lunedì 30 aprile 2012

TRE PROVERBI

TRE PROVERBI 1.A carocchia a carocchia Pulicenella accerette ‘a mugliera. Ad litteram Pulcinella uccise sua moglie assestandole in testa reiterati piccoli colpi. Id est: Anche un insieme di piccoli danni può apportare gran nocumentop o esser foriero di una grande catastrofe. carocchia s.vo f.le tipo particolare di percossa,nocchino, colpo secco e doloroso assestato al capo e portato con movimento veloce dall’alto verso il basso con le nocche maggiori delle dita della mano serrata a pugno. Etimologicamente non dal lat. crotalum che indica la nacchera, strumento musicale e non un tipo di percossa…,ma dal greco karà=testa attraverso un lat. regionale *caròclu(m) ed il plurale reso femm. caròcla (tipica la mutazione cl in ch come in clausu(m) che diventa chiuso). Pulicenella e cioè Pulcinella la maschera per antonomasia della tradizione popolare partenopea che come tale è persino presente nella smorfia rappresentandovi l’uomo piú semplice, quello piú debole, quello che nella scala sociale occupa l’ultimo posto; è però dotato per compensazione di una furbizia eccezionale, capace perciò di risolvere i piú disparati problemi. Chiamato a rappresentare l’anima del popolo, i suoi istinti primitivi, appare quasi sempre in contraddizione, tanto da non avere dei tratti fissi: è ricco o povero, è prepotente o codardo,persino vigliacco, violento e talvolta presenta l’uno e l’altro tratto contemporaneamente. La verità sta nel fatto che a questa maschera il popolo à riservato la funzione di riassumere e di esprimere tutta la sua realtà quale che sia: brutta o bella, meschina o eroica. La maschera di Pulcinella à una storia che viene di lontano; già non c’è uniformità di vedute sull’origine del nome Pulcinella; secondo alcuni esso si vuole che debba discendere da Pulcinello cioè piccolo pulcino per via del suo naso adunco e per la voce chioccia che in origine usarono gli attori , c’è chi invece propende per Puccio d'Aniello un villano di Acerra del '600 che dopo aver preso in giro una compagnia di commedianti girovaghi si uní a loro come buffone e pare s’inventasse quel mascheramento del volto, mezzo bianco e mezzo nero, palandrana bianca e candido cappello a pan di zucchero; una scuola di pensiero propende per un tal Silvio Fiorillo attore girovago nato all'incirca nel 1560 (Viviani V.), che pare fosse il primo a portare ufficialmente in scena la figura di Pulcinella, anche se l'alternava con la casacca e la spada del capitano Matamoro spagnolo. Fiorillo viene anche ricordato come il primo commediografo pulcinellesco, essendoci giunta una sua commedia intitolata: " La Lucilla costante, con le ridicole disfide e prodezze di Pulcinella " In realtà dove e da chi sia nato Pulcinella non é dato di sapere e molti eminenti studiosi e letterati come Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo e Anton Giulio Bragaglia si siano impegnati in queste ricerche, senza mai poterlo stabilire con certezza; a mio avviso, pur accogliendo in parte qualcosa d’ogni singola ipotesi, penso che non sia tuttavia lontano dalla verità chi, (almeno per ciò che riguarda i caratteri generali), collega Pulcinella al Maccus della commedia atellana latina; la maschera di Pulcinella à una sua variante francese in Polichinelle' ( un fanfarone gradasso con doppia gobba e un vestito giallo-rossiccio detto crocòta) ed una inglese con Punch maschera dall' umore malinconico e brutale, molto diverso dal Pulcinella napoletano brioso e faceto; i medesimi caratteri della maschera napoletana si riscontrano invece nel russo Petruska, nel don Cristobal spagnolo e nel tedesco Kaspar, segno che la maschera napoletana fu esportata in lungo e largo.Esiste un momento centrale ed illuminante, nella storia dei rapporti fra Pulcinella e Napoli, fra Pulcinella ed il teatro ed, in particolare, fra Pulcinella e l'attore : esso coincide con la fine del '600 e l'inizio del '700, allorché la storia dello spettacolo a Napoli si fa suggestiva misura della storia stessa della città e della sua vita culturale. Vi fiorisce un teatro di prosa dialettale, espressione di una straordinaria attenzione alla lingua ed al costume; vi nasce una ricca e fertile generazione di teatranti: teorici, drammaturghi e commediografi, librettisti, musicisti, attori e cantanti, impresari; vi si rinnovano le strutture cittadine di spettacolo: si apre il San Carlo e, all'estremo opposto del consumo sociale del teatro, il non meno nobile San Carlino; si afferma la commedia in musica, detta opera buffa, capace di espandersi ed affermarsi per l'intera Europa con caratteri che ànno fatto pensare addirittura ad una scuola musicale napoletana '; sopratutto, il teatro rinasce, dopo esaltanti esperienze della commedia dell'arte praticata trionfalmente in Europa per tutto il '600 ed in questa prima metà del '700. La maschera à rappresentato e rappresenta tuttora la plebe napoletana' da sempre oppressa dai vari potenti che si sono succeduti, affamata e volgare, smargiassa, codarda e dissacrante. Molti attori ànno impersonato sulla scena il personaggio di Pulcinella ma il piú famoso di tutti è stato Antonio Petito (1822 -†1876) trionfatore sul palcoscenico del San Carlino; questo Petito nonostante fosse quasi analfabeta, à lasciato numerose commedie di grande successo che avevano come protagonista lo stesso Pulcinella. Dopo di lui, per tanti aspetti, storici, culturali e tecnici nonostante sulle scene fossero attivi altri grandi interpreti (come Salvatore De Muto(1876 † 1970) ad esempio e Gianni Crosio (di cui, purtroppo non sono stato in grado di reperire notizie biografiche) inizia la decadenza. Pulcinella in teatro diventa un personaggio, e deve attenersi ormai ad una parte scritta, ad un copione. Privata del vivificante contatto diretto con il pubblico, la maschera assume sempre piú caratteristiche stereotipate, di genere. Solo nella strada, con le guarattelle (forma metatica di guattarelle= acquattate, nascoste), il teatro napoletano dei burattini, Pulcinella mantiene la sua forza, conservando intatta nel tempo, incredibilmente, la struttura di spettacolo originaria della Commedia all’Improvviso, e in tal forma giungendo fino ai nostri giorni. Ribadito che per quel che riguarda l’etimologia del nome Pulicenella o anche Pullicenella con tipico raddoppiamento espressivo della l della sillaba tonica, occorre risalire ad un accusativo latino pullicinu(m)= pulcino variante del tardo latino pullicénu(m), con riferimento – come già detto – al naso adunco ed alla primitiva voce chioccia e pigolante usata dagli attori per dar vita alla maschera, ricorderò che il personaggio eternato sotto il num. 75 della smorfia napoletana non è esattamente la maschera fin qui menzionata, ma il generico buffone, il pagliaccio o l’ uomo di nessuna personalità, quel medesimo che per traslato è detto appunto Pulicenella. accerette uccise voce verbale (3ª pers. sg. pass. rem. dell’infinito accidere/accirere =uccidere; per accidere (donde la voce in esame) etimologicamente si sospetta un basso latino *accidere (ad-caedere) collaterale di ob-caedere = uccidere, ammazzare, da non confondere con ob-cadère (donde gli italiani occaso, occidente etc.)= andar giú, cascare; mugliera s.vo f.le moglie, sposa, consorte; quanto a l’etimo voce dall’acc.vo del lat. volg. mulière(m) per il class. mulíere(m) = donna. 2. Chi troppo s’acala ‘o culo scummoglia Ad litteram: Chi troppo si abbassa, mette in mostra il fondoschiena. Id est:Un atteggiamento eccessivamente umile finisce per essere vergognoso e/o dannoso. chi pron. rel. invar. [solo sg.] 1 colui il quale, colei la quale (con valore dimostrativo-relativo; usato sia come sogg. sia come compl.):chi à fatto chesto, à fatto bbuono (chi à fatto ciò à fatto bene);aggiu truvato chi me po’ aiutà;rialalo a cchi vuó tu;nun t’ ‘a piglià cu cchi nun tène corpa (ò trovato chi mi può aiutare; regalalo a chi vuoi; non prendertela con chi non ne à colpa) 2 uno il quale, una la quale; qualcuno che, qualcuna che (con valore indefinito-relativo): c'è chi dice ca nun è abbasato, ma fatto a ccriaturo; nun ce sta chi ‘o crede; nun trova chi ‘o pote aiutà; po’ gghirce chi vo’; (c'è chi dice che non è maturo, ma ancóra troppo giovane; non trova chi lo possa aiutare; non c'è chi gli creda; può andarci chi vuole), chiunque | con sfumatura ipotetica o condizionale: chi me vo’ bbene, me venesse appriesso(chi mi ama mi segua); ‘stu probblema, pe chi ce penza ‘nu poco nun è difficultoso(questo problema, per chi ci rifletta un po', non è difficile) ||| pron. indef. invar. uno, qualcuno, alcuni (oggi usato solo nel costrutto relativo chi... chi 'l'uno... l'altro', 'alcuni... altri'): chi diceva ‘na cosa, chi n’ata(chi diceva una cosa, chi (ne diceva) un'altra) ||| pron. interr. invar. quale persona, quali persone (usato sia come sogg. sia come compl.; può essere rafforzato con maje=mai): chi à sunato â porta?(chi à bussato alla porta?); chi songo chelli ssignore?(chi sono quelle signore?); chi sarrà maje?(chi sarà ma?); cu cchi steva parlanno?(con chi parlava?);nun saccio ‘e chi è ‘stu cappotto( non so di chi sia questo soprabito); nun sapesse a cchi spià(non saprei a chi rivolgermi); chi sa’ (chi sa), chi ‘o ssape?(chi lo sa?); me ll’à ditto nun saccio chi(me l'à detto non so chi), una persona di cui non ricordo il nome; chi mm’ ‘o ddice?(chi me lo dice?), per esprimere dubbio e incredulità; chi mm’ ‘o fa fà? Chi ce ‘o ffa fà(chi me lo fa fare?, chi ce lo fa fare?), perché, con che vantaggio dovrei, dovremmo farlo? | usato in proposizioni esclamative: a cchi (maje) aggiu dato audienza!(a chi (mai) ha dato retta!); chi se vede!; a cchi ‘o ddice!(chi si vede!; a chi lo dici!), quando altri ci dice cosa a noi ben nota. voce dal lat. qui'(colui) il quale', nom. sing.; troppo altrove anche agg.vo e pron. indefinito ma nel caso che ci occupa avv. 1 eccessivamente; piú del dovuto, del conveniente: à faticato troppo, hê parlato troppo; nun fà troppo tarde(à lavorato troppo; ài parlato troppo; non far troppo tardi); chesta bbirra è troppo fredda; troppo gentile!, troppo bbuono!, (questa birra è troppo fredda; troppo gentile!, troppo buono!), come espressioni di cortesia | rafforzato da , fin, più di quanto sarebbe bene, necessario o opportuno: è fin troppo scetato(è anche troppo sveglio); sîppure troppo ‘ntelliggente(sei anche troppo intelligente) | esprimendo il termine rispetto al quale qualcosa si ritiene eccessiva: è troppo frubbo pe puterlo ‘mbruglià; costa troppo poco p’essere autenticamente antico (è troppo furbo perché lo si possa imbrogliare; costa troppo poco per essere autenticamente antico) | ‘e troppo(di troppo), in piú, in eccesso, piú del dovuto o del necessario: ce ne stanno ddiece ‘e troppo; aggiu vippeto quacche bbicchiere ‘e troppo (ce ne sono dieci di troppo; ò bevuto qualche bicchiere di troppo); | purtroppo(pur troppo o purtroppo), per esprimere rammarico, || Nell'uso ant. o pop. si trovava talora accordato nel genere col termine al quale si riferisce: cu troppi mmazzate(con troppi colpi) 2 con valore simile a molto, assai, senza l'idea di eccesso: saje troppo bbuono ca aggio raggione(sai troppo bene che ò ragione); nun troppo(non troppo), piuttosto poco nun me sento troppo bbuono ( non mi sento troppo bene). s’acala voce verb. riflessiva (3ª pers. sg. ind. pr. dell’infinto acalar(se)) = si abbassa, si flette; etimologicamente acalà/are da cui il riflessivo acalarse è dal lat. tardo calare con protesi di una a intensiva, dal gr. chalân 'allentare'; culo s.vo m.le = culo, posteriore, didietro, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koîlos – kolon; scummoglia voce verb.tr. (3ª pers. sg. ind. pr. dell’infinto scummiglià= scoprire, appalesare, mettere in mostra; scummiglià è etimologicamente dal lat.cum+volvjare→cummoliare = coprire con protesi di una s distrattiva per invertirne il significato ). 