sabato 30 aprile 2011

VARIE 1140

1. CCA SOTTO NUN CE CHIOVE!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto quelli di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
2. 'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere pretestuose che non portano a nulla di concreto.

3.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorché l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile, almeno fino a prova contraria.
4.ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo.
5.AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
6. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.Altrove con identico significato si dice: Vulé fottere e sbattere ‘e mmane. Td est: voler coire sbattendo le mani cosa impossibile soprattutto per l’uomo nella posizione détta del missionario.
Piscià = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
gghí = andare; forma collaterale di jí che è dal lat. ire. fottere/ffottere = 1coire, congiungersi carnalmente possedere sessualmente; (assol.) avere rapporti sessuali | va' a farti fottere!, lo stesso che 'va' all'inferno, al diavolo'
2 (fig.) imbrogliare, raggirare, rubare:m’ànnu futtuto!( mi ànno fottuto) sono stato derubato ||| fotterse v. intr. pron. (volg.) infischiarsi di qualcuno o di qualcosa (usato per lo piú nella forma fottersene): se ne fotte ‘e chello ca fa (se ne infischia di ciò che fa.) il verbo napoletano è dritto per dritto dal lat. volg. *fottere, per il class. futuere

7. VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e si avverte allora l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
buscía (al pl. buscíe ) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia/menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;

8. FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto piú di una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
9.'O PESCE FÈTE D''A CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.












10.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
11.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
12.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
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VARIE 1139

1 -STÀ BBUONO MALATO
Locuzione che se tradotta pedissequamente ad litteram si risolverebbe in un patente ossimoro, in realtà configura e rappresenta la deprecabile situazione di chi versa in una grave malattia risultando molto malato; come si vede l'aggettivo buono è qui usato in una particolare accezione forse impropria, ma certamente efficace, per indicare una quantità (molto), non una qualità.
2 -STÀ A STECCHETTO
Ad litteram:stare a stecco Id est: essere costretto a rigide norme comportamentali ,risultandone come stretto fra stecchi, ma anche potersi nutrire - per necessità o -meno spesso - per volontà, del poco solo strettamente necessario assumendolo, data la parva quantità,quasi come si fa con gli uccellini, sulla punta di un piccolo stecco.
3 -STÀ CAURO
Ad litteram:stare caldo; ma non riferito alla temperatura corporea, quanto a quella della tasca che risulta calda in quanto ben fornita di danaro.
4 -STÀ CCHIÚ 'A LLA CA 'A CCA
Ad litteram:stare piú di là che di qua. Detto di chi versa in pessime condizioni di salute tali da lasciar preconizzare un'imminente fine e da farlo ritenere piú prossimo all'altro che a questo mondo; locuzione usata correttamente nel caso menzionato, ma usata - a volte - enfaticamente in situazioni non veramente gravi , ma solo paventatate tali.
5 -STÀ COMME A CCRISTO 'NCROCE
Ad litteram:stare come Cristo in croce Id est:aver perso ogni libertà ed autonomia, essere astretto e costretto trovandosi perciò nella impossibilità di agire e provvedere ai propri bisogni, iperbolicamente come un Cristo inchiodato alla croce e dover perciò dipendere in tutto e per tutto dagli altri.
6 -STÀ CU 'E PPACCHE DINT' A LL' ACQUA.
Ad litteram:stare con le natiche nell'acqua. Id est: versare in grave miseria e trovarsi a combatterla abbassandosi al mestiere (un tempo ritenuto povero) del pescatore che per meglio tirare la rete, entra in acqua fino a sentirsi bagnato il fondoschiena.
7 -STÀ CU DDUJE PIEDE DINT’ A UNA SCARPA
Ad litteram:stare con ambedue i piedi in una sola scarpa. Id est: stare costretti e quieti tenendo un atteggiamento succubo e remissivo evitando addirittura di muoversi per non dare fastidio o intralcio ai terzi; tutto ciò sarebbe favorito dal fatto iperbolico di avere ambedue i piedi calzati in un’unica scarpa (cosa materialmente impossibile!).
8. STÀ CAZZA E CUCCHIARA.
Ad litteram:stare secchio della calcina e cucchiaia. - Cioè:andare di pari passo, stare sempre insieme.
Erroneamente qualcuno riferisce il modo di dire con l’espressione: Stà tazza e cucchiaro (stare tazza e cucchiaio), espressione inesatta innanzi tutto perché la posata che accompagna la tazza, a Napoli è esclusivamente riportata come diminutivo: ‘o cucchiarino (il cucchiaino) o come ‘o cucchiaro (il cucchiaio) nel caso che con la voce tazza ci si riferisca all’ampia scodella per il latte, ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani comporta la presenza della grossa cucchiara arnese tipico dei muratori,arnese che non viene ovviamente usato né per accompagnare la tazzina da caffè, né il tazzone/scodella da latte!


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VARIE 1138

1 - QUANNO 'O MELLONE JESCE RUSSO, OGNEDUNO NE VO’ 'NA FELLA.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi (come l’italiano medio) è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
quanno = quando, allor che, nel momento che, ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo): avv. di tempo dal lat. quando con assimilazione progressiva nd→nn;
mellone = anguria, cocomero; in napoletano ‘o mellone è sia la pianta erbacea con foglie lobate e fusto strisciante, originaria dell'Asia e dell'Africa tropicale, coltivata nelle regioni temperate per i frutti commestibili (fam. Cucurbitacee) | il frutto di tale pianta, sferico od ovoidale, con polpa biancastra, gialla o arancione, dolce e profumata(mellone ‘e pane) sia la pianta erbacea con fusto strisciante, coltivata per il grosso frutto tondeggiante dalla polpa dolce, rossa e acquosa; anguria, (mellone d'acqua) (fam. Cucurbitacee); l’etimo della voce mellone è dal lat. tardo melone(m), nom. mìlo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mìlopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone; nella voce napoletana, al contrario della voce italiana melone che à mantenuto la scempia etimologica, si è avuto un tipico raddoppiamento popolare lella liquida l nella sillaba centrale;
jesce letteralmente esce e cioè si presenta, s’appalesa, si mostra voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ascí= uscire, sortire, venir fuori con etimo dal lat. volg. ab-exire→a(be)xire→axire→*assire→ascire;
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
ògneduno = ognuno pronome indef. [solo sing.] dal lat. omne(m) et de unu(m)
vo’/vole= vuole voce verb. (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulé/volere dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui;
‘na= una art. indeterm. femm. ed agg. numerale femm. nella sua grafia completa una; ‘na infatti è dall’acc. latino una(m) aferizzato;
fella= fetta, porzione ricavata per affettamento, pezzo di cibo tagliato largo e sottile: ‘na fella ‘e pane = una fetta di pane,’na fella ‘e pizza =una fetta di di torta; taglià a ffelle= tagliare a fette; l’etimo probabile è dal lat. volg. *offella(m), dim. di offa 'focaccia';
2 - SI 'O SIGNORE ME PRUVVEDE, M'AGGI' 'A FÀ 'NU QUÀCCHERO LUONGO NFINO Ê PIERE.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi, un po’ per sollevar l’invidia del prossimo e per modo che, ben coperto, non possa temere offese dall'esterno. .
Signore= signore, ma scritto con la maiuscola indica il Signore per antonomasia: il Padreterno, il Dio Padre; la voce a margine, che è presente anche nell’italiano è un derivato del Lat. seniore(m), compar. di senex senis , 'vecchio', ma è pervenuta nel napoletano probabilmente attraverso lo spagnolo señor o il franc. seigneur nel pari significato di piú vecchio, piú anziano;
pruvvede= dà provvidenza, dà assistenza ed aiuto voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pruvvedé =provvedere, disporre quanto è necessario affinché qualcosa non manchi o non subisca danni o avvenga felicemente; in partic., disporre il necessario per soddisfare un pubblico bisogno o per garantire una privata occorrenza; con etimo dal latino providíre, comp. di pro¯- a favore' e vidíre 'vedere'
m’ aggi’ ‘a fà = devo farmi; letteralmente: ò da fare per me ; locuzione verbale formata dalla 1ª pers. sing. ind. pres. dell’infinito avé=avere (dal latino habíre; in napoletano l’aspirata d’avvio, intesa inutile e pletorica è eliminata) seguito dalla preposizione ‘a(da) e dall’infinito fà/fare (dal lat. sincopato fa(ce)re) nel significato di dover fare, dire etc. qlc.; il me d’avvio della locuzione vale il mihi latino dativo di vantaggio;a margine rammento che locuzioni verbali simili vengono spesso usate al posto dell’indicativo futuro presente nella grammatica napoletana, ma poco usato preferendoglisi l’ind. pres. in funzione futura o locuzioni simili a quelle in esame.
quàcchero neologismo di inizio 20ª sec. sost. masch. intraducibile ad litteram, ma con attestato significato nel parlato di cappotto, lunga palandrana; la voce fu modellata sul termine quaccheri ( un movimento religioso appartenente al protestantesimo); il termine quàcchero proviene dall’inglese to quake che significa tremare, quindi significa "i tremolanti"; era l’appellativo con cui venivano indicati, in senso dispregiativo, gli appartenenti ad un movimento protestante, sorto nell’ambito della chiesa Anglicana in Inghilterra nel XVII secolo, perché nelle loro riunioni quando scendeva lo Spirito avevano alcune manifestazioni esteriori, fisiche, (tremori estatici), tra cui il tremare. Loro preferivano autodefinirsi: "Society of friends", ossia "Società degli amici" (di Gesù), e traevano questo nome dal Vangelo di Giovanni cap.15 ver.15, dove Gesù dice ai discepoli: "Io non vi chiamo piú servi; perché il servo non sa quel che fa il suo signore; ma voi vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio".
A Napoli, rammentando i lunghi, severi costumi indossati dagli aderenti al movimento suddetto fu assunto il sing. quàcchero come sinonimo di cappotto, palandrana;
luongo= lungo agg. qual. masch. dal lat. longu(m) con dittongazione popolare della sillaba d’avvio; la dittongazione manca nel femm. che è longa da longa(m);
nfino= fino, sino preposizione impropria ed altrove avv. dal lat. fine, abl. di finis 'limite', col significato preposizionale di 'fino a'; morfologicamente la n protetica di nfino non è l’aferesi di (i)n, ma una consonante eufonica, per cui non va scritta con il segno d’aferesi ‘n ma semplicemente legato a fino per ottenere nfino;
ê piere = ai piedi; cominciamo con il sottolinere che ê (ai) è preposizione articolata plurale masch (ai – a gli). e femminile(alle) secondo una grafia fusa alternativamente di a + ‘e (li) o di a+ ‘e (le) e pertanto non vaconfusa con ‘e(i/le) art.determ. plur. maschile o femm; piere= piedi sost. masch. plurale del sing. pede/pèro= piede con etimo dal lat. pede(m) con la tipica rotacizzazione osco – mediterranea d/r nella variante pèro.

