1.GENNARINO
NUN DICE BUSCIE; DICE ‘NU CUOFANO ‘E FESSARIE.
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice
un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione
indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco
credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un
tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti
fritti (gustosissime frittelle di
patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe piú giusto,
anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente
vengon dette crocchette) che era solito
magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di
una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la
merce, invece, non era cosí buona come
magnificato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo
giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice
un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato
Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e
la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe
è il plurale) = bugia, menzogna ed
altrove piattello ansato per ragger le
candele; nel significato di bugia è parola
derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per
regger candele deriva dal nome della città
algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove,
pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuofano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino
cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona
ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da
nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica;
etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e
poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff.
di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si
ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a ovviamente aperta, la si sia sostituita con
una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma
scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri
Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria
una non migliore fesseria.
2.‘ONNA PÉRETA FORA Ô
BARCONE
Letteralmente donna Pereta fuori (affacciata) al balcone;
ci troviamo dinnanzi ad una locuzione usata con divertente immagine per mettere
alla berlina una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di
malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale,
soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per
metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale
tipo di donna è detto péreta,
soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le
ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine
péreta(nella locuzione a margine usata
per dileggio quasi come nome proprio di persona) è il femminile
ricostruito[per indicare un peto piú duraturo e
piú rumoroso] di pireto (dal b.
lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia, manifestazione viscerale rumorosa
rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria)
fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Altrove
quella donna becera, sguaiata, volgare e sfrontata è detta, volta volta:locena che nel suo precipuo significato di vile,
scadente è forgiato come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente
l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una
forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di
una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locena;
lumera = esattamente lume a gas e lume
a ggiorno =lume a petrolio atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo
quotidiano costume l’accendersi
iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello
simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue
altresí maleolenti tali quale una
pereta.
A margine ed aggiunta alla
espressione in epigrafe fin qui esaminata, ne rammento altre tre che articolate
sui termini loffe e pérete fanno parte del patrimonio popolare nell’icastico
linguaggio partenopeo. E sono:
1) ‘E lloffe d’ ‘e mmonache
addorano ‘e ‘ncienzo!
2) ‘E ppérete d’ ‘a sié Rosa so’
tutte sceruppate!
3) ‘E ppérete d’ ‘a sié Badessa
so’ tutte limungelle fresche!
Mi pèrito di darne la traduzione
letterale chiarendo súbito che si tratta solo di un esercizio letterale atteso
che le espressioni non vanno lette ad litteram, ma nei sensi figurati che
chiarirò. Ecco le traduzioni:
1) Le scorregge delle monache odorano d’incenso!
2) I péti della signora
Rosa sono tutti sciroppati!
3) I péti della signora
Badessa son tutti limoncini
freschi!
E passiamo ai significati
figurati che son quelli con cui vanno intese le espressioni in esame:
1)La locuzione ‘E lloffe d’ ‘e
monache addorano ‘e ‘ncienzo che è da
intendersi come “le mancanze, anche gravi, delle persone consacrate vanno in
ogni caso perdonate” è usata ad
ammonimento ed avvertenza di quelle
persone che, subíto un danno fisico o morale o un’offesa da soggetti consacrati, vorrebbero reagire
vendicandosi ed invece devono cristianamente offrire l’altra guancia atteso che
le offese o mancanze delle persone
consacrate iperbolicamente odorano d’incenso, cioè di solito non son dovute a
cattiveria ma a mero errore.
2)La locuzione ‘E ppérete d’ ‘a
sié Rosa so’ tutte sceruppate!” è usata ironicamente in riferimento ai comportamenti
vanaglioriosi dei vanitosi, superbi, immodesti, boriosi che pur tenendo
atteggiamenti non consoni, irriguardosi o immodesti fan le viste opposte al
segno di voler fare apparire dolci, graditi, gradevoli, piacevoli, soavi
manifestazioni che al contrario son palesemente brutte, sgradevoli, spiacevoli
quando non addirittura disgustose come
sono i peti.
3) Ed infine la locuzione”‘E
ppérete d’ ‘a sié Badessa so’ tutte limungelle fresche!” analoga a quella sub
1)
‘E lloffe d’ ‘e monache addorano ‘e ‘ncienzo è da intendersi come “le mancanze delle
persone importanti e/o dei capi vanno in
ogni caso accettate come ineludibili quali fatti cui non ci si possa opporre ”.
La locuzione è usata perciò ad ammonimento ed avvertenza di quelle persone che subíto un danno fisico
o morale dai superiori o siano vessati da soggetti consacrati vorrebbero
reagire vendicandosi ed invece devono obtorto collo sopportare in silenzio atteso che è del tutto inutile contrastare
avversare, osteggiare, contrariare, contestare, contraddire i capi o i
superiori destinati in ogni caso ad aver la meglio sui sottoposti che devono
rassegnarsi alla figurata iperbole che i peti dei superiori odorino di
limoncini freschi! A margine di tutto faccio notare che nella locuzione sub 1
si fa riferimento a loffe laddove in
quella sub 3 si parla di pérete e ciò accade perché, con ogni probabilità,
nella coniazione delle due locuzioni si è intesi essere piú duri in quella sub
1 atteso che si parla di loffe che, come ò precisato, sono molto piú tremende
delle pérete
Alcune notazioni linguistiche.
Di loffa e péreta ò già détto
antea.
addorano voce verbale (3ª pers. pl. ind. pr.)
dell’infinito addurà = odorare, profumare, olezzare; etimologicamente
addurà è un denominale del tardo lat.
*adore(m) per il cl. odore(m); la a
intesa come un residuo di ad favorí il raddoppiamento espressivo della
occlusiva dentale sonora (d) per cui *adore(m) fu*addore(m) donde addurà.
‘ncienzo s.vo neutro = incenso: gommoresina che si ottiene
praticando profonde incisioni nel tronco di varie specie di piante originarie
dell'India, Arabia e Somalia, e che, bruciata, emana un intenso aroma; fin
dall'antichità è stata usata durante le cerimonie religiose.
2 (estens.) il fumo e l'odore di
quella gommaresina. etimologicamente è voce aferizzata dal lat. tardo, eccl. incĕnsu(m), propr.
part. pass. neutro sost. di incendere 'accendere, infiammare'; da
incĕnsu(m)→(i)ncĕnsu(m)→’ncienzo con il consueto passaggio ns→nz e
dittongazione della ĕ.
sceruppato = sciroppato voce verbale
(part.pass.m.le agg.to)dell’infinito sceruppà = (come nel caso che ci
occupa)sciroppare,conservare la frutta nello sciroppo: sciroppare le pesche |
sciropparsi qualcuno, qualcosa, (fig.) sopportarli, sorbirseli pazientemente;
etimologicamente il verbo sceruppà è un denominale di sceruppo =sciroppo dal
lat. medievale sirupu(m) che fu
dall’arabo sharûb= bevanda dolce; a margine di questa voce rammenterò, come ò
già accennato, che il verbo denominale di sceruppo, e cioè sceruppare/sceruppà
à come primo significato quello di conservare frutta o altro nello sciroppo o
pure indulcare o migliorare con zucchero e/o aromi varie preparazioni, mentre
nel significato figurato ed estensivo (soprattutto nella forma riflessiva
scerupparse) vale sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno ,
sorbirseli pazientemente: scerupparse a uno (sopportare la vicinanza o la presenza di uno(non
gradito); scerupparse ‘nu trascurzo (sorbirsi con pazienza un discorso (noioso) ). Rammenterò che tale
accezione figurata ed estesa del napoletano scerupparse è pervenuta anche nella
lingua nazionale dove il verbo sciroppare corrispondente del napoletano
sceruppà è usato anche figuratamente nel medesimo senso di sopportare, sorbirsi
a forza qualcosa e/o qualcuno del napoletano riflessivo scerupparse.
