mercoledì 27 maggio 2015
VARIE 15/434
1.PULICENELLA MURETTE SICCO E PPANZUTO
Icastica antica espressione che a tutta prima parrebbe configurare un ossimoro se considerata nella sua traduzione letterale:Pulcinella morí magro e panciuto, acquista invece tutto il suo pregnante significato che chiarirò qui di sèguito, tenendo presente ch’essa era usata nei tempi d’antan da chi, in presenza di reiterati dispiaceri occorsigli, voleva raccomandare a coloro con i quali fosse in continuo contatto di parentela od affari di non procurargli continui rammarichi, crucci, pene, o tristezze sottolineando il fatto che prima o poi le suddette dispiacenze l’avrebbero fatto morire... In effetti nell’espressione in esame con il termine sicco = secco, magro (dal lat. siccu(m)) si vuol significare chi sia afflitto da inopia, mancanza di sostentamento tale da poter condurre alla morte, mentre con il termine panzuto(denominale di panza forgiata sul latino pantice(m)→panticja(m)→pan(ti)cja(m)→panza con metaplasmo cj→z) = di per sé panciuto, però qui si intende non il satollo, il sazio, il pieno, ma l’idropico,l’affetto da idropisia, morbo che procurava l’enfiagione del ventre enfiagione che nell’inteso comune si pensava fosse dovuta ai dispiaceri.
Riepilogando: per essere compresa nel suo pregnante significato l’espressione in esame va intesa come Pulcinella(cioè io, napoletano pacifico che rifuggo da scontri, litigi e violenze)non posso morire che di fame o di dispiaceri. Atteso che, per grazia di Dio, il sostentamento non mi manca, procuratemi di non farmi dolere o ne morirò!
2.QUANNO CURRETTE ‘A LAVA D’ ‘O SEJE
Ad litteram: Quando corse la lava del sei. Id est: quando si verificò l’eruzione del Vesuvio datata 4 - 21 aprile 1906.
Anche con questa espressione ci si intende riferire ad avvenimenti molto remoti, a tempi lontani ed essa è usata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi e probabilmente irripetibili. L’espressione è alternativa di quella che recita Arricurdarse ‘o cippo a Furcella, ‘a lava d’’e Virgene, ‘o catafarco ô Pennino, ‘o mare ô Cerriglio. ma – come ò anticipato – nell’espressione in epigrafe non si fa riferimento ad una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua, quale quella [cfr. alibi] che interessava la via Vergini bensí ci si riferisce ad un’autentica colata lavica, quella che dalle ore 5.30 circa del 4 e sino a tutto il 21 aprile 1906 interessò il versante meridionale del Vesuvio risultando la maggiore eruzione del Vesuvio nel 20° secolo, eruzione che nel quarto giorno con caduta di cenere e lapilli, oltre ad interessare sensibilmente i paesi vesuviani ad est del vulcano tra cui Ottaviano e S.Giuseppe Vesuviano e Napoli, raggiunse anche la Puglia. Il s.vo f.le lava nell’idioma napoletano, etimologicamente dal lat. labe(m) 'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare', nel caso che ci occupa indica la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma alibi,come ripeto, anche una copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua.
quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd→nn;
currette = córse voce verbale (3ª p. sg. pass. rem. dell’inf. correre dal lat. currere)
seje = sei numero naturale connotante sei unità usato come risultato dell’aferesi della cifra 1906→’6 connotante il sesto anno del 20° secolo; 1906 è un numero naturale corrispondente a diciannove centinaia piú sei unità.
3. CRAVÚGNOLO GRAVUOGNOLO o CRAVUONCHIO Cosí nel napoletano vengono indicati foruncoli, bitorzoli, sporgenze, pustolette presenti in genere sul volto di persone il piú delle volte giovani, foruncoli, bitorzoli, sporgenze, pustolette talora lividi o di colore bruno; à/ànno derivazione da carbunculus diminutivo di carbo/onis; debbo ritenere quindi che “graungelo” o “gravungelo”attestate in Castelvolturno nei medesimi significati siano adattamenti locali delle voci che ò indicato.
4.CURNUTO E MMAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto) etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato fu adoperata per addolcire quasi la più cruda curnuto e scannato.
5.NUN ME FIRO
Letteralmente: non mi fido cioè non mi sento bene, oppure non ò voglia o volontà di fare alcunché; semanticamente l’espressione nel senso di non mi sento bene si spiega sottintendendo delle mie condizioni fisiche cioè non confido, non faccio affidamento sulle mie condizioni fisiche; id est: non sto bene; nel senso di non ò voglia o volontà di fare alcunché si spiega sottintendendo del mio desiderio, della mia volontà cioè non faccio affidamento sulle mia volontà o sul mio desiderio
Etimologicamente il verbo fidà (fidarse) viene dal Lat. volg. *fidare, per il class. fidere 'confidare'.
6.MEGLIO 'NU MINUTO ARRUSSÍ, CA CIENT’ANNE AVVERDÍ
Letteralmente: Meglio arrossire un minuto che diventar verdi (di bile) per cento anni.
Id est: Meglio brevemente vergognarsi (arrossire) (per avere opposto un rifiuto ad una richiesta) che esser costretti a lunghi travasi di bile (per aver acconsentito a qualcosa che ci costerà lungo lavoro, dispendio d’energie, fatica e tormenti morali)
Etimologicamente il verbo arrussí (vergognarsi) viene dall’agg.vo russo (rosso) che è dal lat. parlato *russu(m) per il class. ruber; etimologicamente il verbo avverdí (farsi verde di bile) vienedall’agg.vo vierde= verde che è dal lat. viride(m), deriv. di viríre 'verdeggiare'.
7.CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
sí avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí
1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ;
3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità!
talvolta è usato come s. m. invar.
1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa '
2) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no.
L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore.
Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo
no scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no. A margine rammento che nel napoletano diversi tipi di SI: SI –SI’ - Sĺ E SÎ
Cominciamo con la congiunzione
A)--si corrispondente all’italiano se
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano. Quanto all’etimo il si a margine è dal lat. tardo sí(d), dall'incrocio del class. si'se' col pron. (qui)d 'che cosa'.
Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo
B --SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della lingua napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
C –sî = corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres. o cong. ) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî forse derivata, piú che dalla scrittura contratta dell’italiano sei (il napoletano non è mai tributario dell’italiano!...) etimologicamente dal lat. si(s) che eccezionalmente esige l’indicazione di un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologico, ma utile per distinguere la voce verbale a margine dagli illustrati altri omofoni si presenti nel napoletano.
D - SÍ avverbio olofrastico affermativo ò già detto.
--NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no Avverbio olofrastico negativo corrispondente al no dell’italiano
1) negazione equivalente a una frase negativa, usata spec. nelle risposte (si contrappone a sí): «Ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane» | accompagnato da rafforzativi: proprio no;; certamente no; ma no! | no e pò no!, proprio no | pare ‘e no, sperammo ‘e no, che non sia cosí | dicere ‘e no, negare, rifiutare: à ditto ‘e no; ‘na perzona ca nun dice maje ‘e no, che è spesso incline ad acconsentire, disponibile | nun dicere ‘e no, acconsentire, ammettere, o almeno non escludere: «È ‘na cosa straurdinaria» «Nun dico ‘e no, ma nun se po’ ffà!» | risponnere ‘e no, dare una risposta negativa | fà ‘e no cu ‘a capa, dare una risposta negativa senza parlare | si no, (fam.) altrimenti: aggi’ ‘a jí â casa ampressa , si no sarranno guaje | meglio ‘e no!, meglio ca no per esprimere un parere negativo: «T’’a siente ‘e ascí?» «Meglio ca no!» | comme no!, altro che, eccome: «Te piaceno ‘e sfugliatelle ?» «Comme no!» | E pecché no, come risposta affermativa a una proposta: «Ce jammo ô cinema stasera?» «E pecché no!» | anze ca no, alquanto, piuttosto: ‘na pellicula scucciante anze ca no | sí e nno, neanche, appena: ce sarranno state sí e nno vinte perzone | cchiú ssí ca no, probabilmente sí; cchiú nno ca sí , probabilmente no | forze sí forze no , può darsi | ‘nu juorno sí e ‘nu juorno no, a giorni alterni
2) nelle proposizioni disgiuntive stabilisce una contrapposizione: dimme si t’è piaciuto o no; chi sturia, e chi no; bella jurnata o no , ce vaco ‘o stesso | sí o no?, per esprimere impazienza: viene sí o no?
3) con valore rafforzativo o enfatico: no, nun ce vengo!; nun ce pozzo credere, no!; aggiu ditto ca nun ce vaco, no!; ma no, nun è ppe cchesto! | ma no!, per esprimere sorpresa, incredulità o una forte emozione: «’A quistione è ggià risolta» «Ma no!»; «Aggio avuto ‘na brutta brunchita» «Ma no!»
