domenica 22 dicembre 2019

SCIÚSCIA ED ALTRE VOCI


SCIÚSCIA ED ALTRE VOCI
Premesso il noto adagio: omnia munda, mundis  dirò che un impertinente frequentatore (di cui, nel timore di incorrere in un reato contro la riservatezza, indico solo le iniziali: A.G.)  del sito messo su  dall’amico prof. R.  Andria, sito cui indegnamente collaborai nel passato   per informazioni circa la parlata napoletana,mi chiede proditoriamente  (pensando di pormi in difficoltà) ch’io gli illustri e gli indichi oltre che il significato, un probabile, o certo etimo della voce in epigrafe. Non è mio costume farmi  mettere in difficoltà con  argomenti  intesi scabrosi ed esimermi dal trattarli  , per cui, attrezzatomi alla bisogna, raccolgo la sfida/provocazione ed entro súbito in medias res e comincerò col dire che il termine sciúscia, voce domestica,epperò intesa quasi volgare (ma  - come vedremo – non penso lo sia ) è uno dei numerosi, icastici  sinonimi con i quali, con linguaggio piú o meno colorito e volta a  volta mutuato da riferimenti storici o da osservazioni visivo-gastronomiche,  si è soliti indicare la vulva della donna, l’organo femminile esterno della riproduzione.  
 Tra i  piú usati  di détti sinonimi, rammento:                                            fessa, fresella,  purchiacca/pucchiacca,quatturana,brioscia,sfugliatella, carcioffola, ficusecca, mulignana, patana,pummarola,  vòngola, còzzeca, scarola, ‘ntacca, bbuatta,caccavella, cestúnia,cardogna, cestunia,ciaccara/ciaccarella,senga, sesca,sarcenella/sarchiella, pesecchia/pesocchia, pettenessa,chieja ‘e vesta,  furnacella, tabbacchera etc.  e   qui di sèguito  li illustrerò  uno alla volta.  Procediamo ordunque ordinatamente:
féssa= fessura, apertura con etimo dal lat.  fissa→féssa:  part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano;
fresella  di per sé, letteralmente la fresella  è un tipico biscotto (pane biscottato) usato in un po’ tutto il meridione,  variamente condito con diversi  ingredienti(in massima parte vegetali)  per un gustoso asciolvere; la voce fresella  è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il significato traslato di fresella usata per indicare la vulva non nasce dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma; infatti la fresella-biscotto può avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e  poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva;
 purchiacca o pucchiacca = letteralmente,  fodero di fuoco, faretra infuocata e genericamente vulva, vagina;
premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti  io stesso  penso di poterne proporre per lo meno un paio dei quali opterei comunque per il primo;
1 -la prima ipotesi è che la voce a margine  potrebbe risultar  derivata  dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il  suff. dispreg. acca (femminilizzazione del maschile acco/accio suffisso che continua il lat. -aceu(m), usato per formare sostantivi e aggettivi alterati con valore peggiorativo . ),secondo un percorso morfologico che da koilos, attraverso un *koleaca  porta a cljaca→chiaca e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→ puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto  proposto da altri quali l’Altamura, il  D’Ascoli, e tutti coloro che vi attingono,  che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→ pucchiacca  (erba porcellana); l’idea non m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto, corretto  napoletano la voce usata per indicare  l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee  sempre in unione  con un’altra erba/insalata  detta arucola (rughetta), la voce dicevo  è  purchiacchiello (diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la porcacchia/porcellana  è  pianta erbacea commestibile, con fusto ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o da  prodotti ittici),   cosa possa avere  in comune  con l’ organo femminile esterno della riproduzione;
2 -  l’altra mia ipotesi circa l’etimo di pucchiacca  fa riferimento ad   una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre infatti  partire  da una radice porc ( del latino porca=maiale/scrofa; tale voce (sostituendo il classico sus, nel latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa, anche  la sua vulva ) radice addizionata del suffisso diminutivo- spregiativo (cfr. Rohlfs)   acchia: da porcacchia→purcacchia e pucchiacca  con il medesimo significato di porca=vulva della scrofa ed estensivamente vulva in genere;
- quatturana  letteralmente quattro grani; il grano fu  vilissima moneta in uso nel Napoletano (Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13° sec.). Al proposito rammenterò, per incidens,  che  l'unità del Regno delle due Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi ed Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi,  per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
Torniamo al grano  che, dicevo,fu vilissima moneta  corrispondente all’incirca al valore di 60 centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a  2,40 euro, cioè a quasi  5000 delle vecchie lire. e questa somma, secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto,  le meretrici di infimo ordine che prestavano la loro opera lungo la c.d. ‘mbricciata ‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san Francesco)malfamata strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta Capuana, nei pressi di quell’edificio che fu in origine il monastero dei cosiddetti monaci di sant’Anna (in quanto ebbero come loro cappela la chiesa di sant’Anna posta all’imboccatura del Borgo sant’Antonio abate), poi sede delle Carceri san Francesco  ed infine sino ad or non è guari sede degli uffici della  Pretura ; secondo altra teoria, che reputo piú esatta, la somma di quattro grani fu quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si pretese dalle meretrici a mo’ di tassa sulle singole prestazioni; ora sia che fosse una tassa, sia che si trattasse del prezzo da pagare alla meretrice, la voce quatturana (quattro grani)finí per indicare lo strumento di lavoro della prostituta, e con estensione volgare, l’organo riproduttivo esterno di ogni altra donna soprattutto di basso ceto;
- ‘ntacca = fessura, apertura, scanalatura, contrassegno  con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka 'segno';
- bbuatta s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale barattolo, contenitore cilindrico in  banda stagnata usato per commercializzare generi alimentari dalla frutta sciroppata ai pomidoro, alle melanzane, ai peperoni, al caffè; il traslato semantico è di facile comprensione; l’etimo è dal francese boite;
-caccavella s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale pentolina ,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti; per traslato e figuratamente valse anche grosso cappello da donna sempre per traslato come la precedente buatta indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se non particolarmente avvenente e  di forme sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine (etimologicamente dal lat. tardo caccabella succedaneo di  caccabulusdiminutivo di  caccabus = paiolo,pentolone, dal greco  kàkabos) per traslato sarcastico si indicò una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa  derivò dalla felice posizione (sessio = sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove  veniva prodotto  vasellame in terracotta, d’uso quotidiano;
-chitarra (dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. che normalmente indica un noto strumento musicale a corde,provvisto di cassa armonica formata da due tavole (di cui la superiore con foro centrale, détto rosa) unite da una fascia, di paletta con meccanica per tender le corde)  è usata per indicare furbescamente la vulva femminile, semanticamente richiamata  dalla rosa/foro centrale, ed inteso quale strumento di piacere ;
in tale medesima accezione la voce chitarra  la si ritrova  nella smorfia napoletana che al numero  67 fa corrispondere l’espressione ‘o totaro dint’ â chitarra letteralmente: il totano nella chitarra, e ci si trova  davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è  dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra  con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: totaro deriv.  del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro.
- senga propriamente si tratta di una fessura, una screpolatura una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in legno (porte, antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta fenditura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga si fa concordemente risalire al lat. signum  quale lettura metatetica poi  femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il femminile metafonetico senga;
- sesca  propriamente si tratta di una ferita,il piú delle volte da taglio,  una contenuta lesione  prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta apertura  verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la femminilizzazione metafonetica del maschile sisco= fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio.
Ora rammento  che anche in lingua italiana, per furbesco traslato,  con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con la corrispondente voce di fischio e cioè  sisco     soprattutto nel linguaggio colloquiale,  si intende il membro maschile; e dunque non meraviglia se per analogia con il femm. di sisco  e cioè con  sesca si è  finito per indicare il corrispondente organo femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo taglio, una contenuta lesione  prodotta da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano  per la tipica forma della lesione (contenuta apertura  verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio.
sarcenella/sarchiella  s.vi f.li di carattere marcatamente furbesco atteso che con il termine sarcenella, ma anche con sarchiella(quantunque quest’ultima voce non trova riscontro alcuno, se non declinato al plurale ‘e ddoje sarchielle a commento del numero 66 del giuoco della tombola,  e sia solo una patente corruzione della precedente sarcenella), si intende riferirsi all’organo sessuale femminile, e segnatamente a  quello di una donna che per essere ancora nubile, sebbene abbastanza anziana l’abbia ispido  e ben serrato a guisa di una piccola fascina (...buona solo per essere arsa!); il termine sàrcena ed il diminutivo sarcenèlla, nonché la corruzione sarchiella valse appunto  in primis fascina, fardello di sterpi  e poi – come  ò spiegato - ebbe il significato traslato è voce  derivata dal lat. sarcina(m), propr. 'bagaglio avvolto in una tela cucita', deriv. di sarcire 'cucire';
 - pesecchia/pesocchia  propriamente fessurina, piccola apertura
atteso che con le voci a margine si indicano alternativamente la vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute; l’etimo è da una voce onomatopeica ps→pes (dello zampillo) addizionata di  suffissi ecchia (diminutivo) o occhia (accrescitivo).
- cestunia  s.vo f.le= in primis tartaruga; per traslato come nel caso che ci occupa, vulva vecchia e rattrappita di una donna ben matura. Etimologicamente voce adattamento fono-morfologico per incrocio greco-latino di khelòne e testudine-m.
Prima di illustrare le voci mutuate dall’àmbito orticolo o ittico, rammento le due voci ricavate dall’àmbito dolciario; e sono brioscia e sfogliatella;     
brioscia s.vo f.le
1 in primis piccolo dolce, soffice, leggero e saporito, a base di farina, burro, latte, zucchero  e lievito di birra (la cosiddetta pasta brioche),d’uso segnatamente francese che viene cotto in forno in varie forme, di cui la piú tradizionale è quella di una mezza sfera sormontata da una mezza sfera più piccola, mentre in Italia è piú comune quella a mezzaluna, chiamata anche cornetto, spesso farcito di crema e/o marmellata.
2 per traslato d’uso volgare  nel senso che ci occupa  sesso femminile, vulva; il collegamento semantico si coglie tenendo presente che nell’inteso popolare non v’à nulla di più dolce del sesso femminile e dell’atto sessuale ch’essa permette di compiere.  Voce adattamento del francese brioche; rammento che il terminein esame, nel significato sub 2, è presente in una icastica anche se becera espressione popolaresca nata nella città bassa ed improntata al piú sfrenato edonismo ed al materialismo  pessimistico,espressione  nella quale si afferma, giocando con numerose assonanze:’A vita, bbella mia, è ‘na brioscia, n’araputa ‘e cosce,’na ‘nfilata ‘e pesce, ‘na chiusura ‘e cascia e ttutto fernesce!  Non mette conto tradurla atteso che è di facilissimo intendimento. Mette invece conto rammentare  il nome di  un altro gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfugliatella riccia) che viene usato per traslato furbesco per indicare appunto la vulva, il sesso femminile   
 sfugliatella = sfogliatella s.vo f.le
1piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
2 per traslato, ma non  d’uso volgare, quanto affettuoso  nel senso che ci occupa  sesso femminile, vulva;  la sfogliatella riccia  appunto per   la sua forma triangolare, a conchiglia, (vagamente rococò) oltre che per la sua dolcezza ben superiore a quella della brioche→brioscia è semanticamente accostata alla vulva femminile.
E passiamo ora  a tutte le voci mutuate dall’àmbito  orticolo o ittico; abbiamo:
- carcioffola s.vo f.le = carciofo con riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto piú vero se si pensa che di una donna che  non sia piú  giovane e che per tanto si pensa   abbia  già avuto piú o meno numerosi  rapporti coniugali, s’usa dire  ironicamente che   tene ‘a carcioffola sfrunnata=à il carciofo sfrondato id est:la vulva deflorata; l’etimo della voce carcioffola  risulta derivato dall’arabo  harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus); sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione progressiva nd→nn;
- cardogna s.vo f.le = s.vo f.le = cardo pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili affine al carciofo con riferimento all’ irsuto organo stretto e serrato di una di una donna matura, ma ancóra illibata;  voce derivata dal lat.volg. cardunĭa marcato sul greco kardonía.La voce a margine è usata in una icastica espressione esclamativa che suona s’è ‘nfucata ‘a cardogna! (si è accalorato il cardo spinoso!), con riferimento all’innalzarsi della temperatura atmosferica durante il periodo dell’anno (primavera/estate)quando la pianta è piú rigogliosa; ma usata anche furbescamente per commentare gli improvvisi bollori d’una donna non sposata e non piú giovane, cui repentinamente si risveglino i sensi.
cestunia  s.vo f.le= in primis tartaruga; per traslato come nel caso che ci occupa, vulva vecchia e rattrappita di una donna ben matura. Etimologicamente voce adattamento fono-morfologico per incrocio greco-latino di khelòne e testudine-m.
- ciaccara s.vo f.le ed il suo  diminutivo ciaccarella  voci domestiche, mai  intese  volgari (anzi il diminutivo è pensato ipocoristico e quasi  affettuoso) è uno dei numerosi, icastici  sinonimi con i quali, con linguaggio piú o meno colorito e volta a  volta mutuato da riferimenti storici o da osservazioni che investono i piú vari  campi  dalla gastronomia,alla botanica, alla fauna ittica etc.    si è soliti indicare la vulva della donna adulta , l’organo femminile esterno della riproduzione, mentre con il diminutivo ci si riferisce alla vulva di una bambina; per quanto riguarda la semantica e l’etimologia della voce in esame,a mio avviso non penso si debba sbrigativamente parlare di voce onomatopeica (cosa mai dovrebbe fare ciacc ?)cosí come invece, pur senza chiarire,  ipotizzò  F.sco D’Ascoli    e l’ Altamura che lo saccheggiò...Penso invece che la voce ciaccara  sia stata costruita partendo dal s.vo ciacco (suino, maiale voce adattamento del greco sýbax-sýbakos→siacco→ciacco) addizionato del suffisso di competenza ara f.le di aro che continua il lat. arius; semanticamente come vedremo affrontando l’etimo di sciuscia ci troviamo a ragionare di parola (ciacco) che usata al maschile indicò il maiale,mentre usata al femminile(ciacca)  sia pure solo nel parlato della città bassa indicò  la scrofa e per metonimia  la sua  vulva; nulla osta poi che per traslato giocoso la voce passasse ad indicare anche la vulva della donna adulta e con il diminutivo poi quella di una bambina.
- ficusecca  s.vo f.le con derivazione, con passaggio al femminile dal masch.  lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio metaplasmatico s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
 usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce  sýcon  si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.

- patana, s.vo f.le= patata; il noto tubero edule è preso semanticamente  a riferimento poiché come esso vive  nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile,  che di suo è già posta  anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento  dallo sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana);
- pummarola s.vo f.le = pomodoro il frutto rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come l’altrove usato fica, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi ultimi à il suo interno rosso  ; l’etimo di pummarola è, come  per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro  con il passaggio in sillaba d’avvio di ō ad u  (cfr. notte→nuttata), raddoppiamento espressivo  popolare della labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do), alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l  e cambio di genere per cui pummororo→pummarola;
- vongola, s.vo f.le= noto mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano, ripete quello a margine,  voce di origine napoletana  trasmigrata come molte altre (guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri ) nel lessico nazione; la voce vongola, come la successiva còzzeca  è presa a modello per indicar la vulva, in quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo di vongola  (voce che indica oltre che il mollusco e la vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove è detta anche fesseria con  evidente riferimento alla prima voce di questa elencazione) l’etimo dicevo di  vongola  è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m)  da cui vongula→vongola  con normale passaggio di g→v (vedi gulío/vulío – golpe/volpe etc.);
- cozzeca, s.vo f.le= cozza, mitilo bivalve  che aperto, come la precedente vongola  ricorda quasi la forma dell’organo femminile; in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista di bisso,   ben si presta a rappresentare il fronzuto organo femminile  di una donna giovane; l’etimo di cozzeca  è, quasi certamente, da una forma ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;
e veniamo ai riferimenti orticoli cominciando da
- scarola s.vo f.le = scarola letteralmente scariola,  varietà di indivia; anche, in alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola  e segnatamente la specialità detta riccia per essere in cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo femminile  di una donna giovane; l’etimo di scarola   è dal  lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca;
- mulignana s.vo f.le letteralmente melanzana; siamo sempre nell’ambito orticolo ed essendo la mulignana = melanzana una  pianta erbacea largamente coltivata per i frutti commestibili di forma oblunga o ovoidale, con buccia violacea lucente e polpa amarognola (fam. Solanacee), proprio per questa sua buccia liscia e lucente,  viola scuro, quasi nera si presta a rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma liscia vulva d’una giovane donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian, di orig. persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la melanzana fosse frutto  che inducesse alla pazzia.
- pettenessa s.vo f.le
ultima(anni ‘950)  voce entrata nel lessico popolare partenopeo per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga,  a denti lunghi e sottili,   disadorno o ornato di piccoli orpelli spesso  semipreziosi, grosso  pettine usato dalle donne per sorreggere la crocchia dei capelli; atteso che in lingua napoletana, per indicare il pube ( in ispecie)femminile si à la voce pettenale (derivato da un acc.vo lat. pectinale(m)  da pecten= pettine), come del resto in lingua nazionale si à, per indicare la medesima cosa, la voce pettignone  (derivato da un acc.vo lat.  volg. *pectinione(m), dim. del class. pecten -tinis 'pettine'con riferimento (sia per l’italiano che per il napoletano) alla lunghezza dei peli del pube che ricordano i denti dei pettini,sia la forma a m’ di conchiglia di ambedue: del pube e del grosso pettine,  ecco che in senso traslato la voce pettenessa= grosso pettine (dal class. lat. pecten con suff. femminilizzante essa secondo il criterio che una voce femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del corrispondente maschile (cfr. pennellessa piú grande di penniello,   tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro,  tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto, etc., ma per eccezione caccavo piú grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben  si prestò ad indicar la vulva ubicata all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine.
- chiéja ‘e vesta letteralmente piega di veste (femminile)
siamo di fronte ad una fantasiosa, colorita  espressione in uso nel parlato della borghesia medio/bassa napoletana   e di conio relativamente recente risalente com’è a gli anni intorno al 1950 quando in Napoli venne in auge e si affermò  il mestiere della sarta a domicilio (per donna), sarta dilettante protagonista in negativa del proverbio Parigge fa ‘a moda, Napule ll’affina e ‘a sarta ll’arruvina!( Parigi dètta la nuova moda, i couturiers napoletani la migliorano, le sartine autodidatte la rovinano). Fu proprio prendendo a spunto l’abitudine di quelle sartine di far ricorso a delle pretestuose pieghe usate   per tentar di migliorar la linea di vestiti da donna, vestiti che, mal ideati e peggio cuciti, risultavano (alla prova di vestibilità)  irregolari e che le sartine, una volta che gli abiti fossero  indossati dalle clienti finivano addirittura per peggiorare fornendoli di innumerevoli pieghe e pieghettine; prendendo  spunto da quell’abitudine si finí  per assegnare icasticamente il nome di chiéja ‘e vesta  (piega di veste (femminile)) al sesso femminile ritenuto semanticamente quasi una improvvida  plica, una grinza, sgualcitura, spiegazzatura del basso ventre della donna. La voce chiéja è voce dal tardo lat. plica→chiega→chieja con normale passaggio del pl latino al chi napoletano (cfr.  i normali sviluppi di pl→chj→chi  ad es.:  chino ←plenum, cchiú←plus, chiaja←plaga,platea→chiazza, chiummo←plumbeum etc.)).
 

- tabbacchèra s.vo f.le  letteralmente
1 tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato, provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto;
2 (per traslato furbesco) sesso femminile; il traslato semanticamente si spiega con ogni  probabilità  con il fatto che come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa,  serve a conservare il tabacco da fiuto con tutto il suo aroma, cosí il sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere e conservare la virtú femminile.
La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo spagnolo tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era; normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente al significato traslato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera  che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera  e fa riferimento   ai comportamenti che si auspica tengano tra di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di  ridere e giocare,evitando di   oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero pesantemente il sesso.

- furnacella s.vo f.le soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata  quale epiteto rivolto ad una donnaccola; nella fattispecie  con la voce fornacella non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la vulva  di colei cui è diretto l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una meretrice  abbondantemente conosciuta in senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione  a margine vale però per traslato : vulva atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come ò già riferito,   tra le piú comuni voci per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca  che con etimo dal greco pýr +k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco;    tornando a furnacella dirò che  l’etimologia è dall’acc. lat. volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in luogo dell’atteso furnacula(m)  dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata, rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà = sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano (cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce
sguessa/sguessera, s.vo f.le = mento pronunciato e sfuggente, ma non è in alcun modo chiaro quale possa essere il passaggio semantico che conduca a parlare della vulva come di una sguessa/sguessera; in effetti nelle parlate  meridionali  il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898 – † Roma, 15 aprile 1967),), la bazza  sono resi con la voce sguessa o anche  sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva  popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo,  un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto  tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta,   impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti  sviamento e pronunciamento del mento;  da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; infine da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti  dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad ipotizzare il perché del passaggio semantico   da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale errato riferimento protrattosi nell’uso popolare.
Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di   brasciola s.vo f.le( che, vedi alibi,  di per sé  indica un grosso involto di carne imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla  ed in  quanto tale    è un s.f. derivato dal tardo latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola  fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola→ brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.Furbescamente, come ò détto, in talune province   con tale voce   viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli dove  sono in uso numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.


  

Esaurita la spiegazione delle voci  elencate a monte, veniamo finalmente a trattare la voce proditoriamente propostami dal sig. A.G. Parliamo cioè della sciuscia.

-  sciuscia s.vo f.le. Come ò già detto è voce generica che vale vulva, vagina, organo riproduttivo esterno della donna il tutto senza particolari specificazioni concernenti l’età o la destinazione  d’uso, ed è voce colloquiale privata in uso  tra contraenti (sposi, amanti, fidanzati etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto sociale.
Per la verità dico súbito che  solo tre calepini della parlata napoletana ( l’antico  D’Ambra,ed i piú vicini  Altamura e D’Ascoli che vi attingono spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto consultare, prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che tali  vocabolaristi  àbbiano il merito di considerare la voce, per ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un l’altro optano,ma  a mio avviso, maldestramente,  per un inconferente generico  idiotismo (.s. m. (ling.) locuzione, voce  o costrutto caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio!
Personalmente penso di poter proporre altri  due etimi di cui il primo,  pur essendo perseguibile quanto alla morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio avviso si potrebbe morfologicamente  pensare al solito latino ad un part. pass. femm. fluxa  dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl evolve sempre nel napoletano sci (vedi alibi flumen→sciummo, flos→sciore etc.) e ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia; ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia  termina con il suff. latino/greco di appartenenza ia  e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo presente che la sibilante s anche scempia seguíta    da vocale evolve, come la precedente doppia ss in napoletano nel gruppo  palatale sci, ecco che da un origianario sus addizionato del suffisso d’appartenenza ia  si è potuto  avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione che  il suffisso latino ia comporta la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è  il corrispondente ía greco che  sposta l’accento sul suffisso come si ricava osservando la voce filosofia che in lat. è  philosòphia(m), mentre in  greco è  philosophía; e posta l’ipotesi in questi termini, possiamo dire che anche  la semantica (ramo della linguistica e, piú in generale, della teoria dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti e, nel caso delle lingue, studia il significato delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati) possa esser contentata  cosí come m’auguro sia soddisfatto il provocatorio  sig. A.G. e chiunque altro fosse interessato all'argomento.
Satis est.
Raffaele Bracale
     

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