N’ATA VOTA MO! ?
Ad litteram: Un’altra volta adesso? id est: Ancóra?
Spazientita domanda retorica che si sostanzia in un’esclamazione di dispetto quando non di rabbia rivolta contro chi, incurante di nostre sollecitazioni o raccomandazioni, perseversi insistendo nel tenere un atteggiamento non consono, per il quale sia stato già redarguito, o reiteri un’azione che già ci abbia infastiditi, se non scossi; con l’espressione in epigrafe, pronunciata con tono risentito pare quasi che si voglia dire a chi tenga quel tal non consono e reiterato comportamento: Non t’è bastato sbagliare una volta, intendi ripeterti e perseverare nell’errore?!
La voce mo è l’avverbio napoletano di tempo che traduce i toscani: ora, adesso mentre nella forma reiterata mmo mmo rende il subito, immediatamente; l’etimologia di mo è controversa,come è controverso il modo di scriverlo: mo, mò, mo’;anche gli scrittori classici napoletani non offrono certezze di grafia ed usano indifferentemente le tre maniere e talvolta piú d’una nel medesimo scritto; orbene apparendo il mo ai piú un derivato del latino modo= ora, adesso sarebbe forse buona norma scriverlo: mo’ dove il segno (‘) indicherebbe giustamente l’apocope della sillaba etimologica do; ma un’altra scuola di pensiero, alla quale del resto mi collego fa discendere l’avverbio napoletano non da modo ma sempre da un latino mox ugualmente ora, adesso di talché mi pare piú corretto scrivere mo senza alcun segno diacritico, essendosi verificata la caduta di una sola consonante (x) e non di un’intera sillaba, la medesima cosa che capita con i napoletani cu (con) e pe (per)dove si registrano la caduta di una consonante che è rispettivamente m di cum e r di per consonanti che cadendo non richiedono segni diacritici sostitutivi; e tutto ciò sebbene qualche studioso di glottologia faccia notare che nel caso che l’etimo di mo fosse da mox non sarebbe possibile che la consonante ics cadendo non abbia lasciato traccia di sé; dico: l’etimologia avrà pure le sue regole, ma non mi pare che sia una scienza galileiana e troppe eccezioni (cfr. re derivato di rex) ò incontrate per sorprendermi, come pure sconsiglio assolutamente di scrivere mò con l’accento che è segno diacritico da usarsi nei monosillabi solo se esiste analogo monosillabo di diverso significato come capita con gli italiani se congiunzione che vale qualora, nel caso che e l’accentato sé che è pronome; nel napoletano oltre il mo avverbio di tempo non v’è altro mo se non enclitico (e qui di seguito ve ne dico) e dunque non v’à ragione di accentare l’avverbio di tempo mo.
Nella grafia del napoletano c’è solo un caso in cui la caduta di una consonante in fin di parola richiede l’uso di un segno diacritico (‘); è il caso di nu’ che sta per nun= non; nella fattispecie si rende necessario scrivere nu’ piuttosto che nu (come consiglierebbe la regola che per caduta finale di consonante non richiede l’apposizione d’un segno diacrito). Infatti, poiché in napoletano esiste un altro omofono nu= uno, un articolo indeterminativo che è buona norma scrivere con il segno dell’aferesi ‘nu e non nu senza alcun segno come invece purtroppo è invalso nell’uso di molti scrittori e/o addetti ai lavori partenopei o sedicenti tali; il nu lasciato nudo d’ogni segno d’aferesi o d’apocope potrebbe dare adito alla confusione ed è questa la ragione per la quale scrivo e consiglio di scrivere ‘nu= un, uno e nu’ per nun= non.
Ma torniamo al mo enclitico che è dal latino meus è quello che si lega in coda ad un sostantivo nel significato appunto di mio ed essendo enclitico non à un proprio accento, nè fa mutare quello del sostantivo cui è legato; ad es: pàtemo = mio padre; fràtemo=mio fratello.
Raffaele Bracale
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