4) posposto al termine da negare sta per un non anteposto: «È proprio friddo ‘o ccafè tujo?» «Friddo no, ma appena appena scarfato»; «’O vide spisso?» «Spisso no, quacche vota»; «Mi faje ‘o probblema ?» «Fartelo no, ma pozzo aiutà» |
5) con il valore di non è vero?: ti piacesse si fosse accussí, no?; v’aggiu ggià ditto, no,’e ve stà zitte! L’etimo dell’avv. no è dal lat. non.
‘NU/’NO = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘nu/‘no davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una (cfr. ad es.: pòrtane ‘na cannela= portami una candela quale che sia –ma pòrtame una cannela = portami una sola candela) ; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m); l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure, come ò detto, il corrispondente del maschile e neutro no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile; a mio avviso infatti non è ragione concreta e corretta quella, accampata da qualcuno, che mancando nel napoletano scritto la forma intera degli articoli indeterminativi uno/unu- una ed esistendo pressoché solo quella aferizzata no/nu – na sarebbe inutile fornire questi ultimi del segno d’aferesi. Nel napoletano scritto c’è del resto una parola che potrebbe ingenerare confusione con l’art. indeterminativo ‘nu/’no : sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi però nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva, Serio) furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere, a mio avviso nel napoletano scritti gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! E dunque ‘nu – ‘no – ‘na e mai nu – no – na. I grandi autori vanno seguíti quando fanno bene, non quando sbagliano! Si può tentare di capire le ragioni del loro errare, ma occorre evitare di porsi nella scia di chi sbaglia, fosse pure un grande autore!
8.'O GUAIO È DE CCHI 'O SENTE, NO ‘E CCHI PASSA E TENE MENTE.
Il guaio è di colui che l’avverte (sulla propria pelle) (non del terzo) che passando guarda ciò che accade, (ma certamente non à diretta contezza o ne subisce gli effetti deleterei).Va da sé cioè che solo chi subisce un danno o una disgrazia è facultato a dolersene, mentre l’occasionale spettatore delle altrui disgrazie potrà solo superficialmente rammaricarsene o far finta di farlo in quanto non è realmente compartecipe dell’accidente, calamità o sciagura;
guaio s.vo m.le 1 disgrazia; situazione difficile: stà dint’ a ‘nu mare ‘e guaje(essere in un mare di guai);jí cercanno guaje cu ‘o lanterino( andare in cerca di guai con la lanterna)
2 impiccio, inconveniente; danno
voce etimologicamente da un antico tedesco wàwa =disgrazia, sventura ed in senso piú limitato: calamità, fastidio, impiccio;
tene mente = lett.: pone mente, cioè osserva, guarda; espressione verbale formata dall’ unione del s,vo mente con la voce verbale tène (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito tènere/tené = avere, porre,possedere etc. dal lat. teníre, corradicale di tendere 'tendere'); il s.vo f.le mente (che è dal lat. mente(m), da una radice *men- indicante in generale l'attività del pensiero) vale appunto
1 l'insieme delle facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la realtà, di pensare e di giudicare
2 la sede in cui l'attività del pensiero ha luogo; testa, capo
3 particolare attitudine, inclinazione mentale
4 intelligenza, capacità intellettiva
5 il pensiero, l'attenzione
6 memoria
7 il complesso delle idee, delle cognizioni di una persona; anche, la persona stessa fornita di determinate qualità;
nella fattispecie però in unione con il verbo tenere serve a dargli il significato di guardare, osservare, porre attenzione, scrutare, esaminare come chi mettesse al servizio della osservazione tutto l'insieme delle proprie facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la realtà, di pensare e di giudicare.
9. CHE SANGO ‘E CHIAVARDA 'E FIERRO!
Si tratta d’un’ antica espressione esclamativa, piuttosto becera, in uso dapprima tra i reclusi delle carceri di san Francesco nella piazza omonima e successivamente tra il popolino della città bassa,espressione esclamativa, coniata per leggera assonanza, marcandola su altra che si evitava di pronunciare nel timore di incorrere in aggiuntivi rigori di legge per offese ai secondini o forze di polizia.L’espressione originaria fu infatti Mannaggia ô sanco ‘e chi v’afferra con evidente riferimento ai tutori della legge che operavano gli arresti dei delinquenti o a gli addetti alla sorveglianza nelle carceri, addetti che controllavano i detenuti. L’originaria Mannaggia ô sanco ‘e chi v’afferra generò dapprima Mannaggia ô sanco ‘e chiavarda ‘e fierro snellita poi in che sango ‘e chiavarda 'e fierro! portandosi dietro tutto il suo significato di malcelato risentimento, di dolorosa stizza, irritazione, astio, livore, rancore avverso la situazione niente affatto piacevole in cui versavano originariamente i detenuti e poi – nel parlato comune – quelle di chiunque si trovasse a gestire situazioni fastidiose, circostanze sfavorevoli.La chiavarda s.vo f.le che di per sé (cfr. la derivazione dal s.vo chiave (lat. clavu(m)) è 1 (mecc.) grosso bullone che serve per ancorare i basamenti delle macchine fisse o per unire parti di macchine o di strutture
2 tirante a sbarra che serve a contenere una spinta ( di un lettuccio,di un arco, un tetto e sim.)
3 (rar.) grosso chiodo.
Nell’accezione sub 2 la chiavarda era ben nota ai carcerati i cui lettucci ne erano forniti ed il sostantivo suggerí il passaggio da e chi v’afferra a ‘e chiavarda ‘e fierro.
10.VULISSE METTERE ‘O CÀNTERO CU ‘ARCIULO?
Letteralmente: Vorresti porre (a confronto) il pitale con l’orcio? Id est: Avresti forse intenzione, con il tuo errato comportamento,e/o argomentare di entrare in una tale confusione da non essere in grado piú di cogliere le differenze intercorrenti tra un volgare contenitore di deiezioni (il càntaro) ed un signorile, magari pregiato grande vaso panciuto di terracotta usato per conservare olio o derrate alimentari (l’orcio)?
L’espressione in epigrafe ripete, ma in maniera quanto piú colorita ed icastica, il concetto dell’italiano confondere la lana con la seta espressione quest’ultima che, oltre ad essere meno colorita della napoletana, à in sé un che di anòdino, ambiguo, dubbio, enigmatico, oscuro atteso che non è semplicissimo intendere quale tra la lana e la seta sia il filato da tenere in maggior considerazione; al contrario nell’espressione napoletana che non ingenera dubbi, facilmente si coglie quale tra i due sia il contenitore piú nobile; l’espressione napoletana è usata come sarcastico, salace commento al vacuo, vuoto, inconsistente, futile, fatuo ragiomento di uno sciocco sprovveduto che pone a paragone due soggetti o concetti diametralmente opposti e tra i quali non vi dovrebbe essere confusione e/o competizione; l’espressione è usata altresí come salace commento all’ inconsistente, futile, fatuo atteggiamento che tenga uno spocchioso supponente che, privo di ogni acclarata dote fisica (forza,energia, vigore etc. ) e/o morale (cultura,preparazione, istruzione, coraggio etc.) pretenderebbe di entrare in competizione con chi invece di quelle doti sia indubbiamente e patentemente fornito; va da sé che in tale ipotetico confronto il supponente rappresenterebbe il càntaro e l’antagonista l’arciulo.
