PEPPÏARE - PEPPÏÀ
Voce onomatopeica che indica il momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragú napoletano, allorché dal fondo della pentola dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che al culmine della tensione si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa. Il toscano traduce in maniera piuttosto imprecisa e superficiale: sobbollire.
Un ragú napoletano che sobbollisse e non peppïasse, non sarebbe un vero ragú. Il segreto per far peppiare la salsa sta – oltre che nel tenere la fiamma piuttosto bassa- nell’evitare di turare completamente con il coperchio la bocca della pentola, poggiando invece il coperchio esattamente sulla bocca solo su di un lato della pentola mentre nella direzione opposta occorre poggiare il coperchio non sul bocca della pentola, ma sul grosso cucchiaio di legno posto di traverso l’imboccatura, per modo che si crei una continua piccola circolazione d’aria che favorisca il peppïare, impedendo alla salsa di attingere forza dal fuoco e le impedisca di precipitare nel bollore cosa che rovinerebbe tutta la faccenda. Solo dopo che la salsa abbia peppïato per circa tre quarti d’ora e si sia verificato lo strano fenomeno della separazione dell’olio e dello strutto che affiorano in superfice lasciando il sugo di pomodoro nel fondo della pentola, si può esser certi che il ragú si sia conseguito e dopo una veloce rimestata con il fido cucchiaio di legno, si potrà spegnere il fuoco .
In chiusura rammenterò che la voce in epigrafe è resa nelle Puglie con il termine pippijà che ad un dipresso ripete l’onomatopea partenopea peppïà,
mentre in Sicilia è usato il termine carcariare voce che, risultando essere un denominale di carcara ( calcara o grossa pentola), lascia presumere che
il vocabolo presupponga un’ebollizione cosí violenta tale che possa indurre il sugo ad uscir di pentola; non è pertanto il napoletano peppïare che come ò spiegato indica un bollore sí prolungato, ma calmo, direi quasi riflessivo, mai agitato o violento. In napoletano, in effetti, il verbo carcarïare/carcarïà è usato per indicare il rumoreggiare, l’agitarsi. Rammento ancòra che quando in napoletano vogliamo indicare un'azione agitata di un individuo che aneli a qualcosa e lo voglia subitaneamente, diciamo che, a proposito di quel bene desiderato, quell'individuo sta scarcarenno ossia è cosí agitato che tracima l'ipotetica pentola del comportamento.
peppïà – pippijà = pipeggiare, fare il rumore della pipa ; voci onomatopeiche.
carcarïare/carcarïà =rumoreggiare; bulicare rumorosamente; voce verbale denominale di carcara che con derivazione dal lat. tardo (fornacem) calcaria(m), deriv. di calx.calcis 'calce' indica innanzitutto
la fornace in cui si fanno cuocere i calcari per produrre la calce o il forno in cui si fonde la miscela di sabbia e soda usata per fabbricare il vetro e per traslato – nel caso che ci occupa - una grossa pentola, una caldaia, un grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa;
scarcarenno = tracimando la caldaia voce verbale (gerundio ) dell’infinito scarcarí = tracimar la caldaia denominale di carcara da un
ex-carcara però con cambio di coniugazione che da un atteso excarcarïà passa ad excarcarí.
Raffaele Bracale
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento