sabato 12 maggio 2012
TRE DESUETE LOCUZIONI
TRE DESUETE LOCUZIONI
Ancóra una volta è stato il caro amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a chiedermi via e-mail di chiarirgli significato e portata delle tre desuete espressioni partenopee che qui di sèguito elenco:
1) NUN SAPE NIENTE ‘E SAN BIASE!
2)CIENTO DUCATE Ô FISCO E NNO ‘NU CALLO Ô SI’ FRANCISCO!
3) APPOZA FRATIÉ PE SAN GIUVANNE!
Chiarisco in primis che si tratta di tre locuzioni desuete e che mancano tra di loro di un qualsiasi nesso vuoi logico vuoi linguistico e non so proprio cosa abbia spinto l’amico ad accostarle nella richiesta fattami. Ma tant’è; evito di indagare sul perché della richiesta e mi accingo a dar la spiegazione delle tre desuete espressioni partenopee augurandomi d’essere esauriente e soddisfare l’amico P.G. ed interessare qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Bando alle ciance entriamo in argomento affrontando nell’ordine le tre locuzioni.
1) Nun sape niente ‘e san Biase.
Ad litteram: Non è al corrente di san Biagio. La locuzione nel suo autentico significato sotteso, fuor del velame de li versi strani, viene usata con riferimento sarcastico a chi (per essere abitualmente bugiardo/a o non essere capace di sostenere e difendere apertamente (assumendosene la responsabilità) le proprie azioni e/o idee) faccia le viste, anche in presenza di conclamate prove, di non avere nulla a che spartire con gli avvenimenti che gli vengano addebitati, rifiutando qualsiasi coinvolgimento e/o attribuzione, imputazione, accusa, carico o colpa. La locuzione, antichissima, risale al 1600 circa ed affiorò in origine sulle labbra d’ un delegato di polizia del centro storico della città. All’indomani d’ un furto sacrilego perpretato da ignoti nella chiesetta napoletana di san Biagio Maggiore (cfr. ultra) donde era stata sottratta l’artistica statua del santo addobbata con i preziosi ex-voto dei fedeli,quel non meglio identificato delegato di polizia stava interrogando alcuni pregiudicati e tutti gli interrogati negavano il loro coinvolgimento con il furto del simulacro. Quando anche uno dei ladri pregiudicati nella cui abitazione per altro erano stati rinvenuti alcuni degli ex-voto che ornavano la statua del santo, negò di aver preso parte alla sottrazione ed con impudenza asserí addirittura di non conoscere neppure l’esistenza d’ un san Biagio (santo peraltro notissimo a tutto il popolo partenopeo cfr. ultra), ripeto: quando anche quel ladro negò, il delegato rivolgendosi ad un suo collaboratore sbottò nell’espressione “ E manco chisto sape niente ‘e san Biase!” espressione poi divenuta popolare nel significato che ò chiarito.
Biagio fu un vescovo e martire che visse in Armenia nel III secolo ed è ritenuto dalla tradizione vescovo della comunità di Sebaste in Armenia al tempo della "pax" costantiniana, e lí a Sebaste subí il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è perciò spiegato dagli storici con una persecuzione locale dovuta ai contrasti tra l'occidentale Costantino e l'orientale Licinio. Nell'VIII secolo alcune monache armene fuggite in Italia durante la lotta iconoclastica verso le immagini, portarono le reliquie del santo a Maratea (Potenza), di cui il santo è patrono e dove sorse una basilica sul Monte San Biagio.Il culto di quel martire si estese poi dalla Lucania a tutto il meridione. Il suo nome è frequente nella toponomastica italiana – a Napoli, in provincia di Latina, Imperia, Treviso, Agrigento, Frosinone e Chieti - e di molte nazioni, a conferma della diffusione del culto. Avendo guarito miracolosamente un bimbo cui si era conficcata una lisca in gola, è invocato come protettore per i mali di quella parte del corpo. A quell'atto risale il rito della "benedizione della gola", compiuto con due candele incrociate.
La chiesa di San Biagio Maggiore è un piccolo luogo di culto di Napoli e si erge nel cuore del centro antico, all'incrocio tra via San Biagio dei Librai e via San Gregorio Armeno.
La chiesa è contigua a quella di San Gennaro all'Olmo; fu stata fondata nel 1631 dal cardinale Francesco Boncompagni, che volle innalzarla unendo un'antica cappella di San Biagio con la sagrestia di San Gennaro. La strada, che prende nome dalla chiesa, era occupata soprattutto da librai, che si interessarono alla custodia e cura dell'edificio religioso. La chiesa è una rilevante testimonianza storico-monumentale; ciò nonostante, è rimasta chiusa per lungo tempo ed è stata riaperta solo nel 2007, dopo notevoli lavori di restauro, grazie alla Fondazione Giambattista Vico, voluta dal prof. Gerardo Marotta.