vulisse letteralmente volessi, ma qui vorresti voce verbale (2 °prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo) dell’infinito vulere/é= volere che è dal lat. volg. *volíre→*vulire→vulére, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui; la voce a margine come détto è la 2°prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo e correttamente andrebbe reso con il congiuntivo volessi , ma spesso il napoletano usa il congiuntivo come condizionale (modo che pure esiste in grammatica napoletana, ma che è raramente usato preferendoglisi il congiuntivo imperfetto ed è presente quasi soltanto negli scritti di poeti canzonieri o giornalisti letterati fattisi condizionare per un motivo od un altro dalla lingua ufficiale: cfr. ad es.: Vincenzo Russo I’ te vurria vasà e Armando Pugliese Vurria;bizzarrie di chi si lascia influenzare se non addirittura mettere le pastoie dall’italiano o di chi vi si abbandona temendo di incorrere in qualche strafalcione grammaticale; un popolano nel suo istintivo eloquio veracemente napoletano non potrebbe mai dire: I’ te vurria vasà” direbbe sempre “I’ te vulesse vasà”, né direbbe “Vurria”, ma sempre “vulesse” con buona pace di V. Russo, A.Pugliese e qualche altro!; per tale motivo l’attesto congiuntivo volessi è stato reso qui con il condizionale vorresti;
mettere = disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. dal lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere';
càntaro s.m. alto vaso cilindrico di terracotta rivestito all’interno ed all’esterno di uno smalto o patina idrorepellente che, dopo l’uso favorisse la pulizia di tale vaso di comodo,contenitore provvisto, per lo spostamento, di due anse laterali e di un’ampia bocca con cordolo doppio su cui potersi comodamente sedere; tale vaso fu usato un tempo per raccogliere le deiezioni solide; per quelle liquide ci si serviva di un piú piccolo e maneggevole contenitore di ceramica patinata o, piú spesso, di ferro smaltato che ebbe come nome alternativamente o ruagno o piú comunemente rinale(voce però piú moderna, evidentemente ricavata per deglutinazione da (o)rinale ;) ruagno fu invece voce piú antica usata ancóra negli anni ’50 sia pure soltanto sulla bocca delle persone piú vecchie: nonni, nonne e/o zii molto anziani,voce usata anche come bruciante offesa(cfr. l’espressione: Sî ‘na scarda ‘e ruagno!(Sei un coccio di orinale!); quanto all’etimo di ruagno dirò che essendo solitamente questo piccolo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare la voce ruagno dal greco ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti derivanti o da cattiva ritenzione idrica, oppure da attacchi diarroici viscerali; tornando alla voce càntaro, etimologicamente esso è un derivato del lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos;rammento che il termine càntaro non va assolutamente confuso con la voce cantàro che è voce indicante una misura: quintale ed è derivata dall’arabo qintar (cfr. l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportare il vilipendio di uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die. A margine di tale espressione rammento che talvolta sulla bocca di napoletani meno consci della propria lingua l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! è resa con una scorretta È mmeglio ‘nu càntaro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo cioè Meglio portare un càntaro in testa che un’oncia in culo espressione che comunque non à una ragione logica in quanto è incongruo mettere in relazione un pitale (càntaro) con un peso (oncia) piuttosto che rapportare due misure: quintale (cantàro) ed oncia (onza)).
arciulo s.m. orcio; come ò già détto: grande vaso panciuto di terracotta, che soprattutto un tempo era usato per conservare liquidi, in partic. l'olio e /o altre derrate alimentari come olive in salamoia, oppure ortaggi bolliti in aceto e conservati sott’olio(melanzane, peperoni, sedano ed altro) oggi si impiega per lo piú come vaso da piante; l’etimo di arciulo è dal lat. *urceolu(m) diminutivo di urce(um).
11. ASPETTÀ CU LL’OVE 'MPIETTO.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
12.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PPISCIÀ E SSE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
13.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze). È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
Una curiosità: Un tempo vi fu chi usava dire e forse piú acconciamente, come chiarirò: Attacca ‘o ciuccio addó va ‘o varrone id est: Lega l’asino sul lato del carro dove la stanga principale tende ad inclinare (affinché faccia acconciamente da bilancino e secondi la fatica del cavallo o mulo che sopportano il peso principale); successivamente visto che l’espressione non era intesa pienamente se non da gli addetti ai lavori di trasporto, essa fu mutata in quella assonante in esame che comunque ne stravolse alquanto il significato originario che connotava un esatto consiglio pratico ed efficiente, mentre nella versione in uso configura solo un consiglio opportunistico!
14.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura) e (poi che il participio è reiterato vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano) significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente e ciò perché qualunque cosa sia détta verde vale immatura perciò non ammorbidita, ancóra duretta, quasi acerba.
15.'NU MACCARONE, VALE CIENTO VERMICIELLE. oppure MEGLIO ‘NU MACCARONE CA CIENTO VERMICIELLE
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli.oppure meglio un solo maccherone, che cento vermicelli Ma le locuzioni non si riferiscono alle pietanze in sé. Il maccherone delle locuzioni adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità, quantunque strictu sensu un maccherone (pasta doppia) sia veramente preferibile per gusto a cento vermicelli (pasta sottile).
16.ACRUS EST!
Letteralmente: E' acre! Cosí esclama un napoletano davanti ad una situazione ineludibile pur essendo difficile da sopportare. Un vecchio sacrestano, per far dispetto al suo parroco, aveva messo dell'aceto nell'ampollina del vino. Giunto al momento di comunicarsi il prete si adontò dicendo, appunto, acrus est - è acre - ed il sacrista replicò: te ll'he 'a vevere (lo devi bere) controreplica del prete: Dopp''a messa t'aspetto dint’ â sacrestia - dopo la messa ti attendo in sacrestia... - il sacrista: Hê 'a vedé si mme truove... - È probabile che non mi troverai... -
17.ALESIO, ALÈ, 'STU LUCIGNO QUANNO SE STUTA?