3- LL'ABBATE TACCARELLA.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona;
abbate= abate, il superiore di un'abbazia o di un monastero
nel sec. XVIII, chiunque godesse di un beneficio ecclesiastico, pur avendo ricevuto i soli ordini minori, la voce a margine ed in epigrafe è usata in senso ironico essendo lo sparlatore, la malalingua, il tagliuzzatore persona non meritevole di alcun rispetto e/o considerazione, proprio al contrario di un autentico superiore di un'abbazia o di un monastero; l’etimo di abbate è dal lat. eccl. abbate(m), che è dall'aram. ab `padre', attrav. il gr. abbâ
il soprannome giocoso Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarijà che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti, con derivazione dal sostantivo tacca= scheggia, pezzetto, a sua volta da un gotico taikn.
4 - T' HÊ PIGLIATO 'E CCIENT' OVE?
Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova? Id est: Sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, quel tal Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo.
hê pigliato = ài preso, ài assunto, ài ingurgitato voce verbale (2ª pers. sing. ind. pass. pross.) dell’infinito pigliare/piglià con etimo dal lat. volg. *piliare,per il class.pilare'rubare,saccheggiare';
ciento= cento agg. numerale dal lat. centu(m) con tipica dittongazione ie nella sillaba d’avvio intesa breve;
ove = uova sost. femm. plur. del masch. uovo, cellula germinativa o gamete femminile di forma per lo piú rotondeggiante o ellittica, di dimensioni variabili secondo la specie, con citoplasma piú o meno ricco di riserve nutritive; à origine nell'ovaio e da esso, all'interno o all'esterno del corpo materno, si forma l'embrione del futuro animale;
l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi; l’etimo è dal lat. volg. òvu(m), dal greco oòn.
5 - MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO OGNI MUMENTO.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, condannate a restar nubili, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; e la locuzione sostiene che tali monache di casa non fossero cosí irreprensibili come lasciavano intendere ed al contrario si dessero, di nascosto, alla buona vita; ai medesimi piaceri del corpo si riteneva di dessero anche le monacate dei monasteri e per ciò che attiene al convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca (1550 e ss.) e delle successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da quasi tutte suore ivi ospitate.( cfr. Cronaca del convento di Sant'Arcangelo a Bajano attribuito a Stendhal);
moneca ‘e casa letteralmente monaca di casa nel senso già spiegato; moneca= monaca, suora , colei che à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza sost. femm. del masch. monaco che deriva dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico';
casa = casa, dimora privata familiare con etimo dal lat. casa(m), propr. 'casa rustica'opposta alla domus, abitazione signorile del dominus;
diavulo= diavolo, nell'ebraismo e nel cristianesimo, potenza che guida le forze del male e si identifica con Lucifero, il capo degli angeli che si ribellarono a Dio, poi divenuto Satana, principe delle tenebre; per estens., ognuno degli altri angeli ribelli e la forza del male che essi incarnano | nella fantasia popolare è concepito per lo più come un mostro di forme umane con corna, ali, coda e altri attributi animaleschi, grande tentatore, amante di ogni disordine ed eccesso, con etimo dal lat. tardo diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabàllein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'; nella locuzione in epigrafe la voce a margine è usata – come ò già detto – in senso furbesco/osceno
jesce= esce, viene fuori voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinito ascire/ascí = uscire venire fuori da un luogo chiuso, circoscritto o idealmente delimitato con etimo dal lat. volg. ab-exire→*axire→assire→ascire ;
trase = entra, penetra voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinitotrasire/trasí = penetrare in un luogo, andar dentro, introdursi con etimo dal lat. volg. *trasire per il class. transíre;

cunvento =convento, edificio in cui vive una comunità di religiosi o religiose che ànno pronunciato voti solenni; nell'uso corrente, sin. di monastero sost. masch. con etimo, come per la corrispondente voce italiana, dal lat. conventu(m) 'adunanza, convegno', deriv. di convenire 'trovarsi insieme'; nella voce napoletana si è avuta la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
mumento = momento, periodo di tempo di varia durata, considerato in relazione alle condizioni che in esso si determinano; circostanza, occasione, opportunità con etimo dal lat. momentu(m),sincope di *movimentum, deriv. di movíre 'muovere'; propr. 'impulso, moto', poi 'peso che fa muovere (la bilancia)' e anche 'brevissimo periodo di tempo' con la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
6 - FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia, come sarebbe quello di una frittura, che d'altronde non si può acconciamente fare senza disporre di olio o di grasso;
frijere= friggere,cuocere nell'olio o in altro grasso bollente ed estensivamente rodersi, struggersi; fremerevoce verbale infinito dal verbo onomatopeico latino frígere con caduta della g sostituita dal suono di transizione intervocalico j;
pesce= pesce sost. masch. generico per indicare qualsiasi animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo che quando il pesce sia stato cotto e spolpato viene detto lisca da un tardo lat. lisca(m), di origine germanica; l’etimo di pesce è dal lat. pisce(m);
acqua= acqua, composto di idrogeno e ossigeno, presente in natura allo stato liquido (in mari, fiumi, laghi, nel sottosuolo o in forma di goccioline nelle nubi), allo stato solido (ghiaccio e neve) e allo stato di vapore (nell'atmosfera); costituente fondamentale degli organismi, in condizioni ordinarie è un liquido trasparente, inodore, insapore ed incolore, azzurrognolo se in grandi masse; l’etimo è dal lat. aqua(m) con raddoppiamento popolare della consonante q→cq.
7 - MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Id est: meglio sopportare gli effetti negativi di una giornata improduttiva o fastidiosa, che la frequentazione quotidiana con pessimi vicini, colleghi di lavoro ed assimilati… Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e probabilmente, con essa, i suoi effetti negativi, ma dei cattivi vicini, dei pessimi colleghi di lavoro, perdurante la loro stabile vicinanza, di giornate cattive ne possono procurare parecchie...ed a maggior ragione quando i cattivi vicini, i pessimi colleghi di lavoro siano di sesso femminile.
meglio = meglio, avv. e agg.nel senso di migliore con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, nell'uso pop. regionale, preceduto dall'art. determ. (‘o – il), à valore di superlativo relativo, equivalendo a il migliore (‘o meglio jucatore= il miglior giocatore, ‘o meglio attore= il migliore attore etc.);
con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, preceduto dall’art. determ. ‘o che comporta la geminazione della consonante m e seguíto dallo specificativo partitivo de (‘e) es.: ‘o mmeglio d’’o mmagnà= la cosa migliore del pranzo etc. l’etimo è dal lat. melius, neutro di melior -oris 'migliore'
mala= cattiva, non buona , brutta, trista agg. qual. femm. con etimo dal lat. malu(m) reso femm. *mala(m);
jurnata = giornata, il periodo compreso tra la mattina e la sera in rapporto al tempo atmosferico o al lavoro, all'attività che vi si svolge, oppure (come nel caso che ci occupa) agli avvenimenti che vi accadono; l’etimo è dal francese journée da un antico jornée derivati di journ/jorn= giorno;
vicina= vicina sost. femm. (dall’agg. qualif. vicino/a = che, chi non è lontano o è poco lontano nello spazio o nel tempo, confinante, anche chi à rapporti di parentela o di amicizia:
con etimo dal lat. vicina(m), deriv. di vicus 'villaggio'; propr. 'che appartiene allo stesso villaggio'.


8 - FATTE 'NA BBONA ANNUMMENATA E VA' SCASSANNO CHIESIE.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese.Amara, disincantata osservazione della realtà dalla quale si ricava che ciò che conta nella vita è l’apparenza, piuttosto che la sostanza; in virtú di ciò, basta godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che goda di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
fatte= fatti= fa’ per te voce verbale (da non confondere con l’omografo ed omofono sost. masch. plur. di fatto= accadimento) (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito fà/fare
(con etimo dal lat. sincopato fa(ce)re) addizionato in posizione enclitica del pronome te→tte con valore di dativo di vantaggio per te;
bbona =buona, conforme al bene; onesta, moralmente positiva agg. qual. con etimo dal lat. bona(m);
annummenata/’nnummenata = nomea, rinomanza, nome, reputazione, fama letteralmente aggettivo poi sostantivato ricavato dal part. pass. femm. del verbo annummenà/’nnumenà= nominare, dare fama, reputazione con etimo dal lat.ad+ nominare,forma intensiva(vedi ad) di nominare deriv. di nomen -minis 'nome';
va’= vai voce verbale (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito jí= andare ( con etimo dal lat. ire; ma per le forme che ànno per tema vad→vac derivano dal lat. vadere 'andare';
scassanno= rompendo,infrangendo ed estensivamente , come qui,rapinando, perpetrando furti voce verbale (gerundio)
dell’infinito scassare/scassà= rompere, infrangere etc. con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diversi; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto;
chiesie/chiese= chiese, luoghi di culto, sost. femm. plur. di chiesia/chiesa= comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane, ma piú spesso segnatamente il luogo, l’edificio dove si svolgono le riunioni e le cerimonie di culto delle confessioni cristiane (l’etimo è dal lat. ecclesia(m), derivato dal gr. ekklēsía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'.
9 -AMMACCA E SSALA, AULIVE 'E GAETA.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo – lanciata dai venditori girovaghi o da quelli usi ad affacciarsi sulla imboccatura della propria bottega (per attirare a viva voce l’attenzioni di probabili clienti) di olive e con essa voce si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole sarcasticamente commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro (lavoranti e/o figliuoli) che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
ammacca= comprime, schiaccia, pigia voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito ammaccà = comprimere, schiacciare, pigiare (con etimo dal tardo latino ad+maccare forma intensiva (vedi ad) di maccare di pari significato; dal verbo maccare è derivata la voce maccarone (maccherone) = impasto schiacciato;
ssala= sala, cosparge di sale voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito salare/salà = c ondire un cibo col sale; e qui cospargere di sale un alimento per conservarlo ( denominale di sale ( lat. sale(m))
aulive = olive o ulive, s. f. plur. di auliva il frutto dell'olivo, costituito da una piccola drupa ovale, commestibile, ricca di olio commestibile: l’etimo della voce napoletana è dall’acc. lat. (il)la(m) uliva(m) con agglutinazione eufonica dell’ articolo ‘a da la;
Gaeta splendido comune laziale di 21mila abitanti circa, posizionato sul livello del mare nella parte bassa della Provincia di Latina, sede Arcivescovile, sede del Parco Regionale Riviera di Ulisse, dista circa 120 Km. da Roma e 80 Km. da Napoli. Le origini del nome di Gaeta sono tuttora avvolte nella leggenda:
Strabone indicò la sua provenienza dal termine Caiatasusato dai pescatori locali per indicare il sito, con chiaro riferimento all'ampia insenatura del suo golfo;
Diodoro Siculo collegò queste terre al mito degli argonauti facendo derivare il nome della città da Aietes, mitico padre di Medea (figlia di Circe), la maga innamorata di Giasone.
Virgilio, nell' "Eneide" (Eneide, VII, 1-4) trovò la sua origine nel nome della nutrice di Enea,Cajeta, sepolta dall'eroe troiano in quel sito durante il suo viaggio verso le coste laziali. Dante, quasi a significare la storicità dell'Eneide, confermò l'avvenimento (Inferno, XXVI, 92).
Salto a pie’ pari gli abbondanti riferimenti storici della città di Gaeta, rammentando solo che essa subí ben quattordici assedi che coincisero con importanti avvenimenti, a partire dalla sconfitta del ducato di Gaeta ( 1140 ca con annessione al Regno di Sicilia) fino all'ultimo assedio, quello tenuto dalle truppe del generale piemontese Cialdini nel 1861 (che sarà nominato duca di Gaeta) e che diede inizio all'unità d'Italia. In coda ricorderò che il 25 novembre 1848 il papa Pio IX si rifugiò a Gaeta, ospite dei Borbone, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, e vi rimase fino al 4 settembre 1849, periodo durante il quale Gaeta assunse la denominazione di "Secondo Stato della Chiesa". E fu proprio durante questo soggiorno che papa Pio IX venne illuminato dallo Spirito Santo durante le sue preghiere presso la Cappella d'Oro e proclamò il Dogma dell'Immacolata Concezione al suo ritorno a Roma.
Il 13 febbraio 1861 Francesco II di Borbone si arrese a Gaeta, ultimo baluardo del suo regno, capitolando all'assedio delle truppe del generale Enrico Cialdini (assedio di Gaeta (1860-1861)): determinando la fine del Reame delle Due Sicilie e iniziò l'unità d'Italia ad opera dei Savoia. Da questo momento in poi iniziò la lenta decadenza di Gaeta come importante centro politico, militare e amministrativo.
Storicamente parte dell'antica provincia di Terra di Lavoro in Campania, fu trasferita al Lazio nel periodo fascista, quando venne incorporata nella nascente Provincia di Littoria (Latina).

10 - CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SAPONE.
Letteralmente: di qui le pezze e di qua il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il dai devono verificarsi senza soluzione di continuità, quasi contemporaneamente.
Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti sapunari appunto perché cedevano in cambio di abiti dismessi o stoviglie ed oggetti usati un tot di sapone quale merce di scambio.
cca = qua, in questo luogo, (indica il luogo dov'è chi parla o un luogo molto vicino a chi parla; è meno determinato di qui, non altrove avv. di luogo, talvolta usato impropriamente quale rafforzativo anche in locuzioni di tempo del tipo cca mmo mmo= immantinente, senza indugio; l’etimo è dal lat. ec)cu(m) hac, propr. 'ecco per di qua'; rammento che in napoletano esiste un altro monosillabo ca = che quasi omofono dell’avv. a margine, ma non si tratta di un avverbio, bensí di una cong. o pronome relativo; trattandosi di due monosillabi simili regola grammaticale vorrebbe che o l’uno o l’altro fosse corredato d’un segno diacritico (accento, apostrofo ); ò usato il condizionale in quanto si è trovata la strada piú immediata e comoda di usare sempre la geminazione della c iniziale, evitando erronei, pletorici ed inutili accenti per l’avverbio di luogo, per modo di avere non l’errato ccà (come talvolta mi è capitato di trovare negli scritti perfino di commediografi famosi) ma l’esatto cca= qua,mentre per la congiunzione/pronome ca si usa la c iniziale scempia ed in tal modo viene evitata la confusione tra ca e cca;
ppezze= pezze, stracci, ritagli di tessuti usati, cenci; altrove la voce a margine indicò pure delle grosse monete d’argento
sost. femm. plurale di pezza che è dal lat. pettia(m) forse dall’ant. tedesco pfetzen= brandello, pezzo, brano;
sapone= sapone, generico nome dei sali alcalini di acidi grassi, di consistenza pastosa o solida, usati come detergenti con etimo dal lat. sapone(m) affine a sapiu(m) ed all’ant. ted. sapp/sap= succo; propriamente il latino sapone(m), fu una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. (vedi sapp) e solo successivamente indicò le paste usate quali detergenti. In chiusura rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette che conosciamo , ma un tipo di sapone molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria non per la pulizia personale),di produzione artigianale, che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, affettato, staccandolo con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone di piazza, perché venduto non in negozio, ma esclusivamente per istrada /piazza da venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari )che ne erano anche i produttori.
Raffaele Bracale

VARIE 1137

1.PARE 'A VARCA 'E MASTU TTORE:A POPPA CUMBATTEVANO E NUN 'O SAPEVANO A PRORA...
Sembra la barca di mastro Salvatore: a poppa combattevano e lo ignoravano a prua - Cioè:il massimo della disorganizzazione!...
2.MAZZE E PANELLE, FANNO ‘E FIGLIE BBELLE..., PANELLE SENZA MAZZE, FANNO ‘E FIGLIE PAZZE!
Botte e cibo saporito, fanno i figli belli, cibo senza percosse fanno i figli matti! - Cioè: nell'educazione dei figli occorre contemperare le maniere forti con quelle dolci.
3.CHI S'ANNAMMORA D''E CAPILLE E D''E DIENTE, S'ANNAMMORA 'E NIENTE...
Chi si lascia conquistare dai capelli e dai denti, s'innamora di niente, perché capelli e denti sono beni che sfioriscono presto..
4.CHIAGNERE CU 'A ZIZZA 'MMOCCA...
Piangere con la tetta in bocca - Cioè: essere incontentabili; piangere ingiustificatamente.
5.GUÀLLERE E PPAZZE, VENONO 'E RAZZA...
(Nell’inteso popolare) Ernie e pazzia sono ereditarie(non si possono eludere).Probabilmente si dovette un tempo riscontrare qualche coincidenza di ernia e/o pazzia in soggetti del medesimo ceppo familiare e si generalizzò la faccenda...
6.'E FESSE SO' SEMPE 'E PRIMME A SE FÀ SÈNTERE...
I fessi son sempre i primi a parlare - cioè: gli sciocchi sono sempre i primi ad esprimere un parere...
7.DICETTE PULICENELLA:'A MEGLIA MMEDICINA? VINO 'E CANTINA E PURPETTE 'E CUCINA...
Disse Pulcinella:La miglior medicina? vino stagionato e polpette fatte in casa...
8. ESSERE SEMPE CAZZA E CUCCHIARA CU QUACCHUNO
Letteralmente: essere sempre cazza e cucchiaia con qualcuno; id est: aver rapporti cosí indissolubili con qualcuno fino a formar quasi un tutt’uno con lui alla stregua della cazza (contenitore della malta) che i muratori usano sempre in uno con la cucchiara (cazzuola), ed essa cazzuola è conservata a sera, al termine del lavoro nella cazza, per modo che sia facilmente reperita al mattino successivo quando si riprende il lavoro; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutti coloro che sceltosi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo.
La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. kyathos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'.
Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto più grande del corrispondente maschile (es.: tammurro più piccolo – tammorra più grande, tino più piccolo – tina più grande etc.);ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè) al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola).
sempe= sempre, senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo): con etimo dal lat. semper con atipico troncamento della consonante finale r in luogo dell’atteso raddoppiamento rr e paragoge di una vocale semimuta finale (e/o) come altrove tramme←tram, bisse←bis, barre←bar, autobbusse←autobus.
quaccuno = qualcuno, pronome indefinito forma sincopata di quaccheduno che è derivato da un qual(is) qui(=che) con assimilazione regressiva quacche + et unus ( = ed uno) donde quacc(hed)uno→quaccuno.
9.STAMMO ASSECCANNO 'O MARE CU 'A CUCCIULELLA...
Stiamo prosciugando il mare con la conchiglia - Cioè: ci siamo imbarcati in un'impresa impossibile...
10.ARROSTERE 'O CCASO CU 'O FUMMO D''A CANNELA.
arrostire il formaggio con il fumo di una candela - cioè:tentare di far qualcosa con mezzi inadeguati.
11.'A MALA NUTTATA E 'A FIGLIA FEMMENA.
La notte travagliata e il parto di una figlia - cioè: Le disgrazie non vengono mai sole.
12.NUN TENÉ MANCO 'A CAPA 'E SI' VICIENZO.
Non aver nemmeno la testa del sig. Vincenzo. Cioè:esser poverissimo. 'a capa 'e si' Vicienzo è la corruzione dell'espressione latina:caput sine censu ovverossia:persona senza alcun reddito, persona che pertanto non pagava tasse.
13.DICETTE MUNSIGNORE Ô CUCCHIERE:"VA' CHIANO , CA VACO 'E PRESSA!"
Disse il monsignore al suo cocchiere:"Va' piano, ché ò premura!" Ossia:la fretta è una cattiva consigliera
14.CHI D'AUSTO N'E' VESTUTO, 'NU MALANNO LL'E' VENUTO
Chi alla fine dell' estate non si copre bene, incorrera' in qualche malattia...cioè:occorre sempre esser previdenti
15.SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE.
Senza denaro non si celebrano messe cantate. Cioé: tutto à il suo prezzo.
16.A CUOPPO CUPO POCO PEPE CAPE.
Nel cartoccetto conico pieno entra poco pepe. Cioè: chi è sazio non può riempirsi di piú(in tutti i sensi)
17.GIACCHINO METTETTE 'A LEGGE E GIACCHINO FUJE 'MPISO.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso: Con riferimento a Gioacchino Murat ucciso a Pizzocalabro in attuazione di una norma da lui stesso dettata
18.A ALDARE SGARRUPATO NUN S'APPICCENO CANNELE.
Ad altare diruto non si portano ceri accesi. - Figuratamente: Non bisogna corteggiare donne anziane.
19.SI LL'AUCIELLE CANUSCESSERO 'O GGRANO, NUN NE LASSASSERO MANCO N' ACENO!
Se gli uccelli conoscessero il grano, non ne lascerebbero un chicco! - Cioè: se gli uomini fossero a conoscenza di tutti i benefici che la vita offre, ne approfitterebbero sempre.
20.DICETTE PULICENELLA: PE MARE NUN CE STANNO TAVERNE.
Disse Pulcinella: In mare non vi sono ripari.
21. QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, PRIMMA O POJE VAJE CU 'O CULO 'NTERRA.
Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio
22.'E FATTE D' 'A TIANA 'E SSAPE 'A CUCCHIARA.
Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza.
Brak

VERRIZZO

VERRIZZO

Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan) verrizzo, che al plurale fa verrizze, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, starebbero restrittivamente ad indicare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di dizionari, che accolgono il termine se la sbrigano con un’annotazione pilatesca: etimo incerto.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma questa piú che un’etimologia, m’appare una paretimologia e poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva di bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizzo e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a).
Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con cui si indica il capriccio, la bizza, le testarde impuntature, il reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte dei bambini; il vocabolo è ‘nziria che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rammento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidia(s)→’nsidia→’nziria a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che semanticamente ben mi pare possa rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria.
Raffaele Bracale

venerdì 29 aprile 2011

ALLICCIÀ, ALLACCIÀ, ALLAZZÀ & DINTORNI

ALLICCIÀ, ALLACCIÀ, ALLAZZÀ & DINTORNI
Questa volta su suggerimento/richiesta dell’amica A.M.(di cui per i soliti problemi di riservatezza, mi limiterò ad indicare le iniziali di nome e cognome) tenterò di illustrare i verbi napoletani in epigrafe di cui il primo alliccià/are è verbo d’ambito tecnico della lingua nazionale dove è giunto come denominale di
liccio= s.vo m.le elemento del telaio che serve ad alzare ed abbassare alternatamente i fili dell'ordito seguendo le maglie del liccio che sono fili sottili, generalmente di acciaio, con un occhiello al centro attraverso il quale passano i fili dell'ordito, tesi tra i due liccioli. ( liccio è dal lat. licium); il verbo alliccià/are dicevo vale:a) far passare velocemente i fili dell'ordito attraverso i licci; b) con altra valenza: piegare leggermente in fuori i denti di una sega, alternatamente uno a destra e uno a sinistra, per facilitare il taglio; a noi però interessa il significato sub a) perché appunto partendo dal significato di movimento veloce, di azione rapida etc. che esso verbo è pervenuto in talune lingue regionali meridionali (come il calabrese, il lucano ed il siciliano e sembra anche il pugliese) dove nella forma di adazzare/ri, addazzare/ri, ajazzari vale: correr via, partire in fretta, camminare velocemente azioni che semanticamente continuano l’originaria azione di far passare velocemente i fili propria della valenza tecnica del verbo allicciare..
Anche nella parlata napoletana il verbo alliccià/are è pervenuto nel significato di correr via, partire in fretta, camminare velocemente, solo che per quanto riguarda la morfologia piuttosto che accogliere adazzà/are o ajazzà/are si è preferito (dico: poltronescamente) riferire il significato di correr via, partire in fretta, camminare velocemente, ad un preesistente verbo assonante sia con alliccià/are che con adazzà/are o ajazzà/are e cioè con il verbo allaccià che va da sé non è l’italiano allacciare/à = stringere con lacci; legare insieme(denominale di laccio),verbo che in napoletano si rende con allazzà( denominale di lazzo= laccio), ma è verbo affatto diverso. Nel suo significato primo il verbo napoletano allaccià/are vale triturare finemente carni(lardo e/o prosciutto o pancetta ) ed è derivato da un tardo latino parlato *ad+aciare (formato su di un *acia per il class. acies= tagli affilati e per metonimia coltelli,orbene: adaciare→ addacciare→allacciare= inferir tagli; ed è solo per un adattamento popolare di comodo dovuto a somiglianza morfologica ed al rifiuto di adottar voci nuove che l’allaccià (triturare) napoletano à finito per indicare anche il correr via, il partire in fretta,il camminare velocemente, quantunque semanticamente nulla leghi l’azione del triturare con quelle del correr via, partire o camminare rapidamente, ad eccezione di un tenuissimo legame che si potrebbe, con molta buona volontà, intravedere tra la rapidità del cammino e quella dei colpi inferti sulla carne (lardo, prosciutto etc. ) con un affilato coltello per triturarla.
Un’ ultima notazione: nel napoletano accanto al verbo allazzà/are= allacciare = stringere con lacci, legare insieme ve ne è un altro omografo ed omofono, ma affatto diverso e di etimo ugualmente diverso; questo secondo allazzà/are significa lanciare (es.: allazzà ‘nu pernacchio (lanciare uno sberleffo)) ed è un denominale di lancea→*adlancjare→allazzà con assimilazione di ncj→ccj→zz; mentre il primo allazzà, come ò detto, vale stringer con lacci, legare insieme ed è un denominale di lazzo (che è dal lat. volg. *laceu-m per il class. laqueus)Satis est. Almeno spero, come spero di aver accontentato l’amica A.M. ed interessato qualcuno dei miei 24 lettori! Raffaele Bracale

A LA SANFRASÒN oppure SANFASÒN.