3. ‘O vino te fa guappo, ‘o barbiere te fa bbello e ‘a femmena te fa fesso! Letteralmente:Il vino ti rende sfrontato, il barbiere ti rende bello e la donna ti inganna! Gustoso ed ammiccante proverbio spudoratamente misogino nato in epoca tardo ottocento allorché a Napoli erano in auge la figura del guappo, quella dell’acconciatore maschile che svolgeva spesso anche funzioni di cerusico, flebotomo (salassatore); sia il guappo che con la sua arroganza e/o sfrontatezza spesso si ergeva a paladino dei derelitti, che i barbieri (per la loro doppia funzione di acconciatori e cerusici) furono ritenute figure positive al contrario della donna ritenuta sempre e comunque soggetto inaffidabile da cui attendersi solo inganni e/o tradimenti! Guappo s.m. = bravaccio, soggetto pericoloso; 1 (st.) camorrista 2 (estens.) persona sfrontata, arrogante | guappo di cartone, persona che nasconde dietro l'arroganza e la sfrontatezza una reale debolezza agg.vo solo m.le 1 sfrontato, arrogante; 2 di eleganza volgare, pacchiana. Voce viva e vegeta con molti derivati nei linguaggi partenopeo e/o meridionali; voce nata al sud ed ivi testimoniata fin dalla fine del XVII sec., ma trasmigrata dapprima in area lombarda e poi accolta nel lessico nazionale nei significati di prepotente, sopraffattore, prevaricatore, tirannico, aggressivo, arrogante, bullo, sfaccendato, audace, e poi anche ostentato nel vestire e nell’incedere e da ultimo (XX sec.) teppista, bravaccio, camorrista, persona sfrontata e tracotante, spavaldo.Quanto all’etimo la maggioranza degli addetti ai lavori, a cominciare dal D.E.I., propendono per una culla iberica (guapo= bello, vistoso) la cosa però non mi convince molto attesa anche l’esistenza della voce francese guape = teppista che, a quel che pare, fu recepita nello spagnolo che ne trasse il suo guapo dal quale poi il napoletano avrebbe mutuato il suo guappo; solo un’attenta ricerca storico-linguistica (se fosse possibile farla…, ma ne dubito) ci potrebbe dire perché mai il napoletano avrebbe dovuto attingere nello spagnolo e non direttamente dal francese gergale antico; confesso di non essere attrezzato per una tale attenta ricerca storico-linguistica, né ò contezza di attendibili studi altrui; mi limiterò perciò ad evitare sia la via iberica che quella francese, per tornare a percorre, in ottima compagnia peraltro: Cortelazzo- Zolli, come già feci alibi, la strada di un lat.classico vappa=, vinello inacetito, corrotto e per trasl. dissipatore, degenerato, uomo buono a nulla, cattivo soggetto; in tale ipotesi non osterebbe, a mio avviso, la mutazione metaplasmatica della v in g mutazione presente anche alibi come ad es.: vorpa/volpa→golpa che è dal latino vulpe(m) o al contrario della g in v come ad es. in gulio→vulio= voglia. barbiere s.vo m.le Chi fa il mestiere di radere la barba e di tagliare o accorciare, lavare ed accomodare i capelli (soprattutto a clienti di sesso maschile, differendo in ciò dal parrucchiere); (fino agli inizi del sec. XIX all'esercizio di questo mestiere erano connesse anche pratiche mediche e chirurgiche); al proposito rammento il détto: ) Pàrono ‘o servezziale e ‘o pignatiello Sembrano il clistere e il pentolino. La locuzione veniva ed ancóra viene usata per indicare in maniera sarcastica due persone (parenti o amici) che spesso e volentieri sono insieme e che difficilmente si separano, come accadeva un tempo quando i barbieri che erano un po' anche cerusici,chiamati per praticare un clistere si presentavano recando in una mano l'ampolla di vetro (serviziale) atta alla bisogna e nell’altra un pentolino per riscaldarvi l'acqua occorrente... servizziale s.vo m.le= clistere, clisma, parola che fu anche (sia pure nella forma di servigiale) nell’italiano antico con i medesimi significati,forgiata sul lat. servitiu(m), deriv. di servus 'schiavo' + il suffisso di pertinenza ale da alis. pignatiello =pentolino, piccola pentola in origine di coccio, poi anche di metalli: ferro, alluminio etc. s.vo m.le forma diminutiva maschilizzata di pignata; la voce pignata 1) pentola molto capace, per lo piú di terracotta; 2) sorta di mattone forato impiegato nella costruzione dei solai è voce che m’appare derivata dal latino pineata(olla)in quanto il coperchio della pignata terminava quasi sempre a mo' di pigna (in latino pinea). Circa la maschilizzazione del diminutivo rammento che in napoletano con il femminile si indica un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: pennellessa (piú grande) e penniello ( piú piccolo), cucchiara (piú grande) e cucchiaro ( piú piccolo),tina (piú grande) e tino( piú piccolo) carretta (piú grande) e carretto ( piú piccolo),tammorra (piú grande) e tammurro (piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo); per cui, nella fattispecie, essendo la pentola usata dal barbiere in funzione di cerusico, molto piccola, si preferí render maschile il consueto diminutivo femminile di pignata e messa da parte pignatella si adottò pignatiello. bello agg.vo m.le 1 si dice di ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico: un bel ragazzo; due begli occhi; bei palazzi; una bell'architettura; belle musiche; farsi bello, agghindarsi, truccarsi; farsi bello di qualcosa, (fig.) vantarsene, attribuirsene il merito; che bello!, con ellissi del sostantivo | in senso generico, indica ciò che è apprezzabile, ben riuscito, ben fatto, comodo, agevole e sim.: un bel lavoro; una bella gita; una bella casa | in loc. particolari: arti belle, belle arti, arti figurative; belle lettere, letteratura; bel canto, belcanto; bel mondo, alta società, jet-set; belle maniere, modi cortesi, gentilezza; bel sesso, sesso femminile; begli anni, gioventù; bella copia, copia definitiva, ultima; bella vita, agiata, comoda; anche, mondana, scapestrata; una bella intelligenza, un bell'ingegno, vivaci, acuti; anche, una persona intelligente | prov. : non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. 2 moralmente buono; apprezzabile: un bel gesto, una bella azione; non è bello ciò che fai 3 buono, sereno, calmo (detto degli aspetti della natura): bel tempo; oggi c'è un bel mare; bella giornata; bella stagione, primavera ed estate 4 in usi fraseologici, può avere valore enfatico o rafforzativo, anche in senso iron. e antifrastico: un milione è una bella cifra; sei un bel pezzo d'asino; non ti dico un bel niente; nel bel mezzo di qualcosa, proprio nel mezzo | avere un bel fare, un bel dire ecc. , fare, parlare ecc. inutilmente | a bella posta, intenzionalmente | bell'e buono, vero e proprio: è una canaglia bell'e buona | bell'e fatto, bell'e sistemato ecc. , definitivamente fatto, sistemato ecc. | un bel giorno, un giorno | per antifrasi, brutto: che bella figura hai fatto!; bella roba!; bell'amica che sei! || Usato anche come avv. solo nella loc. bbellu bbello (bel bello), tranquillamente, piano piano: s. neutro 1 ciò che è bello; l'insieme delle cose belle: avere il senso del bello | con valore enfatico: mo vene ‘o bbello(adesso viene il bello), la cosa più importante, più difficile; sul più bello, nel momento culminante; il bello è che, lo strano è che; avere di bello che, per indicare un aspetto apprezzabile, una qualità; ci volle del bello e del buono per convincerlo, non fu facile | con valore fraseologico: che cosa fai di bello?; dove vai di bello? 2 tempo buono: spero che domani tornerà il bello 3 uomo bello, che si ammira soprattutto per le doti fisiche: il bello del paese | per antonomasia, l'innamorato, il fidanzato | appellativo affettuoso, che si rivolge specialmente ai bambini: fai la nanna, bello; bello di papà! Etimologicamente è voce derivata dal lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono'; femmena s.vo f.le = donna, femmina 1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre uova: la femmina della tigre; le femmine sono in genere meno aggressive dei maschi 2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina: ànno già un figlio maschio, vorrebbero una femmina | come accezione meridionale: mala femmina, prostituta. 3 parte di un congegno destinata a riceverne un'altra nel suo interno: la femmina dell'incastro In funzione di agg.vo 1 ricca, dotata di femminilità; desiderabile, attraente: è molto femmina | detto di animale, che è di sesso femminile: un castoro femmina la voce etimologicamente è dal lat. femina(m), voce connessa con fecundus 'fecondo'; fa fesso locuzione verbale (3° pers. sg.ind. pres.) di fare/fà fesso = ingannare, tradire, gabbare, raggirare etc.; la locuzione è formata dall’unione dell’agg.vo fesso con l’infinito fare/fà; fare/fà = 1 compiere un'azione; porre in essere, eseguire, operare: fare un passo, il bene, un discorso, un sogno; che fai stasera? | avere molto da fare, essere occupatissimo | saper fare (di) tutto, essere versato in ogni campo | fare e disfare a proprio piacimento, agire secondo il proprio comodo, senza render conto a nessuno | fa' tu, decidi tu | avere a che fare con qualcuno, trattare, avere rapporti con lui | non avere nulla a che fare con qualcosa, non entrarci, non avere relazione con essa | darsi da fare, adoperarsi, brigare per ottenere qualcosa | lasciar fare (qualcuno), non disturbarlo, lasciarlo libero di agire | fare di tutto o l'impossibile, tentare ogni mezzo pur di raggiungere uno scopo | saperci fare, (fam.) essere in gamba, sapere il fatto proprio | fare presto, tardi, agire con rapidità o con lentezza; anche, rientrare presto o tardi, spec. la sera | fare di conto, (antiq.) conteggiare, computare secondo le regole dell'aritmetica | fare festa, festeggiare, divertirsi | fare la festa (o la pelle) a qualcuno, ucciderlo | far fuori qualcuno, eliminarlo da una competizione; anche, ucciderlo; fare fuori qualcosa, consumarla, distruggerla rapidamente | fare la bella vita, godersela, spassarsela | fare una bella, una cattiva vita, vivere in buone, in cattive condizioni materiali o morali | fare figura, dare una buona impressione | fare una bella, una cattiva figura, dare, lasciare una buona, una cattiva impressione | fare colpo, colpire, impressionare | fare caso a qualcosa, badarci | 2 unito a particelle pronominali, spec. nell'uso familiare, assume valore enfatico, esprimendo una partecipazione affettiva del soggetto all'azione: farse ‘na magnata(farsi una mangiata), farse ‘na bbella cammenata(una bella passeggiata); facimmoce ddoje resate(facciamoci due risate); farsene un baffo, infischiarsene; 3 con valore causativo, mettere in condizione di, permettere: far fare i primi passi al bambino; far bere i cavalli 4 creare, produrre, fabbricare: Dio fece il mondo dal nulla ' fare figli, generarli | fare frutti, produrli | fare un libro, scriverlo | fare una casa, costruirla | fare la minestra, prepararla | fare un contratto, stipularlo | fare luce, rischiarare, illuminare; (fig.) svelare un mistero, scoprire la verità 5 dire, parlare (per lo più introducendo il discorso diretto): mi fece: «Vieni con me» 6 credere, pensare: ti facevo a Parigi e invece sei qui! 7 emettere, versare: fare sangue dal naso 8 raccogliere, mettere insieme: fare legna; fare quattrini; fare carbone, acqua, benzina, rifornirsene; la nostra città fa trecentomila abitanti, ne conta trecentomila | fare acqua, detto di natante, imbarcarla da una falla; (fig.) essere in condizioni di dissesto 9 (fam.) comprare, regalare: la mamma le ha fatto un paio di scarpe nuove | con la particella pronominale, comprare per sé, procurarsi: farsi la macchina, la villa 10 esercitare un'arte, una professione, un mestiere: fare il pittore, il commerciante | praticare: fare sport, del tennis 11 comportarsi da: fare il superuomo, il cretino | agire come: fare da padre, da infermiera 12 detto di cose, avere una determinata funzione: i capelli le facevano corona intorno al viso; una pietra faceva da sedile 13 rendere, mettere in una determinata condizione: far bella la propria casa 14 eleggere, nominare: fu fatto generale 15 dare come risultato (nelle operazioni aritmetiche): tre per tre fa nove; dieci meno due fa otto 16 (gerg.) rubare: gli hanno fatto il motorino 17 farsi un uomo, una donna, (volg.) averci un rapporto sessuale ||| v. intr. [aus. avere] 1 convenire, adattarsi, essere utile: quella casa non fa per noi; l'ozio non fa per me 2 divenire, essere (con uso impers. quando è riferito alla temperatura, al clima, all'avvicendarsi del giorno e della notte): fa caldo; fa brutto tempo; d'inverno fa buio presto 3 compiersi (di un determinato tempo): fa un anno, fanno due anni da che ci conoscemmo 4 in altre locuzioni: fare a pugni, a botte, a coltellate; fare a moscacieca, a nascondino; fare a (o in) tempo, riuscire a fare qualcosa entro una scadenza prefissata; fare a meno di qualcosa, rinunciarvi, privarsene; fare a metà, dividere in due; fare di cappello a qualcuno, salutarlo togliendosi il cappello; fare pro, giovare | fa fino, è da raffinati | fa estate, ne dà l'impressione ||| farsi v. rifl. o intr. pron. 1 trasformarsi, diventare: farsi musulmano; farsi rosso in viso; questo cucciolo s'è fatto grosso! | farsi in quattro, (fig.) moltiplicare i propri sforzi, il proprio impegno a favore di qualcuno o di qualcosa || Anche in costruzioni impersonali: s'è fatto chiaro; si sta facendo tardi 2 (gerg.)sta fatto( si è drogato). L’ etimo è dal lat. fa(ce)re. In coda rammento che l’infinito apocopato di fare→fa(re)→fa potrebbe anche scriversi come fanno i piú fa’ per indicare con il segno diacritico (‘) la caduta della sillaba finale, ma preferisco scrivere fà con la à per uniformarmi alla grafia di tutti gli infiniti trisillabi apocopati (cfr. ad es.: parlà, magnà,tené,saglí, capí etc.) e per evitare una confusione ottica tra l’infinito fa’= fare e l’imperativo fa’=fai. fesso agg.vo m.le esattamente lo sciocco balordo, senza una sua consistenza fisica e/o morale, lo stupido, , lo stolto, il deficiente, l’imbecille, lo scimunito e, talora (cfr. far fesso), l’ingannato, il tradito in tutto in linea con il suo etimo dal latino fissus part. pass. del verbo findere =spaccare, dividere.