La chiesa è dedicata a San Biagio, oggetto di un'accesa devozione popolare che si divulgò soprattutto grazie alle monache armene che, arrivate a Napoli durante la lotta iconoclastica verso le immagini, recarono con sé parte delle reliquie del santo già portate a Maratea.
L'edificio è piuttosto piccolo, ma conserva rilevanti testimonianze artistiche tra le quali un altare in marmo intarsiato, una pala d’ignoto di scuola caravaggesca mentre l'antica statua del santo, una volta ritrovata presso un rigattiere fu trasferita nella vicina chiesa dei Santi Filippo e Giacomo).
Cambiamo argomento:
2)Ciento ducate ô fisco e nno ‘nu callo ô si’ Francisco!
Ad litteram: Cento ducati al Fisco e neppure un soldo al signor Francesco (Florio/Frolio)! Id est: meglio spender anche parecchio in tasse e/o balzelli che pochi soldi di medicamenti; la salute è il bene piú prezioso! Per traslato l’espressione è usata anche per affermare che sia preferibile assoggettarsi al pagamento di esose tasse piuttosto che elargire anche poche sostanze ad un nemico o un immeritevole. Francesco Florio (il cui cognome nel parlato fu storpiato in Frolio) fu un noto speziale che nel 1600 nella zona portuale del Mandracchio vendeva i suoi unguenti curativi o intesi tali (rammento un famoso modo di dire partenopeo che parlando di un inutile unguento lo appellò come ’agniento p’ ‘a guallera (inutile pomata per l’ernia,affezione che non può essere curata con un linimento) o tout-court come si’-frolio (linimento infruttuoso).
ducato/scudo/piastra popolarmente piezzo janco/ pezza (= 436,5 lire it.) moneta d’argento massiccio = 100 grani/grana; ogni grana era corrispondente a 4,365 lire italiane –
ducatos.vo m.le nome di una moneta aurea veneziana e poi di altre monete. voce dalla parola lat. ducatus, incisa sulle monete veneziane del sec. XIII raffiguranti il doge.
scudo s.vo m.le moneta d'oro o d'argento diffusa in passato in parecchi stati italiani, e recante impresso lo stemma del sovrano o dello stato emittente. voce dal lat. scutum (scudo)perché lo stemma impresso sulla moneta era a forma di scudo.
piastra s.vo f.le nome di diverse monete italiane antiche; oggi, moneta divisionale della Turchia, dell'Egitto, della Siria e di altri paesi. voce dal lat. emplastru(m)→(em)plastru(m)→piastra, che è dal gr. émplastron.
cavallo o callo: moneta di pochissima importanza coniata in rame in piú valori (uno, due, tre, quattro, cinque, nove) dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito dal tornese), era la dodicesima parte di un grano napoletano. Dal 1814 passò, invece, a rappresentare la decima parte di un grano napoletano.
agniento s.vo neutro = pomata, linimento, preparato farmaceutico per uso esterno, costituito da un miscuglio untuoso, a base di grassi, in cui è incorporata la sostanza medicinale. Voce etimologicamente lettura metatetica del
lat. unguentum→ugnuentu(m)→agniento, deriv. di ungere 'ungere'
si’-frolio o anche sifrolio s.vo neutro con il medesimo significato della voce precedente, ma con intento marcatamente peggiorativo atteso che non sortivano alcun effetto i linimenti, i preparati farmaceutici approntati dal summenzionato si’ Frolio da cui con agglutinazione del nome comune si’ (signore) e del nome proprio Florio si ricavò per metinomia il sostantivo in esame si’-frolio o anche sifrolio.
