ampolline con il sangue; un tempo invece l’incontro avveniva nella zona di Antignano (collina del Vomero) dove sisteva una chiesetta dedicata al santo e dove convergevano due distinte processioni una con il busto, l’altra con la teca: al loro incontro si verificava il miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro.
13 Essere d''o bettone.
Letteralmente: essere del bottone Id est: appartenere ad un medesima consorteria, ad una stessa associazione e perciò essere nella condizione di poter chiedere e ricevere aiuto ed assistenza dai propri sodali. Il bottone della locuzione è, senza dubbio, il distintivo, cioè il segno esteriore della appartenenza ad un determinato consesso, ma è inesatto ritenere il distintivo della locuzione quello fascista, perché l'espressione, a Napoli, era nota e si usava fin dall'epoca dei Borbone.
14 Tirarse 'a cauzetta.
Letteralmente: tirarsi la calza. Id est: starsene sulle proprie, darsi delle arie, farsi eccessivamente pregare prima di condiscendere sia pure ad un colloquio, guardare dall'alto in basso i richiedenti, dimostrarsi arroganti e reticenti. La locuzione che fotografa quasi il sopracciò, il rancoroso che mantiene le distanze, deriva dall'usanza spagnola di ritenere elegante e perciò importante chi portasse le calze molto aderenti alle gambe e tirate su il piú possibile.
15 I' faccio pertose e tu gaveglie.
Letteralmente: Io faccio buchi e tu cavicchi. Id est: mi remi contro. La locuzione la si usa quando si voglia redarguire qualcuno che proditoriamente e senza apparenti giustificati motivi, anzi quasi per dispetto, si adopera per vanificare l'opera di chi si sta affannando in un'azione di senso contrario come nella locuzione càpita a chi si sta adoperando a fare buchi e trova chi invece si dà da fare per confezionare cavicchi atti a turare detti buchi.
pertose = buchi plur. irr. femm. del maschile pertuso derivato dal b. lat. pertusju(m) dal verbo pertundere normale il passaggio di sj ad esse + voc. (so).
gaveglie = cavicchi, stecchi sost. femm. plurale di gaveglia= stecco, cavicchio, piolo dal tardo lat. cavicla.
16Quanno scioscia viento 'e terra, 'o pesce nun zompa dint' â tiella.
Letteralmente: quando spira il maestrale il pesce non salta in padella. Id est: i giorni spazzati dal vento di maestrale sono i meno adatti per la pesca. Piú in generale il proverbio sta a significare che per ottenere buoni risultati occorre attendere il momento propizio e non bisogna avventurarsi in alcuna opera quando spiri vento avverso.
17 Tre songo 'e putiente: 'o papa, 'o rre e chi nun tène niente.
Letteralmente: Tre sono i potenti: il papa, il re e chi non possiede nulla. Ed è facile capire il perché della locuzione. Il Papa non à concorrenti, per cui nel suo àmbito è da ritenersi veramente un potente; idem valga per il re inteso come despota. E non meravigli che sia considerato un potente il nullatenente, che basa proprio sulla sua penuria di mezzi la propria forza, potendosi infischiare di tutti, non temendo assalti da parte di nessuno, giacchè a nessuno verrebbe in mente di attaccare qualcuno a cui in caso di vittoria non si avrebbe alcunché da sottrarre.
18 Signore 'e unu cannelotto.
Letteralmente: signore da un solo candelotto. Cosí a Napoli viene appellato chi pretende di avere nobili ascendenti, ed invece risulta essere di nessuna nobiltà. La locuzione risale al tempo in cui l'illuminazione dei palchi del teatro san Carlo, massimo teatro lirico della città partenopea, era assicurata da alcuni candelabri che venivano noleggiati dalla direzione del teatro agli spettatori che ne facessero richiesta. Il prezzo del noleggio variava con il numero dei candelabri richiesti e questo dalle possibilità economiche dello spettatore. Va da sè che minore era il numero di candele, minore era la possibilità economica dimostrata e conseguenzialmente minore il grado di nobiltà; per cui un signore da un candelotto era da ritenersi proprio all'infimo gradino della scala sociale.
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PROVERBI E LOCUZIONI VARII 19
1 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (un tempo il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à però pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
2 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
3 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponda il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salva di peti, favorita dalla posizione che assumono gli sparlatori, cioè alle spalle di coloro di cui sparlano o intendon sparlare.
Linguisticamente c’è da notare che nella locuzione in epigrafe, risponne non è la 3° pers. sing.indicativo de ll’infinito risponnere (che è la b. lat. respondírecomp. di re-, indicante il ripetersi dell'azione in senso contrario, e spondíre 'promettere'; propr. 'fare una contropromessa, promettere di rimando) ma è la 3° pers. sing.congiuntivo del medesimo infinito risponnere
4 A craje a craje comme a' curnacchia.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia (cracrà e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare .
5 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o anche i/le pettegoli/e diffondono le notizie e le propagano, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
6 'O pesce gruosso,se magna a 'o piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
7'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa apparentemente del bene ad un altro mira al proprio tornaconto che certamente gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
8 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente di bottegai che lievitino proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendano a caro prezzo la loro opera, volendo significar loro, con l’espressione in epigrafe, che non ci si trova nelle condizioni economiche per soddisfare le loro esose richieste atteso che non si è dei masnadieri dai facili guadagni. La locuzione usata nella forma negativa: Nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte!(Non vado tendendo la fune nottetempo) nei confronti di costoro – (bottegai e salariati) – fa loro intendere di non potere sottomettersi alle loro richieste in quanto non si è di quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
9 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
10 Parla quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.Il suddetto perentorio invito è rivolto o a gli adulti, boriosi, arroganti saccenti che amano mettere il becco in faccende che non li riguardano, o è rivolto ai ragazzi per ingiunger loro di non intromettersi nei discorsi degli adulti.
11 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova,(zona posta a ridosso del porto, tra l’odierna piazza Bovio e la via Nuova Marina, fu un tempo di pertinenza di una colonia di genovesi che vi aprivono botteghe e vi si autoamministravano) Per tale zona infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
12 Core cuntento a' Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
13 Ciesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, (per consentire un agevole ricambio d'aria, e rapida pulizia con pompe idrauliche), sia in alto che in basso, sprovvisti di porte, sostituite da tramezzi che tenessero lontani gli sguardi indiscreti.
14 'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare (la parola chiaja deriva dal lat. plaga= spiaggia) ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleolenti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
15 Farne una cchiú 'e Catuccio.
Letteralmente: compierne una più di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno ai terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
16 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata e/o molle perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo diventar troppo molle o quasi bruciare.
17 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vo’ ll'anema.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
18 È gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
19 Doppo muorto, buzzarato.
Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subíto la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto (ma pare che oggi sia pratica dismessa) percuotimento del capo del defunto papa Pio XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere morto.
20 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
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Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (un tempo il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à però pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
2 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
3 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponda il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salva di peti, favorita dalla posizione che assumono gli sparlatori, cioè alle spalle di coloro di cui sparlano o intendon sparlare.
Linguisticamente c’è da notare che nella locuzione in epigrafe, risponne non è la 3° pers. sing.indicativo de ll’infinito risponnere (che è la b. lat. respondírecomp. di re-, indicante il ripetersi dell'azione in senso contrario, e spondíre 'promettere'; propr. 'fare una contropromessa, promettere di rimando) ma è la 3° pers. sing.congiuntivo del medesimo infinito risponnere
4 A craje a craje comme a' curnacchia.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia (cracrà e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare .
5 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o anche i/le pettegoli/e diffondono le notizie e le propagano, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
6 'O pesce gruosso,se magna a 'o piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
7'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa apparentemente del bene ad un altro mira al proprio tornaconto che certamente gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
8 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente di bottegai che lievitino proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendano a caro prezzo la loro opera, volendo significar loro, con l’espressione in epigrafe, che non ci si trova nelle condizioni economiche per soddisfare le loro esose richieste atteso che non si è dei masnadieri dai facili guadagni. La locuzione usata nella forma negativa: Nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte!(Non vado tendendo la fune nottetempo) nei confronti di costoro – (bottegai e salariati) – fa loro intendere di non potere sottomettersi alle loro richieste in quanto non si è di quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
9 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
10 Parla quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.Il suddetto perentorio invito è rivolto o a gli adulti, boriosi, arroganti saccenti che amano mettere il becco in faccende che non li riguardano, o è rivolto ai ragazzi per ingiunger loro di non intromettersi nei discorsi degli adulti.
11 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova,(zona posta a ridosso del porto, tra l’odierna piazza Bovio e la via Nuova Marina, fu un tempo di pertinenza di una colonia di genovesi che vi aprivono botteghe e vi si autoamministravano) Per tale zona infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
12 Core cuntento a' Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
13 Ciesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, (per consentire un agevole ricambio d'aria, e rapida pulizia con pompe idrauliche), sia in alto che in basso, sprovvisti di porte, sostituite da tramezzi che tenessero lontani gli sguardi indiscreti.
14 'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare (la parola chiaja deriva dal lat. plaga= spiaggia) ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleolenti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
15 Farne una cchiú 'e Catuccio.
Letteralmente: compierne una più di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno ai terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
16 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata e/o molle perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo diventar troppo molle o quasi bruciare.
17 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vo’ ll'anema.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
18 È gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
19 Doppo muorto, buzzarato.
Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subíto la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto (ma pare che oggi sia pratica dismessa) percuotimento del capo del defunto papa Pio XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere morto.
20 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
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PROVERBI E LOCUZIONI VARII 18
1 Fatte 'e fatte tuoje e vide chi t''e fa fà...
Letteralmente: Impicciati dei fatti tuoi e vedi (se c’è qualcuno che te li faccia fare)id est: procura di trovare qualcuno che ti aiuti ad impicciarti solo degli affari tuoi. La locuzione viene usata nei confronti di chi, inveterato, inguaribile saccente si ostini ad intervenire negli altrui casi ponendovi lingua, dando consigli non richiesti, laddove l'esperienza insegna che se si vuole evitare di dare e/o ricevere impicci e fastidi ci si deve occupare esclusivamente delle proprie faccende. Cosí come formulata in epigrafe la locuzione usa il termine eufemistico fatti uso favorito dall’assonanza con l’imperativo fatti , mentre in una versione piú corposa il sostantivo è sostituito con uno piú triviale, e perciò piú causticamente popolare.