SPORCARE

SPORCARE Anche questa volta mi trovo a raccogliere l’ennesima provocazione del mio caro amico N.C.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che,memore ch’io abbia piú volte affermato che il napoletano sia piú preciso e circostanziato dell’italiano, mi à sfidato ad elencare ed a parlare delle eventuali voci del napoletano che rendano piú acconciamente quella italiana dell’epigrafe e dei suoi numerosi sinonimi . Come ò già détto alibi e qui ripeto il caro amico non sa o finge di non sapere quanto io sia tenace e perseverante nelle mie idee, per cui raccolgo pure questo guanto di sfida cominciando, come è mio solito, con l’esaminare dapprima le voci dell’italiano: sporcare, v. tr. 1 rendere sporco; insudiciare, insozzare: sporcare il tappeto, il muro; sporcarsi il vestito | sporcarsi le mani in, con qualcosa, (fig.) compromettersi, parteciparvi con piena responsabilità 2 (fig.) deturpare, macchiare moralmente: sporcare la propria fama, il proprio nome | sporcare la fedina penale, subire una condanna penale 3 (gerg.) rovinare, rendere inutilizzabile: sporcare la palla, nel calcio e in altri giochi, sprecare una palla buona giocandola male; sporcare una canzone, detto dei disc-jockey radiofonici, parlare mentre viene trasmessa, in modo che non possa essere registrata integralmente da chi riceve la trasmissione ||| sporcarsi v. rifl. o intr. pron. 1 imbrattarsi con qualcosa di sudicio: sporcarsi di fango 2 (fig.) macchiare la propria reputazione compiendo un'azione indegna; abbassarsi moralmente: non voglio sporcarmi con questa storia. Il verbo è dal lat. spurcare, deriv. di spurcus 'sporco' insozzare, v. tr. generico sinonimo del precedente 1 rendere sozzo; insudiciare, sporcare: insozzare un vestito 2 (fig.) macchiare, oltraggiare, coprire di vergogna, di disonore: insozzare la reputazione di qualcuno ||| insozzarsi v. rifl. o intr. pron. 1 sporcarsi, lordarsi: insozzarsi di grasso; le scarpe si sono insozzate di fango 2 (fig.) macchiarsi moralmente: insozzarsi di atroci delitti. Il verbo, con la protesi di un in illativo, è un denominale di sozzo 'sporco' che è dal provenz. sotz, che è dal lat. sucidu(m) 'grasso, sudicio'; lordare, v. tr. generico sinonimo dei precedenti rendere lordo, sporcare, insudiciare (anche fig.) ||| lordarsi v. rifl. insudiciarsi, sporcarsi (anche fig.); etimologicamente il verbo risulta essere un denominale dell’agg.vo lordo (sporco) dal lat. tardo lurdu(m), per il class. luridu(m) 'livido, pallido'; macchiare v. tr. generico sinonimo dei precedenti, ma alquanto piú circoscritto in quanto fa riferimento ad una lordura procurata attraverso macchie e non altro; 1 sporcare con una o piú macchie: macchiare la tovaglia di vino; macchiarsi il vestito di olio | (assol.) lasciare macchie: l'inchiostro macchia 2 (estens.) aggiungere a un alimento una piccola quantità di un'altra sostanza che ne modifica il colore naturale: macchiare il caffè, con un po' di latte; macchiare il latte, con un po' di caffè; macchiare la pastasciutta, con un po' di sugo 3 (fig.) corrompere la purezza originaria: macchiare il proprio nome, la propria onorabilità 4 dipingere a macchie di colore ||| macchiarsi v. intr. pron. coprirsi di una macchia o di macchie (anche fig.): la tappezzeria si è macchiata per l'umidità; macchiarsi di una colpa; etimologicamente il verbo risulta essere dal lat. maculare, denominale di . di macula (macchia); e son questi i sinonimi della voce in epigrafe; ma abbiamo anche altri due verbi quantunque piú spesso usati in altra accezione e/o figuratamente e sono: infangare, v. tr. 1 coprire, sporcare di fango: infangarsi le scarpe 2 (fig.) disonorare: infangare il nome della famiglia ||| infangarsi v. rifl. o intr. pron. 1 coprirsi, sporcarsi di fango: in quelle pozzanghere mi sono tutto infangato 2 (fig.) coprirsi di disonore: infangarsi con azioni disoneste. etimologicamente il verbo risulta essere un denominale di fango (voce di origine germ., dal got. fani 'melma') con la protesi di un in illativo (prefisso che continua il lat. i°n-, derivato dalla prep. i°n 'in, contro, dentro, sopra', che compare in molte parole di origine latina o formate modernamente, e spec. nella derivazione di verbi da sostantivi, aggettivi o altri verbi (buca: imbucare; pallido: impallidire; mettere: immettere); ha per lo più il valore di 'dentro, sopra' (inabissare, inalberare), talora con riferimento a una trasformazione (ingiallire) o con valore intensivo (incominciare)). infamare v. tr.sinonimo del precedente [dal lat. infamare, der. di infamis «infame»]. 1. Rendere infame, coprire d’infamia, disonorare: la sua vita disonesta l’aveva infamato; nel rifl.: infamarsi con dissolutezze, con gravi colpe. 2. Screditare il nome di qualcuno con accuse disonoranti o comunque lesive del suo onore (sinon. di diffamare, che ha però nel linguaggio giur. un sign. più specifico, e indica piuttosto l’opera, l’attività di chi diffonde le accuse, che non l’effetto che queste hanno sull’onore della persona): i. con calunnie, con gravi rivelazioni; i. presso i cittadini o nell’opinione pubblica. ◆ Part. pres. infamante, anche come agg., che copre d’infamia, di disonore: vita, contegno infamante; vizî infamanti; accuse, voci infamanti. Nel medioevo fu detta infamante la pena che colpiva d’infamia colui che l’aveva subìta, indipendentemente dalla qualità e gravità del crimine commesso. ◆ Part. pass. infamato, anche come agg., coperto d’infamia, che ha cattivo nome (in questa seconda accezione, se riferito a luoghi, a ambienti, è più com. malfamato, che è tuttavia meno grave).3 sporcare (ma solo in senso figurato). Tutti i verbi fin qui presi in considerazione,come si evince dalle definizioni,e se si lasciano da parte quelli che si usano in senso figurato, risultano essere dei semplici sinonimi pressoché generici imprecisati ed indeterminati; non cosí per il napoletano dove accanto ad un generico allurdà v. tr. [denominale dell’agg.vo lordo (sporco) dal lat. tardo lurdu(m), per il class. luridu(m) 'livido, pallido' con protesi di un ad→al(per assimilazione regressiva) intensivo] 1Rendere lordo, imbrattare di materie repellenti;ma anche, semplicem.: 2sporcare, insudiciare; 3(fig.), insozzare moralmente, spec. in frasi di senso rifl., coprirsi di disonore, rendersi responsabile di gravi colpe o delitti; accanto ad allurdà abbiamo molti e circostanziatissimi verbi usati spesso nei loro variegati significati traslati o estensivi: ammacchià . tr. [ dal lat. maculare, der. di macŭla «macchia»con protesi di un ad→am(per assimilazione regressiva) intensivo] – 1. a. Sporcare, imbrattare con una o piú macchie:ammacchià ‘a carta, ‘o mesale (macchiare la carta, la tovaglia; hê ammacchiato ‘o cartularo ‘e gnosta, ‘a camicetta cu ‘o rrussetto; te sî ammacchiato ‘e ddete, m’aggio ammacchiato ‘o bbasso cu ‘a frutta(ài macchiato il quaderno d’inchiostro, la camicetta con il rossetto; ti sei macchiato le dita; mi sono macchiata la gonna con la frutta). Anche unito alla particella pron., con valore di rifl.: vide comme te sî ammacchiato!(guarda come ti sei macchiato!); o di intr. pron.:’o libbro s’è ammacchiato ‘e ummerità( il libro si è macchiato per l’umidità). 1. b. fig. In senso morale, corrompere, disonorare: ammacchià ‘a cuscienza, ll’annore, ‘a nnummenata(macchiare la coscienza, l’onore, la reputazione); anche rifl.: ammacchiarse ‘e ‘nfamità(macchiarsi d’infamia); s’è ammacchiato ‘e ‘na granne fetenzia!(si è macchiato di una grave colpa!). 2. Aggiungere a una bevanda una piccola quantità di altro liquido, per correggerne il sapore, alterarne il colore, ecc.: ammacchià ‘o ccafè(macchiare il caffè), aggiungendovi un po’ di latte; m. il latte, aggiungendovi un po’ di caffè. 3. a. ammacchià ‘o lignamme, ‘o muro (macchiareun legno, un muro), dipingerli in modo da imitare le macchie naturali di legni pregiati o di marmi. b. Raro, con uso assol., stendere il colore a macchie, con riferimento specifico alla tecnica pittorica usata dai macchiaioli. 4. (in senso traslato) nascondere, infrattare ammacchià ‘e sorde (nascondere i soldi) nel senso di sottrarli alla vista altrui quasi fossero nascosti in una macchia(boscaglia fitta, di difficile accesso);◆ Part. pass. ammacchiato, anche come agg.: ‘nu mesale ammacchiato, ‘nu marmulo ammacchiato(una tovaglia macchiata, unmarmo macchiato), tipo di marmo che presenta macchie più o meno larghe e intense, a contorno curvilineo e sfumato;latte, cafè ammacchiato(latte, caffè macchiato); spavette ammacchiate, riso ammacchiato(spaghetti macchiati, riso macchiato), conditi in bianco, con l’aggiunta di poca salsa di pomodoro. In araldica, attributo della luna e del crescente caricati di macchie nere o d’altro smalto, e di animali, come la pantera e la salamandra, con macchie di smalto diverso da quello della pelle. ‘mbrassecà v. tr. antico e desueto, ma specifico e determinato; bruttare, imbrattare con preciso riferimento alle polveri di carbone, di terra o di ferro che imbrattino le pareti interne di camini, cappe fumarie e/o degli strumenti di lavoro (caldaie, storte etc.) durante le fusioni dei suddetti materiali; per ampliamento semantico fu usato anche per indicare lo sporcarsi degli spazzacamini le cui mani e volti risultavano, al termine del lavoro, ‘mbrassecate = imbrattati di fuliggine. Etimologicamente è un verbo denominale (con protesi di un illativo in →’m (davanti alla b o alla p)) del lat. volg. brasĭca→brasseca a sua volta dal germ. *brasa 'carbone ardente', brace. ‘mpacchiare v. tr. anche esso antico e desueto, ma specifico e determinato; bruttare, insozzare, imbrattare con esatto riferimento in primis ai ragazzi che son soliti sporcarsi di cibo o bevande e poi per traslato anche confondere, abbindolare, rabberciare, aggiustare alla meno peggio, con riferimento a cose o oggetti riparati, ma non rifiniti .Non semplicissimo è chiarire il passaggio semantico dall’imbrattare/arsi al confondere, abbindolare o al rabberciare, aggiustare alla meno peggio, tuttavia mi ci proverò dicendo che come il cibo con cui ci si impacchia imbrattandosi, tende a coprire e quasi nascondere volto, mani o abiti rendendoli pressappoco confusi, cosí è l’azione di chi confonda il prossimo impacchiandolo tentando cioè di abbindolarlo con azioni che nascondono secondi fini; ugualmente il passaggio semantico dall’imbrattare allo aggiustare alla meno peggio, si spiega con il fatto che chi rabbercia accomoda, mette a posto alla meglio non fa mai un lavoro pulito o rifinito,ma si contenta di sgrossare, abbozzare lasciando il pezzo cosí lavorato, non del tutto netto, ma spesso sporco, macchiato di colle e/o affini, purché funzionante e ripristinato all’ uso dovuto. Etimologicamente il verbo ‘mpacchiare/à è un denominale del lemma pacchio/a (cibo generico, ma segnatamente abbondante, quello che può comportare di macchiarsi, insozzare) da un latino patulum onde pat’lum → pàclum → pacchio; ‘mpapucchià: v. tr.antico, ma ancóra in uso soprattutto in senso traslato insozzare, imbrattare e per traslato imbrogliare; verbo che è di medesima portata del precedente, sia nel senso di insozzare, imbrattare, che in quello traslato di imbrogliare, verbo cioè di medesima portata sia come significato di partenza che come sviluppo semantico; etimologicamente se ne differenza in quanto il precedente ‘mpacchiare/à fa riferimento – come visto – a pacchio/a, ‘mpapucchià è invece da collegarsi ad un in→’m + papocchia che è in primis la pappa molliccia, brodosa (ben atta ad insudiciare) e per traslato l’intrigo, l’imbroglio (anche essi atti ad insudiciare un rapporto interpersonale); etimologicamente papocchia è, attraverso il suffisso occhia, il dispregiativo d’un latino papa che indicò appunto la pappa per i pargoli. ‘mrattare/’mbrattare doppia morfologia d’un unico antico verbo trans.antico, ma non desueto, specifico e determinatocon esatto riferimentoallo 1 sporcare con liquidi, sostanze appiccicose e sim.:’mbrattà’nu vestito ‘e gnostia (imbrattare un abito d'inchiostro) |’mrattà ‘e ttele, ‘e mure o ‘e ccarte, ‘e fuoglie (imbrattare le tele, i muri o le carte, i fogli), (fig. spreg.) essere un cattivo pittore o scrittore | ’mbrattarse ‘e mmane ‘e sanco (imbrattarsi le mani di sangue), (fig.) commettere un omicidio 2 sporcare con immondizie: ’mrattà ‘a strata (imbrattare la strada); 3 (fig.) disonorare, macchiare: ’mrattà ‘o nomme d’’a famiglia (imbrattare il nome della famiglia) ||| ‘mbrattarse v. rifl. sporcarsi, insudiciarsi: ’mbrattarse ‘e lóta (imbrattarsi di fango). ‘nchiaccà/are v. tr.antico, ma ancóra in uso soprattutto nel senso ristretto di imbrattare di colori le tele, i muri o le carte,le mani, i fogli; in senso piú generale il verbo vale insudiciare, lordare irrimediabilmente; in senso traslato vale anche, come il precedente ‘mpacchiare, confondere, abbindolare, rabberciare, aggiustare alla meno peggio, con riferimento a cose o oggetti riparati, ma non rifiniti .In questo caso è piú semplice chiarire il passaggio semantico dall’imbrattare al confondere, abbindolare o al rabberciare, aggiustare alla meno peggio, dicendo che come il cattivo pittore con i suoi maldestri colori imbratta tele o mani ‘nchiaccando o ‘nchiaccandosi, tende a coprire e quasi nascondere volto, mani o abiti rendendoli pressappoco confusi, cosí è l’azione di chi confonda il prossimo impacchiandolo tentando cioè di abbindolarlo con azioni che nascondono secondi fini; ugualmente il passaggio semantico dall’imbrattare allo aggiustare alla meno peggio, si spiega con il fatto che chi rabbercia accomoda, mette a posto alla meglio non fa mai un lavoro pulito o rifinito,ma si contenta di sgrossare, abbozzare lasciando il pezzo cosí lavorato, non del tutto netto, ma spesso sporco, macchiato di colle e/o affini, purché funzionante e ripristinato all’ uso dovuto. Piú complesso è lo stabilire l’etimo della voce: qualcuno (D’Ascoli) pensa ad una sbrigativa ma non spiegata onomatopea clacc→chiacc con protesi d’un in→’n illativo; qualche altro (Giammarco) meglio ipotizza un in→’n + placca→chiacca (olandese placken) e Jandolo – infine – pensa ad un lat. imblancare che però trovopoco convincente atteso che non è détto che l’imbrattarsi o l’imbrattare debba avvenire (solo) con il colore bianco. Penso che di tutte le proposte la migliore resti quella di Ernesto Giammarco anche se piú che dall’olandese placken penso che placca derivi dritto per dritto dal fr. plaque lingua che trovo piú vicina e praticata dell’olandese al napoletano. ‘nchiavecà v. tr.antico, ma ancóra in uso quasi (esclusivamente nella forma riflessiva ‘nchiavecarse) quantunque non nel significato originario e volgare che fu quello di lordare di escrementi bensí in quello piú generico di imbrattare con immondizie e/o generiche lordure, sudiciumi varî, cose sporche ed untuose. Verbo etimologicamente denominale del s.vo chiaveca (dal lat tardo clavica(m), per il class. clovaca(m).)con protesi d’un in→’n illativo; ‘nfeccià v. tr. ed intr. antico,e desueto in uso quasi esclusivo nella forma riflessiva ‘nfecciarse); nel significato originario e primario valse: lordarsi, imbrattarsi bocca e/o viso con la feccia del vino; estensivamente valse avvinazzarsi, ubriacarsi, inebriarsi, sborniarsi, sbronzarsi, eccitarsi. Verbo etimologicamente denominale del s.vo feccia (dal lat. volg. *faecea(m), deriv. del class. faex faecis 'feccia, sedimento')con protesi d’un in→’n illativo; ‘nfardà v. tr.antico, ma ancóra in uso sia pure nel solo significato secondario; in primis valse:insozzare,sporcare e poi, in un’accezione secondaria, anche dar fastidio, ripiegare e cioè dare luogo all’operazione detta infaldatura, operazione finale nella produzione dei tessuti, consistente nel piegare in falde sovrapposte la pezza del tessuto; quest’ultima accezione che compendia un’azione lunga, noiosa e fastidiosa, spiega semanticamente il passaggio del verbo a margine al significato di infastidire, dar fastidio; il verbo ‘nfardà deve il suo significato primo di insozzare, sporcare al fatto che etimologicamente è verbo ricavato da un in→’n (illativo) + il s.vo farda che in napoletano (con etimo dall’ ant. francone fard) vale escremento, sterco; il passaggio ad infaldatura è dovuto invece alla confusione popolare del s.vo fard con farda (falda) che è dal gotico falda= piega. nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà tre morfologie leggermente diverse di un'unica voce verbale attestata sia come nquacchià che come nguacchià/ mentre la terza forma nquacchiarïà non è che una forma intensiva del primo nquacchià; i verbi (che etimologicamente ànno un origine onomatopeica) ànno il loro significato primo di: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare; e da essi verbi si derivò la voce di doppia morfologia nguacchio/nquacchio= pastrocchio e poi situazione intricata; imbroglio, tenendo presenti le accezioni summenzionate, rammento che la parola nguacchio/nquacchio fu usata per indicare quegli inopinati sgorbi e/o macchie d’inchiostro che – complici la distrazione, l’inchiostro ed il pennino della penna comune – lordarono quaderni e libri al tempo (1950) delle scuole elementari; quando poi (1955) con l’avvento della penna biro che mandò in soffitta inchiostro, calamaio, pennini e penne comuni, divenne desueta anche la parola nguacchio/nquacchio essa venne sostituita da spirinquacchio usata per indicare non lo sgorbio o la macchia casuale, quindi l’involontario errore, quanto quel ghirigoro voluto e cercato prodotto per saggiare se l’inchiostro contenuto nella cannuccia di plastica della penna biro fosse ancora sufficiente o sufficientemente fluido per permettere di scrivere; poiché per saggiare la scorrevolezza e fluidità del detto inchiestro, si muoveva in maniera piú o meno circolare la penna tenuta rigidamente perpendicolare al piano di scrittura, la traccia che se ne ricavava era di forma spirale, di talché il disegnino ottenuto era pur sempre ‘nu nguacchio, ma in quanto di forma spiraleggiante, finí per esser definito spirinquacchio/spiringuacchio; la parola napoletana nguacchio o nquacchio oltre ai cennati significati, à poi un suo significato estensivo che è quello di: situazione intrigata, pasticcio di difficile soluzione ed ancóra infine deflorazione con conseguente fecondazione di una giovane che consenzientemente, da nubile, si sia fatta possedere da un innamorato; nelle cennate due accezioni di pasticcio di difficile soluzione, situazione intrigata la parola è trasmigrata pure se in non tutti, in molti dei piú corredati vocabolarî della lingua italiana dove è diventata: inguacchio; ugualmente un significato estensivo ànno i verbi nguacchià/nquacchià che nella parlata napoletana vengono usati per indicare oltre che i cennati: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, anche il mettere in atto un pasticcio di difficile soluzione,una situazione intrigata, deflorare una ragazza ed infine l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro, fatti che sostanziano in ogni caso un lordura, una cosa sporca o anche un errore (ovunque e sempre occorrono misura e moderazione, secondo il détto: l’esagerazione è difetto!); molta meraviglia à destato in me il fatto che mentre abbia incontrato in molti dizionari della lingua italiana il termine inguacchio, in nessuno vi ò ritrovato il verbo da cui dovrebbe essere scaturito: inguacchiare… Misteri della lingua italiana e di taluni soloni linguisti che la fanno, i quali considerano (cfr. Treccani – Garzanti etc.) il verbo inguacchiare napoletano, ma fanno italiana la voce inguacchio che è derivata di inguacchiare! Faccio notare in chiusura dell’esame delle voci nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà nonché di nguacchio/nquacchio, faccio notare - come ò già détto - che trattasi di voci di origine onomatopeica e che la n d’attacco anteposta a quacchià/guacchià/quacchiarïà nonché a guacchio/quacchio, è sempre e solo una consonante eufonica migliorativa del suono delle parole che da quacchià/guacchià/quacchiarïà approdano a nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà nonché da guacchio/quacchio, a nguacchio/nquacchio; si tratta di una consonante eufonica e non di un residuo di un in→’n per cui non à senso anteporre a nguacchio/nquacchio, nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà un inutile ed incoferente segno diacritico (’) che presupporrebbe la caduta della vocale i di in; nelle voci nguacchio/nquacchio,nquacchià/nguacchià/ nquacchiarïà non esiste nessun in→’n d’avvio ed è assolutamente erroneo scrivere‘nguacchio/’nquacchio,’nquacchià/’nguacchià/ ’nquacchiarïà come invece ò trovato in numerosi calepini del napoletano e persino nel grande dizionario della lingua italiana Garzanti che, con colpevole approssimazione sotto il lemma inguaggio testualmente scrive: Dal napol. 'nguacchià 'sporcare, lordare'. ‘nzuzzí/’nzuzzià/’nzuzzunïà tre morfologie leggermente diverse di un'unica voce verbale tr. attestata sia come ‘nzuzzí che come ‘nzuzzià/ mentre la terza forma ‘nzuzzunïà non è che una forma intensiva di ‘nzuzzià; i verbi (che etimologicamente risultano essere attraverso una protesi di un in→’n illativo comportante la necessaria indicazione del segno (’) diacritico in avvio di voce, risultano essere un denominale dell’agg.vo zozzo(= sporco) dal provenz. sotz, che è dal lat. sucidu(m) 'grasso, sudicio') ed ànno il loro significato primo in : sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare con riferimento al comportamento disattento o negligente che può compartare il rendere sozzo, l’insudiciare, lo sporcare qualcosa anche involontariamente, ma colpevolmente per incuria o disattenzione nell’agire: zuzzià ‘nu vestito (insozzare un vestito) 2 (figuratamente) macchiare, oltraggiare, coprire di vergogna, di disonore: ‘nzuzzunïà ‘a ‘nnummenata ‘e quaccheduno (insozzare la reputazione di qualcuno) ||| ‘nzuzzunïarse v. rifl. o intr. pron. 1 sporcarsi, lordarsi: ‘nzuzzunïarse ‘e ‘rasso, ‘e scarpe se songo ‘nzuzzunïate ‘e mota (insozzarsi di grasso; le scarpe si sono insozzate di fango); 2 (fig.) macchiarsi moralmente: ‘nzuzzunïarse d’ ‘e ppeje fetenzíe (insozzarsi dei peggiori delitti). Scacà/Scacazzà/iare anche in questo caso abbiamo a che fare con tre morfologie leggermente diverse di un'unica voce verbale tr. attestata sia come scacà che come scacazzà/ mentre la terza forma scacazziare/ià non è che una forma intensiva- frequentativa di scacazzà; v. intr. (volg.) defecare con frequenza o qua e là (détto spec. di animali). v. tr. (volg.) insozzare defecando. (détto spec. di lattanti che ripetutamente lasciano le loro deiezioni nei pannolini). Etimologicamente tutti e tre i verbi sono deverbali di cacà/are con una S intensiva in posizione protetica e con una volta l’infisso azz intensivo-peggiorativo, e l’altra con gli infissi azzi intensivo-frequentativi. Tégnere v. tr. usatissimo sia nei significati primarî (sub 1 -2 3) che in quelli traslati (sub 4 etc.) 1 dare a una cosa un colore diverso da quello che ha: tégnere ‘na giacchetta ‘e bblu(tingere una giacca di (o in) blu); 2 (ed è il caso che ci occupa)macchiare, sporcare:’o ccravone m’ à tignuto ‘o vestito (il carbone mi à tinto, mi à sporcato il vestito) | (assol.) nell'uso fam., spandere colore, e quindi sporcare di colore: ‘na stilografica, ‘na vesta ca tegneuna stilografica, una veste che tinge 3 (lett.) colorare: ‘o sole ca tramuntava tigneva ‘o cielo ‘e russo(il tramonto tingeva il cielo di rosso); 4 scroccare soldi o altro chella femmena à tignuto bbuono e mmeglio ‘a famiglia d’isso ( quella donna à scroccato molti benefici alla famiglia del suo sposo) ||| tégnerse v. rifl. 1 imbellettarsi | tingersi i capelli 2 (fam.) macchiarsi, sporcarsi di colore: te sî tignuto sano sano, va’ a lavarte!