Letteralmente: Alessio, Alessio, questo lucignolo quando si spenge? La locuzione viene usata nei confronti di chi fa discorsi lunghi, noiosi, oziosi e ripetitivi nella speranza, il piú delle volte vana, che costui punto dal richiamo, zittisca e la pianti. E' da rammentare che in napoletano la parola cantilena si traduce, appunto, cantalesia.
18.AGGE PACIENZA E FATTE JÍ 'NCULO SO' 'A STESSA COSA...
Porta pazienza e lasciati fregare son la medesima cosa!L'invito proposto dalla prima parte della locuzione a sopportare, ad aver pazienza, viene dalla saggezza popolare equiparato a quello ben piú doloroso di lasciarsi sodomizzare!
19.NUN SPUTÀ 'NCIELO CA 'NFACCIA TE TORNA...
Letteralmente: Non sputare verso il cielo, perché ti ritorna in viso.L’imperativo oltre a contenere un’evidente riproduzione della realtà (poi che chi sputi verso l’alto, per l’ineludibile legge dell’attrazione terrestre, si vede ritornare in viso il suo medesimo sputo), è da intendersi nel senso che chi si ponesse contro la divinità,offendendola anche con un ipotetico, figurato sputo ne subirebbe certamente le pronte conseguenze.
20.SCIÚ, Â FACCIA TOJA!
Espressione volgare di schifo e disprezzo, intraducibile ad litteram, che viene pronunciata, accompagnata spesso dal gesto di un finto sputo, all'indirizzo di chi è tanto spregevole da meritarsi di esser raggiunto da uno sputo al volto: infatti la parola sciú altro non è se non l'onomatopeica riproduzione di uno sputo, che - come precisato nel prosieguo della locuzione – à come destinazione proprio la faccia di colui che si intende disprezzare! Talvolta l’espressione è limitata al solo sciú mantenendo però inalterato il senso di schifo e disprezzo contenuto nell’intera espressione.
21.'E FODERE CUMBATTONO I 'E SCIABBOLE STANNO APPESE.
Letteralmente: I foderi combattono e le sciabole stanno appese. La locuzione viene usata per commentare l'inettitudine di taluni che demandano, per indolenza o incapacità, il loro compito ad altri, cercando di esimersi dal lavoro.
22.STÀ 'NCAPPELLA.
Letteralmente: stare in cappella Id est: essere male in arnese, stare mal combinati, anzi stare alla fine della vita , al punto di aver necessità degli ultimi sacramenti. La locuzione fa riferimento ai condannati al patibolo della fine del 1600, che, a Napoli, prima dell'esecuzione venivano condotti in una cappella della Chiesa del Carmine Maggiore, adiacente la piazza Mercato, dove era innalzato il patibolo e nella cappella ricevevano l'estremo conforto religioso.
23.LL' AVIMMO FATTO 'E STRAMACCHIO.
Letteralmente: l'abbiamo compiuto alla chetichella,- o anche di straforo, di soppiatto, quasi "alla macchia", ai margini della legalità. L'espressione di stramacchio deriva pari pari dal latino extra mathesis, id est: al di fuori dei retti insegnamenti, dalle buone regole di condotta e perciò clandestinamente.
24.CHISTO È CCHILLO CA TAGLIAIE 'A RECCHIA A MMARCO.
Letteralmente: Questo è quello che recise l'orecchio a Marco. La locuzione è usata per indicare un attrezzo che abbia perduto le proprie precipue capacità di destinazione; segnatamente p. es. un coltello che abbia perduto il filo e non sia piú adatto a tagliare, come la tradizione vuole sia accaduto con il coltello con il quale Simon Pietro, nell'orto degli ulivi recise l'orecchio a Malco (corrotto in napoletano in Marco), servo del sommo sacerdote.
25.'O CCUMMANNÀ È MMEGLIO D''O FFOTTERE.
Letteralmente: Il comando è migliore del coito. Id est: c'è piú soddisfazione nel comandare che nel coire. La locuzione viene usata per sottolineare lo scorretto comportamento di chi - pur non avendone i canonici poteri - si limita ad impartire ordini e non partecipa alla loro esecuzione.
Brak
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