2 Carta vène e giucatore s'avanta.
Letteralmente: carta (vincente) viene e giocatore (vittorioso) si vanta. La locuzione, prendendo spunto dal giuoco delle carte, stigmatizza il comportamento ridicolo e pretestuosamento presuntuoso - tipico peraltro di coloro che ànno scarse capacità intellettive - di chi tenti di farsi merito di successi ottenuti non per propria capacità, intelligenza e valore, ma per mera fortuna che lo abbia condotto al primato, come avviene in taluni giuochi di carte dove basta il possesso di determinate carte vincenti a procurare la vittoria e conta veramente poco il modo di giocare le predette carte.E ciò càpita soprattutto ad es. nel giuoco détto tressette (impropriamente ritenuto il giuoco di carte piú bello e/o difficile) dove chi si viene a trovare in possesso di determinate carte vincenti, è destinato comunque a primeggiare quale che sia il modo di giocarle.
3 Chella 'a mana è bbona; è 'a valanza ca vo’ essere accisa!
Letteralmente: Quella la mano è buona, è la bilancia che si comporta in modo tale da meritarsi d'essere ammazzata. La locuzione va riferita sarcasticamente a chi proditoriamente tiri a derubare sul peso e tenti di far ricadere la colpa sul tramite ossia nella fattispecie sulla bilancia. Per traslato la locuzione la si usa ironicamente nei confronti di chiunque, per un motivo o l'altro, non si voglia assumere le responsabilità del proprio truffaldino comportamento, addebitando essa responsabilità ad un terzo tramite innocente.
4 Chisto è n'ato d''a pasta fina.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
5 Fattélle cu cchi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Intrattieni duraturi rapporti con chi è migliore di te e sopporta le spese che ne derivano.Id est: le proprie amicizie bisogna sceglierle tra chi ci sia moralmente superiore , e occorre poi coltivarle anche se per fare ciò bisogna por mano alla tasca anche figurativamente parlando.
6 Addó sperdettero a Giesú Cristo.
Letteralmente: dove dispersero Gesú Cristo. Lo si dice di un luogo lontano ed impervio, difficile da raggiungere... La locuzione fa certamente riferimento all'episodio dell'evangelo allorché Maria e Giuseppe persero di vista il Redentore che s'era attardato in Gerusalemme ed impiegarono alcuni giorni prima di ritrovarlo.
7 'A coppa sant' Ermo, pesca 'o purpo a mmare.
Letteralmente: Di sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando, sull'azione di chi si affanni a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina vomerese dove s’erge il castello di sant'Elmo, che è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 250 metri... distanza ovviamente ostativa alla pesca dei polpi.
Il castello di sant’Elmo è un castello medievale, oggi adibito a museo. Un tempo era denominato Paturcium e sorge nel luogo dove vi era, a partire dal X secolo, una chiesa dedicata a Sant'Erasmo (da cui Ermo (cosí ancóra nel napoletano) e poi Elmo). Esso trasse origine da una torre d'osservazione normanna chiamata Belforte. Per la sua importanza strategica, il castello è sempre stato una postazione molto ambita: dalla sua posizione si può controllare tutta la città, il golfo, e le strade che dalle alture circostanti conducono alla città. Fu in esso che nel 1799 – entrate approfittando ed a seguito del tradimento del comandante del forte – si asserragliarono le truppe dei francesi invasori e di lí cannoneggiarono verso la città prendendo alle spalle i patrioti napoletani fedeli al re borbone e ne fecero strage.
8 Va' fà ll'osse ô ponte
Letteralmente: vai a raccattare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte(mandare al ponte) con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esistette un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi- probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell’avversa fortuna.
9 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
10 Meglio 'nu cantàro 'ncapa ca n'onza 'nculo!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
la parola cantàro = quintale è un sost. masch. derivato dall’arabo qintar ed indica una misura di peso (circa cento chilogrammi) e non va assolutamente confusa con la parola càntaro che con derivazione dal lat. càntharu(m) indica il vaso da notte, il pitale.
Talvolta mi è occorso di udire, sulla bocca di meno esperti della lingua napoletana, la frase in epigrafe riportata come Meglio 'nu càntaro 'ncapa ca n'onza 'nculo! ma si tratta di un evidente errore da cui emendarsi.
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Letteralmente: Impicciati dei fatti tuoi e vedi (se c’è qualcuno che te li faccia fare)id est: procura di trovare qualcuno che ti aiuti ad impicciarti solo degli affari tuoi. La locuzione viene usata nei confronti di chi, inveterato, inguaribile saccente si ostini ad intervenire negli altrui casi ponendovi lingua, dando consigli non richiesti, laddove l'esperienza insegna che se si vuole evitare di dare e/o ricevere impicci e fastidi ci si deve occupare esclusivamente delle proprie faccende. Cosí come formulata in epigrafe la locuzione usa il termine eufemistico fatti uso favorito dall’assonanza con l’imperativo fatti , mentre in una versione piú corposa il sostantivo è sostituito con uno piú triviale, e perciò piú causticamente popolare.
2 Carta vène e giucatore s'avanta.
Letteralmente: carta (vincente) viene e giocatore (vittorioso) si vanta. La locuzione, prendendo spunto dal giuoco delle carte, stigmatizza il comportamento ridicolo e pretestuosamento presuntuoso - tipico peraltro di coloro che ànno scarse capacità intellettive - di chi tenti di farsi merito di successi ottenuti non per propria capacità, intelligenza e valore, ma per mera fortuna che lo abbia condotto al primato, come avviene in taluni giuochi di carte dove basta il possesso di determinate carte vincenti a procurare la vittoria e conta veramente poco il modo di giocare le predette carte.E ciò càpita soprattutto ad es. nel giuoco détto tressette (impropriamente ritenuto il giuoco di carte piú bello e/o difficile) dove chi si viene a trovare in possesso di determinate carte vincenti, è destinato comunque a primeggiare quale che sia il modo di giocarle.
3 Chella 'a mana è bbona; è 'a valanza ca vo’ essere accisa!
Letteralmente: Quella la mano è buona, è la bilancia che si comporta in modo tale da meritarsi d'essere ammazzata. La locuzione va riferita sarcasticamente a chi proditoriamente tiri a derubare sul peso e tenti di far ricadere la colpa sul tramite ossia nella fattispecie sulla bilancia. Per traslato la locuzione la si usa ironicamente nei confronti di chiunque, per un motivo o l'altro, non si voglia assumere le responsabilità del proprio truffaldino comportamento, addebitando essa responsabilità ad un terzo tramite innocente.
4 Chisto è n'ato d''a pasta fina.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
5 Fattélle cu cchi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Intrattieni duraturi rapporti con chi è migliore di te e sopporta le spese che ne derivano.Id est: le proprie amicizie bisogna sceglierle tra chi ci sia moralmente superiore , e occorre poi coltivarle anche se per fare ciò bisogna por mano alla tasca anche figurativamente parlando.
6 Addó sperdettero a Giesú Cristo.
Letteralmente: dove dispersero Gesú Cristo. Lo si dice di un luogo lontano ed impervio, difficile da raggiungere... La locuzione fa certamente riferimento all'episodio dell'evangelo allorché Maria e Giuseppe persero di vista il Redentore che s'era attardato in Gerusalemme ed impiegarono alcuni giorni prima di ritrovarlo.
7 'A coppa sant' Ermo, pesca 'o purpo a mmare.
Letteralmente: Di sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando, sull'azione di chi si affanni a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina vomerese dove s’erge il castello di sant'Elmo, che è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 250 metri... distanza ovviamente ostativa alla pesca dei polpi.
Il castello di sant’Elmo è un castello medievale, oggi adibito a museo. Un tempo era denominato Paturcium e sorge nel luogo dove vi era, a partire dal X secolo, una chiesa dedicata a Sant'Erasmo (da cui Ermo (cosí ancóra nel napoletano) e poi Elmo). Esso trasse origine da una torre d'osservazione normanna chiamata Belforte. Per la sua importanza strategica, il castello è sempre stato una postazione molto ambita: dalla sua posizione si può controllare tutta la città, il golfo, e le strade che dalle alture circostanti conducono alla città. Fu in esso che nel 1799 – entrate approfittando ed a seguito del tradimento del comandante del forte – si asserragliarono le truppe dei francesi invasori e di lí cannoneggiarono verso la città prendendo alle spalle i patrioti napoletani fedeli al re borbone e ne fecero strage.
8 Va' fà ll'osse ô ponte
Letteralmente: vai a raccattare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte(mandare al ponte) con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esistette un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi- probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell’avversa fortuna.
9 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
10 Meglio 'nu cantàro 'ncapa ca n'onza 'nculo!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
la parola cantàro = quintale è un sost. masch. derivato dall’arabo qintar ed indica una misura di peso (circa cento chilogrammi) e non va assolutamente confusa con la parola càntaro che con derivazione dal lat. càntharu(m) indica il vaso da notte, il pitale.
Talvolta mi è occorso di udire, sulla bocca di meno esperti della lingua napoletana, la frase in epigrafe riportata come Meglio 'nu càntaro 'ncapa ca n'onza 'nculo! ma si tratta di un evidente errore da cui emendarsi.
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PROVERBI E LOCUZIONI VARII 17
1 Chi tène bbelli denare sempe conta, chi tène 'na bbella mugliera sempe canta.
Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per molto che sia, non dà né la felicità, né la tranquillità e costringe ad un continuo lavoro per contarlo e per tenerlo in tal modo sotto controllo e non farselo portar via dai nemici; al contrario la felicità si può ottenere avendo una bella moglie accompagnata dalla relativa gioia che spinge a cantare per partecipare agli altri la propria felicità.
2 Dicette 'o puorco 'nfacci' ô ciuccio: Mantenimmoce pulite!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. È l'icastico, sarcastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme ô puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
3 Dicette Pulicenella: Nce so' cchiú gghiuorne ca sacicce.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. È l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
4 Chi 'a fa cchiú sporca è priore.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti, ed addirittura che per pervenire ai posti di comando, occorre comportarsi male, anzi peggio degli altri
5 Dicette Pulicenella: I' nun so' fesso, ma aggi' 'a fà 'o fesso, pecché facenno 'o fesso, ve pozzo fà fesse!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido! Equelli che appaiono tali, sulla scorta dell’insegnamento di Pulcinella, si mascherano da stupidi per ottenere dei vantaggi che altrimenti gli sarebbero negati.
6 'O peggio trave d''a casa è cchillo ca fa lesiona.