guallera/guallara s.vo f.le segnatamente ernia scrotale con etimo dall’arabo wadara di identico significato; numerosi i suoi sinonimi:
1- ‘ntoscia che è propriamente l’ernia addominale con derivazione dal greco enthostídia= intestini;
2- burzone altra voce usata per indicare l’ernia scrotale o quella ombelicale s. m. accrescitivo (vedi suff. one) di borza derivato del lat. tardo bursa(m), dal gr. byrsa 'pelle, otre di pelle'ed in effetti di per sé la voce a margine indicò dapprima lo scroto ossia la borsa che contiene i testicoli, e solo successivamente un’ernia scrotale ;
3- paposcia voce usata per indicare l’ernia inguinale quel noioso rigonfiamento che talvolta afflige gli anziani inducendoli ad un’andatura circospetta e lenta; la voce a margine è un derivato del lat. parlato *papus (rigonfiamento) addizionato del suff. modale osa femm. di uso;
4- mellunciello letteralmente piccolo melone con il quale torniamo all’ ernia scrotale; la voce a margine è un diminutivo (vedi suffisso ciello) di mellone che è dall’ acc. tardo lat. melone(m), da mílo/onis, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mílopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone; la voce napoletana mellone comporta il raddoppiamento popolare della liquida rispetto all’acc. lat. melone(m);
5 - contrappiso letteralmente contrappeso che è voce (derivata come l’taliano dall’addizione di contra (contro) + (p)piso (peso)) usata per indicare un’ernia inguinale o addominale che insista su di un solo lato del corpo facendo quasi da contrappeso all’opposto lato;
6 - quaglia letteralmente quaglia voce usata indifferentemente per indicare un’ernia addominale, inguinale, o ombelicale, che abbia la tipica forma ad uovo dell’uccello colto nella posizione di riposo con le alucce chiuse e raccolte su se stesso; la voce nap. quaglia è dall'ant. fr. quaille, che è forse dal lat. volg. *coàcula(m), di probabile orig. onomat. se non, piú acconciamente, da un latino parlato *quà(r)uala→quàglia che richiamava il verso dell’uccello;
7 - zeppula letteralmente zeppola voce che con derivazione dal latino serpula indica innanzi tutto un caratteristico dolce partenopeo, in uso per la festività di san Giuseppe(19 marzo) , di pasta bigné disposta, con un sac a poche, a mo’ di ciambella, poi doppiamente fritta: una prima volta in olio bollente e profondo, una seconda volta, a seguire nello strutto o (meno spesso e meno saporitamente) cotta al forno in un’unica soluzione, spolverata di zucchero e variamente guarnita con crema pasticciera ed amarene candite; il dolce à origini antichissime quando intorno al 500 a.C. si celebravano a Roma le Liberalia, le feste delle divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino addizionato di miele e spezie e si friggevano profumate frittelle di frumento; le origini del dolce dicevo furono antichissime , anche se pare che la ricetta attuale delle napoletane zeppole di san Giuseppe sia opera di quel tal P. Pintauro che fu anche, come vedemmo alibi, l’ideatore della sfogliatella, e rivisitando le antichissime frittelle romane di semplice fior di frumento, diede vita alle attuali zeppole arricchendo l’impasto di uova, burro ed aromi varî e procedendo poi ad una doppia frittura prima in olio profondo e poi nello strutto; la tipica forma a ciambella della zeppola rammenta la forma di un serpentello (serpula) quando si attorciglia su se stesso da ciò è probabile sia derivato il nome di zeppola (è normale il passaggio di s a z e l’assimilazione regressiva rp→pp) ; d’altro canto l’esser détto dolce gonfio e paffutello ben può richiamare il rigonfiamento tipico di un’ ernia inguinale, addominale o ombelicale;
e siamo infine a
8 - pallèra voce con la quale si torna ad indicare estensivamente l’ernia scrotale; di per sé infatti la voce pallèra (con etimo da palla che è dal longob. *palla, che à la stessa radice di balla (dal fr. ant. balle, che è dal francone balla sfera) + il suff. di pertinenza era) indica in primis segnatamente lo scroto quale contenitore delle palle( cosí vengon detti in napoletano i testicoli intesi sbrigativamente sferici, anzi che ovoidali ); normale estendere il significato di pallèra da scroto ad ernia scrotale: lo scroto è pur sempre un rigonfiamento tal quale un’ ernia.
Giunti qui consentitemi una curiosità; nella lingua napoletana esiste un vocabolo papuscio di cui la precedente paposcia a tutta prima potrebbe erroneamente sembrare il suo femminile metafonetico; in realtà non vi è alcun nesso, se non una fuorviante assonanza…, tra paposcia e papuscio; la paposcia abbiamo visto cosa è e ne abbiamo indicato l’etimologia; il papuscio invece non indica alcuna affezione; è solo (con derivazione dall’arabo ba- bús- 'copripiedi'ricavato con tutta evidenza dall’indiano pa-push, di identico significato ) è solo il modo napoletano di render l’italiano babbuccia (che è mutuata dal franc. babouche).
si’ è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. Viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
ZI’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed è usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono ad es. gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne.in luogo dei corretti si’prevete o si’ Giuanne.
Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo: SIÉ che è usato per indicare la voce signora; per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse non sarebbe sié ma ancora si’ ed esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma derivando – come qui di sèguito vediamo - da altro gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
mandracchio non è il nome di una tenuta; è il nome con il quale si indica una zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori. Tale nome è ricordato nell’espressione
Paré 'o marchese d''o mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione icasticamente viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante(tal quale quei marinai, facchini e scaricatori, frequentatori della darsena che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto) che invece si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita.