A LA SANFRASÒN oppure SANFASÒN.
Ad litteram: alla carlona; détto di tutto ciò che venga fatto alla meno peggio, senza attenzione e misura, in modo sciatto e volutamente disattento, con superficialità e senza criterio.L’espressione è formata con le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn che sono , pari pari, corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di terminare per consonante in luogo di una consueta vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar o tramme per e da tram etc.
Raffaele Bracale

ALCUNE VOCI INSOLITE E DESUETE DEL NAPOLETANO

ALCUNE VOCI INSOLITE E DESUETE DEL NAPOLETANO
Rispondendo ad una richiesta della sig.ra A.C.della quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono d’indicare le sole iniziali, elenco ed illustro qui di seguito alcune voci napoletane insolite e desuete riferentesi quasi tutte ad antichi mestieri.Nel farlo m'auguro d'accontentare l'amica ed interessare anche qualcuno dei miei ventiquattro lettori. Abbiamo dunque:

1 -Copetaro/cupetaro = produttore e venditore al minuto di copete/cupete ( sorta di torrone cioè dolce fatto con mandorle e pistacchi o noci e con miele); la voce copeta/cupeta da cui copetaro/cupetaro deriva dall’arabo qubaita/qupaita;
2 – Stregnitoraro/strignitoraro e non Stringnitoraro = venditore al minuto di fasce per neonati dette in napoletano stregnetora/e o strignetora/e derivata dal verbo stregnere=stringere;
3 - pallottinaro/palluttinaro = produttore e venditore al minuto di cartucce artigianali per fucili da caccia; le cartucce riempite, a seconda delle occorrenze con pallini di piombo di diversa misura, son dette in napoletano palluttina/o diminutivo derivato da palla;
4 - ferlingiéro= cambiavalute; voce del tutto desueta ed abbandonata già nel tardo ‘800 quando fu sostituita in toto da cagnacavallo voce che già nel ‘700 aveva affiancato la voce a margine; ferlingiéro indicò chi esercitasse su banchetti di fortuna,in aree di mercato, il mestiere, spesso non autorizzato, di cambiavalute. La voce nacque marcandola sull’antico francese ferling = piccola moneta divisionale; da tale ferling trasse anche l’italiano antico ferlino/furlino= nome generico di una piccola moneta; la voce cagnacavallo= cambiavalute fu formato agglutinando la voce verbale cagna (3° p. sg. p. ind.dell’infinito cagnà/are=cambiare dal lat. tardo cambiare, di orig. gallica; il napoletano cagnare/à presuppone una forma cammjare→cagnare come simja che dà scigna; alla voce verbale cagna è addizionato il s. cavallo moneta di rame di Ferdinando I d’Aragona, moneta che portava impressa la testa d’un cavallo donde il nome; talvolta il nome cavallo era contratto in callo come nel caso del famoso tre calle, moneta equivalente a mezzo tornese;
5.catàro artigiano produttore e venditore al minuto di cati cioè secchi con doghe di legno e manico in metallo; la voce è marcata sul sost. - cato cioè bigonciolo, secchio in forma di tronco di cono, ma indefettibilmente con fondo e pareti in doghe di legno (cosa che lo distingue da altri secchi che possono esser di vario materale...) ed unico manico ad arco in metallo, secchio usato quasi esclusivamente per contenere acqua e dai pescivendoli per tenervi arselle, vongole, cozze ed ogni altro mollusco od anche crostacei; l’etimo di cato è dal lat. cadus che è dal greco kadós.;

6.cafaràno/cafaràro ma anche caffaràno/caffaràro manovale salariato addetto negli oliveti a scavare attorno agli olivi i cosiddetti cafàri/caffàri; il cafàro/caffàro è il solco profondo scavato attorno a gli olivi, al fine di favorirne l’rrigazione; la voce cafàro/caffàro donde cafaràno/cafaràro o caffaràno/caffaràro deriva dal greco kàrabos=gola;
7.pobella s.vo f.le non riguarda un mestiere, ma indica il secchio per la raccolta domestica della spazzatura,la pattumiera; fu il secchio che, all’epoca (1850 ca) di Ferdinando II di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 – †Caserta, 22 maggio 1859)
venne imposto nelle case napoletane ad imitazione di quanto voluto a Parigi dal prefetto di polizia Eugenio Poubelle (nato a Caen il 15/4/1831, † Paris le 16/7/1907,donde il nome napoletano dei secchi); ed addirittura a Napoli se ne prescrissero tre: uno per la raccolta di conchiglie, valve di ostriche e frutti di mare nonché vetro, un altro per carta e cartone ed un terzo per il generico pattume: umido e vegetali.Possiamo dunque annoverare tra i primati dei Borbone e di Napoli anche la raccolta differenziata delle immondizie... peccato che poi i liberatori(sic!) savoiardi ed italiani abbiano peggiorato la faccenda ed in un secolo e mezzo non siano riusciti a venirne a capo! Anche di questo Napoli ringrazia Cavour & soci!!

8.vardaro artigiano-cuoiaio produttore e venditore al minuto di varde e/o finimenti. La varda (con etimo dall’arabo barda) indica il basto, la soma da trasporto usata su asini e muli.
Raffaele Bracale

‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO

‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO

‘A MONACA D' 'O BBAMMENIELLO:òGNE NOVE MISE FASCIATORE E SAVANIELLE!
Antichissima desueta espressione che tradotta letteralmente suona:La monaca del Bambin Gesú: ogni nove mesi fasce e sottofasce; espressione che fino a tutti gli anni cinquanta fu usata con sarcasmo nei confronti di spose eccessivamente prolifiche ed usata altresí, per traslato giocoso, nei confronti di chiunque che, per colpevole iperattività in qualsivoglia campo d’azione, necessitasse di aiuti continui. L’espressione nacque in àmbito popolare con malevola cattiveria, chiamando in causa le pie Suore del Bambino Gesú, dell’omonimo Istituto Suore del Bambino Gesú sito in Napoli in san Giovanni Maggiore Pignatelli a ridosso dell’Università degli Studi in pieno centro storico; l’istituto era nato (per opera di un tal Nicola Barrè dell’Ordine dei Minimi di s. Francesco di Paola, noto professore di teologia e Bibliotecario a Parigi) in Francia nel 1666,(con il fine dell’assistenza ed istruzione di bambini, ragazzi/e bisognosi) e solo nel 1906 era approdato in Italia,dapprima nel Bergamasco e poi si era esteso , rispondendo agli appelli della Chiesa Italiana, con molte comunità in Calabria , nelle periferie di Roma, nel centro storico di Napoli ed in diversi luoghi della regione campana , dove le pie suore stavano accanto ai bambini, alle famiglie in difficoltà , condividendo la vita delle persone semplici. e distinguendosi per la catechesi e l’istruzione di tutti i ragazzi/e e facendosi amare per la loro presenza fattiva nei confronti di tutti coloro che ne avevano bisogno; tra coloro che si mostravano bisognosi di aiuto vi furono i primis le ragazze traviate che, per essere assistite, venivano spesso accolte nell’istituto (dove ricevevano accanto ad una migliore istruzione anche un avviamento ai lavori donneschi) e poiché moltissime di esse vi entravano da gravide, diventando madri nell’istituto, si diffuse l’infame credenza che i bimbi generati lo fossero stati, non dalle ragazze madri accolte nell’istituto, ma dalle stesse monache del Bambino Gesù e si coniò persino, con inusuale cattiveria,(per un popolo come il napoletano sempre paziente e comprensivo difronte ai casi della vita...), si coniò persino l’espressione in epigrafe con la quale si fa riferimento al continuo sciorinio di fasce e sottofasce imbandierate alle finestre del’Istituto. Rammento che a Napoli all’incirca nel medesimo periodo vi fu alla Salita Pontecorvo un altro istituto che accoglieva le ragazze madri ed era annesso al Convento di San Francesco dette delle Cappuccenelle (Il complesso fu costruito al termine del XVI secolo allo scopo di potervi ospitare le ragazze madri. Si trattava di una struttura gestita da suore appartenenti all'ordine francescano. All'inizio del XVIII secolo la ristrutturazione del convento fu affidata a Giovan Battista Naclerio, che progettò il suo rifacimento in stile barocco.; in questo istituto venivano altresí segregati i ragazzi disobbedienti e/o riottosi che affidati alla severa educazione delle suore, si sperava mutassero indole diventando piú costumati, disciplinati,rispettosi etc. Ed in effetti la reputazione di istituto in cui si impartiva un’educazione rigida ottenuta anche con metodi severi, rigorosi, rudi, inflessibili faceva sí che tra i ragazzi si temesse molto la minaccia: Te ‘nzerro dint’ ê Ccappuccenelle! (Ti rinchiudo nell’istituto di Correzione delle Cappuccinelle), minaccia grave quasi come quella: Te ‘nzerro dint’ ô Serraglio (Ti rinchiudo nell’istituto di Correzione annesso all’ Albergo dei Poveri!). Si trattava di minacce severe che spesso sortivano l’effetto voluto di ridurre all’obbedienza i ragazzi che non lo fossero, ma che non fossero di indole veramente cattiva e/o ribelle e si contentassero delle sole minacce per rientrare nei ranghi.
Ricordo che il monumentale Albergo dei Poveri (détto anche Reclusorio oppure Serraglio )in piazza Carlo III fu opera voluta dal re Carlo di Borbone (Carlo Sebastiano di Borbone (nome completo: Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio; Madrid, 20 gennaio 1716 –† Madrid, 14 dicembre 1788) fu duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735, re di Napoli e Sicilia senza utilizzare numerazioni (era Carlo VII secondo l'investitura papale, ma rifiutò tale ordinale) dal 1735 al 1759, e da quest'anno fino alla morte re di Spagna con il nome di Carlo III (Carlos III) e cosí I napoletani lo ricordarono. Quinto figlio di Filippo V di Spagna, ma primogenito dei nati dal suo secondo matrimonio con Elisabetta Farnese) ed edificato, ma non completato mai, su progetto di Ferdinando Fuga (Architetto Firenze 1699 - † Roma 1781), nell’utopica idea originale di raccogliervi tutti i poveri del regno, ma ci si limitò ad accogliervi vecchi e vecchie poveri ed abbandonati che affidati all’assistenza pubblica continuarono ad elemosinare per le strade ed a partecipare, dietro piccolissimo compenso ai funerali di borghesi facoltosi o alle processioni rituali; nel medesimo Albergo de’ Poveri furono accolti sempre affidati alla gratuita assistenza pubblica i ragazzi e le ragazze sordomuti/e di famiglie povere, mentre quelli/e di famiglie borghesi versavano una contenutissima retta mensile; a questi sordomuti/e erano equiparati i ragazzi e/o le ragazze che indocili/e, indisciplinati/e quando non addirittura d’indole malvagia,che venivano rinchiusi nell’istituto di correzione annesso all’ Albergo; tenendo presente il comportamento aggressivo e quasi ferino di di tali ragazzi/e giudicati alla stregua di animali, l’Albergo dei Poveri fu comunemente détto Reclusorio (deriv. del lat. reclusus, part. pass. di recludere 'recludere': prigione, ricovero per i mendicanti e gli accattoni) oppure Serraglio che di per sé con derivazione dal provenz. serralh, che è dal lat. volg. *serraculu(m) 'chiusura', deriv. di *serrare 'chiudere' è un s.vo m.le
1 (ant.) riparo, sbarramento difensivo; luogo chiuso
2 il complesso degli animali appartenenti a un circo; il luogo in cui si tengono chiusi
monaca s.f. suora, appartenente a un ordine monastico femminile; voce che è dal lat. tardo monacha(m), che è dal gr. monaché;
fasciatóre s. f. plurale di fasciatóra =fascia per neonato, striscia di tessuto robusto usata un tempo per avvolgere strettamente i neonati; quanto all’etimo si tratta di un deverbale di fasciare (dal lat. tardo fasciare ) aggiungendo al part. pass. fasciato il suff. ora→ura usato per ottenere dei sostantivi verbali;
savaniello/ savanella s. m.o f. sottofascia, topponcino, pannolino in cui avvolgere il bacino del neonato prima fasciarlo; quanto all’etimo si tratta di un derivato dello spagnolo sabanilla; da notare che la voce savaniello maschilizzazione dell’originaria savanella fu coniato per indicare un pannolino alquanto piú piccolo della corrispondente voce femm.le savanella che indicò un pannolino piú ampio secondo il noto criterio che in napoletano considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande, carretto piú piccolo – carrettapiú grande etc. con le sole eccezioni di caccavo piú grande e caccavella piú piccola, tiano piú grande, tiana piú piccola).
raffaele bracale