(ti sei tutto tinto, va' a lavarti!) v. intr. pron. assumere un determinato colore, colorarsi (anche fig.): ‘e nnuvole se tignevano ‘e rosa(le nuvole si tingevano di rosa); ‘nu ricordo ca se tegne ‘e nustalgia(un ricordo che si tinge di nostalgia). Prima di accennare all’etimo del verbo in esame voglio soffermarmi sulla semantica delle singole accezioni: per quelle sub 1,2,3 nulla quaestio; è intuitiva; piú complesso spiegare la semantica dell’accezione sub 4, tuttavia mi cimenterò nell’impresa dicendo che l’accezione: scroccare soldi o altro di tégnere nel parlato della città bassa nasce da un equivoco; in effetti il verbo che negli antichi scritti del napoletano indicava lo scroccare fu fégnere (fingere, mentire, simulare bisogno per ottenere gratuitamente degli aiuti e/o beneficî); quando il verbo fégnere nell’accezione or ora rammentata pervenne sulla bocca dell’ illetterato popolino della città bassa, esso fégnere venne confuso con il piú noto ed usato assonante tégnere e si finí per riferire anche a quest’ultimo verbo l’accezione ch’era propria di fégnere: scroccare soldi o altro fingendo, mentendo, simulando bisogno; e ciò è tanto vero che dei molti compilatori di calepini del napoletano solo il D’Ascoli, studioso di estrazione popolare ed aduso a pescare nel parlato e non solo nello scritto, registra tégnere nell’accezione che fu di fégnere. Pacifica l’etimologia di tégnere che è una lettura metatetica del lat. tingere→tígnere→tégnere come alibi per chiagnere ←plangere - astregnere←a(d)stringere etc. E con ciò penso d’avere, anche questa volta risposto adeguatamente alla sfida dell’amico N.C. e d’avere interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est. Raffaele Bracale

IL VERBO PISCIÀ, I SUOI DERIVATI E LA FRASEOLOGIA

IL VERBO PISCIÀ, I SUOI DERIVATI E LA FRASEOLOGIA Questa volta prendendo spunto dalla richiesta dell’amico carissimo D.C. (i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome)che nel riportarmi il quesito d’ un suo amico, mi à chiesto di illustrare, chiarire ed esaminare il significato l’ uso e l’ origine di un’ antica espressione partenopea (cfr. ultra sub 1); prendendo spunto appunto da tale richiesta mi soffermerò a dire del verbo in epigrafe dei suoi derivati e della relativa fraseologia. Cominciamo dunque con il dire che il verbo piscià vale mingere, orinare ed è derivato dal tardo lat. pitissare→pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià);normale nel napoletano l’evoluzione in sci seguíto da vocale della consonante fricativa dentale sorda o sonora (s) sia scempia che doppia purché seguíta da vocale; e veniamo súbito alle voci derivate dal verbo per agglutinazione (In linguistica l’agglutinazione è la riunione in una sola unità grafica e fonetica di due o piú elementi lessicali originariamente distinti, ma che si trovano spesso insieme in un sintagma (per es., disotto←di sotto , disopra←di sopra , perlopiú←per lo piú, all’ingrosso, ecc.). Il processo, che come fatto grafico è frequentissimo in antiche scritture e che spesso rispecchia fedelmente l’effettiva realtà fonetica (come in ammodo, eppure, ovvero, sebbene, macché, pressappoco, ecc.), à molta importanza nell’evoluzione diacronica in quanto può dare luogo alla formazione di nuove parole, soprattutto per la fusione (detta in questi casi anche concrezione) dell’articolo o di una preposizione, come per es. il region. loppio (da l’oppio, un albero), l’avv. ant. incontanente (dal lat. tardo in continenti [tempore]), l’ant. e pop. ninferno (da [i] n inferno).Rammento ad abundantiam che ad una agglutinazione e falsa deglutinazione dell’articolo si devono le antiche varianti oncenso, onferno per incenso, inferno, sviluppatesi dalle forme lo ’ncenso, lo ’nferno, scritte e pronunciate loncenso, lonferno)dicevo agglutinazione di una voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià/are) con un avverbio o un sostantivo. Abbiamo dunque pisciasotto s.vo ed agg.vo m.le e f.le = letteralmente: chi/ che si minge addosso; la voce nasce come s.vo e vale in primis bimbo/a, piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante; usato come agg.vo m.le e fem.le vale timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a ; schivo/a, chiuso/a,introverso/a insicuro; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con avverbio sotto (dal lat. subtus→suttus→sotto, deriv. di sub 'sotto'; il collegamento semantico tra i significati del sostantivo e quelli dell’aggettivo si colgono se solo si considera il fatto che chi è piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante è di per sé timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a etc e mai potrebbe essere coraggioso/a, audace, intrepido/a, ardito/a, impavido/a audace, disinvolto/a, sicuro/a, deciso/a; piscianzogna s.vo ed agg.vo m.le e solo m.le= letteralmente: chi/che minge strutto; id est pubere, adolescente; non si tratta di un’iperbolicità divertente o ironica (atteso che non è dato a nessuno poter mingere sugna...), ma solo di una rappresentazione icastica di una manifestazione dell’età evolutiva: è allorché un ragazzo abbia raggiunto la pubertà e sia diventato adolescente che può dar luogo, per la prima volta, all’emissione di seme spermatico, quel seme che per il suo colore biancastro e la sua viscidità viene assomigliato allo strutto; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con il s.vo ‘nzogna= sugna, strutto sostantivo sul quale mette conto io mi soffermi alquanto; preciso súbito che la voce napoletana ‘nzogna che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta, come ò fatto ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto. Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, ( cosí erroneamente scritto e non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso. Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. E veniamo alla fraseologia costruita con il verbo in epigrafe; comincio 1)pisciarse dê rrisa letteralmente mingersi dalle risate cioè orinarsi addosso per il troppo ridere, id est scompisciarsi, sbellicarsi; 2)si pisce chiaro, ffa’ ‘e ffiche ô miedeco oppure 2 bis) si pisce chiaro futtatenneoppure fruculeatenne d’ ‘o miedeco = letteralmente nel primo caso Se mingi chiaro fa’pure gli scongiuri alla vista d’un medico o scherniscilo (perché non ne avrai bisogno); nel caso sub 2 bis Se mingi chiaro (addirittura) impípitane del medico (perché mai ne avrai bisogno); fa’ ‘e ffiche! =fai le fiche!;fà ‘e ffiche= far le fiche è un gesto internazionale di scongiuro e/o di scherno dileggio che à una tradizione millenaria ed appartiene ad un po’ tutto il mondo; consiste nell’introdurre il dito pollice della mano destra serrata a pugno,tra l' indice ed il medio e tenerlo ben dritto accompagnando il gesto con l’agitar la mano con un movimento ripetuto dal basso in alto nell’intento di mimare il coito in atto; rammento in proposito che trattasi di gesto che è diffusissimo ed addirittura nei paesi dell’America meridionale (Brasile in testa) si è soliti produrre delle minuscole statuine apotropaiche in legno di bosso riproducenti il gesto che è stato ovunque abbondantemente studiato e commentato;qui mi limito a rammentare che un tempo in origine il gesto non ebbe significato di scherno o scaramantico, ma fu un palese invito all’atto sessuale rivolto da un uomo alla sua donna o ad un’occasionale conoscenza; va da sé che linguisticamente parlando ‘e ffiche è il pl. di ‘a fica che in napoletano è sí il s.vo f.le usato per indicare il frutto del fico, ma è altresí il s.vo f.le volg. che è uno dei numerosi sinonimi(cfr. alibi) sia del napoletano che dell’italiano dell’insieme degli organi genitali esterni femminili:1 vulva;semanticamente la fica= frutto del fico frutto rosso e carnoso è preso a riferimento per indicar la vulva , cosí come l’altrove usato pummarola = pomodoro, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché sia la vulva che il pomidoro o il frutto del fico ànno il loro interno rosso vivo; | 2 (estens.) donna bella e desiderabile. Etimologicamente è voce dal lat. tardo fīca per fīcus «fico, frutto del fico»; il sign. fig. era già nel gr. σῦκον «fico». futtatenne e fruculeatenne Queste in esame sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2 pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m. e f. , sing. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne. Ma torniamo alle due espressioni in esame e dandone il significato che ovviamente necessiterà d’un giro di parole; il napoletano infatti spessissimo è piú stringato ed gli occorrono meno parole dell’italiano per esprimere incisivamente un concetto. Nella fattispecie sia con l’espressione fruculeatenne (che letteralmente è: stropicciatene!) sia con l’espressione futtatenne (letteralmente impípatene!) si intende quasi imporre oppure pressantemente consigliare (ed ecco perché è usato l’ imperativo piuttosto che un piú morbido congiuntivo ottativo...) si intende consigliare, dicevo, colui cui venga rivolta una o ambedue le espressioni di impiparsi di un qualcosa, di tenere in non cale un’accadimento, una faccenda, di non curarsi, di infischiarsi di qualcuno o piú spesso di qualcosa. Piú esattamente l’espressione fruculeatenne(che, mi ripeto letteralmente è: stropicciatene!) è potremmo dire un modo piú dolce e meno duro, quando non addirittura piú frivolo, per significare il medesimo concetto dell’espressione futtatenne che risulta essere piú dura, salutarmente sanguigna pur se addirittura becera; ambedue gli imperativi in epigrafe risultano, comunque incisivamente piú significativi del corrispondente algido impípatene della lingua italiana! Ora consideriamo piú da presso le due espressioni e cominciamo con - fruculeatenne come ò già detto si tratta di un imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; e vale morfologicamente esattamentestropícciati di ciò, impípa-tene; l’etimo del verbo fruculeà/fruculià affonda nel lat. fricare= strofinare, stropicciare ed estensivamente frantumare in piccoli pezzi ed è a questa estensione che occorre pensare per percorrere la via semantica seguíta per comprendere il passaggio tra il verbo latino inteso come frantumare in piccoli pezzi ed il napoletano fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; in effetti di qualcosa che venga frantumato in minutissimi pezzi, non vale mettere conto, interessarsene per modo che se ne può impipare