MERENDA & dintorni.
Con la voce merenda, in lingua italiana si intende un piccolo asciolvere, uno spuntino che si fa nel pomeriggio, fra il pranzo e la cena e che – di solito – è di pertinenza di bambini e ragazzi ; anche, il cibo che si mangia in tale occasione; in generale tale contenuto desinare resta circoscritto a poche fette di pane, magari tostato spalmate di burro, marmellate o creme dolci o accompagnate da modesto companatico come affettati misti; talvolta la merenda dei bambini è costituita da una fetta di torta dolce o di focaccia salata; al proposito mi piace di ricordare l’espressione d’uso familiare che suona: entrarci come i cavoli a merenda, riferito a cosa o argomento che non à nulla a che vedere con le cose o gli argomenti di cui si stia parlando in un determinato momento; dall’espressione si evince che un ortaggio come il cavolo (broccolo) dal sapore intenso e di difficile digestione mal si concilia con il contenuto desinare di una merenda che – come ò detto – di solito è costituita da fette di pane (magari tostato) ed ingredienti appetibili come burro, creme dolci, marmellate e/o affettati misti.
Il termine merenda deriva dal lat. merenda, propr. neutro pl. del gerundivo di meríre 'meritare'; propr. 'cose da meritare' quasi che quel modesto desinare fatto tra pranzo o cena non fosse dovuto, ma bisognerebbe meritarlo!...
E tutto questo riguarda la lingua italiana.
Passiamo ora al piú pregnante idioma napoletano dove la parola merenda , pur presente nella morfologia di marenna (che etimologicamente è l’adattamento partenopeo del gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressiva nd→nn), non indica il piccolo asciolvere, lo spuntino che si fa nel pomeriggio, fra il pranzo e la cena e che – di solito – è di pertinenza di bambini e ragazzi spuntino circoscritto a poche fette di pane, magari tostato spalmate di burro, marmellate o creme dolci o accompagnate da modesto companatico come affettati o formaggi misti, o talvolta costituito da una fetta di torta dolce o di focaccia salata, non indica – dicevo – tutto ciò, ma altro di cui qui di seguito dirò.In pretto napoletano infatti il contenuto, piccolo asciolvere e/o spuntino fatto da adulti o ragazzi prende il nome di ‘mpustarella soprattutto quando lo spuntino si sostanzi in due semplici fette di pane con inframmezzato del companatico; la voce ‘mpustarella è derivante da un in (illativo)+ il latino positam con un doppio suffisso femm. r +ella che sostantivizza il part. pass. positam che è da ponere= porre, mentre l’in d’avvio, che davanti all’esplosiva p si aferizza in ‘m,indica appunto che il companatico è posto dentro il pane; torniamo alla voce marenna con la quale in napoletano non si indica lo spuntino, ma - come già riportato nell’antico D’Ambra che parlò di reficiamento (inteso come ristorazione) degli opranti - di un sostanzioso, spesso pletorico pasto da asporto consumato dagli artieri e/o operai, pasto consistente in un pezzo di pane ( a preferenza ricavato dal palatone che è il grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, ed il suo nome di palatone gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna) pezzo di pane abbondantemente farcito spesso con companatico opportunamente ricco di sugo (salse o condimentI) per far sí che il pane si ammorbidisse e fosse facilmente addentabile anche dai piú anziani senza dover far ricorso ad un coltelluccio a serramanico con il quale tagliare piccoli bocconi; in pratica la marenna era costituita da un cono ( cioè una delle due punte di un palatone, palata (il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare) o cocchia ( che sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle(piccoli filoncini da 500 o 250 gr.) accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornato; in seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma un po’ piú larga e meno lunga della palata (etimologicamente cocchia è dall’acc.vo lat. cop(u)la(m)→copla(m)→cocchia)) cono scavato della mollica per ottenerne un foro in cui alloggiare carni in umido o polpette al sugo oppure peperoni imbottiti o altri ortaggi semplicemente fritti, ma conditi o con una salsa di pomidoro o fondo di frittura che ammorbidisse ad hoc il pane;il cono di mollica estratta veniva intriso di sugo e posto a mo’ di tappo del foro; talora, ma ciò avveniva quasi sempre per la marenna degli artieri piú giovani il pezzo di pane invece d’essere una delle due punte di palatone, di palata o di cocchia scavata della mollica, era una contenuta barchetta ricavata dalla parte centrale del filone, privata di un po’ di mollica e farcita con frittate di semplici uova o con affettati poveri: mortadella, prosciutto cotto, pancetta arrotolata e/o provolone piú o meno piccante; il fatto che i companatici fossero piú asciutti, senza sughi o condimenti eccessivi si confaceva alle migliori dentature dei giovani artieri che potevano piú facilmente addentare pezzi di pane crocchianti.Oggidí che anche la produzione del pane è notevolmente peggiorata ed è difficile trovare dei fornai capaci di produrre buoni palatoni, o palate o cocchie, i pochi artieri (che ancóra ànno la sana abitudine di portarsi da casa il loro pasto da asporto quotidiano senza far ricorso ai costosi panini farciti venduti in salumeria o in attrezzati bar),si contentano per la loro marenna di infimi panini(rosette) , marsigliesi e/o ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, monoporzioni adatti ad essere consumati farciti di salumi o formaggi o, al massimo di frittate, ma non più di carni o polpette in umido, peperoni e/o altri ortaggi; alla luce di tale impoverimento del companatico rammenterò una icastica locuzione partenopea che suona:À fatto marenna a sarachielle.
Cioè: À fatto merenda con piccole salacche affumicate – riferito a quelle situazioni incresciose in cui qualcuno in luogo di avere un congruo, atteso ritorno del proprio solerte operare si è dovuto accontentare di ben poca cosa; in effetti una merenda (quale pranzo da asporto) che fosse costituita da un po’ di pane con qualche filetto di salacca affumicata anche se accompagnati da anelli di cipolla ed irrorati d’olio d’oliva e.v.p. s. a f. sarebbe veramente una povera cosa; sarachielle s.vo m.le pl. di sarachiello che è il diminutivo maschilizzato (per significare la contenutezza dell’oggetto di riferimento: in napoletano infatti un oggetto che sia femminile diventa maschile se diminuisce di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) carretta (piú grande) e carretto ( piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo)), dicevo che sarachiello è il diminutivo (vedi i suff. i+ ello maschilizzato di sàraca= salacca, aringa affumicata; la voce sàraca etimologicamente è da collegarsi ad un tardo greco sàrax (all’acc.vo sàraka) che trova riscontri anche nel calabrese sàrica e nel salentino zàrica. Ed a questo punto penso di poter dire il fatidico satis est e mettere il punto fermo.
Raffaele Bracale
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