‘A MARONNA S’È VVISTA!

‘A MARONNA S’È VVISTA!

Ad litteram: La Madonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna che con la tipica rotacizzazione osco-mediterranea D→R: ‘a Maronna; segnalo qui che, essendo il napoletano (se si eccettuano le vocali finali (sempre) o pretoniche (spesso) semimute…) essendo il napoletano linguaggio che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna quando vi sia scritto Madonna, né ad. es. rinto se vi è scritto dinto; purtroppo spesso i miei conterranei (e non se ne comprende il motivo…) incorrono in questo errore… Torniamo all’espressione in epigrafe.
Essa non è un'espressione irriverente, ma una esclamazione liberatoria profferita nei confronti di qualcuno per significargli:
“Rassegnati! I nodi sono venuti al pettine!Non puoi piú nasconderti!La verità si è miracolosamente appalesata! Siamo giunti al redde rationem!”, quasi che il Cielo (la Madonna) prodigiosamente manifestandosi, voglia proporsi quale attendibile testimone di situazioni che non possono esser nascoste ed è ormai giocoforza esporre chiaramente e veritieramente, assumendosene ogni responsabilità. Ugualmente l’espressione in epigrafe si usa, con una certa dose di soddisfatta acrimonia in talune occasioni nei confronti di taluno che per abitudine mentisse, nel significato di: “Non tentare ancóra di mentire! Gli ultimi accadimenti dimostrano chiaramente quanto fossero mendaci le tue affermazioni che li ànno preceduti. Tutto è chiaro, ormai: sei stato smascherato!”
Raffaele Bracale

giovedì 28 aprile 2011

TRADIRE – TRADIMENTO & TRADITORE

TRADIRE – TRADIMENTO & TRADITORE
Questa volta su suggerimento/richiesta dell’amico P. G. amico di cui al solito (per questione di riservatezza) mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome, prenderò in esame le voci italiane in epigrafe, altre omologhe, quelle collegate e le corrispondenti del napoletano.
Cominciamo con
tradire v. tr.
1 mancare ad un dovere, ad un obbligo giuridico o morale cui si era tenuti per giuramento o in virtú di una solenne promessa; piú genericamente, venir meno alla fede data: tradire la patria, un ideale; tradire un amico; tradire la moglie, il marito, commettere adulterio ' tradire un testo, tradurlo o interpretarlo male | tradire il pensiero, travisarlo, non renderlo in forma originale: la parola spesso tradisce il pensiero | tradire le speranze, le attese, deluderle
2 (estens.) rivelare inopportunamente: tradire un segreto, una confidenza
3 (fig.) venir meno a qualcuno, mancargli: la memoria può tradirmi
4 manifestare involontariamente: quel gesto tradí il suo stato d'animo
5 dare (per tradimento) in mano al nemico, consegnare qlcn al nemico (come avvenne per Cristo) ||| tradirsi v. rifl. manifestare involontariamente il proprio animo, il proprio pensiero, le proprie intenzioni: con una parola si tradí.
etimologicamente è verbo dal lat. tradere 'dare, affidare, consegnare', che, come ò détto, nelle versioni latine dei Vangeli si usa in riferimento alla consegna di Gesù alle guardie da parte di Giuda, ed è quindi 'tradire';
consideriamo ora i sinonimi dove troviamo
ingannare v.tr.
1 operare con frode e malizia ai danni di qualcuno: ingannare il prossimo; ingannare il marito, la moglie, tradire | indurre, trarre in errore (anche assol.): ingannare l'avversario con una finta; l'apparenza inganna
2 deludere: ingannare le speranze, la fiducia di qualcuno | eludere: ingannare la vigilanza
3 (fig.) rendere meno gravosa una situazione o una sensazione spiacevole: chiacchierare per ingannare l'attesa; fumare per ingannare il tempo; cercava di distrarsi per ingannare la fame ||| ingannarsi v. intr. pron. cadere, essere in errore; giudicare erroneamente: ingannarsi sul conto di qualcuno; se non mi inganno, sta per scoppiare un temporale; etimologicamente è verbo dal lat. tardo ingannare, intensivo di gannire 'mugolare' e poi anche 'scherzare', con cambio di coniugazione.
mancare; v.intr.
1 non bastare, non essere sufficiente; non esserci: manca il tempo; i soldi non gli mancano; manca la firma | gli manca (solo) la parola, (fam.) si dice di animale domestico particolarmente intelligente ' gli manca un giovedì, un venerdì, (fam.) si dice di persona non pienamente in senno
2 distare, intercorrere (si usa per indicare lo spazio o il tempo che separa da un termine stabilito): mancano due ore a mezzogiorno; quanto manca alla partenza?; manca un chilometro all'arrivo | mancarci poco che... , essere sul punto di: ci mancò poco che si facesse male | ci mancava anche questa!, esclamazione con cui si indica il proprio disappunto per un contrattempo o una contrarietà che sopraggiunge dopo altri contrattempi o contrarietà | ci mancherebbe altro!, per deprecare un evento spiacevole che si desidera che non avvenga
3 venir meno: sentirsi mancare le forze, il respiro; era mancata l'acqua, la luce | sentirsi mancare la terra sotto i piedi, (fig.) trovarsi d'un tratto senza appoggio né difesa ' sentirsi mancare, (assol.) svenire
4 essere assente, lontano (detto di persona): alla riunione mancavi solo tu; manco da casa da molto tempo
5 essere rimpianto, desiderato: ci sei mancato molto; mi manca una sigaretta dopo mangiato
6 (eufem.) morire: è mancato un mese fa
7 essere privo: mancare di iniziativa, di risorse; non mancare di nulla, avere tutto il necessario
8 come nel caso che ci occupa sottrarsi, venir meno a qualcosa: mancare alla parola data, tradire quanto promesso; mancare di rispetto a qualcuno, avere nei suoi confronti un comportamento poco riguardoso; mancare di parola, non mantenere le promesse | (assol.) commettere una mancanza, un fallo; sbagliare: in quella occasione ò mancato; ài mancato a, nel rispondergli cosí
9 tralasciare, trascurare (in frasi negative): non mancherò di fartelo sapere |||
comev. tr. in senso affatto diverso dal tradire:
1 fallire: mancare un colpo, il bersaglio | mancare la palla, non prenderla, non riuscire a colpirla
2 (fam.) perdere: mancare l'occasione.
Etimologicamente è verbo denominale del lat. mancu(m) 'manco, mutilo', quindi 'difettoso, manchevole';


travisare; v.tr. alterare, falsare(le speranze e sim.), distorcere, per lo piú intenzionalmente, il significato, il valore di qualcosa: travisare la storia, la realtà, le parole di qualcuno e ciò equivale a tradire;| travisare il volto, l'aspetto, mascherarlo ||| travisarsi v. rifl. (antiq.) camuffarsi, mascherarsi: i bravi di mestiere,... usavan portare il lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto,... ne' casi in cui stimasser necessario di travisarsi (MANZONI P. S. III). Etimologicamente è verbo formato dal s.vo visu(m) con protesi del prefisso tra (prefisso di parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. trans- 'al di là, oltre; attraverso'; indica il passare oltre (travalicare) o attraverso qualcosa (trapassare), il passare da un punto all'altro (trapiantare) e, fig., da una condizione a un'altra (tramutare); può assumere valore attenuativo (travedere),denotare una situazione intermedia (tramortire)oppure – come nel caso che ci occupa – una situazione di cambiamento - o di andare oltre (trasgredire) Con significato vicino a quello della preposizione tra, anche per influsso del lat. intra 'tra', vale 'in mezzo, tra diverse cose' (tramezzare, trascegliere) e in questo significato si alterna con fra- e intra- (framezzare, intramezzare));
disattendere v.tr. 1 (burocr.e in senso generale) non applicare, non osservare: disattendere una norma, una prescrizione (e dunque tradirla)| non accogliere: disattendere una domanda
2 (estens.) non ascoltare, non seguire: disattendere un consiglio | deludere: disattendere le aspettative. Etimologicamente è verbo marcato su attendere (che è dal lat. attendere, comp. di ad 'verso' e tendere 'tendere') =attener(si)con il prefisso distrattivo dis (dal lat. dis-, che si riduceva a di- davanti a consonante sonora , si assimilava davanti a f (come in differre, difficĭlis), e in qualche caso si mutava in dir- (come in emĕre - dirimĕre)]. – Prefisso verbale e nominale che in molti vocaboli derivati dal latino o formati modernamente indica separazione (per es. disgiungere), dispersione (per es. discutere, che propr. significa «scuotere in diverse parti»),negazione (come nel caso che ci occupa «disattendere = non attendere»), e piú spesso rovescia il senso buono o positivo della parola a cui si prefigge (per es., onore - disonore; simile - dissimile; piacere - dispiacere). In molti casi il vocabolo nuovo si forma non per aggiunta, ma per sostituzione del prefisso (per es., accostare - discostare; assennato - dissennato). In moltissimi verbi, e nei loro derivati, il pref. dis- si alterna col più comune s-.
disertare v.tr.o intr.
come transitivo
1 (lett.) devastare, spogliare, mandare in rovina
2 lasciare volontariamente un luogo: i contadini stanno disertando le campagne | non prendere parte a qualcosa: disertare le lezioni, una riunione | (non com.) trascurare: disertare le amicizie, i divertimenti | (ant.) abbandonare: misi me per l'alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola de la qual non fui diserto (DANTE Inf. XXVI, 100-102) |||
come intr. [aus. avere; non com. essere]
1 (mil.) abbandonare senza autorizzazione il reparto di appartenenza o non farvi ritorno dopo un'assenza autorizzata; passare al nemico
2 (fig.ed è il ns. caso ) abbandonare un'idea, una causa, il partito a cui si apparteneva; venir meno a un dovere, a un obbligo.
È verbo dal lat. tardo desertare, deriv. di desertus, part. pass. di deserere 'abbandonare'
Esaminati i verbi passiamo ai sostantivi:
tradimento s.vo m.le
il tradire, l'essere tradito ' alto tradimento, (dir.) delitto contro lo stato o le persone che lo rappresentano ' a tradimento, con l'inganno; per estens., improvvisamente, imprevedibilmente: gli fece una domanda a tradimento | mangiare il pane a tradimento, senza guadagnarselo, a ufo.
Etimologicamente è un deverbale del pregresso tradire (cfr.)
voltafaccia, s.vo f.le inv.
1 (non com.) il voltarsi all'improvviso e bruscamente: il voltafaccia del cavallo; per non incontrarlo fece un rapido voltafaccia;
2 (fig.e come nel caso che ci occupa) cambiamento improvviso di idee, di atteggiamenti; il venir meno inaspettatamente a impegni o a promesse: un improvviso voltafaccia che stupì tutti; un voltafaccia politico. Etimologicamente è un sostantivo ricavato dall’agglutinazione della voce verb. volta (3° p. sg. ind. pr. dell’inf. voltare che è dal lat. volg. *volutare, intensivo di volvere 'volgere') con il s.vo faccia (dal lat. volg. *facia(m), per il class. fací¸e(m) 'forma esteriore, aspetto, faccia', deriv. di facere 'fare';