Ed ora, quasi al termine mi piace
illustrare un’ icastica frase in uso a
Napoli forgiata col verbo sceruppà; essa recita sceruppà ‘nu strunzo e vale ad litteram: sciroppare uno stronzo,
ma va da sé che non la si può intendere in senso letterare atteso che, per
quanto sodo possa essere lo stronzo in esame, nessuno mai potrebbe o
riuscirebbe a vestirlo di congrua glassa zuccherina, e che perciò l’espressione
sceruppà ‘nu strunzo debba esser letta
nel senso figurato di:elevare ad immeritati onori un uomo dappoco e ciò sia che lo si faccia di propria sponte, sia che avvenga su sollecitazione del diretto interessato e
la cosa vale soprattutto nei confronti
di chi supponente e saccente, ciuccio e presuntuoso, pretende arrogantemente di porsi o d’esser
posto una spanna al di sopra degli altri
facendo le viste d’essere in possesso di scienza e conoscenza
conclamate ed invece in realtà è persona che poggia sul niente la sua
pretesa e spesso sbandierata falsa
valentía in virtú della quale s’aspetta
ed addirittura esige d’essere elavato ad alti onori in campo
socio-economico cosa che gli consentirebbe di muoversi con iattanza, boria e presunzione, guardando l’umanità
dall’alto in basso…; tale soggetto con icastica espressività, coniugando al
part. passato l’infinito sceruppà, è detto strunzo sceruppato= stronzo
sciroppato, quell’escremento cioè che quand’anche (se fosse possibile, e non lo
è) fosse ricoperto di uno congruo strato di giulebbe, sotto la glassa
zuccherina, sarebbe pur sempre quel pezzo di fetida merda che è.
Altrove tale soggetto è detto
(restando pur sempre in àmbito
scatologico): pireto annasprato=peto coperto di glassa zuccherina. Ed anche in
tal caso, come per il precedente stronzo sciroppato, ci troviamo difronte ad un
iperbolico modo di dire con il quale si vuol significare che il soggetto di cui
si parla, è veramente un’infima cosa e
quand’anche si riuscisse a coprirlo di glassa zuccherina (cosa che
risulta tuttavia impossibile da farsi) mostrerebbe sempre, sotto la copertura
zuccherina, la sua intima natura di evanescente, ma rumoroso gas
intestinale!
sié è l’apocope ricostruita di
signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur →
sie-gneuse→sié(gneuse)→sié.
badessa e cioè: superiora in un
monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria,
che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma
aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di
abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
E qui mi fermo. Satis est.
3-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE
'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una
cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a
sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di
concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando
intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento
accreditandone quasi la augusta provenienza.
fà scennere = far discendere voci
verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’ per evitare una possibile confusione con il
fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere=
scendere discendere, portar giú derivato
dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce
napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico
usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto
dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat.
causa(m)=cagione che produsse
*cosa(m) ed il verbo *cosare usato in
luogo di causare;
coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso
poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,)
una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per
assumere il nome della borsa che li conteneva
4 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE
Letteralmente: fare con tre fichi
nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a
Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi
esagera e si ammanta di meriti che non
possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza
della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno
delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo
circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8
kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a
pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di
peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese
apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo
deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta
della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria
che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora
in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come
tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo
napoletano.
tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità
piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III:
l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica
che è il frutto del fico, frutto che
invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo
di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa)
anche vulva, vagina con riferimento alla
boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il tutto a
cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel
greco sûkon che indica sia il frutto che
la vulva;
nove agg. num. card. numero
naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è
rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale
metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò
già detto.
5 - FÀ FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un
variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti
riconducibili al primario significato di
vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo
che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col
termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato
altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un
qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine.
Per ciò che attiene l’etimologia,
tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di
puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche
negli altri significati c’è una sorta di
non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce
esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc.
lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m).
6 – FETTIARE O FITTIARE
I verbi in epigrafe(per
l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie
leggermente diverse) sono caduti completamente
in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni
’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani
napoletani.
Essi verbi servirono ad
identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una
persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare
fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di
un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza
infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese,
avances o non chiamasse a propria difesa
un fratello, un cugino, un fidato amico
che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare
altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per
mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se
fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina
di una pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia
delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti
una certa disponibilità economica
e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità
di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che
la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia;
tenendo presente che in napoletano
conserva anche il vocabolo fettíglie
con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il
sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere
(colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente
sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un
infastidire di lontano.
7- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE
SAPE O NUN S’APPURA
Letteralmente:(solo) ciò che non
si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della
gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose
proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto
prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in
presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né
(appurato) cioè verificato;
chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa
lontana da chi parla e da chi ascolta, o
cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg.
*(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo
dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg.
*(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind. presente)
dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo
dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere
saggio',
appura=, viene a conoscenza, si sincera voce verbale
(3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a
conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne
l'esattezza; mettere in chiaro (e nel
linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar=
depurare→verificare.
8 -'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande
mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui
se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia
grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per
nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato
nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto
debole o di scarsa valenza economica-
sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat.
pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi à
dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura,
estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo
grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e
nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale
d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non
avviene ;
magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)
dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da
una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
a margine faccio notare come il successivo
complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice
articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è
introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino
volgare parlato esige per i complementi
oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò
visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato
‘o bicchiere(ò preso il bicchiere)
una a segnacaso che unita
all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione
articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino,
minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa
valenza socio-economica; l’etimo della
voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à
dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o
riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm.
renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla
(cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello,
piccerenèlla(piccino/a);
9 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE
FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è
ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che ,
dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene
disinteressatamente; anzi chiunque faccia
del bene ad un altro, in realtà
mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente
benefica gliene deriverà o potrà
derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare
che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli
cosí del bene; infatti in realtà e
fuor di vane illusioni, il fine
perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto
sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed
affini che dalla macellazione del maiale
si posson ricavare)
puorco sost. masch. = maiale, porco , animale da
ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o
dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche
come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica
dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à
infatti puorco masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)
dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un
lat.tardo in (illativo) +
grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia
plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente
derivante da un tardo lat.
salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e
insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
10 –TE PIENZE CA VACO METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE?
Letteralmente: Pensi forse che io vada tendendo la fune di
notte? Domanda retorica rivolta
sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano
proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è
impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste
non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione
interrogativa la si usa anche nei
confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione
usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro
che chi parla non si può certamente equiparare
a quei masnadieri d’antan che
nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune
nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra
diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé
che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro,
latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di
bottegai, salariati e/o figlioli
incontentabili.
te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.)
dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre
etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare';
propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano
il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi
occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing.
ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’
vaco, tu vaje, isso va) che ànno come
tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va);
mettenno= mettendo voce verbale
(gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc.
con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre,
mettere';
funa= fune, corda, cavo sost. femm.
dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m);
‘e notte= di notte loc. avv. temporale dove ‘e= di
sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la
parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane
sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva
ct→tt.
11 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per
la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio
che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova,
, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro
antico e diretti al Camposanto, per cui
augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito
d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il
protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce
verbale (2° pers. sing. congiunt. pres.
con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre
(accanto al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;
passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di
passus 'passo';
loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio aperti
su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel
medioevo, tale edificio o piú edifici attigui
come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia
dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o –
ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa città di provenienza, nel nostro caso Genova,
che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in
fitto, tenevano i loro traffici e
commerci autoamministrandosi;attualmente
la Loggia di Genova, ubicata un tempo a
Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo
degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto
in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la
Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a
Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo
(la loggia napoletana come
elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del
fabbricato, quasi mai con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in
muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato può essere anche coperto, sporgere da
qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in
muratura) loggia etimologicamente è
dal fr. loge, che è dal lat. tardo
laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova è la città marinara capoluogo della regione
Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia,
Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un
congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e
commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben
delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal
vicereame napoletano;
12 – CHI NUN TENE DENARE, T’’E
‘MPRESTA, CHI NUN TENE FIGLIE T’’E ‘MPESTA E CCHI NUN TENE MARITO NN’ ‘O
CACCIA.
Letteralmente: Chi non à denari,
te li impresta, chi non à figli, te li appesta e chi non à marito, lo scaccia.
Icastica locuzione che, sulle
prime,almeno nella prima e terza delle sue proposizioni, parrebbe
incomprensibile,ma ad un attento esame è pregna di significato nella scetticità
della sua filosofia esistenziale per la quale nessuno è disposto a concedertiun
prestito in denaro, se non colui che ne è privo, solo una donna che non conosca quanto sia importante e
vantaggiosamente profittevole l’avere un consorte, può liberarsene,
scacciandolo e, nella convinzione che chi non abbia figli proprî non possa
essere buon maestro di quelli
d’altri,chi è privo di figli non puó che
corrompere, guastare, depravare, pervertire quegli altrui.
13 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla
Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole
apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e
senza problemi propensa com’è , anche
ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la
locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine
dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò
detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla
Repubblica marinara di Genova, territorio
dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi; il medesimo appellativo se lo meritò uno scrittore nolano tale Michele Somma
che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo
scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi
appunto della Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova,
residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono osteria
la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di
manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a
base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito
accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non
riuscí comunque a soppiantare il ragú e
si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale
della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata
da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile
in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non è riuscita neppure ad affiancare il
famosissimo pesto alla genovese. Ora qui
di sèguito, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg cipolle dorate
1 Kg di Spezzato di manzo adulto (preferibilmente
ricavato dalla pancia o dalla corazza)
o in alternativa 1 kg. di fette
di locena (soggolo) di manzo da cui
ricavare involti (brasciole) imbottiti
di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale, pepe nero
e legati con spago da cucina
una carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo di olio extravergine di oliva
Un pomodoro pelato (facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato
q.s.
600 gr. di rigatoni
1 etto di pecorino possibilmente laticauda grattugiato
Procedimento
Affettate a velo le cipolle,
(piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in
una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti,
eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a
fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare
tutto il liquido; solo quando la cipolle
saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa
volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.
Versare l’altro bicchiere di
vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a
fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al
fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo
alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole
ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo condite i rigatoni lessati al dente e
mandateli in tavola spolverizzati di formaggio grattugiato e di abbondante pepe nero.
La carne la servirete come
pietanza accompagnata da un’insalata
verde o patate fritte.
Mangia Napoli, bbona salute!!!! e
ringraziatemi.
14. PUOZZE SCULÀ!
Letteralmente: Possa
scolare!Icastica malevola
invettiva/maledizione napoletana rivolta verso un/a inveterato/a
nemico/a, o un/a fastidioso/a interlocutore/trice cui si augura addirittura di
decedere per esser posto/a poi, secondo un’antica usanza,ad accomodarsi (da
cadavere) su approntate vaschette di pietra(détte:cantarelle) dove la salma
cedesse, per gravità, attraverso un
sistema di canaletti le proprie secrezioni umorali,fino a che una volta essiccata,non fósse pronta per l’inumazione o l’imbalsamazione.
Rammento a precisazione che la
locuzione, cosí come riportata in epigrafe, fu la corruzione/contaminazione
della piú immediata e popolare locuzione usata originariamente nella città bassa, dove suonò: VA’ SCOLA! Si
coglie infatti d’acchito che il puozze [
che, come détto antea, vale:
possa tu è voce verbale (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore
ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto
al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;] è di marcatamente libresco
ed è frutto del filtro di chi è aduso a studiare, laddove l’espressione
originaria popolare,piú bella è quella
coniugata all’imperativo VA’ SCOLA!
Risultando di immediata
fruibilità ed immediatezza espressiva.
15. TE SCHIFO PE MMANO ‘E LEGGE
Ad litteram: Ti ò a schifo, ti detesto,ti
disprezzo per mano (id est: attraverso) la legge. Espressione di fastidio che
si può cogliere sulle labbra di chi voglia lasciare intendere a qualcuno verso
cui provi repulsione, disprezzo, abominio, biasimo, disdegno, disgusto,
disistima che o tali sentimenti
sono così tanto grandi da
esser disposto ad esser chiamato in giudizio per giustificarsi di
eventuali offese arrecate allo schifato, oppure e meglio che il dispregio,la noncuranza,lo spregio,lo sprezzo provati nei
suoi confronti gli siano dovuti in
quanto, addirittura! stabiliti per legge.
Raffaele Bracale
Raffaele Bracale
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