tranquillamente, cioè quasi fumarsi nella pipa quei minutissimi pezzi. E passiamo a - Futtatenne! Anche per la voce a margine, come ò già détto, ci troviamo a che fare con una voce verbale e cioè con l’imperativo (2° pers. sg.) del verbo riflessivo fotterse-ne= impiparse-ne, infischiarse- ne nella medesima valenza del pregresso fruculeatenne quantunque la voce a margine abbia rispetto alla prima voce in esame un’espressività piú dura, sanguigna, impetuosa, anzi addirittura becera atteso che col verbo di cui è imperativo non richiama la frantumazione di qualcosa in piccoli pezzi di cui disinteressarsi, ma molto piú sanguignamente – direi – chiama in causa una... pratica sessuale (il coito) quasi che la faccenda di cui disinteressarsi sia di nessun conto o non abbia nerbo per cui se ne possa con ogni tranquillità abusare quasi congiungendovisi in un ... rapporto sessuale. In effetti l’etimo del verbo fottere donde il riflessivo fotterse-ne e l’imperativo a margine affonda nel lat. futúere→fúttere (con tipico raddoppiamento della consonante antecedente la ú seguíta da vocale e ritrazione dell’accento) verbo che sta per coire, avere rapporti sessuali oltre che raggirare, imbrogliare. Semanticamente anche in questo caso, come per la precedente voce fruculeatenne occorre pensare che di qualcosa che venga impunemente posseduto carnalmente ad libitum, non vale mettere conto, interessarsene per modo che uno se ne può impipare tranquillamente come si terrebbe in nessun cale un fortuito rencontre con un’occasionale donna. Preciso ancóra, ad abundantiam, che letteralmente la voce a margine vale Infischiatene, Non dar peso, Lascia correre, Non porvi attenzione. È il pressante invito a tenere i comportamenti indicati rivolto a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Rammento che tale icastico, sanguigno invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un offensivo declassamento del loro santo e allora scrissero a caratteri cubitali sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano consigliare al loro santo patrono di non adontarsi per l’offesa ricevuta e rassicuralo, al contempo, che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma e Gli avrebbero in ogni caso tributato tutta la dulía che sin dal 305 anno del martirio del santo vescovo, gli era stata devotamente riconosciuta. 3)SUNNARSE E PISCIÀ DINT’Ô LIETTO = Letteralmente; sognare e mingere nel letto; id est: dar credito ai sogni, spaventarsene al segno di mingere tra le coltri, reputar vere le ombre, prender per sostanza le apparenze, scambiar sogni e realtà. sunnarse = sognarsi trattasi del verbo sunnà =sognare addizionato come frequentente accade della particella pronominalese = si in funzione intensiva e/o espressiva] 1 vedere, immaginare in sogno: sunnà(sognare),sunnarse ‘nu cane a ddoje cape( sognarsi un cane a due teste); sognare, sunnarse ‘e vulà(sognarsi di volare); me songo sunnato ca ire partuto(ò sognato che eri partito); 2 raffigurare nella fantasia come reale; desiderare con viva immaginazione; vagheggiare: sunnarse ‘na bbella casa(sognarsi una bella casa);sunnarse ‘e addivintà ricco (sognarsi di diventare ricco) | con riferimento al carattere irreale dei sogni: nun m’ ‘’o ssonno nemmeno!( non me lo sogno neanche!), non ci penso neanche, non lo farei mai, oppure non posso nemmeno sperarlo; nun mme ll’aggiu sunnato!(non me lo sono mica sognato), è vero, è accaduto realmente; ‘a villa ô mare s’ ‘a sonna, s’ ‘a po’ sunnà!(la villa al mare se la sogna, se la può sognare!), non l'avrà mai; nun sunnarte d’ ‘o ffà(non sognarti di farlo), non farlo assolutamente, non pensarci neanche | con riferimento al carattere divinatorio attribuito ai sogni: nun putevo sunnarmelo(non potevo sognarmelo), non potevo saperlo; chi s’ ‘o ffósse sunnato?(chi se lo sarebbe sognato?) chi poteva prevederlo? ||| v. intr. [ pure in napoletanocome accade per l’italiano il sognare(v. intr.) vuole l’aus. avere, mentre se costruito con la particella pron.,vuole l’aus. essere, ] fare sogni: sonna tutte ‘e nnotte(sogna tutte le notti);aggiu sunnato ‘e mamma mia (ò sognato di mia madre); me so’ sunnato d’ ‘e tiempe passate(mi sono sognato dei tempi passati) | me pare ‘e sunna(mi sembra di sognare), si dice di fronte a cosa straordinaria, imprevista o meravigliosa 'sunnà a uocchie apierte ( sognare a occhi aperti), fantasticare. Voce dal lat. somniare→sonniare→sunnà, deriv. di somnium 'sogno'. dint’ô corrisponde all’italiano nel/nello. Al proposito rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle; dinto è dal lat. dí intro→d(í)int(r)o→dinto 'da dentro'. 4)PISCIÀ ‘NCOPP’Â SCOPA Prima di illustrare, chiarire ed esaminare il significato, l’ uso e l’ origine dell’espressione in esame mi corre l’obbligo d’una precisazione: l’espressione in esame è molto datata, ma stranamente, di essa non si occupa compiutamente nessuno (con una sola eccezione, di cui dirò…), non si occupa nessuno dei numerosi addetti ai lavori o degli appassionati cultori della napoletanità e suoi usi, costumi ed espressioni linguistiche; nessuno: né il D’Ascoli, né Iandolo, né Zazzera, né altri;quest’ultimo (Zazzera) – per la verità – né dà una timida, e peraltro, erronea interpretazione (pur senza chiarire o argomentare) parlando di un generico rimedio da usarsi quale antidoto del nervosismo; l’unico che ne fa menzione nel suo IL NAPOLETANARIO è l’amico avv.to Renato de Falco, ma anche lui ne dà (e ne dirò in sèguito) una spiegazione erronea o quanto meno riduttiva. Mi corre perciò l’obbligo di fare da solo, senza il supporto d’altre penne e/o idee. Pazienza, poco male! Non mi spaventerò per questo. Cominciamo con il dire che tradotta ad litteram l’espressione è: Mingere sulla scopa. e piú spesso è usata nella forma imperativa piscia ‘ncopp’â scopa! ossia mingi sulla scopa! Orbene, lètta cosí semplicemente,nella morfologia con l’infinito l’espressione parrebbe quasi sostanziare, come ipotizza l’amico Renato, un innocuo dispettuccio meschino ed insulso fatto ad altri, come ad esempio, aggiungo io, quello fatto da un ragazzino, un monello che redarguito, sgridato e rimbrottato si vendichi mingendo sulla scopa che forse è stata usata per accompagnare i rimbrotti con qualche sana percossa… Ma le cose non stanno cosí perché l’espressione non è usata quale fatto di cronaca, ossia non è usata per riportare e riferire il comportamento inurbano, dispettoso e di risentimento di un bambino; tutt’altro! L’espressione è usata (nella morfologia imperativa) a sapido provocatorio commento all’atteggiamento d’ un adulto che si dispiaccia, si adonti di/per qualcosa che gli accada e che non sia di suo gradimento; chiarisco con un esempio. Poniamo che un individuo (maschio o femmina, ma piú spesso càpita con una femmina, adusa piú del maschio a risentirsi, mettere il broncio etc.) abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, abbia ricevuto, dicevo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto un danno ed ovviamente se ne dispiaccia, quando non se ne dolga o lamenti adontandosi e piccandosi, a costui/costei provocatoriamente gli/le si può opporre l’espressione dispettosa dell’epigrafe: E piscia ‘ncopp’â scopa! (Mingi sulla scopa!) che però non è lo stupido consiglio di reagire al rimbrotto, all’offesa, al danno con un dispettuccio infantile, quanto la piú seria esortazione a fare buon viso a cattivo giuoco, a sopportare, ad arrangiarsi, a tollerare adattandosi a ciò che avviene. L’espressione di origine rurale, nasce prendendo spunto da un’antica pratica dei contadini che allorché dovevavo pulire l’aia provvedevano a bagnarla abbondantemente per evitare di sollevare polvere e quando non avevano sufficiente acqua per inumidire l’aia, si limitavano a bagnare la ramazza, ottenendo un risultato pressoché simile. Nella fattispecie dell’esempio in esame l’uomo o piú spesso la donna che abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto addirittura un danno,l’indivuduo che cioè non possa bagnare la sua metaforica aia, deve adattarsi a ciò che avviene tollerando, facendo buon viso a cattivo giuoco magari arrangiandosi ad inumidire con il proprio metaforico piscio una metaforica scopa. Posta cosí la faccenda l’espressione assume un significato ben piú pregnante del semplice dispettuccio infantile ipotizzato dall’amico Renato, dispettuccio che mal s’attaglia al comportamento di un adulto. piscia = mingi voce verbale ( qui 2° p. sg.imperativo, altrove anche 3° p. sg. ind. pres. dell’infinito piscià = orinare, mingere derivata dal tardo lat. pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià); ‘ncopp’â = sopra la; è il modo napoletano di rendere la preposizione articolata sulla; rammento che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e. Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta o crasi della preposizione articolataa+’a= alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a +’a/’o/’e→’ncopp’â/ô/ê...) o sotto (sott’a. +’a/’o/’e→sott’â/ô/ê...)...) in mezzo (‘mmiez’ a. +’a/’o/’e→’mmiez’â/ô/ê...)..) vicino al/allo (vicino a ‘o/’a/’e→ vicinoâ/ô/ê ) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati calepini (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. scopa s. f. arnese di forma varia per spazzare il pavimento, in genere consistente in una sorta di grossa spazzola fatta di rami di erica o saggina, oppure di setole o di filamenti di materia plastica, su cui si innesta un lungo manico 'avé magnato ‘o maneco d’ ‘a scopa (aver mangiato il manico della scopa), (fig.) si dice di persona che cammina rigida e impettita |sicco comme a ‘na scopa (magro come una scopa), (fig.) molto magro; voce dal lat. scopa(s) di scopae -arum pl., perché fatta con i rami della pianta omonima. 5)PISCIÀ ACQUA SANTA P’ ‘O VELLICULO = espressione ironica se non sarcastica che letteralmente è: mingere acqua santa attraverso l’ombellico; id est: accreditare (per il gusto però di burlarsene, non di lodarlo) qualcuno di esser migliore di quanto sia in realtà ritenendolo addirittura capace di poter mingere in luogo dell’orina, dell’acqua lustrale attraverso un orifizio peraltro inesistente! La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa. velliculo = ombelico; l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus. 6)VULÉ PISCIÀ E GGHÍ ‘NCARROZZA Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi. per il verbo gghí = andare cfr. ultra sub 8). 7)vulé piscià tutte dint'ô rinale oppure vulé piscià tutto dint'ô rinale Ad litteram: voler minger tutti nell'orinale oppure voler mingere completamente nell’orinale ; in ambedue i casi le espressioni stanno per : pretendere l'impossibile; infatti non a tutti è concesso di fare tutte le medesime cose, come non è possibile che tutti possano mingere nell'orinale, qualcuno dovrà contentarsi di farlo all'aperto e - come i cani - contro il muro. Nell’altra espressione si manifesta l’acclarata certezza che orinando non si può depositare tutto l’orina nel pitale; inevitabilmente si finisce per versarne fuori una parte! rinale s.vo m.le = orinale, pitale, piccolo vaso da notte; voce dal lat. *urinale(m)→rinale per aferesi della u diventata o e deglutinata in quanto inteso articolo: *urinale(m)→ orinale(m)→ ‘o rinale. 