Letteralmente: la peggior travatura di casa è quella che si lesiona. La locuzione viene usata, con senso di disappunto e rincrescimento, per commentare le cattive opere fatte da chi non si sarebbe mai ipotizzato potesse agire male, nel senso che come per la casa un cedimento lo si attende da una travatura malmessa, così nella vita una cattiva azione la si può attendere da cattivi soggetti, non certo da intemerate persone, per cui quando invece succede che i buoni agiscano da cattivi, si fa ricorso all'espressione in epigrafe, volendo sottintendere: ti reputavo un trave integro, ma sbagliavo: le tue azioni mi dimostrano il contrario, peccato!
7 'O Conte Mmerda 'a Puceriale.
Letteralmente: Il conte Merda da Poggioreale. Cosí, per dileggio vien definito dal popolo colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed arrogante alterigia. Ma il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di una famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il soprannome in epigrafe
8 Moneca 'e casa: diavulo esce e trase, moneca 'e cunvento: diavulo ogni mumento.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile, o – quanto meno – far le viste di averlo. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel covento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da talune suore ivi ospitate.
9 Frijere 'o pesce cu ll' acqua.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
10 Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa si dileguano i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
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Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per molto che sia, non dà né la felicità, né la tranquillità e costringe ad un continuo lavoro per contarlo e per tenerlo in tal modo sotto controllo e non farselo portar via dai nemici; al contrario la felicità si può ottenere avendo una bella moglie accompagnata dalla relativa gioia che spinge a cantare per partecipare agli altri la propria felicità.
2 Dicette 'o puorco 'nfacci' ô ciuccio: Mantenimmoce pulite!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. È l'icastico, sarcastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme ô puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
3 Dicette Pulicenella: Nce so' cchiú gghiuorne ca sacicce.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. È l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
4 Chi 'a fa cchiú sporca è priore.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti, ed addirittura che per pervenire ai posti di comando, occorre comportarsi male, anzi peggio degli altri
5 Dicette Pulicenella: I' nun so' fesso, ma aggi' 'a fà 'o fesso, pecché facenno 'o fesso, ve pozzo fà fesse!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido! Equelli che appaiono tali, sulla scorta dell’insegnamento di Pulcinella, si mascherano da stupidi per ottenere dei vantaggi che altrimenti gli sarebbero negati.
6 'O peggio trave d''a casa è cchillo ca fa lesiona.
Letteralmente: la peggior travatura di casa è quella che si lesiona. La locuzione viene usata, con senso di disappunto e rincrescimento, per commentare le cattive opere fatte da chi non si sarebbe mai ipotizzato potesse agire male, nel senso che come per la casa un cedimento lo si attende da una travatura malmessa, così nella vita una cattiva azione la si può attendere da cattivi soggetti, non certo da intemerate persone, per cui quando invece succede che i buoni agiscano da cattivi, si fa ricorso all'espressione in epigrafe, volendo sottintendere: ti reputavo un trave integro, ma sbagliavo: le tue azioni mi dimostrano il contrario, peccato!
7 'O Conte Mmerda 'a Puceriale.
Letteralmente: Il conte Merda da Poggioreale. Cosí, per dileggio vien definito dal popolo colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed arrogante alterigia. Ma il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di una famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il soprannome in epigrafe
8 Moneca 'e casa: diavulo esce e trase, moneca 'e cunvento: diavulo ogni mumento.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile, o – quanto meno – far le viste di averlo. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel covento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da talune suore ivi ospitate.
9 Frijere 'o pesce cu ll' acqua.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
10 Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa si dileguano i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
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martedì 29 luglio 2008
SCIORBA RUSTICA
•
• SCIORBA* RUSTICA
• zuppa rustica
•
• ingredienti e dosi per 8 persone
• 1,5kg di polpa macinata di maiale (misto di spalla e di pancetta tesa)
• 1 bicchiere di olio d'oliva e.v.
• 1 cipolla dorata affettata
• 400 g di pomidoro pelati
• 2 spicchi di agli schiacciati,
• 700 g di patate vecchie tagliate a dadini
• 1 foglia di alloro,
• 1 pizzico di origano,
• Sale fino alle erbette q.s.
• Pepe nero q.s.
• 300 cl di acqua
• 1 dado da brodo vegetale
• Prezzemolo tritato q.s.
• 8- 10 fette di pane in cubi da 2 cm. di spigolo, bruscate al forno (200°) .
procedimento
In un capace tegame (possibilmente) di terracotta versare il bicchiere di olio d'oliva e farvi appassire a fuoco vivace una cipolla tritata. Aggiungere il macinato, regolare di sale e farlo rosolare per circa 20 minuti, bagnando con un bicchiere di vino bianco secco. Trascorsi i 20 minuti, unire 400 g di pelati, 1 spicchio d'aglio schiacciato, una foglia (spezzettata a mano) di alloro, un pizzico di origano, ed abbondante pepe nero.
Cuocere il tutto per 10 minuti circa a fuoco basso e poi unire 700 g di patate vecchie sbucciate e tagliate a dadini di un cm. di spigolo.
Bagnare con 300 cl di acqua calda in cui sia disciolto il dado da brodo, far bollire per 20-25 minuti edalla fine aggiungere il prezzemolo tritato.
Versare la sciòrba sul pane abbrustolito al forno e servire calda di fornello; trattasi di un asciolvere semplice, ma molto gustoso e vale dunque la pena di provare questa zuppa!
nota linguistica
la voci sciòrba/sciòrbacca che valgono zuppa potrebbero essere state due forme di un’antichissima voce napoletana (17° sec.) ormai assolutamente desueta che fu forse usata quasi esclusivamente nel parlato delle zone popolari della città bassa (Porta Capuana e dintorni) con derivazione dall’arabo persiano sciorbach che è da un tema verbale sciaríba (bere). Specialmente la seconda forma:sciorbacca fu forse usata anche per traslato in senso dispregiativo (suggerito forse dal suffisso acca cfr. vigli-acco/a) nei confronti di una donna non avvenente ed a maggior disdoro lamentosa, fastidiosa e lutulenta tal quale una sciorba(zuppa). Oggi a Napoli di una tale donna (seppure inelegantemente si direbbe: “Leta, le’ ca sî ‘na zuppa!” (Lèvati, lèvati,togliti via, giacché sei una zuppa!) Temporibus illis si disse analogamente Leta, le’ ca sî ‘na sciòrbacca!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
• SCIORBA* RUSTICA
• zuppa rustica
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• ingredienti e dosi per 8 persone
• 1,5kg di polpa macinata di maiale (misto di spalla e di pancetta tesa)
• 1 bicchiere di olio d'oliva e.v.
• 1 cipolla dorata affettata
• 400 g di pomidoro pelati
• 2 spicchi di agli schiacciati,
• 700 g di patate vecchie tagliate a dadini
• 1 foglia di alloro,
• 1 pizzico di origano,
• Sale fino alle erbette q.s.
• Pepe nero q.s.
• 300 cl di acqua
• 1 dado da brodo vegetale
• Prezzemolo tritato q.s.
• 8- 10 fette di pane in cubi da 2 cm. di spigolo, bruscate al forno (200°) .
procedimento
In un capace tegame (possibilmente) di terracotta versare il bicchiere di olio d'oliva e farvi appassire a fuoco vivace una cipolla tritata. Aggiungere il macinato, regolare di sale e farlo rosolare per circa 20 minuti, bagnando con un bicchiere di vino bianco secco. Trascorsi i 20 minuti, unire 400 g di pelati, 1 spicchio d'aglio schiacciato, una foglia (spezzettata a mano) di alloro, un pizzico di origano, ed abbondante pepe nero.
Cuocere il tutto per 10 minuti circa a fuoco basso e poi unire 700 g di patate vecchie sbucciate e tagliate a dadini di un cm. di spigolo.
Bagnare con 300 cl di acqua calda in cui sia disciolto il dado da brodo, far bollire per 20-25 minuti edalla fine aggiungere il prezzemolo tritato.
Versare la sciòrba sul pane abbrustolito al forno e servire calda di fornello; trattasi di un asciolvere semplice, ma molto gustoso e vale dunque la pena di provare questa zuppa!
nota linguistica
la voci sciòrba/sciòrbacca che valgono zuppa potrebbero essere state due forme di un’antichissima voce napoletana (17° sec.) ormai assolutamente desueta che fu forse usata quasi esclusivamente nel parlato delle zone popolari della città bassa (Porta Capuana e dintorni) con derivazione dall’arabo persiano sciorbach che è da un tema verbale sciaríba (bere). Specialmente la seconda forma:sciorbacca fu forse usata anche per traslato in senso dispregiativo (suggerito forse dal suffisso acca cfr. vigli-acco/a) nei confronti di una donna non avvenente ed a maggior disdoro lamentosa, fastidiosa e lutulenta tal quale una sciorba(zuppa). Oggi a Napoli di una tale donna (seppure inelegantemente si direbbe: “Leta, le’ ca sî ‘na zuppa!” (Lèvati, lèvati,togliti via, giacché sei una zuppa!) Temporibus illis si disse analogamente Leta, le’ ca sî ‘na sciòrbacca!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
SCIORBA – SCIORBACCA
SCIORBA – SCIORBACCA
Nei primi anni ’60 del 1900 quando ancóra a Porta Capuana, una delle piú note zone popolari della città bassa, veniva celebrata la festività dell’Assunta, con festa, luminarie e processione della statua della Vergine dormiente e poi di quella della Vergine destata con le pianelle consunte, per averle usate durante la notte della sua dormitio, per recarsi a far visita ai derelitti figli d’’a Maronna accolti e cresciuti nella vicinissima Casa Santa dell’ Annunziata istituzione benefica nata nel XIV secolo, insieme all'annessa Chiesa, come istituzione assistenziale per la cura dell'infanzia abbandonata. Ricostruito una prima volta nel XVI secolo in forme rinascimentali e nel XVIII secolo dopo un incendio, da Luigi e Carlo Vanvitelli. Dal monumentale cortile della Casa si accedeva alla "Ruota" lignea che era quella che accoglieva i bambini abbandonati che venivano introdotti in una sorta di tamburo di legno, di forma cilindrica e raccolti all'interno da monache e balie, avvertite dal suono della campanella annessa alla ruota e pronte ad intervenire ad ogni chiamata. All'esterno, al di sopra della ruota, vi era un puttino di marmo con la scritta: "O padre e madre che qui ne gettate, alle vostre Limosine siamo raccomandati". All’interno proprio accanto alla bocca della ruota v’è una fontanella dove gli abbandonati ricevevano il santo Battesimo ed una sommaria prima abluzione.
Gli ospiti dell'istituzione venivano chiamati "Figli della Madonna", "Figli d'Annunziata", o "Esposti" e godevano di particolari privilegi. Alcuni venivano trovati con al collo un foglio di carta con il nome dei genitori, o portavano con se qualche pezzo d'oro o d'argento. Tutto quello che indossavano e qualsiasi segno particolare, veniva annotato in un libro, in modo da rendere piú facile in futuro un eventuale riconoscimento da parte dei genitori pentiti dell’abbandono . La "Ruota" con il suo triste fascino, era una delle piú note d'Italia e non venne piú utilizzata dal 22 giugno 1875. La basilica attuale fa parte di un vasto complesso monumentale costituito in origine, oltre che dalla chiesa, da un ospedale, un convento, un ospizio per i trovatelli ed un "conservatorio" per le esposte (le ragazze povere e/o prive di famiglia, che venivano internate per conservarne la virtù, ma anche fornite di una piccola dote per essere maritate).
L'istituzione, dedicata alla cura dell'infanzia abbandonata, era patrocinata dalla Congregazione della Santissima Annunziata, fondata nel 1318. Nel 1343 la regina Sancia di Maiorca, moglie di Roberto d'Angiò, provvide a dotare la congregazione, che crebbe, da allora, all'ombra dei re di Napoli, assumendo la veste giuridica di Real Casa dell’Annunziata di Napoli.
La congregazione, sostenuta dalle famiglie nobili di Napoli, fu ricca ed ebbe vita assai lunga, giungendo fino a metà del Novecento.
Nei secoli gli edifici che costituivano il complesso furono variamente rimaneggiati: l'edificio che ancora oggi ospita l'ospedale ginecologico e pediatrico fu restaurato ancora a metà del XVIII sec. dai Borbone, come recitano le iscrizioni del cortile interno.
Ma questo è un altro discorso.
Torniamo alla festa dell’Assunta a Porta Capuana. Lí in una delle ultime (1964 o 1965, non ricordo) processioni con il simulacro della Vergine dormiente, nel transitare accanto ad una bettola dove si servivano in ciotole di coccio, su di un lettuccio di spezzettate freselle, polpo bollito con il suo brodo e zuppe di cozze udii le parole in epigrafe, parole non piú udite alibi o ritrovate negli scritti sia pure di autori figli del popolo (Petito, Altavilla, Scarpetta). Quando le udii la prima volta non ne compresi súbito il significato, ma esso mi fu chiarito da un avventore della bettola che per festeggiare l’Assunta e lenire i morsi della fame, consumava del polpo bollito ed una zuppa di cozze lesse con un suo sughetto forte di pomidoro e peperoni piccanti; l’avventore indicandomi la scodella con la zuppetta di cozze disse:È chesta, è chesta ‘a sciorba!( È questa, è questa la sciorba!) Io che all’epoca conoscevo solo l’assonante sciorda (sciolta, diarrea) ne presi perciò a ridere, ma una volta che elusi la confusione, seppi alfine che la parola sciorba valeva zuppa ed ovviamente la voce sciorbacca, con quel suo suffisso dispregiativo (acca) valeva zuppa pessima.
Riascoltai un paio di anni piú tardi e sempre nella medesima zona le voci in epigrafe, ma questa volta sulla bocca di alcuni giovinastri e non riferite a polpi o cozze bolliti o in zuppa, bensí per evidente traslato semantico, nei confronti di una donna non avvenente ed a maggior disdoro lamentosa, fastidiosa e lutulenta tal quale una sciorba(zuppa). Oggi a Napoli di una tale donna (seppure inelegantemente si direbbe: “Leta, le’ ca sî ‘na zuppa!” (Lèvati, lèvati,togliti via,sparisci giacché sei una zuppa!) Temporibus illis a Porta Capuana si disse analogamente Leta, le’ ca sî ‘na sciòrbacca!
Sono trascorsi ormai piú di quarantanni e non so se a Porta Capuana c’è ancóra qualcuno che usi le voci in epigrafe. Forse no, ma me ne dispiace; ò sempre ritenuto la voce sciorba ed il dispregiativo sciorbacca due parole interessanti degne di entrare nell’olimpo della lingua napoletana e non condannate a restare nel limbo delle voci familiari e/o rionali. Per quanto riguarda l’etimo ritengo che la voce sciorba debba derivare , nel significato di zuppa,, dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach che à fornito chiaramente sciorbacca; le voci sciorbah o tsciorbach traggono origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto in origine si trattava di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso.
Purtroppo tutto passa, dilegua e sparisce.E pazienza se la lingua napoletana che fu majateca, ricca di parole e di sonorità espressive si impoverisce ogni giorno di piú, come si sono impoverite le tante feste religiose e popolari della città di Napoli e nessuno piú ci ridarà la processione della Vergine dormiente e della Vergine con le pianelle sporche. Pazienza: c’est la vie!
Raffaele Bracale 29/07/08
Nei primi anni ’60 del 1900 quando ancóra a Porta Capuana, una delle piú note zone popolari della città bassa, veniva celebrata la festività dell’Assunta, con festa, luminarie e processione della statua della Vergine dormiente e poi di quella della Vergine destata con le pianelle consunte, per averle usate durante la notte della sua dormitio, per recarsi a far visita ai derelitti figli d’’a Maronna accolti e cresciuti nella vicinissima Casa Santa dell’ Annunziata istituzione benefica nata nel XIV secolo, insieme all'annessa Chiesa, come istituzione assistenziale per la cura dell'infanzia abbandonata. Ricostruito una prima volta nel XVI secolo in forme rinascimentali e nel XVIII secolo dopo un incendio, da Luigi e Carlo Vanvitelli. Dal monumentale cortile della Casa si accedeva alla "Ruota" lignea che era quella che accoglieva i bambini abbandonati che venivano introdotti in una sorta di tamburo di legno, di forma cilindrica e raccolti all'interno da monache e balie, avvertite dal suono della campanella annessa alla ruota e pronte ad intervenire ad ogni chiamata. All'esterno, al di sopra della ruota, vi era un puttino di marmo con la scritta: "O padre e madre che qui ne gettate, alle vostre Limosine siamo raccomandati". All’interno proprio accanto alla bocca della ruota v’è una fontanella dove gli abbandonati ricevevano il santo Battesimo ed una sommaria prima abluzione.
Gli ospiti dell'istituzione venivano chiamati "Figli della Madonna", "Figli d'Annunziata", o "Esposti" e godevano di particolari privilegi. Alcuni venivano trovati con al collo un foglio di carta con il nome dei genitori, o portavano con se qualche pezzo d'oro o d'argento. Tutto quello che indossavano e qualsiasi segno particolare, veniva annotato in un libro, in modo da rendere piú facile in futuro un eventuale riconoscimento da parte dei genitori pentiti dell’abbandono . La "Ruota" con il suo triste fascino, era una delle piú note d'Italia e non venne piú utilizzata dal 22 giugno 1875. La basilica attuale fa parte di un vasto complesso monumentale costituito in origine, oltre che dalla chiesa, da un ospedale, un convento, un ospizio per i trovatelli ed un "conservatorio" per le esposte (le ragazze povere e/o prive di famiglia, che venivano internate per conservarne la virtù, ma anche fornite di una piccola dote per essere maritate).
L'istituzione, dedicata alla cura dell'infanzia abbandonata, era patrocinata dalla Congregazione della Santissima Annunziata, fondata nel 1318. Nel 1343 la regina Sancia di Maiorca, moglie di Roberto d'Angiò, provvide a dotare la congregazione, che crebbe, da allora, all'ombra dei re di Napoli, assumendo la veste giuridica di Real Casa dell’Annunziata di Napoli.
La congregazione, sostenuta dalle famiglie nobili di Napoli, fu ricca ed ebbe vita assai lunga, giungendo fino a metà del Novecento.
Nei secoli gli edifici che costituivano il complesso furono variamente rimaneggiati: l'edificio che ancora oggi ospita l'ospedale ginecologico e pediatrico fu restaurato ancora a metà del XVIII sec. dai Borbone, come recitano le iscrizioni del cortile interno.
Ma questo è un altro discorso.
Torniamo alla festa dell’Assunta a Porta Capuana. Lí in una delle ultime (1964 o 1965, non ricordo) processioni con il simulacro della Vergine dormiente, nel transitare accanto ad una bettola dove si servivano in ciotole di coccio, su di un lettuccio di spezzettate freselle, polpo bollito con il suo brodo e zuppe di cozze udii le parole in epigrafe, parole non piú udite alibi o ritrovate negli scritti sia pure di autori figli del popolo (Petito, Altavilla, Scarpetta). Quando le udii la prima volta non ne compresi súbito il significato, ma esso mi fu chiarito da un avventore della bettola che per festeggiare l’Assunta e lenire i morsi della fame, consumava del polpo bollito ed una zuppa di cozze lesse con un suo sughetto forte di pomidoro e peperoni piccanti; l’avventore indicandomi la scodella con la zuppetta di cozze disse:È chesta, è chesta ‘a sciorba!( È questa, è questa la sciorba!) Io che all’epoca conoscevo solo l’assonante sciorda (sciolta, diarrea) ne presi perciò a ridere, ma una volta che elusi la confusione, seppi alfine che la parola sciorba valeva zuppa ed ovviamente la voce sciorbacca, con quel suo suffisso dispregiativo (acca) valeva zuppa pessima.
Riascoltai un paio di anni piú tardi e sempre nella medesima zona le voci in epigrafe, ma questa volta sulla bocca di alcuni giovinastri e non riferite a polpi o cozze bolliti o in zuppa, bensí per evidente traslato semantico, nei confronti di una donna non avvenente ed a maggior disdoro lamentosa, fastidiosa e lutulenta tal quale una sciorba(zuppa). Oggi a Napoli di una tale donna (seppure inelegantemente si direbbe: “Leta, le’ ca sî ‘na zuppa!” (Lèvati, lèvati,togliti via,sparisci giacché sei una zuppa!) Temporibus illis a Porta Capuana si disse analogamente Leta, le’ ca sî ‘na sciòrbacca!
Sono trascorsi ormai piú di quarantanni e non so se a Porta Capuana c’è ancóra qualcuno che usi le voci in epigrafe. Forse no, ma me ne dispiace; ò sempre ritenuto la voce sciorba ed il dispregiativo sciorbacca due parole interessanti degne di entrare nell’olimpo della lingua napoletana e non condannate a restare nel limbo delle voci familiari e/o rionali. Per quanto riguarda l’etimo ritengo che la voce sciorba debba derivare , nel significato di zuppa,, dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach che à fornito chiaramente sciorbacca; le voci sciorbah o tsciorbach traggono origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto in origine si trattava di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso.