infedeltà, s.vo f.le .
1. a. Stato di colpa in cui si pone chi è abitualmente infedele o lo è stato in particolari casi; con sign. piú astratto e generico, violazione della fede, inosservanza dell’obbligo della fedeltà: i. coniugale, da parte della moglie o del marito; l’i. di un dipendente, di un funzionario; i. di un ministro, al proprio sovrano o ai principî della costituzione; i. ai proprî doveri, ai proprî ideali; i. in amore, nell’amicizia. b. Con riferimento all’uso fig. di infedele, mancanza di veridicità, di conformità al vero o all’originale: i. di un resoconto, di una copia, di una traduzione, di un ritratto; i. dello storico, di un testimone. 2. In senso concreto come nel caso che ci occupa, atto, azione, comportamento con cui si offende l’obbligo della fedeltà: commettere un’i., una grave i.; scoprire, punire le i. di un collaboratore; anche nel sign. fig.: esposizione, narrazione con molte infedeltà. Etimologicamente è voce dal lat. infidelĭta(tem)→infidel(i)tà→infedeltà.
diserzione, s.vo f.le
1 il disertare; l’abbandono di un reparto militare
2 (fig. come nel caso che ci occupa,) l’abbandono di una causa, di un partito e sim. Voce dal lat. tardo desertione(m), deriv. di desertus (cfr. antea disertare);
inganno, s.vo m.le 1 l'azione insidiosa di chi inganna;tradimento, imbroglio, raggiro: tramare inganni; servirsi dell'inganno, ricorrere all’inganno
2 l'errore in cui cade chi si inganna: trarre, indurre in inganno; l'inganno dei sensi | gli amorosi inganni, (lett.) le illusioni date dall'amore | cadenza d'inganno, (mus.) quella che dal quinto grado risolve sul sesto invece di ritornare alla tonalità d'impianto. Etimologicamente è voce deverbale di ingannare(cfr. antea);

imbroglio. s.vo m.le
1 groviglio, intrico: un imbroglio di fili
2 (fig.) faccenda, situazione intricata, confusa: cacciarsi in un imbroglio; tirarsi fuori da un imbroglio. DIM. imbroglietto, imbrogliuccio PEGG. imbrogliaccio
3 (fig.cosí come nel caso che ci occupa) espediente inteso a trarre in inganno, a modificare illecitamente la situazione a proprio vantaggio: questo affare nasconde un imbroglio
4 (mar.) ciascuno dei cavetti applicati a una vela per poterla serrare
5 (mus.) intreccio di parti vocali o strumentali con sovrapposizione di ritmi diversi; è frequente nelle opere buffe o di carattere giocoso. Etimologicamente è voce deverbale di imbrogliare ( cheè con assoluta probabilità da un imbogliare (con successiva epentesi di una erre eufonica); imbogliare, a sua volta è da un in illativo + bollire nel senso di confondere (ciò che bolle si mescola talmente che si fonde con e cioè confonde.);
traditore/trice, s.vo m.le o f.le, talora anche agg.vo m.le o f.le .
[ al f.le -trice, ma pop. -tora] chi tradisce: traditore della patria.
Usato anche come agg. : occhi traditori, che fanno innamorare | vino traditore,che ubriaca pur apparendo leggero |faccia traditrice, che appalesa i veri sentimenti | (fam.) alla traditora, di sorpresa, a tradimento.
Voce dal lat. traditore(m) 'colui che consegna'; cfr. tradire

fellone, s.vo ed agg.vo m.le e solo maschile quantunque sia possibile un f.le fellona epperò non usato;
1 che, chi manca alla parola data; traditore, sleale | (estens.) perfido, scellerato
2 adirato, rabbioso, furioso
3 crudele; spietato;
la voce etimologicamente è con qualche probabilità da un antico franco félon ma forse piú probabilmente dall’antico sassone félen odonde un lat. med. fello/fellonis→fellone(m) (Du Cange);
fedifrago/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le agg. (lett.) che non tiene fede ad un giuramento, ad un patto, ad un impegno; traditore | (scherz.) infedele, spec. detto di coniugi.Voce dal lat. foedifragu(m), comp. di foedus -eris 'patto' e un deriv. di frangere 'rompere, spezzare'.
E veniamo alle voci del napoletano e troviamo:
scurnacchià v.tr.
1 tradire il coniuge;
2 scornare, svergognare, deridere, beffare;
3 diffamare, dir male di qlcn.
verbo denominale di cuorno (dal lat. Lat. cŏrnu→cuorno) con protesi della s distrattiva ed addizionato del suff. alterativo/peggiorativo acchio che continua il lat. –aculum→-aclu(m)→acchio;
scurbacchià v. tr. non comune e desueto, sinonimo del precedente nelle prime due accezioni:
1 tradire il coniuge;
2 scornare, svergognare, deridere, beffare; verbo che piú che denominale di cuorbo(= corvo) (dal lat. Lat. cŏrbu(m)→cuorbo) con protesi della s distrattiva ed addizionato del suff. alterativo/peggiorativo acchio che continua il lat. –aculum→-aclu(m)→acchio, penso debba ritenersi adattamento attenuativo locale (città bassa) del pregresso scurnacchià forse ritenuto troppo duro.
Non mi risulta esistano altri verbi napoletani che rendono il tradire dell’italiano se non quelli figurati o traslati che trattai alibi sub imbrogliare,ingannare,abbindolare, intrigare ed a quello articolo rimando; possiamo passar dunque ai tre sostantivi napoletani che rendono il tradimento dell’italiano; essi sono:

aleventura, s.vo f.le
1 tradimento,
2 inganno
3 raggiro,
4 falsità
voce etimologicamente denominale del greco a + lebén(tes)addizionato del suffisso tura , suffisso tratto dal lat. -tura(m), usato per formare sostantivi femminili derivati da verbi (tritatura, ungitura) oppure, ma raramente (come in questo caso) da s.vi;
pruditaría s.vo f.le
1 infedeltà,
2diserzione (mil.),
3 inganno,
4 imbroglio.
Voce etimologicamente ricostruita sul lat. prōditore(m), deverbale di prodere 'tradire';

traitura s.vo f.le
1 tradimento,
2 trabocchetto,
3 inganno,
4 imbroglio.
5 infedeltà.
Voce etimologicamente costruita sul francese trahir= tradire addizionato del suff. lat. -tura(m), usato per formare sostantivi femminili derivati da verbi;
e veniamo infine ai sostantivi che rendono l’italiano traditore; e sono:


aleviénto, s.vo m.le
1 traditore
2 ingannatore
3 imbroglione,
4 truffatore,
5 impostore.
Quanto all’ etimo si tratta di voce costruita non come la precedente aleventura che è denominale del greco a + lebén(tes)(addizionato del suffisso tura), ma di voce dotta/letteraria, dedotta dall’ agg.vo spagnolo aleve (infido, infedele) addizionato del suff.iénto adattamento del suff. lat. ĕnte(m) in origine usato per formare i part. pres. della II, III e IV coniugazione e successivamente per la formazione d’aggettivi e/o sostantivi;


renejato/a, s.vo ed ag.vo m.le o f.le
rinnegato/a,apostata, traditore, giuda;
che, chi à sconfessato o tradito la propria patria o la propria fede.
Quanto all’etimo si tratta del p.pass. (usato in funzione sostantivale o aggettivale) dell’infinito renejà (dal lat. volg. *renegare, comp. di re- 'ri-' e negare 'dire di no') = rinnegare;

tràino s.vo m.le
1 traditore
2 impostore.
3 imbroglione,
4 truffatore,
5 falso,
6 ciarlatano,
7 lestofante.
Voce etimologicamente costruita, come la precedente traitura sul francese trahir= tradire.
E con ciò penso proprio d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico P.G. ed interessato qualche altro dei miei ventiquattro lettori e penso di poter dire Satis est.
Raffaele Bracale

TRE PPENZIERE E CCHISTO ‘A QUATTO

TRE PPENZIERE E CCHISTO ‘A QUATTO

Ad litteram: (Ò) tre pensieri e questo (fa) da quarto! Id est: Quello che tu mi presenti come un problema, in realtà è un piccolissimo impiccio, anzi non lo è per nulla e rappresenta perciò sola l’ultima delle (mie) preoccupazioni in quanto esso supposto problema, in realtà non presenta alcuna difficoltà per essere superato e risolto. Espressione usata a sarcastico commento opposto a chi inetto ed incapace infastidisca il prossimo accampando problemi che non lo siano e per la loro soluzione richiedano addirittura un aiuto!
Brak

OSTINATO & dintorni

OSTINATO & dintorni

Questa volta per contentar l’amico Umberto Z. ( peraltro dettosi molto soddisfatto di quanto, su suo invito, ò spesso scritto) per contentar, dicevo, l’amico Umberto che me ne à richiesto,autorizzandomi a fare il suo nome,ma non il cognome!, cercherò di illustrare la voce in epigrafe, i suoi sinonimi e quelle corrispondenti dell’ idioma napoletano; cominciamo dunque con ostinato per proseguire con i suoi sinonimi prima di considerare le voci corrispondenti del napoletano:
ostinato/a agg.vo m.le o f.le– 1. a. Di persona, che persiste con caparbia tenacia in un atteggiamento, in un proposito, nelle sue idee o opinioni, spesso nonostante l’evidenza contraria, sia come caratteristica abituale sia come atteggiamento legato a casi e situazioni particolari: un uomo o., una ragazza o.; chi nell’acqua sta fin alla gola, Ben è o. se mercé non grida (Ariosto); è o. come un mulo; essere o. nelle proprie idee, nel non voler riconoscere le ragioni degli altri; è o. avversario di ogni novità. Anche, tenace, costante, sia in senso positivo: un ricercatore, un lavoratore, uno studioso o.; Te o. amator de la tua Musa (Parini); sia in senso limitativo, con sign. analogo ad accanito, impenitente e sim.: peccatore, bevitore, giocatore ostinato. b. estens. di cosa in cui si persiste in modo inflessibile, irremovibile: chiudersi in un o. silenzio, in un mutismo o.; uno studio o.; un’o. difesa; opporre un’o. resistenza. 2. fig. a. Di cosa molesta che dura piú dell’ordinario, che sembra non voler cessare, o di male che resiste a ogni rimedio: una pioggia, una nebbia o.; febbriciattole o.; tosse o.; ò un o. dolore alla spalla destra. b. In musica (anche come s. m.), di figura melodica che si ripete incessantemente, invariata e alla stessa altezza, per tutta una composizione o una parte di essa; appare di solito nel basso, che prende in tal caso il nome di basso o. (v. basso2). Piú genericamente, per indicare la persistenza di un ritmo o di un effetto strumentale (per es., il pizzicato o. nella Sinfonia n. 4 di Čajkovskij);
etimologicamente dal lat. o(b)stinatu(m) part. pass. del verbo obstinare= ostinarsi.
Passiamo ai sinonimi:
Accanito/a agg.vo m.le o f.le1 furioso, violento: odio accanito
2 (fig.) ostinato, tenace: lavoratore, fumatore, giocatore accanito
etimo: p.p. di accanire = Far irritare come un cane: i consigli supplichevoli accaniscono i caparbi (Botta). 2. intr. pron. Imbestialirsi furiosamente, com’è proprio del cane verbo che è denominale di canis.
Caparbio/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc.; ostinato, testardo; quanto all’etimo poco convince una proposta derivazione(Treccani & altri) dal s.vo capo che lascerebbe inevaso mezzo lemma nella parte di arbio; né appare credibile il D.E.I. che ipotizza fantasiosamente uno sconosciuto né attestato *capardo forse accostato a testardo incrociato con superbio (per superbo?) per cui pare piú accettabile l’idea di chi (Pianigiani) vi vide un incrocio tra capra (animale cocciuto) e barbio (dal lat. barbulus= barbuto) : nome dato a piú specie di pesci d’acqua dolce del genere Barbus, famiglia ciprinidi, che presentano generalmente un paio di barbigli simili ad una barbetta di capra, dalle abitudini tenaci se non aggressive che ne rendono complicata la pesca; in Italia vivono due specie, il b. comune (Barbus barbus, con la sottospecie plebejus) e il b. meridionale (Barbus meridionalis), che costituiscono un cibo apprezzato. Il barbo/barbio è figura frequente negli scudi araldici, posto in palo, curvato e di profilo.
Cocciuto/a agg.vo e s.vo m.le o f.le testardo, ostinato, pervicace, tignoso; quanto all’etimo è un denominale di coccia= guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías)
pervicace agg.vo m.le ef.le ostinato, caparbio, accanito (per lo piú nel male); protervo: carattere pervicace; opposizione pervicace etimologicamente è dal lat. pervicace(m), deriv. di pervincere 'vincere completamente, spuntarla', comp. di per, con valore perfettivo (si dice dell'aspetto del verbo che esprime la compiutezza o il compimento di un'azione o di uno stato (p. e. fumò una sigaretta rispetto a fumava una sigaretta, che considera l'azione nel suo svolgimento); , e vincere 'vincere';
protervo/a agg.vo m.le o f.le 1 superbo e arrogante: un individuo, un atteggiamento protervo
2 (ant.) ardito, altero: regalmente ne l'atto ancor proterva (DANTE Purg. XXX, 70, descrivendo Beatrice);
quanto all’etimo è dal lat. protervu(m) composto da pro (avanti) e tero (trito, batto,calpesto);
puntiglioso/agg.vo e s.vo m.le o f.le =che agisce per ostinazione caparbia; che è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione: una persona puntigliosa; avere un carattere puntiglioso; un ragazzo puntiglioso nello studio; come s. m. [f. -a] persona puntigliosa: fare il puntiglioso
quanto all’etimo è aggettivo/sostantivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a al sostantivo puntiglio che è dallo sp. puntillo, dim. di punto (de honor) 'punto (d'onore)';
tenace agg.vo m.le e f.le1 che tiene bene, che fa presa: là dove bolle la tenace pece (DANTE Inf. XXXIII, 143)
2 detto di materiale metallico, che resiste alla deformazione | (estens.) detto di altro materiale, che non si rompe facilmente: filo tenace
3 (fig.) forte, resistente; saldo nei propositi; costante, puntiglioso,: memoria, volontà tenace; un ragazzo tenace; un affetto tenace, che dura molto a lungo
4 (lett.) parco, avaro (ma è poco usato in tale accezione)
L’etimo è dal lat. tenace(m), deriv. di teníre 'tenere'
tignoso/a agg.vo m.le o f.le
1 affetto da tigna
2 (fig. region.) avaro
3 (fig. region.) testardo, ostinato.
L’etimo è dal lat. tine-osu(m), deriv. di tinea 'tigna'.
E veniamo finalmente al napoletano dove abbiamo numerosi aggettivi che rendono quello dell’epigrafe ed i suoi sinonimi; li considero qui di sèguito:
Capaglione/a agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano tignoso/a;
L’etimo è da un lat.regionale *capalione(m) da capale (Du Cange pg. 861);
Capa tosta /capetuosto agg.vo o s.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano testardo;
ambedue i termini sono etimologicamente formati o dall’accostamento o addirittura dell’agglutinazione di capa/cape =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) con l’aggettivo tosta/tuosto = duro, sodo (dal lat. tosta→tosta/tostu(m)→tuosto, part. pass. di torríre 'disseccare, tostare, render duro';
Capoteco/a agg.vo m.le o f.le che pensa e agisce seguendo le proprie idee, senza tener conto dei consigli altrui, delle difficoltà ecc e cioè corrisponde ad un dipresso all’italiano caparbio; quanto all’etimo è voce formata partendo da capa→capo =testa, capo (dal lat. volg. capa(m) per il classico caput) piú il suffisso durativo òteco/a←òticu(m)/òtica(m) (cfr. (id)òticus;
cervecone/a agg.vo m.le o f.le = vale tal quale il precedente capaglione di cui è una sorta di accrescitivo (cfr. il suff. one/a); in origine però non fu aggettivo, ma un sostantivo indicante la nuca,la cervice, la collottola del capo e fu poi usato quale aggettivo indicante chi è ostinato o testardo; tale passaggio è semanticamente spiegato con il fatto che nell’inteso comune la cervice (da cui etimologicamente la voce trae) è spesso détta dura, quantunque morfologicamente la collottola o nuca, posta alla base del cranio sia piuttosto molle e non dura; la voce come détto è da un tardo lat. *cervicone(m) modellato su cervix= cervice e risolve comodamente in un unico termine il giro di parole (di dura cervice) dell’italiano;
Criccuso/a agg.vo m.le o f.le corrispondente all’incirca ai significati dell’italiano puntiglioso e cioè: che/chi è incline a sostenere un'idea o a compiere un'azione piú per orgoglio che per vera convinzione con l’aggiunta peggiorativa d’essere dispettoso e/o capriccioso; quanto all’etimo è aggettivo formato aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→oso/a o al sostantivo cricchio (voce onomatopeica che vale ticchio, ghiribizzo) o piú probabilmente al sostantivo cricco (dal fr. cric martinetto, quello con cui si solleva un autoveicolo quando si deve sostituire una ruota); semanticamente, oltre che morfologicamente trovo piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio= ghiribizzo; infatti criccuso mi pare che ripeta, semanticamente, la forza puntigliosa(quasi dispettosa) esercitata con il cricco per raggiungere lo scopo del sollevamento d’un autoveicolo, laddove non mi par di poter trovare attinenze semantiche tra un’idea improvvisa e stravagante quale quella del ghiribizzo e l’applicazione costante e finalizzata del criccuso/puntiglioso; ugualmente morfologicamente trovo molto piú vicino a criccuso la voce cricco piuttosto che la voce cricchio(= ghiribizzo) voce che probabilmente avrebbe potuto evolversi in cricchiuso (mai però attestato) e non in criccuso;
‘mbizzuso/a agg.vo m.le o f.le di per sé in primis capriccioso/a, lunatico/a; scontroso/a e quindi per estensione testardo, ostinato, forte, resistente, costante, puntiglioso, saldo nei proprî propositi stravaganti e/o bizzarri; quanto all’etimo è aggettivo formato premettendo un in→’m rafforzativo ed aggiungendo il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa al sostantivo bizza (
1.breve stizza, capriccio stizzoso, ma di breve durata, senza serio motivo, anche fig.: il bimbo fa le bizze; il motore fa le bizze.
2.(per ampliamento semantico)impuntatura, ira, collera; etimologicamente molti dizionari registrano la voce come d’etimo incerto, il D.E.I. e precisamente Carlo Battisti o Giovanni Alessio che si presero la responsabilità delle voci sotto la lettera B ipotizzarono (ma a mio avviso poco convincentemente) una derivazione dal lat. vitiosus per il tramite dell’aggettivo bizz(i)oso; semanticamente non trovo molta corrispondenza tra il vizio(che in latino vale errore, mancanza) ed il capriccio o l’impuntatura che son proprî della bizza; migliore m’appare la proposta di Ottorino Pianigiani che legge bizza come forma varia ed intensiva di izza battezzando ambedue come provenienti dall’antico sassone hittja→hizza = ardore): trovo l’ardore semanticamente molto piú vicino del vizio all’impuntatura,alla ira o anche solo ad una breve stizza!);

ncucciuso – ncucciosa agg.vo m.le o f.le ripete all’incirca le valenze del precedente cervecone/a nei significati di persona dalla testa dura ,persistentemente caparbia, testarda, puntigliosa, testona, cocciuta; quanto a l’etimo è termine formato da una n eufonica (per la quale non necessita alcun segno diacritico di aferesi che non c’è stata, (segno che necessiterebbe nel caso che la n fosse aferesi di un (i)n→’n illativo), n eufonica premessa alle voci cucciuso cucciosa nate addizionando la voce cuccia per coccia ← coccia (guscio di crostaceo, conchiglia e per estensione scorza, buccia e regionalmente testa (dal lat. cochlea(m) 'lumaca, chiocciola', dal gr. kochlías) con il suffisso lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa (suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, che indica presenza, caratteristica, qualità ecc. (, curaggiuso/curaggiosa,perecchiuso/perucchiosa= pidocchioso/a, schifuso/schifosa).
;
ncucciuto/a agg.vo m.le o f.le è il medesimo aggettivo precedente con una morfologia un po’ diversa; in questo a margine il suffisso non è quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, ma quello verbale uto/a del part. passato, usato spesso per la formazione di aggettivi; la cosa da notare è che se l’agg.vo a margine fosse etimologicamente un reale p.p. dell’infinito ncuccià =ostinarsi, colpire, prendere etc., avrebbe dovuto essere ncucciato e non ncucciuto che potrebbe essere p.p. d’un inesistente ncuccí ;
ncanuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: stizzoso, sdegnoso e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie idee, da non lasciar spazio alle altrui idee o azioni, quasi come un cane da guardia. Etimologicamente è voce costruita con una n eufonica ( che non è residuo di un in→’n illativo e dunque non necessita(come ò già détto antea) del segno diacritico d’aferesi la cui apposizione, (come pure m’è occorso di trovare in taluni importanti (sic!) scrittori, sedicenti esperti dell’esatta grafia dell’idioma partenopeo) sarebbe inutile e pleonastica, n eufonica anteposta al sostantivo cane (lat. cane(m)) seguito dal suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncanato/a agg.vo m.le o f.le voce analoga alla precedente nel significato di ostinato, cocciuto, testardo, caparbio, pertinace, puntiglioso, che agisce alla maniera d’un cane da guardia; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, come la precedente sul s.vo cane (lat. cane(m), à una morfologia affatto diversa: in questa a margine infatti la ‘n d’avvio non è una consonante eufonica, ma è un residuo di un in→’n illativo e dunque necessita del segno diacritico d’aferesi; il suffisso adottato poi è quello (ato/a) delle desinenze verbali (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncanarse (comportarsi come un cane);
‘ncapunito/a agg.vo m.le o f.le intestardito, testardo, caparbio, come chi abbia una testa tanto grossa da farlo definire testone,testardo, pervicace, tignoso, persona ostinata ma poco intelligente; etimologicamente la voce a margine pure essendo costruita, sul s.vo capone = grosso capo cui è anteposta un in→’n illativo che dunque necessita del segno diacritico, adotta come suffisso quello (ito/a) delle desinenze verbali di terza coniugazione (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncapunirse (intestardirsi, incaparbirsi, fissarsi, impuntarsi);

ncrapicciuso/osa agg.vo m.le o f.le vale in primis: estroso, bizzarro, originale, stravagante, insolito, strambo; civettuolo, e per ampiamento semantico testardo, fermo nelle proprie pretese balzane, bizzose,eccentriche, strampalate, assurde; ; etimologicamente la voce a margine è costruita sul s.vo crapiccio = voglia improvvisa e stravagante, desiderio bizzarro, ghiribizzo, sostantivo per il cui etimo si sospetta (D.E.I.- GARZANTI) una derivazione con lettura metatetica di cap(o)riccio = capo con i capelli rizzati per la paura, quindi manifestazione stravagante; trovo però migliore un’adattamento del fr. caprice sempre con lettura metatetica; al s.vo crapiccio è anteposta una n eufonica che dunquenon necessita del segno diacritico, e gli fa seguito il suffisso di pertinenza osus/osa→uso/osa;
‘ncurnato/a agg.vo m.le o f.le ad litteram varrebbe incornato/a cioè colpito/a da una cornata, ma è inteso nei significati traslati di testardo, sfrontato, insolente, cocciuto, che fa di testa propria incurante di moniti o suggerimenti,accezioni tutte semanticamente spiegate con il fatto che esistono delle bestie (ovini – bovini) dal comportamento cocciuto ed il cui capo è spesso provvisto di corna s.vo su cui è modellato l’aggettivo a margine secondo il seguente iter: al s.vo cu(o)rn(a)←corna è anteposta un in→’n illativo che in quanto tale necessita del segno diacritico, ed al s.vo fa seguito il suffisso ato/a) delle desinenze verbali di 1° cng. (part. passato) tanto da far sospettare una diretta derivazione dall’infinito riflessivo ‘ncurnarse (comportarsi cocciutamente come una bestia provvista di corna);
di pertinenza osus/osa→uso/osa;


‘nzallannòmmene agg.vo e s.vo m.le e solo m.le: non è attestato come f.le= in primis zuccone, sciocco, stolto, scimunito; (fam.) tonto; poi per estensione semantica protervo, spocchioso, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciato, sfrontato, insolente e da ultimo testardo, ostinato, disorientatore,chi frastorna, turba, confonde, frastorna, sconcerta, scombussola con atti o discorsi ostinati, tenaci, perseveranti, caparbi, testardi, puntigliosi; è voce deseutissima che rappresenta quasi la voce attiva rispetto alla voce passiva ‘nzallanuto/a che connota colui o colei che subiscono l’azione del disorientamento, frastornamento, turbamento, confusione, , sconcertamento, scombussolamento con atti o parole ad opera di un ‘nzallannòmmene (ad litteram: frastorna-uomini).
Etimologicamente sia ‘nzallannòmmene che ‘nzallanuto/a sono deverbali di ‘nzallaní di cui ‘nzallanuto/a è il participio passato, mentre ‘nzallannòmmene è formato agglutinando la radice ‘nzallan di ‘nzallaní (con raddoppiamento espressivo della nasale dentale n: ‘nzallaní →‘nzallanní) con il so.vo òmmene per uòmmene(dal lat. (h)omine(s) con radd. espressivo della nasale bilabiale m) pl. di ommo = uomo (dal lat. (h)omo con radd. espressivo della nasale bilabiale m); occorre solo chiarire ora significato ed etimo del verbo ‘nzallaní; dirò perciò che accanto alla voce ‘nzallaní, nel napoletano è in uso anche ‘nzallanirsi e questa seconda voce rappresenta la forma riflessiva della prima, e son verbi che entrarono ed ancóra entrano nel comune parlato partenopeo soprattutto nella forma di participio passato aggettivato ‘nzallanuto/a e spessissimo in unione con i sostantivi viecchio e vecchia: viecchio ‘nzallanuto, vecchia ‘nzallanuta nei significati di confondere/ confondersi, stordire/stordirsi, intontire/intontirsi e dunque confuso/a, stordito/a, intontito/a, che spesso icasticamente riproducono l’atteggiamento ed il comportamento di persone avanti negli anni, persone che si mostrano, in quasi tutte le occasioni distratti ed addirittura talora rimbambiti. I verbi in esame in senso transitivo, come si evince, si riferiscono alle malevole azioni di coloro che con il loro fastidioso agire intralciano l’altrui vivere inducendo gli altri in confusione, in istordimento, in intontimento e/o distrazione tali da indurre in errore (cfr. Statte zitto ca me staje ‘nzallanenno!= Taci ché mi stai frastornando!), mentre usati in senso riflessivo raccontano la confusione, lo stordimento l’intontimento in cui incorrono spontaneamente soprattutto le persone anziane che usano mostrarsi anche coscientemente e per cattiva volontà, distratti, disattenti, frastornati quasi gloriandosi di questo loro status che ritengono ineludibile e di pertinenza della loro età avanzata.
Ma spesso si tratta di un atteggiamento di comodo!
Ciò detto veniamo a trattare della questione etimologica dei verbi in esame.
La faccenda non è delle piú tranquille; una prima scuola di pensiero (cui peraltro aderisce accanto ad Antonio Altamura, anche l’amico prof. Carlo Iandolo) mette in relazione i verbi ‘nzallaní – ‘nzallanirse con il verbo latino insanire (impazzire – perdere i lumi) che avrebbe generato (attraverso l’inserimento di una non spiegata o chiarita sillaba lu) *insalunire donde per metatesi sillabica, aferesi iniziale, cambio ‘ns→’nz e raddoppiamento espressivo della l→ll ‘nzallanire. Ipotesi interessante ma, tutto sommato, morfologicamente molto articolata e tortuosa. Trovo forse piú perseguibile l’etimo proposto dall’altro amico l’ avv.to Renato de Falco che alla medesima stregua del fu (parce sepulto!) prof. Francesco D’ Ascoli pensano di collegare i verbi in epigrafe con il greco selenizomai= esser lunatico e dunque stordito, confuso ed inebetito , oppure al verbo zalaino di significato simile al precedente;l’amico de Falco fa anche di piú e collega al greco zalaino anche l’aggettivo sostantivato partenopeo zallo che è lo sciocco,l’inesperto, il credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtú.
Per ciò che riguarda i verbi esaminati mi pare di potere accettare l’ipotesi di de Falco e di D’Ascoli; ma per quanto riguarda la voce zallo sono di diverso parere e cioè che il vocabolo zallo, sia o possa essere un adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs); di per sé il tallo è il germoglio, la talea, la giovane foglia tenera , il virgulto che semanticamente ben potrebbe, per traslato, indicare con la sua tenera inconsistenza, la accondiscendenza credula dell’inesperto zallo; normale infatti il passaggio del gruppo th a z (cfr. thiu(m)→zio);
tuttavia per la voce zallo mi sento di poter formulare anche un’altra ipotesi, ipotesi che espongo qui di sèguito.
Atteso che con il termine zallo (aggettivo sostantivato) nella parlata napoletana si intese ed ancóra si intende il babbeo, l’allocco, lo stupido credulone, occorre rammentare che le medesime accezioni le à la voce zanno che ripete in napoletano il termine italiano zanni equivalente di Giovanni famoso personaggio della commedia cinquecentesca bergamasca dove lo zanni/Giovanni era il servo sciocco e credulone; di talché non è azzardato ipotizzare una rilettura popolare di zanno diventato zallo con sostituzione (magari a dispetto di qualche norma che presiede la linguistica!) delle nasali dentali nn con le piú comode consonanti laterali alveolari ll.
Ultimissima ipotesi è poi che zallo (=babbeo, allocco, stupido credulone) usato spessissimo in riferimento (cfr. R. Viviani) ad un graduato tutore della legge, ad uno sbirro intesi sempre sciocchi, stupidi e creduloni (ibidem: ‘o zallo s’ammocca= lo sciocco sbirro prende per buona… una fandonia ), possa essere corruzione di comodo di un originario zaffio o zaffo che con derivazione dall’iberico zafio vale uomo violento, sbirro, ma non è da escludere un collegamento ad un lat. med. zaffo= servitore all’ordine d’un magistrato (sbirro).
Da zaffo a zallo il passo non è lungo, come ugualmente non lungo potrebbe esserlo (con buona pace dei linguisti) quello da zanno a zallo!; epperò penso che la prima ipotesi quella cioè che ritiene zallo adattamento corruttivo di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs) sia la migliore e quella piú perseguibile;
proffediosa agg.vo e s.vo f.le e solo f.le: non è attestato come m.le= in primis zuccona, sciocca, stolta, scimunita; tonta; poi per estensione semantica proterva, perfida,malvagia, spocchiosa, sprezzante, tracotante; arrogante, sfacciata, sfrontata, insolente e da ultimo testarda, ostinata,subdola, tenace, perseverante in atteggiamenti (tipici delle donne) malvagi e spesso crudeli; è voce purtroppo deseutissima etimologicamente formata sul s.vo perfidia (dal lat. perfidia(m), deriv. di perfidus) letto metateticamente prefidia→preffidia→proffidia con raddoppiamento espressivo della consonante fricativa labiodentale sorda e cambio della e (intesa lunga) in o e aggiunta del suffisso di pertinenza osa←osus/osa
scurzone/a - scurzato/a – scurzuso/osa tre agg.vi m.li o f.li morfologicamente poco diversi (cambiano i suffissi)che valgono tutti in primis spilorcio/a, avaro/a e poi per ampiamento semantico tutti ostinato/a, fermo/a nei proprî propositi come chi sia di dura scorza (corteccia) e non si lasci intaccare da nulla; etimologicamente tutti sono costruiti sul s.vo scorza (dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', f. sost. dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle') 1-rivestimento del fusto e delle radici degli alberi; 2 – ( estens.) pelle di alcuni animali, spec. di pesci e serpenti 3 ed è il caso che ci occupa: pelle dell'uomo (spec. in alcune loc. dell'uso fam.): avere la scorza dura, (fig.) aspetto esteriore, apparenza; dicevo che tutti I tre aggettivi sono costruiti sul s.vo scorza; al primo è aggiunto il suffisso accrescitivo one/ona ,al terzo quello lat. di pertinenza osus/osa→uso/osa, mentre al secondoquello verbale ato/a del part. Passato dei verbi di 1° cngz, usato spesso per la formazione di aggettivi, tanto da poter far sospettare che scurzato/a sia il p.p. dell’infinito scurzà =privare della buccia o scorza da intendersi però in senso antifrastico come chi non si lascia intaccare la propria buccia;
e veniamo all’ultimo termine che rende in napoletano quello italiano dell’epigrafe:
vinciuto/a agg.vo m.le o f.le in primis prepotente, viziato,petulante, fastidioso,, arrogante, ostinato nelle pretese,diseducato,abituato ad averle tutte vinte: è ‘nu criaturo/’na criatura vinciuto/a (è un bambino/una bambina viziato/a); etimologicamente ci troviamo in presenza di una forma verbale (part. pass. aggettivato ) dell’infinito véncere (dal lat. vincere) vincere,sconfiggere, superare, sbaragliare, schiacciare, annientare; conquistare, espugnare etc.,
ma ci troviamo ad aver che fare, a mio avviso, con un uso improprio di un participio passato che solitamente viene usato per indicare un’azione non solo passata, ma pure subíta: in italiano vinto (part. passato di vincere) indica il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, mentre è il part. presente vincente ad indicare colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno; alla medesima stregua in napoletano vinciuto (part. passato di vencere) dovrebbe indicare il sopraffatto, lo sconfitto, il perdente, colui che à perso, e non (come invece avviene)colui che stia vincendo, sopraffacendo, sconfiggendo qualcuno, anzi colui che le à sempre vinte tutte!, ma è d’uso ormai sia nel parlato che nello scritto napoletano considerare vinciuto sinonimo di vittorioso, vincente, forse sottintendendo un che à→ c’à in posizione protetica a vinciuto: ad es.: è ‘nu criaturo vinciuto cioè è ‘nu criaturo(c’ à) vinciuto; ma non saranno le mie parole a rimettere ordine in codesto groviglio semantico.

Satis est.
Raffaele Bracale