8) ‘A SCIORTA 'E CAZZETTA:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE. La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento. jette = andò voce verbale (3ª p.sg. pass. remoto dell’infinito jí= andare); il verbo jí merita una particolare attenzione: Il verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito. Premesso che alibi ò esaminato qualcuna di tali locuzioni, preciso qui che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso ghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno. 9) PARLA SULO QUANNO PISCIA 'A GALLINA! Ad litteram: Parla solo quando orina la gallina! Perentorio icastico monito rivolto a chi (e segnatamente arroganti, saccenti o supponenenti) si voglia indurre al silenzio e a non metter mai lingua nelle faccende altrui; monito che è rivolto, prendendo (però erroneamente) a modello la gallina che pur non possedendo uno specifico organo deputato all’uopo, non è vero che non orini mai, ma compie le sue funzioni fisiologiche in un'unica soluzione attraverso un organo onnicomprensivo détto cloaca. Analizziamo le singole parole, cominciando da quanno: avverbio = in quale tempo, in quale momento; dal latino quando con tipica assimilazione progressiva nd>nn; gallina:tipico animale da cortile, femmina del gallo, piú piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda piú breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; viene allevata per le uova e per le carni (ord. Galliformi); nell’immaginario comune è inteso animale stupido e di nessuna intelligenza e ciò forse perché – avendo testa piccola – si pensa che abbia poco cervello; etimologicamente il nome è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo'; 10) JÍ ASCIANNO CHELLO CA PISCIA ‘A QUAGLIA Ad litteram: Andare in cerca, desiderare, agognare (solo) ciò che minga la quaglia. Ma va da sé che la ricerca o il bisogno, il desiderio, la brama, la cupidigia, la smania, lo struggimento, la bramosia di cui sia accreditato il protagonista dell’espressione non siano quelli che mirano al conseguimento degli escrementi liquidi di una quaglia. L’espressione, nel suo sotteso autentico significato traslato vale infatti: Andare in cerca, desiderare, agognare (solo) quanto di meglio o di piú ricercato e/o raro ci sia e ciò in riferimento al fatto che il il protagonista dell’espressione, quello cioè che va in cerca, desidera, agogna ciò che minge la quaglia è inteso incontentabile, pretenzioso, inappagabile. La faccenda semanticamente si spiega tenendo presente che la quaglia è un uccello migratore diffuso nelle regioni temperate, cacciato e/o allevato per le sue carni prelibate, ma di dimensioni veramente piccole di talché anche le sue deiezioni solide o liquide sono veramente parva res tanto da poterle ritenere scarse, sporadiche quasi rare accostabili per ciò ai desideri dell’ incontentabile che va alla ricerca del pregiato, del ricercato dello straordinario. jí voce verbale inf. = andare; questo infinito del napoletano è una derivazione del lat. ire; con tale infinito jí/ghí nel napoletano esistono numerose locuzioni e per esse rimando alibi. Qui preciso solo che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl che è lloro vanno. ascianno voce verbale gerundio dell’infinito asciare = andare alla ricerca (di qualcosa), ma farlo con intensa applicazione comportandosi quasi come un cane che annusi per trovare la traccia cercata; il verbo asciare donde il gerundio ascianno della locuzione deriva infatti dal latino adflare (annusare) con il tipico mutamento partenopeo FL in SCI come per il latino flos diventato sciore in napoletano. quaglia letteralmente quaglia voce usata per indicare il volatile di cui ò détto, ma anche, alibi, per indicare icasticamente un’ernia addominale, inguinale, o ombelicale, che abbia la tipica forma ad uovo dell’uccello còlto nella posizione di riposo con le alucce chiuse e raccolte su se stesso; la voce nap. quaglia è dall'ant. fr. quaille, che è forse dal lat. volg. *coàcula(m), di probabile orig. onomat. se non, piú acconciamente, da un latino parlato *quà(r)uala→quàglia che richiamava il verso dell’uccello; 11) E GGIÀ, MO MORE CHILLO D’ ‘E PPISCIATORE... NUN PISCIAMMO CCHIÚ! Ad litteram: E già, ora muore colui (che fabbrica)gli orinatoi... non mingiamo piú! Sarcastica espressione esclamatoria usata irridentemente in riferimento si ritenga o sia ritenuto tanto essenziale ed importante da far pensare che se venisse meno la sua operatività si produrrebbero nei terzi molto danno quasi che con il rifiuto da parte del soggetto messo alla berlina, di volere adempiere al proprio ufficio ai terzi fósse precluso di portare a compimento addirittura delle funzioni fisiologiche imprescindibili. Nella fattispecie dell’espressione si ipotizza sarcasticamente che decesso il fabbricante degli orinatoi, addirittura non sia dia piú corso alla minzione! Cosa ovviamente assurda ed impensabile donde l’accezione ironica, il senso caustico dell’espressione. pisciatóre pl. f.le dels.vo m.le sg. pisciaturo 1 in primis e come nel caso che ci occupa orinatoio pubblico, 2 per traslato caustico e furbesco uomo dappoco, cattivo soggetto,vile, inetto, incapace, incompetente, inesperto, buono a nulla. Voce dal lat. pisciatoriu(m); faccio notare che si è usato un plurale femminile di un s.vo maschile per indicare che ci si intende riferire non ai vasi da notte,a gli orinali domestici(che pur avendo il medesimo sg.pisciaturo ànno il pl. m.le pisciaturi), ma ci si intende riferire a gli orinatoi pubblici (che pur avendo il medesimo sg.pisciaturo ànno il pl. f.le metafonetico pisciatore e ciò in ottemperanza del fatto che in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie è ovvio che gli orinatoi pubblici siano piú grandi dei contenuti vasi da notte, degli orinali domestici; per cui per indicare al plurale gli orinatoi pubblici si fa ricorso al pl. f.le metafonetico pisciatóre, mantenento per i contenuti vasi da notte, e gli orinali domestici il pl. m.le pisciaturi). Qui giunto penso proprio d’aver soddisfatto l’amico D.C. ed interessato qualche altro dei miei ventiquattro lettori e metto un punto fermo. Satis est. Raffaele Bracale

IMBROGLIARE,INGANNARE,ABBINDOLARE, INTRIGARE,RUBARE

IMBROGLIARE,INGANNARE,ABBINDOLARE, INTRIGARE,RUBARE Questa volta tento una piú o meno esauriente elencazione dei verbi partenopei che rendono quelli rammentati in epigrafe; prima di cominciare rammenterò la derivazione dei verbi toscani: imbrogliare verbo transitivo che vale: ingannare, confondere, intrigare, avviluppare per modo che l’ingannato, il confuso, l’avviluppato è quasi impossibilitato a venir fuori dalla situazione fonte del suo inviluppo; etimologicamente imbrogliare è con assoluta probabilità da un imbogliare (con successiva epentesi di una erre eufonica) che, a sua volta è da un in illativo + bollire nel senso di confondere (ciò che bolle si mescola talmente che si fonde con e cioè confonde. Non dissimile la strada di abbindolare: propriamente far matassa sul bindolo e metaforicamente ingannare etc. come per imbrogliare; etimologicamente il bindolo (da cui il verbo abbindolare) è un diminutivo del tedesco winde che originariamente fu una macchina che girata da un cavallo serviva per attingere acqua, e poi un molto piú piccolo arnese su cui ammatassar filati; alquanto diverso il verbo ingannare v. tr. 1 operare con frode e malizia ai danni di qualcuno: ingannare il prossimo; ingannare il marito, la moglie, tradire | indurre, trarre in errore (anche assol.): ingannare l'avversario con una finta; l'apparenza inganna 2 deludere: ingannare le speranze, la fiducia di qualcuno | eludere: ingannare la vigilanza 3 (fig.) rendere meno gravosa una situazione o una sensazione spiacevole: chiacchierare per ingannare l'attesa; fumare per ingannare il tempo; cercava di distrarsi per ingannare la fame ||| ingannarsi v. intr. pron. cadere, essere in errore; giudicare erroneamente: ingannarsi sul conto di qualcuno; se non mi inganno, sta per scoppiare un temporale. Per l’etimo occorre riferirsi ad un lat. tardo ingannare, da gannire 'mugolare' e poi anche 'scherzare', con cambio di coniugazione; ed altresí diverso è il verbo intrigare v. tr. 1 avviluppare, intricare: intrigare una matassa 2 (fig.) turbare, imbarazzare: Quel silenzio di Oreste la intrigava (CAPUANA) 3 (fig.) affascinare, interessare, incuriosire: un film che intriga lo spettatore ||| v. intr. [aus. avere] darsi da fare, tramando imbrogli, per ottenere qualcosa; macchinare: intrigare per avere un posto, una nomina ||| intrigarsi v. rifl. intromettersi in faccende poco chiare o che possono creare fastidi; impelagarsi: intrigarsi in un brutto affare | (fam.) impicciarsi, immischiarsi: intrigarsi dei, nei fatti degli altri. Etimologicamente intrigare è una variante di intricare , (dal lat. intricare, comp. di in- illativo e un deriv. di tricae -arum (pl) 'intrighi, imbrogli') variante di origine sett. (per la g al posto della c); non manca poi un influsso del fr. intriguer. Rubare v. tr. 1 appropriarsi in modo illecito di beni altrui; sottrarre ad altri qualcosa, spec. con l'astuzia o con la frode (anche assol.): rubare il portafoglio a qualcuno; mi ànno rubato l'automobile; essere sorpreso a rubare | detto di animale: il gatto à rubato la salsiccia; l'anello della regina fu rubato dalla gazza | rubare lo stipendio, percepirlo senza meritarselo | rubare sulla spesa, sul prezzo, sul peso, aumentarli indebitamente ' rubare a man salva, senza misura 2 (fig.) sottrarre, portar via quanto appartiene ad altri: à rubato il fidanzato all'amica; rubare l'affetto di una persona | rubare un'idea, metterla in opera spacciandola per propria | rubare il tempo a qualcuno, farglielo perdere | rubare ore al sonno, al riposo, dormire, riposare meno del necessario | rubare il mestiere a qualcuno, fare indebitamente o inopportunamente ciò che compete ad altri | rubare il posto a qualcuno, soppiantarlo in quel posto | rubare qualcosa con gli occhi, mostrare di desiderarla molto ' rubare la vista, si dice di edificio che si innalza davanti a un altro, riducendo di molto la vista che si godeva da quest'ultimo ||| rubarsi v. rifl. rec. contendersi: le amiche si rubavano la sposa. Ciò detto veniamo ai verbi napoletani che, senza eccessive o particolari differenze, indicano tutti (con la sole eccezioni dei numerosi verbi che indicano esattamente il rubare e di cui dirò in coda) indicano tutti le azioni tese a confondere, ingannare, avviluppare etc.: - arravuglià: in primis avvolgere e per estensione semantica raggirare, imbrogliare,sottrarre da un basso latino ad-revoljare iterativo del classico volvere; da notare la consueta assimilazione regressiva della d con la successiva r; rammento qui quale deverbale di arravuglià il sostantivo partenopeo arravuogliacuosemo che è il raggiro, l’imbroglio ed estensivamente il saccheggio, il furto esteso fino al totale repulisti; la parola, costruita partendo, come detto dal verbo arravuglià è addizionata del termine cuosemo che non è, come a prima vista potrebbe sembrare, il nome proprio Cosimo quanto – piuttosto – la corruzione del latino quaesumus, nacque come espressione irriverentemente furbesca, in ambito chiesastico, dall’osservazione di taluni gesti sacerdotali durante le celebrazioni liturgiche; - attrappulià e attrappià che nel significato di tender trappole e dunque ingannare sono dallo spagnolo atrapar forgiato su trampa poi trappa e infine trappola = lacciuolo; ambedue i verbi a margine in senso piú esteso significano rubare, involare. - cabbulïà v. tr. tramare, raggirare, quanto all’etimo è un denominale di cabbala s.vo f.le = cabala (dall'ebr. qabbalah, propr. 