Purtroppo tutto passa, dilegua e sparisce.E pazienza se la lingua napoletana che fu majateca, ricca di parole e di sonorità espressive si impoverisce ogni giorno di piú, come si sono impoverite le tante feste religiose e popolari della città di Napoli e nessuno piú ci ridarà la processione della Vergine dormiente e della Vergine con le pianelle sporche. Pazienza: c’est la vie!
Raffaele Bracale 29/07/08
domenica 27 luglio 2008
T'aggi''a fà n'asteco areto ê rine...
T'aggi''a fà n'asteco areto ê rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco (dal greco óstrakon = coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era ricoperto da uno strato di cocci residuali di lavorazione di anfore e poi con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.
Raffaele Bracale
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco (dal greco óstrakon = coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era ricoperto da uno strato di cocci residuali di lavorazione di anfore e poi con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.
Raffaele Bracale
CROSTINI CON FEGATELLI DI MAIALE
CROSTINI CON FEGATELLI DI MAIALE
Ingredienti e dosi per 6 persone
10- 12 fette sottili di pane casareccio o integrale bruscate a forno (220°),
7 fegatelli di maiale avvolti nel loro omento,
3 tuorli,
1 limone,
1 carota,
1/2 cipolla dorata tritata,
1 costa di sedano,
1 cucchiaio di capperini di Pantelleria dissalati e lavati,
½ bicchiere di vino bianco secco,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
sale fino e pepe nero q.s.
Preparazione
Preparate un battuto con carota, cipolla e sedano e fatelo appassire in una casseruolina con mezzo bicchiere d'olio. Aggiungete i fegatelli lavati ed asciugati. Spruzzate con mezzo bicchiere di vino. Regolate sale e pepe, lasciate rosolare mescolando. Togliete i fegatelli, tritateli finemente o passateli al mixer con lame da umido e rimetteteli nel recipiente perché insaporiscano ancora 2 minuti. Ritirate dal fuoco e incorporatevi i tuorli d'uovo sbattuti con un pizzico di sale e con il succo di limone filtrato al colino. Spalmate sulle fette di pane tostate e decorate con i capperi. Servite come saporitissimo antipasto.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone
10- 12 fette sottili di pane casareccio o integrale bruscate a forno (220°),
7 fegatelli di maiale avvolti nel loro omento,
3 tuorli,
1 limone,
1 carota,
1/2 cipolla dorata tritata,
1 costa di sedano,
1 cucchiaio di capperini di Pantelleria dissalati e lavati,
½ bicchiere di vino bianco secco,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
sale fino e pepe nero q.s.
Preparazione
Preparate un battuto con carota, cipolla e sedano e fatelo appassire in una casseruolina con mezzo bicchiere d'olio. Aggiungete i fegatelli lavati ed asciugati. Spruzzate con mezzo bicchiere di vino. Regolate sale e pepe, lasciate rosolare mescolando. Togliete i fegatelli, tritateli finemente o passateli al mixer con lame da umido e rimetteteli nel recipiente perché insaporiscano ancora 2 minuti. Ritirate dal fuoco e incorporatevi i tuorli d'uovo sbattuti con un pizzico di sale e con il succo di limone filtrato al colino. Spalmate sulle fette di pane tostate e decorate con i capperi. Servite come saporitissimo antipasto.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
FILETTO GOLOSO
FILETTO GOLOSO
Dosi per 6 persone
7 etti di filetto di manzo o di maiale tagliato in fettine alte 1 cm.
2 bicchieri d’olio d’oliva e.v.
farina q.s.
1 grossa cipolla dorata tagliata ad anelli sottili
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
3 grossi funghi porcini freschi o surgelati ( non lavati, ma nettati con un affilatissimo coltellino e con uno straccetto umido e tagliati (con taglio francese) in sottili fettine alte ½ cm.)
sale doppio alle erbette e pepe nero q.s.
Preparazione
Versare tutto l’olio in un’ampia pirofila, e farvi marinare le fettine di funghi per circa un’ora; al termine prelevare i funghi, salarli e peparli e tenerli da parte; trasferire metà dell’olio della marinatura in una padella, aggiungere la cipolla ed a fiamma vivace farla imbiondire, senza che bruci; frattanto infarinare accuratamente le fettine di filetto e scottarle da ogni lato nell’intingolo d’olio e cipolla; sistemare tutte le fettine nella padella senza sovrapporle, irrorarle con tutto il latte, incoperchiare, abbassare la fiamma e portare a cottura, fino a che il latte asciughi completamente e si formi un fondo cremoso;impiattare sistemando sul filetto alcune fettine di funghi, salare con sale grosso alle erbe, pepare, versando sulle singole porzioni un cucchiaio del fondo di cottura e qualora questo risultasse troppo asciutto, aggiungere un po’ dell’olio residuo. Servire caldissimo.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Dosi per 6 persone
7 etti di filetto di manzo o di maiale tagliato in fettine alte 1 cm.
2 bicchieri d’olio d’oliva e.v.
farina q.s.
1 grossa cipolla dorata tagliata ad anelli sottili
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
3 grossi funghi porcini freschi o surgelati ( non lavati, ma nettati con un affilatissimo coltellino e con uno straccetto umido e tagliati (con taglio francese) in sottili fettine alte ½ cm.)
sale doppio alle erbette e pepe nero q.s.
Preparazione
Versare tutto l’olio in un’ampia pirofila, e farvi marinare le fettine di funghi per circa un’ora; al termine prelevare i funghi, salarli e peparli e tenerli da parte; trasferire metà dell’olio della marinatura in una padella, aggiungere la cipolla ed a fiamma vivace farla imbiondire, senza che bruci; frattanto infarinare accuratamente le fettine di filetto e scottarle da ogni lato nell’intingolo d’olio e cipolla; sistemare tutte le fettine nella padella senza sovrapporle, irrorarle con tutto il latte, incoperchiare, abbassare la fiamma e portare a cottura, fino a che il latte asciughi completamente e si formi un fondo cremoso;impiattare sistemando sul filetto alcune fettine di funghi, salare con sale grosso alle erbe, pepare, versando sulle singole porzioni un cucchiaio del fondo di cottura e qualora questo risultasse troppo asciutto, aggiungere un po’ dell’olio residuo. Servire caldissimo.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
IMPANATE AI PEPERONI
IMPANATE AI PEPERONI
Ingredienti e dosi per 6 persone
6 – 8 fette di polpa di spalla di vitello spesse 1 cm. (8 etti circa), oppure 8 etti di petti di pollo.
Pomidoro da sugo: 8 etti,
Olive verdi denocciolate e tritate: 2 etti,
Peperoni quadrilobati: 4 (due rossi e due gialli),
1 Cipolla dorata tritata,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e ben tritato,
2 bicchieri di Olio d’oliva e.v.,
1 etto di pangrattato,o (meglio ancóra) pari peso di un trito di mollica di pane casareccio bruscato a forno caldissimo (220°),
1 etto di pecorino grattugiato,
Sale fino e pepe nero q.s.
Preparazione
Scottare i pomidoro, pelarli e privarli dei semi e tagliarli a dadini.
Unire il pangrattato o il trito di mollica al pecorino grattugiato ed intridervi le fette di carne ben lavata; versare la metà dell’olio in un ampio tegame da forno, portare l’olio a temperatura su fiamma vivace e rosolare le impanate nell’olio bollente tre minuti per faccia, indi salarle.
In una casseruola a parte mettere l’ olio residuo, la cipolla tritata, la polpa dei pomidoro a pezzetti, i peperoni lavati, asciugati, scapitozzati del picciolo, privati di semi e costoline bianche interne e tagliati a falde della grandezza d’un indice , le olive snocciolate e tritate.
Salare, pepare e cuocere per 20 minuti a fuoco basso, mescolando spesso.
Irrorare con questo sugo le impanate e passare la teglia con le fettine al forno preriscaldato(180°) ed ultimare in circa 20’ la cottura; al termine aggiungere il trito di prezzemolo.
Impiattare le impanate caldissime di forno, bagnate con il loro fondo di cottura con contorno di verdure (scarole o broccoli ) lessate e condite all’agro (olio, sale e limone).
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone
6 – 8 fette di polpa di spalla di vitello spesse 1 cm. (8 etti circa), oppure 8 etti di petti di pollo.
Pomidoro da sugo: 8 etti,
Olive verdi denocciolate e tritate: 2 etti,
Peperoni quadrilobati: 4 (due rossi e due gialli),
1 Cipolla dorata tritata,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e ben tritato,
2 bicchieri di Olio d’oliva e.v.,
1 etto di pangrattato,o (meglio ancóra) pari peso di un trito di mollica di pane casareccio bruscato a forno caldissimo (220°),
1 etto di pecorino grattugiato,
Sale fino e pepe nero q.s.
Preparazione
Scottare i pomidoro, pelarli e privarli dei semi e tagliarli a dadini.
Unire il pangrattato o il trito di mollica al pecorino grattugiato ed intridervi le fette di carne ben lavata; versare la metà dell’olio in un ampio tegame da forno, portare l’olio a temperatura su fiamma vivace e rosolare le impanate nell’olio bollente tre minuti per faccia, indi salarle.
In una casseruola a parte mettere l’ olio residuo, la cipolla tritata, la polpa dei pomidoro a pezzetti, i peperoni lavati, asciugati, scapitozzati del picciolo, privati di semi e costoline bianche interne e tagliati a falde della grandezza d’un indice , le olive snocciolate e tritate.
Salare, pepare e cuocere per 20 minuti a fuoco basso, mescolando spesso.
Irrorare con questo sugo le impanate e passare la teglia con le fettine al forno preriscaldato(180°) ed ultimare in circa 20’ la cottura; al termine aggiungere il trito di prezzemolo.
Impiattare le impanate caldissime di forno, bagnate con il loro fondo di cottura con contorno di verdure (scarole o broccoli ) lessate e condite all’agro (olio, sale e limone).
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
sabato 26 luglio 2008
NAPULE
Napule…
Nun te cunosco cchiú, paese caro
ca poco â vota, ahimmé te sî cagnato…
Nun te cunosco… mo sî addeventato
’o stesso ’e ciento, ’e mille… paro paro.
E cchella nustalgia cucente e amara
ca me pigliava ’ncore p’ ’o ppassato
quanno stevo luntano… s’è arrassata
e nun ’a sento cchiú… Mo Marechiaro
Pusilleco, ’a Riviera, Margellina
so’ nnomme ca nun diceno cchiú nniente…,
nun danno cchiú ’nu palpito! E peffino,
finanche ’o mare, comme a cchesta ggente
nun se cunosce cchiú e chianu chiano
nun pare manco cchiú napulitano…
II
È mmeglio? ’O ssape Ddio… I’ so’ sicuro
ca quanno penzo a pprimma e paragono
chello ca mo tu sî, me fa impressione,
me sento chistu core scuro scuro
’o stesso core, l’istessa paura
’e chi tant’anne fa, cu ’na canzona
ggià se chiagneva Napule e ’e perzone
ca s’erano cagnate… E te figure
si te vedesse mo? Che scrivarria?
Addó ’e truvasse mo ’e pparole adatte
pe raccuntarla tutt’ ’a pucuntria
’e ’stu paese tanto scuntraffatto?
Nun ’e truvasse… è ccerto. E zzitto e mmuto
restasse comme a mme: triste e avveluto.
Raffaele Bracale
(dal vol. 'E CCOSE D''O PPASSATO ed. Graus Napoli 2006)
Nun te cunosco cchiú, paese caro
ca poco â vota, ahimmé te sî cagnato…
Nun te cunosco… mo sî addeventato
’o stesso ’e ciento, ’e mille… paro paro.
E cchella nustalgia cucente e amara
ca me pigliava ’ncore p’ ’o ppassato
quanno stevo luntano… s’è arrassata
e nun ’a sento cchiú… Mo Marechiaro
Pusilleco, ’a Riviera, Margellina
so’ nnomme ca nun diceno cchiú nniente…,
nun danno cchiú ’nu palpito! E peffino,
finanche ’o mare, comme a cchesta ggente
nun se cunosce cchiú e chianu chiano
nun pare manco cchiú napulitano…
II
È mmeglio? ’O ssape Ddio… I’ so’ sicuro
ca quanno penzo a pprimma e paragono
chello ca mo tu sî, me fa impressione,
me sento chistu core scuro scuro
’o stesso core, l’istessa paura
’e chi tant’anne fa, cu ’na canzona
ggià se chiagneva Napule e ’e perzone
ca s’erano cagnate… E te figure
si te vedesse mo? Che scrivarria?
Addó ’e truvasse mo ’e pparole adatte
pe raccuntarla tutt’ ’a pucuntria
’e ’stu paese tanto scuntraffatto?
Nun ’e truvasse… è ccerto. E zzitto e mmuto
restasse comme a mme: triste e avveluto.
Raffaele Bracale
(dal vol. 'E CCOSE D''O PPASSATO ed. Graus Napoli 2006)
PROVERBI E LOCUZIONI VARII 15
1 Darse 'e pizzeche 'ncopp' â panza.
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. È il consiglio che si dà a chi ad una contrarietà sarebbe pronto a render la pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare, assestandosi dei pizzichi sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronti a scatenare una guerra!
2 'Ncopp' ô muorto se canta 'o miserere.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto di un danno patito, mai prima.
3 Bbuono pe scerià 'a ramma.
Letteralmente: buono per pulire le stoviglie di rame. Cosí in modo quasi rabbioso viene definito un frutto tanto aspro di sapore da non essere edibile, ma che può solo servire alla pulizia delle pentole di rame. Un tempo, quando non esistevano acciai inossidabili o allumini leggeri, le pentole erano in rame opportunamente ricoperte, sulle zone che avrebbero accolto i cibi, di stagno; per la loro pulizia e lucidatura ci si serviva di pietra pomice, arena 'e vitrera (sabbia da vetraio ricca di silice), e limoni piccoli ed aspri al segno di non poterli mangiare o premere, con i quali si soffregavano le pentole fino a detergerle e addirittura farle luccicare. Per traslato, la locuzione in epigrafe si attaglia anche a chi è di carattere cosí aspro e spigoloso da non consentire ad alcuno di avervi rapporti.
scerià= soffregare, strofinare derivato forse da una forma greco-lat. *syriare→*siriare→sciriare o forse da un lat. *scericare derivato da fricare→flicare→felericare→flericare→scericare→sceri(c)are. Trattandosi sia per *syriare che per *scericare di due lemmi non attestati, la scelta è libera.
4 'on Simone, stampa e cumpone.
Letteralmente: don Simone stampa e compone. Cosí, furbescamente son definiti , a Napoli, coloro che per mera saccenteria, per gratuita supponenza, affermano di esser capaci di bastare da soli a far tutto, rifiutando - per questo - aiuti o consigli da chicchessia; il don Simone della locuzione per ironia è considerato capace di assommare in sè l'abilità del tipografo stampatore e la capacità del tipografo compositore.
5 S' è 'mbriacata 'a usciola!
Letteralmente: s'è ubriacata la bussola! È questo l'amaro commento che si usa profferire davanti a situazioni inopinatamente ingarbugliatesi al punto da non permettere a nessuno di venirne a capo, come sarebbe quasi impossibile ad un marinaio, ritrovare il nord allorché la sua bussola, incappata in una tempesta magnetica non riuscisse piú ad indicare la sicura via, comportandosi quasi da ubriaca.
6 Astipate 'o milo pe quanno te vene 'a sete.
Letteralmente: conserva la mela per quando avrai sete. Id est: non bisogna aver fretta per ritorcere contro qualcuno i torti subíti.La vendetta è un piatto da servire freddo.
7 Piscià acqua santa p''o velliculo.
Letteralmente: orinare acqua santa dall'ombelico. La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa.
8 Ê tiempe 'e PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in un tempo lontanissimo. Cosí vengono datate cose di cui si parli che risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE della locuzione non è infatti la famosa maschera creata dal compianto attore napoletano Peppino De Filippo ((Napoli, 26 agosto 1903 – †Roma, 26 gennaio 1980); ma è la corruzione del cognome PAPPACODA antichissima e nobile famiglia partenopea che ha lasciato meravigliosi retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie strade napoletane.
9 Arretírate, píreto!
Letteralmente: Ritirati, peto! Imperiosa ed ingiuriosa invettiva rivolta verso chi, per essere andato fuori dei limiti consentiti, si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla sua sede vi possa rientrare a comando...
10 A 'nu parmo d''o culo mio, fotta chi vo’.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere,coisca chi vuole. Id est: fate pure i vostri comodi, purché li facciate lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi arrechiate danno!
11 Dicette 'o miedeco 'e Nola: Chesta è 'a ricetta e ca Ddio t''a manna bbona...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati positivi.
12 Fà 'nu quatto 'e maggio.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni. Nel lontanissimo 1611 il vicerè Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si operavano nella città di Napoli, fissò appunto ai 4 di maggio la data fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il giorno 4, da allora divenne la data nella quale gli inquilini erano soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili concessi in fitto.
13S'à dda ógnere l'asso.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con cotenne di porco o altro grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti.
14 Paré 'nu pireto annasprato.
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo si dice salacemente di chi si dia troppe arie, atteggiandosi a superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuoflatus ventris.
15 L'Acciomo ê Bbanche nuove.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che dovrebbero costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subíti dai saldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
brak
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. È il consiglio che si dà a chi ad una contrarietà sarebbe pronto a render la pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare, assestandosi dei pizzichi sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronti a scatenare una guerra!
2 'Ncopp' ô muorto se canta 'o miserere.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto di un danno patito, mai prima.
3 Bbuono pe scerià 'a ramma.
Letteralmente: buono per pulire le stoviglie di rame. Cosí in modo quasi rabbioso viene definito un frutto tanto aspro di sapore da non essere edibile, ma che può solo servire alla pulizia delle pentole di rame. Un tempo, quando non esistevano acciai inossidabili o allumini leggeri, le pentole erano in rame opportunamente ricoperte, sulle zone che avrebbero accolto i cibi, di stagno; per la loro pulizia e lucidatura ci si serviva di pietra pomice, arena 'e vitrera (sabbia da vetraio ricca di silice), e limoni piccoli ed aspri al segno di non poterli mangiare o premere, con i quali si soffregavano le pentole fino a detergerle e addirittura farle luccicare. Per traslato, la locuzione in epigrafe si attaglia anche a chi è di carattere cosí aspro e spigoloso da non consentire ad alcuno di avervi rapporti.
scerià= soffregare, strofinare derivato forse da una forma greco-lat. *syriare→*siriare→sciriare o forse da un lat. *scericare derivato da fricare→flicare→felericare→flericare→scericare→sceri(c)are. Trattandosi sia per *syriare che per *scericare di due lemmi non attestati, la scelta è libera.
4 'on Simone, stampa e cumpone.
Letteralmente: don Simone stampa e compone. Cosí, furbescamente son definiti , a Napoli, coloro che per mera saccenteria, per gratuita supponenza, affermano di esser capaci di bastare da soli a far tutto, rifiutando - per questo - aiuti o consigli da chicchessia; il don Simone della locuzione per ironia è considerato capace di assommare in sè l'abilità del tipografo stampatore e la capacità del tipografo compositore.
5 S' è 'mbriacata 'a usciola!
Letteralmente: s'è ubriacata la bussola! È questo l'amaro commento che si usa profferire davanti a situazioni inopinatamente ingarbugliatesi al punto da non permettere a nessuno di venirne a capo, come sarebbe quasi impossibile ad un marinaio, ritrovare il nord allorché la sua bussola, incappata in una tempesta magnetica non riuscisse piú ad indicare la sicura via, comportandosi quasi da ubriaca.
6 Astipate 'o milo pe quanno te vene 'a sete.
Letteralmente: conserva la mela per quando avrai sete. Id est: non bisogna aver fretta per ritorcere contro qualcuno i torti subíti.La vendetta è un piatto da servire freddo.
7 Piscià acqua santa p''o velliculo.
Letteralmente: orinare acqua santa dall'ombelico. La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa.
8 Ê tiempe 'e PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in un tempo lontanissimo. Cosí vengono datate cose di cui si parli che risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE della locuzione non è infatti la famosa maschera creata dal compianto attore napoletano Peppino De Filippo ((Napoli, 26 agosto 1903 – †Roma, 26 gennaio 1980); ma è la corruzione del cognome PAPPACODA antichissima e nobile famiglia partenopea che ha lasciato meravigliosi retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie strade napoletane.
9 Arretírate, píreto!
Letteralmente: Ritirati, peto! Imperiosa ed ingiuriosa invettiva rivolta verso chi, per essere andato fuori dei limiti consentiti, si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla sua sede vi possa rientrare a comando...
10 A 'nu parmo d''o culo mio, fotta chi vo’.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere,coisca chi vuole. Id est: fate pure i vostri comodi, purché li facciate lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi arrechiate danno!
11 Dicette 'o miedeco 'e Nola: Chesta è 'a ricetta e ca Ddio t''a manna bbona...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati positivi.
12 Fà 'nu quatto 'e maggio.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni. Nel lontanissimo 1611 il vicerè Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si operavano nella città di Napoli, fissò appunto ai 4 di maggio la data fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il giorno 4, da allora divenne la data nella quale gli inquilini erano soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili concessi in fitto.
13S'à dda ógnere l'asso.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con cotenne di porco o altro grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti.
14 Paré 'nu pireto annasprato.
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo si dice salacemente di chi si dia troppe arie, atteggiandosi a superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuoflatus ventris.
15 L'Acciomo ê Bbanche nuove.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che dovrebbero costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subíti dai saldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
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PROVERBI E LOCUZIONI VARII 14
1Piglià vavia e metterse 'nguarnascione.
Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da borioso arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla.
vavia (deverbale di vaviarse=imbrattarsi il mento di bava letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nella lingua napoletana immettendo una i nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di quell 'anormale condizione fisica o psichica,che può generare iperproduzione di bava reale o figurata ,come càpita per chi, raggiunto un posto di preminenza, si regoli con altezzosa, boriosa arroganza.
guarnascione sost. masch. accrescitivo (vedi il suff. one) di una voce femminile derivata dal provenzale guarnacha=guarnacca/guarnaccia=lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza.
2 Nce vonno cazze 'e vatecare pe fà figlie carrettiere
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti se non per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma... vatecare=vetturale, trasportatore di merci sost. masch. derivato dall’agg.vo lat. viaticus + il suff. di pertinenza areus→aro.
3 Si mine 'na sporta 'e taralle 'ncapo a chillo, nun ne va manco uno 'nterra
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la sua testa e nelle quali corna , i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
4 Muntagne e muntagne nun s'affrontano.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
5 Faccia 'e trent'anne 'e fave.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante,quasi da galeotto, dal quale pertanto non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze. L’assunto in epigrafe forse conferma se non dimostra che non aveva tutti i torti Cesare Lombroso(Verona, 6 novembre 1835 –† Torino, 19 ottobre 1909) famoso antropologo, criminologo e giurista italiano. che fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità e nei suoi studi di fisiognomica operò una classificazione dei delinquenti in base ai loro tratti somatici.
6 Sparà a vrenna.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
7 'E sciabbule stanno appese e 'e fodere cumbattono.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
8 'A taverna d''o trentuno.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
9 'A vacca, pe nun movere 'a coda se facette magnà 'e ppacche da 'e mosche.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice sarcasticamente riferendolo a gli indolenti ed ai pigri che son disposti a subire gravi nocumenti, ma non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
10 Trasí o passà cu 'a scoppola.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che furono soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
11 Pozza murí 'e truono a chi nun le piace 'o bbuono.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tronitus) significa sia tuono che, per ampiamento semantico, percosse violente. Faccio notare che in lingua napoletana il complemento oggetto se essere animato è sempre preceduto da una a segnacaso che invece manca se il complemento è un oggetto o cosa inanimata (ad es. aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre – aggiu chiammato ô= a ‘o zio = ò chiamato lo zio – ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere etc.).
12 'A forca è fatta p''e puverielle.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.
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Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da borioso arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla.
vavia (deverbale di vaviarse=imbrattarsi il mento di bava letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nella lingua napoletana immettendo una i nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di quell 'anormale condizione fisica o psichica,che può generare iperproduzione di bava reale o figurata ,come càpita per chi, raggiunto un posto di preminenza, si regoli con altezzosa, boriosa arroganza.
guarnascione sost. masch. accrescitivo (vedi il suff. one) di una voce femminile derivata dal provenzale guarnacha=guarnacca/guarnaccia=lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza.
2 Nce vonno cazze 'e vatecare pe fà figlie carrettiere
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti se non per via genetica, quasi che ad esempio il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma... vatecare=vetturale, trasportatore di merci sost. masch. derivato dall’agg.vo lat. viaticus + il suff. di pertinenza areus→aro.
3 Si mine 'na sporta 'e taralle 'ncapo a chillo, nun ne va manco uno 'nterra
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la sua testa e nelle quali corna , i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
4 Muntagne e muntagne nun s'affrontano.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
5 Faccia 'e trent'anne 'e fave.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante,quasi da galeotto, dal quale pertanto non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze. L’assunto in epigrafe forse conferma se non dimostra che non aveva tutti i torti Cesare Lombroso(Verona, 6 novembre 1835 –† Torino, 19 ottobre 1909) famoso antropologo, criminologo e giurista italiano. che fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità e nei suoi studi di fisiognomica operò una classificazione dei delinquenti in base ai loro tratti somatici.
6 Sparà a vrenna.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
7 'E sciabbule stanno appese e 'e fodere cumbattono.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
8 'A taverna d''o trentuno.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Così, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
9 'A vacca, pe nun movere 'a coda se facette magnà 'e ppacche da 'e mosche.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice sarcasticamente riferendolo a gli indolenti ed ai pigri che son disposti a subire gravi nocumenti, ma non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
10 Trasí o passà cu 'a scoppola.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che furono soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
11 Pozza murí 'e truono a chi nun le piace 'o bbuono.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tronitus) significa sia tuono che, per ampiamento semantico, percosse violente. Faccio notare che in lingua napoletana il complemento oggetto se essere animato è sempre preceduto da una a segnacaso che invece manca se il complemento è un oggetto o cosa inanimata (ad es. aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre – aggiu chiammato ô= a ‘o zio = ò chiamato lo zio – ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere etc.).
12 'A forca è fatta p''e puverielle.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.
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venerdì 25 luglio 2008
PROVERBI E LOCUZIONI VARII 13
1 A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito"che da un acc.vo lat. med. spitu(m) cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata (dal lat. spatha(m) cioè spada del proverbio).
2 Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, produca effetti irreparabili.
3 Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
4 Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
5 Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
6 Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare (senza un conclamato motivo), qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
7Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili piú o meno messe in mostra.
8 Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
9 'Amice e vvino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
10 'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
11 'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
12'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
13 'O galantomo appezzentùto, addeventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
14 'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale e/o estensivo è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio inutile passaggio.
15 'E vruoccole so' bbuone dint’ ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani, (specialmente quelli del contado) mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
16 Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: Buonanotte!La vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
17 Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piúforte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
18 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
19 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento di una situazione nella quale non ci si riesca a capire, alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
20 A 'nu cetrangolo spremmuto, chiàvece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire su qualcuno e non dargli quartiere, addirittura ponendoselo (sia pure metaforicamente) sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
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Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito"che da un acc.vo lat. med. spitu(m) cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata (dal lat. spatha(m) cioè spada del proverbio).
2 Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, produca effetti irreparabili.
3 Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
4 Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
5 Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
6 Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare (senza un conclamato motivo), qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
7Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili piú o meno messe in mostra.
8 Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
9 'Amice e vvino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
10 'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
11 'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
12'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
13 'O galantomo appezzentùto, addeventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
14 'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale e/o estensivo è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio inutile passaggio.
15 'E vruoccole so' bbuone dint’ ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani, (specialmente quelli del contado) mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
16 Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: Buonanotte!La vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
17 Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piúforte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
18 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
19 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento di una situazione nella quale non ci si riesca a capire, alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
20 A 'nu cetrangolo spremmuto, chiàvece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire su qualcuno e non dargli quartiere, addirittura ponendoselo (sia pure metaforicamente) sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
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PROVERBI E LOCUZIONI VARII 12
1 Futtatenne!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono principale (accanto a sant’Antonio abate, sant’Agrippino,sant’Attanasio ed altri minori) della città, san Gennaro (Benevento 272 - † Pozzuoli 19/9/305?), venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e temwendo che il loro patrono se ne potesse adontare, scrissero sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
2 Fà ‘e uno tabbacco p''a pippa.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
3 Fà trenta e una trentuno.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X(nato Giovanni di Lorenzo de' MedicI (Firenze, 11 dicembre 1475 †Roma, 1 dicembre 1521), fu Papa dal 1513 alla sua morte) che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
4 Essere carta canusciuta.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
5 Essere cchiú fetente 'e 'na recchia 'e cunfessore.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
6 'E ppazzie d''e cane fernesceno a ccazze 'nculo.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche.
7 Amicizia stretta, se spezza cu 'na mazza.
Letteralmente: un'amicizia stretta si spezza con un bastone; id est: bisogna ricorrere alla violenza per sciogliere un'amicizia di vecchia data, ben rinsaldata; non viene meno la vera amicizia per futili motivi.
8Tanno se chiamma grano, quanno sta 'int' a' votta.
Letteralmente: allora si chiama grano, quando sarà nella botte. Id est: i risultati per potersene vantare, occorre prima conseguirli; non ci si deve vestire della pelle dell'orso prima d'aver ammazzato il suddetto animale. La locuzione in epigrafe ripete le parole che un tal contadino disse al figliuolo che si vantava di un gran raccolto prima della mietitura.
9 Tre ccalle e mmescamméce.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che si intromette nelle faccende altrui, che vuol sempre dire la sua. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione si ebbe il nome di callo che al plurale è calle. La locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
10 Chi se fa masto, cade dint' ô mastrillo.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai boriosi presuntuosi e supponenti che con sfacciata sicumera son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
mastrillo= trappolina per topi – sost. masch. derivato del b. lat. mustriculu(m).
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Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono principale (accanto a sant’Antonio abate, sant’Agrippino,sant’Attanasio ed altri minori) della città, san Gennaro (Benevento 272 - † Pozzuoli 19/9/305?), venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e temwendo che il loro patrono se ne potesse adontare, scrissero sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
2 Fà ‘e uno tabbacco p''a pippa.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
3 Fà trenta e una trentuno.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X(nato Giovanni di Lorenzo de' MedicI (Firenze, 11 dicembre 1475 †Roma, 1 dicembre 1521), fu Papa dal 1513 alla sua morte) che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
4 Essere carta canusciuta.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
5 Essere cchiú fetente 'e 'na recchia 'e cunfessore.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
6 'E ppazzie d''e cane fernesceno a ccazze 'nculo.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche.
7 Amicizia stretta, se spezza cu 'na mazza.
Letteralmente: un'amicizia stretta si spezza con un bastone; id est: bisogna ricorrere alla violenza per sciogliere un'amicizia di vecchia data, ben rinsaldata; non viene meno la vera amicizia per futili motivi.