'dottrina ricevuta, tradizione') 1 (relig.) l'insieme delle dottrine esoteriche e mistiche dell'ebraismo, la cui diffusione ebbe origine nel sec. XII nella Francia merid. e nella Spagna 2 arte con cui, per mezzo di numeri, lettere o segni, si presumeva di indovinare il futuro o di svelare l'ignoto | (estens.) operazione magica; cosa misteriosa, indecifrabile | cabala del lotto, serie di operazioni aritmetiche per indovinare i numeri del lotto 3 (fig.come nel caso che ci occupa ) intrigo, raggiro, macchinazione. - cuficchià che vale: imbrogliare, intrigare e con significato piú circoscritto tradire la propria consorte; il verbo è un denominale di cufecchia/cofecchia s.vo fle derivato dall’agg.vo greco kóbalos (furbo, imbroglione) per il tramite di un neutro pl. poi inteso fle sg. *kobalíc(u)la→ *koba(í)c(u)la→ *kobacla→kobacchia→kofacchia→*kofecchia con tipica alternanza b→f di fondo osco; - fóttere: che è dal basso latino futtere per il classico futuere e che di per sé sta per: possedere carnalmente e metaforicamente imbrogliare e raggirare azioni che contengono l’idea del possesso dell’altrui mente, correlativamente al possesso del corpo altrui espresso dall’atto sessuale; analogo possesso rifacentesi al coire è contenuto nei due successivi verbi che sono: - frecà: che è dal latino fricare = strofinare, quale quello dei corpi durante il coito; - fruculià: ci troviamo anche qui nel medesimo ambito del verbo precedente e dell’azione che esso connota in primis; del resto etimologicamente fruculià è dal basso latino fruculjare frequentativo di fricare; - lefrechïà/ refrechïà che è il vero e proprio raggirare, attraverso la proposizione di cavilli, sofismi, pretesti, scuse id est con intrighi, sotterfugi ed affini al fine di imbrogliare,ingannare etc.; etimologicamente è un verbo denominale del s.vo f.le lefreca/refreca (in primis:pezzetto, minuzia, inezia e poi: cavillo, pretesto, sofisma, scusa); lefreca/refreca è un deverbale del lat. *refricare iterativo di fricare - ‘mbruglià: evidente adattamento locale del nazionale imbrogliare cui, per l’etimo, rinvio; - ‘mballà: letteralmente corrisponde al nazionale: mettere nel sacco e dunque avviluppare, raggirare, confondere, tener costretto; etimologicamente è voce che è pervenuta nel napoletano attraverso il francese emballer alla medesima stregua del toscano imballare che però à conservato il solo significato di mettere in balle, mentre il napoletano ne à dato anche quello estensivo di inviluppare mentalmente; - ‘mpacchià: letteralmente: insozzare, macchiare ed estensivamente poi tutti i significati rammentati di azioni tese all’inganno, all’imbroglio, alla confusione;etimologicamente il verbo ‘mpacchià è un denominale del lemma pacchio/a (cibo generico, ma segnatamente abbondante, quello che può comportare di macchiarsi, insozzare) da un latino patulum onde pat’lum → pàclum → pacchio; - ‘mpapucchià: che è di medesima portata del precedente, sia come significato di partenza che come sviluppo semantico; etimologicamente se ne differenza in quanto il precedente ‘mpacchià fa riferimento – come visto – a pacchio/a, ‘mpapucchià è invece da collegarsi ad un in + papocchia che è la pappa molliccia, brodosa (ben atta ad insudiciare) e per traslato l’intrigo, l’imbroglio; etimologicamente papocchia è, attraverso il suffisso occhia, il dispregiativo d’un latino papa che indicò appunto la pappa per i pargoli; - ‘mprecà: che è il vero e proprio raggirare, attraverso le piú varie strade con intrighi, sotterfugi ed affini e dunque anche il piú generico imbrogliare,ingannare etc.; etimologicamente non è aggiustamento del toscano imprecare che proveniente dal latino in + precari stava per invocare, rivolger preghiere(e solo in senso antifrastico, diventato poi senso principale: lanciare insulti) cose ben diverse dal raggirare; in realtà ‘mprecà è sistemazione dialettale dal catalano in +bregar da cui anche il toscano brigare: ingegnarsi d’ottenere qualcosa con raggiri, cabale e peggio, di identica portata del napoletano ‘mprecà; - ‘mpruzà o ‘mprusà: letteralmente le due diverse grafie del medesimo verbo, starebbero per sodomizzare e solo per traslato, come per i precedenti: fottere,frecà e fruculià vale ingannare, imbrogliare, raggirare; in effetti il verbo, d’origine gergale, è forgiato da un in illativo + la parola proso che appunto, nella c.d. parlesia (gergo dei suonatori ambulanti e/o posteggiatori), è la parola che indica il culo e dunque letteralmente ‘mprusà o ‘mpruzà è l’andare in culo e per traslato l’ingannare, l’imbrogliare, il raggirare etc; sulla medesima parola proso è forgiato il termine ‘mprusatura o ‘mpruzatura e con alternanza p b anche ‘mbrusatura o ‘mbruzatura che sono esattamente il raggiro, l’imbroglio, l’inganno; - ‘mpasturà: letteralmente: truffare in una vendita e piú in generale nei significati in epigrafe; etimologicamente il verbo napoletano è sistimazione dialettale del toscano impastoiare (metter pastoie (dal tardo latino pastoria(m) ed il napoletano, rispetto all’italiano che appunto à pastoia à conservato la erre di ‘mpasturà), intralci,impedimenti; - ‘nfunucchià: che letteralmente è infinocchiare, imbrogliare tentando di far apparir buono o gustoso, ciò che buono o gustoso non sia: anticamente gli osti che servivano ai propri avventori un vino non troppo buono, erano soliti presentarlo, accompagnato con del finocchio fresco, finocchio che à tra le sue qualità quella di migliorare il gusto di taluni cibi e/o bevande assunti dopo d’aver mangiato il finocchio; invalse cosí l’uso di aggiungere a molte preparazioni culinarie, per migliorarne il sapore, del finocchio, specialmente selvatico, sotto forma o di barbe o di semi e nel parlato comune si disse in italiano: infinocchiare ed in napoletano: ‘nfunucchià , questa sorta di imbroglio; - ‘ntapecà: letteralmente: macchinare, tramare e perciò ingannare, imbrogliare; il verbo è un denominale di ‘ntapeca: macchinazione, trama; detta voce, cosí come il verbo che se ne è ricavato sono da un antico italiano: antapòcha voce forense da un identico tardo latino che richiama altresí un greco antapochè usato per indicare una nuova, valida scrittura che ne revochi un’ altra per quanto di per sé valida (e dunque sorta di inganno, raggiro); -ntrammià letteralmente: macchinare,ordire, tesser trame e perciò ingannare; il verbo è un denominale di tramma(dal lat. trama(m) con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale (m) e protesi di una n eufonica che non necessita d’aferisi) trama/tramma : s. f. 1 il complesso dei fili che, intrecciati perpendicolarmente con l'ordito, formano il tessuto 2 (fig.come nel caso che ci occupa) macchinazione, intrigo: ordire, scoprire una trama 3 (fig.) l'insieme delle vicende che costituiscono lo svolgimento di un racconto, un romanzo, un'opera teatrale, un film ecc.: una trama avvincente, semplice, complicata 4 (sport) serie di azioni di gioco ben coordinate compiute da una squadra. macchinazione, trama Percaccià v. trans. letteralmente: procacciare, fare in modo di avere di ottenere, di procurare qualcosa, ma ordendo o tessendo trame e perciò ingannando ;etimologicamente il verbo a margine è formato dalla preposizione lat. pro (a favore, a vantaggio) e dall’infinito cacciare (dal lat. *captiare, der. di capĕre «prendere»); pupà/’mpupà v. trans. doppia morfologia di unverbo antico (registrato però dal solo Andreoli;inopinatamente manca nel D’Ambra) ed abbondantemente desueto; probabilmente fu d’uso gergale tra i ladri; letteralmente: ingannare, abbindolare, raggirare, truffare, giocare, circuire,trattare da bambino/a; per estensione semantica rubare, frodare, fregare con facilità cosa estremamente agevole se operata nei confronti d’un minore; etimologicamente denominale del lat. pupa= fanciulla; - trappulià: letteralmente porre trappole (ad un dipresso come il precedente ‘mpasturà ; il verbo trappulià nel napoletano v’è giunto attraverso lo spagnolo atrapar che è propriamente porre inganni, impedimenti per far cadere; (vedi il prec. Attrappulià); - Trastulià che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi ed estensivamente ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano sia un adattamento del toscano trastullare; non è così, però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva trastulante passato in seguito a definire l’imbroglione tout cour, ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti; - Zannià: verbo che si riallaccia, come origine, agli antichi giochi e trucchi dei saltimbanchi, figurazioni di ben piú dolorosi e gravi inganni e trucchi perpetrati in danno degli adulti; il verbo sta quasi per: comportarsi da zanni(o Giovanni di cui è diminutivo) che fu l’antico servo della commedia dell’arte e delle rappresentazioni popolari, aduso a compier a suo pro inganni, trucchi ed imbrogli. Come ò accennato elenco infine ed esamino tutti quei numerosi verbi napoletani che rendono il rubare dell’italiano; abbiamo: arrubbà v. tr. = rubare in tutti i medesimi significati del corrispondente verbo italiano, ma sarebbe fallace pensare che il verbo napoletano sia stato marcato sull’italiano rubare (che etimologicamente è dal germ. raubon) ; in realtà il verbo partenopeo à un diverso etimo di quello italiano risultando essere un denominale di robba (roba)(dal tedesco rauba =bottino,preda) attraverso un ad→ar per assimilazione regressiva + robba = adrobba→arrobba→arrobbare→arrubbare/arrubbà= darsi al bottino, alla preda; accrastà v. tr. = agguantare,rapinare, sopraffare violentemente; etimologicamente da un lat.parlato *ad-crastare metatesi d’un classico castrare= tagliare; affucà v. tr. = in primis soffocare, affogare, uccidere e poi per ampliamento semantico, ma usato come riflessivo di vantaggio: affucarse appropriarsi di qualcosa, sottrarre; etimologicamente da un lat. volg. *affocare per offocare 'strozzare', da ob e fauces, pl. di faux -cis 'gola', aggraffà v. tr. = in primis abbrancicare, afferrare e poi per ampliamento semantico togliere, levare; arrefulïà in primis assottigliare,ridurre, diminuire di poco in poco e poi per ampliamento semantico togliere,sottrarre e quindi rubare; etimologicamente da un lat. volg.*ad- refilare→arrefilare→arrefulïare, deriv. di filum 'filo'; furà v. tr. = sottrarre,rapinare,rubare con destrezza è voce essenzialmente usata anticamente in poesia; il verbo a margine ripete dritto per dritto il basso latino furare per il classico furari da fur/furis, da cui anche l'taliano furto. grancïà/rancïà v. tr. = sottrarre,rapinare,rubare con destrezza servendosi di arnesi da scasso; etimologicamente è un denominale di grancio = granchio (dal lat. cranciu(m) con lenizione cr→gr e semplificazione di gr→r per la forma rancïà; interessante il passaggio semantico dalle chele del granchio agli arnesi da scasso. scraffignà v. tr. = portare via con lestezza,rapinare,rubare; etimologicamente denominale di graffa/*craffa 'uncino' deriv. dal longob. *krapfo 'uncino' con protesi di una . s(intensiva) Degli altri verbi (attrappulià e attrappià,arravuglià etc.) che per traslato o estensione semantica valgono rubare ò già détto precedentemente, per cui penso di poter annotare il consueto satis est. Raffaele Bracale - Napoli