8Tanno se chiamma grano, quanno sta 'int' a' votta.
Letteralmente: allora si chiama grano, quando sarà nella botte. Id est: i risultati per potersene vantare, occorre prima conseguirli; non ci si deve vestire della pelle dell'orso prima d'aver ammazzato il suddetto animale. La locuzione in epigrafe ripete le parole che un tal contadino disse al figliuolo che si vantava di un gran raccolto prima della mietitura.
9 Tre ccalle e mmescamméce.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che si intromette nelle faccende altrui, che vuol sempre dire la sua. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione si ebbe il nome di callo che al plurale è calle. La locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
10 Chi se fa masto, cade dint' ô mastrillo.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai boriosi presuntuosi e supponenti che con sfacciata sicumera son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
mastrillo= trappolina per topi – sost. masch. derivato del b. lat. mustriculu(m).
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SCIORBA* ‘E PANE D’’O VIERNARÍ
SCIORBA* ‘E PANE D’’O VIERNARÍ
zuppa di pane del venerdí
Nota
*la voce sciorba l’ò derivata , nel significato di zuppa, dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach dove trae origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto trattasi di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso
Ingredienti e dosi per 6 persone:
400 gr di bietole;
300 gr di carote;
3 grosse cipolle dorate tritate grossolanamente,
200 gr di pomidoro Roma o Sanmarzano sbollentati,pelati e tagliati a pezzettoni;
200 gr di cimette di cavolfiore lavate;
200 gr di sedano bianco lavato e tagliato in tocchetti ;
2 patate grosse sbucciate, lavate e tagliate a cubetti di 1 cm di spigolo;
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.;
sale doppio alle erbette q.s.
sale fino alle erbette e pepe bianco q.s.;
1 etto di formaggio pecorino grattugiato;
7 etti di pane casereccio tagliato a cubi di cm. 1,5 di spigolo, bruscati per 5 minuti al forno (220°);
3 dadi da brodo vegetale.
Preparazione:
Approntare innanzitutto tre litri di brodo vegetale con tre litri d’acqua fredda, i tre dadi vegetali ed una presa di sale fino alle erbette.
Lavare e tagliare tutte le verdure a pezzetti; farle sbollentare rapidamente in acqua salata (sale grosso alle erbette ) indi sgrondarle; in un’ ampia padella versare un bicchiere d’olio, aggiungere le cipolle tritate farle dorare ed unire i pezzettoni di pomidoro, salare e dopo 5 minuti di cottura aggiungere a mano a mano le varie verdure sbollentate e sgrondate e farle stufare incoperchiate per 10 minuti regolare eventualmente di sale e pepe.
Nel frattempo si mettono i cubi di pane casereccio bruscato al forno in una zuppiera, si irrorano a filo con l’olio residuo e poi bagnano abbondandemente con il brodo, si aggiunge il pecorino ed il pepe e le verdure stufate Si lascia riposare il tutto per alcuni minuti nella zuppiera tenuta in caldo, prima di servire in tavola.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
zuppa di pane del venerdí
Nota
*la voce sciorba l’ò derivata , nel significato di zuppa, dall’arabo-persiano sciorbah o tsciorbach dove trae origine da un tema verbale sciaríba= bere in quanto trattasi di zuppa molto liquida; con il medesimo termine sciorbah o tsciorbach in Turchia si indica una lenta vivanda a base di riso
Ingredienti e dosi per 6 persone:
400 gr di bietole;
300 gr di carote;
3 grosse cipolle dorate tritate grossolanamente,
200 gr di pomidoro Roma o Sanmarzano sbollentati,pelati e tagliati a pezzettoni;
200 gr di cimette di cavolfiore lavate;
200 gr di sedano bianco lavato e tagliato in tocchetti ;
2 patate grosse sbucciate, lavate e tagliate a cubetti di 1 cm di spigolo;
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.;
sale doppio alle erbette q.s.
sale fino alle erbette e pepe bianco q.s.;
1 etto di formaggio pecorino grattugiato;
7 etti di pane casereccio tagliato a cubi di cm. 1,5 di spigolo, bruscati per 5 minuti al forno (220°);
3 dadi da brodo vegetale.
Preparazione:
Approntare innanzitutto tre litri di brodo vegetale con tre litri d’acqua fredda, i tre dadi vegetali ed una presa di sale fino alle erbette.
Lavare e tagliare tutte le verdure a pezzetti; farle sbollentare rapidamente in acqua salata (sale grosso alle erbette ) indi sgrondarle; in un’ ampia padella versare un bicchiere d’olio, aggiungere le cipolle tritate farle dorare ed unire i pezzettoni di pomidoro, salare e dopo 5 minuti di cottura aggiungere a mano a mano le varie verdure sbollentate e sgrondate e farle stufare incoperchiate per 10 minuti regolare eventualmente di sale e pepe.
Nel frattempo si mettono i cubi di pane casereccio bruscato al forno in una zuppiera, si irrorano a filo con l’olio residuo e poi bagnano abbondandemente con il brodo, si aggiunge il pecorino ed il pepe e le verdure stufate Si lascia riposare il tutto per alcuni minuti nella zuppiera tenuta in caldo, prima di servire in tavola.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
PROVERBI E LOCUZIONI VARII 11
1È mmeglio fà 'mmidia ca pietà.
Ad litteram: è meglio essere invidiati che essere oggetto di commiserazione; ed il perché è intuitivo, comportando l'invidia uno status di opulenza,tale da meritarsi l'invidia del prossimo, mentre il commiserato versa - per solito - in pessime condizioni.
2 'Nu strunzo ca cadette a mmare, vedenno 'nu purtuallo ca llà galliggiava, dicette: simmo tutte purtualle!
Uno stronzo che cadde in mare, vedendo un'arancia che ivi galleggiava, easclamò: siamo tutti arance! A Napoli si suole ripetere questo proverbio per canzonare e commentare le azioni di tutti gli sciocchi,i saccenti, i supponenti e gli stupidi che facendo le viste di essere sapienti e/o capaci, pretendono di farsi considerare per ciò che in realtà non sono...
3 Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino che gli dava di che vivere, sarà sempre piú in miseria.
4 Pazze e criature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza.
5 Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento perete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
6 Si 'arena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile. Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
7 Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
8Nun te dà malincunìa, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuria.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
9 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere piú facilmente alla vittoria nella lotta intrapresa.
10 Astipate 'o piezzo janco pe quanno venono 'e jiuorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
11 Male e bbene a fine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma pure non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, così finiranno.
12 Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è un giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò, a giusta ragione, benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati beneficati in vario modo dagli invasori e si erano perciò schierati dalla loro parte. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
13 Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascì 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
14 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
15 Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott' ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
16 Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: il testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento...
17 Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci'â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto (spezzato) cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo ad una reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
18 Coppola pe cappiello e casa a sant'Aniello.
Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salubre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi.
19 Tené tutte 'e vizzie d''a rosamarina.
Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè così poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato; se accesa, fa molto, fastidioso fumo...improduttivo.
20 Si 'o Signore nun perdona a 77, 78 e 79, llà 'ncoppa nce appenne 'e pummarole.
Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) e ai ladri(79), lassú (id est: in paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è quasi del tutto popolato da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori.
21 Chillo se mette 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si mette le dita nel sedere e ne tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
22 Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la parola aparatura= addobbo è un deverbale del lat. *ad-parare=apparecchiare, preparare, mentre la voce centrelle= chiodini deriva dal greco kéntron. La locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
23 'A femmena è ccomme a' campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
24 'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere facilmente in tentazione, concedendo le proprie grazie; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
25 Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose un sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportino bene.
26 'E pegge juorne so' chille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai...
27 Dimmènne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato.
28 Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
29 Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
30 'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità.
31 Dicette frate Evaristo:"Pe mmo, pígliate chisto!"
Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partí all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione sodomitica iniziata pronunciò la frase in epigrafe.
brak
Ad litteram: è meglio essere invidiati che essere oggetto di commiserazione; ed il perché è intuitivo, comportando l'invidia uno status di opulenza,tale da meritarsi l'invidia del prossimo, mentre il commiserato versa - per solito - in pessime condizioni.
2 'Nu strunzo ca cadette a mmare, vedenno 'nu purtuallo ca llà galliggiava, dicette: simmo tutte purtualle!
Uno stronzo che cadde in mare, vedendo un'arancia che ivi galleggiava, easclamò: siamo tutti arance! A Napoli si suole ripetere questo proverbio per canzonare e commentare le azioni di tutti gli sciocchi,i saccenti, i supponenti e gli stupidi che facendo le viste di essere sapienti e/o capaci, pretendono di farsi considerare per ciò che in realtà non sono...
3 Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino che gli dava di che vivere, sarà sempre piú in miseria.
4 Pazze e criature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza.
5 Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento perete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
6 Si 'arena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile. Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
7 Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
8Nun te dà malincunìa, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuria.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
9 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere piú facilmente alla vittoria nella lotta intrapresa.
10 Astipate 'o piezzo janco pe quanno venono 'e jiuorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
11 Male e bbene a fine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma pure non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, così finiranno.
12 Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è un giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò, a giusta ragione, benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati beneficati in vario modo dagli invasori e si erano perciò schierati dalla loro parte. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
13 Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascì 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
14 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
15 Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott' ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
16 Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: il testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento...
17 Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci'â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto (spezzato) cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo ad una reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
18 Coppola pe cappiello e casa a sant'Aniello.
Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salubre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi.
19 Tené tutte 'e vizzie d''a rosamarina.
Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè così poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato; se accesa, fa molto, fastidioso fumo...improduttivo.
20 Si 'o Signore nun perdona a 77, 78 e 79, llà 'ncoppa nce appenne 'e pummarole.
Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) e ai ladri(79), lassú (id est: in paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è quasi del tutto popolato da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori.
21 Chillo se mette 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si mette le dita nel sedere e ne tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
22 Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la parola aparatura= addobbo è un deverbale del lat. *ad-parare=apparecchiare, preparare, mentre la voce centrelle= chiodini deriva dal greco kéntron. La locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
23 'A femmena è ccomme a' campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
24 'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere facilmente in tentazione, concedendo le proprie grazie; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
25 Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose un sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportino bene.
26 'E pegge juorne so' chille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai...
27 Dimmènne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato.
28 Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
29 Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
30 'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità.
31 Dicette frate Evaristo:"Pe mmo, pígliate chisto!"
Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partí all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione sodomitica iniziata pronunciò la frase in epigrafe.
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