E terminiamo con
3) APPOZA FRATIÉ PE SAN GIUVANNE! Ad litteram: Inchínati e sporgi il sedere, fratello per san Giovanni! Id est: Rasségnati, subisci e sopporta fratello! Ma cosa c’entra san Giovanni? Nulla se non per rammentare che l’espressione in origine e nel suo significato primo di “Inchínati e sporgi il sedere” la si colse sulle labbra degli infermieri dell’Ospedale della Pace eretto nel 1587, in Napoli quale parte di un complesso sorto intorno ad un antico palazzo nobiliare costruito da Giovanni Caracciolo agli inizi del XV secolo. L’ospedale era gestito dai frati Ospedalieri di San Giovanni di Dio donde gli addetti: medici ed infermieri dell’ospedale furon détti chille ‘e san Giuanne.
Orbene in tale ospedale era invalso un uso davvero singolare quello cioè che tutti i ricoverati, quale che fosse la loro affezione dovevano sottostare quotidianamentealla somministrazione di un clistere ed a tal fine i poveri ricoverati erano inseguiti cotidie da un nutrito drappello di infermieri che armati di cannula ed ampolla colma d’acqua medicamentosa ingingevano loro e li sollecitavano ad assumere la posizione piú adatta alla bisogna spronandoli con le parole in esame.
In sèguito uscita dalle corsie dell’ospedale la locuzione venne usata estendendone il significato in tutte quelle occasione fósse necessario convincer qualcuno a tenere un atteggiamento remissivo e rassegnato davanti ad evenienze ineludibili e la si usò spesso in luogo di quella che parla di chiejarsela a llibbretta ingiungendo all’imperativo: chiejatélla a llibbretta: Ad litteram: piegarsela a mo’ di libriccino id est:accettare, sia pure obtorto collo, che le cose vadano in un certo modo ed uniformarvisi atteso che non ci sia altro da fare per migliorare la situazione ed anzi quell’accettare la situazione ed uniformarsi a che le cose vadano in quel modo rappresenta il miglior partito da prendere evitando di contrastarsi per non soccombere o peggiorare la situazione. Come si capisce, intesa nel senso di accettare etc. la locuzione à un suo senso riduttivo e quasi negativo, che non ebbe in origine, allorché, fu usata come consiglio positivo e d’opportunità, e la si riferí al modo piú acconcio di consumare una pizza allorché non ci si potesse accomodare ad un tavolo e servirsi di adeguate stoviglie (piatto, bicchiere) e posate (forchetta e coltello): in tal caso la pizza veniva e viene consumata addentandola stando all’impiedi o addirittura passeggiando e la maniera piú acconcia di tenere fra le mani la pietanza fu ed ancora è quella di piegare la pizza in quattro parti fino a farle assumere quasi la foggia di un piccolo libro di quattro fogli, affinché, così piegata trattenga e non lasci cadere i condimenti di cui è coperta , che se cadessero imbratterebbero gli abiti di colui che mangia la suddetta pizza da asporto. Successivamente l’espressione in epigrafe che indicava il miglior modo di consumare una pizza d’asporto, estese per traslato il suo significato a quello di indicare il miglior atteggiamento comportamentale da tenere in malagurate evenienze quotidiane quando bisognasse far buon viso a cattivo gioco…e semanticamente questo secondo significato si spiega con il fatto che come il piegare la pizza a mo’ di libriccino è il modo piú vantaggioso per evitare di imbrattarsi, cosí l’accortezza di avere un atteggiamento di sopportazione innanzi ad eventi negativi o fastidiosamente vessatorî, è il modo migliore per eludere contrasti e lotte che normalmente non fanno che peggiorare la situazione.
pizza= pizza, focaccia rustica variamente condita di antichissime origini latine, divenuta emblema della città partenopea e di qui esportata ovunque; l’etimo è per qualcuno da un lat. *(a)picia quale vivanda inventata dal cuoco romano Apicio, ma molto piú verosimilmente ritengo percorribile l’ipotesi che pizza stia per pinsa part. pass. femm. del verbo pinsere=comprimere, schiacciare (infatti la pasta di cui è fatta la pizza dev’essere compressa, schiacciata e poi condita); normale nel napoletano il passaggio di ns ad nz e la successiva assimilazione regressiva nz→zz;
chiejatélla= piégatela voce verbale (2° pers. sing. dell’imperativo, di tipo esortativo addizionato in posizione enclitica dei pronomi te(per te) e la ( da (il)la(m)) dell’infinito chijare/à- chiejare/à= piegare, curvare, flettere ed estensivamente sottomettere con etimo dal tardo latino plicare denom. di plica(piega)normale il passaggio di pl→chi; nella forma chiejare/à si è determinata una necessaria dittongazione in sillaba d’avvio con ii diventati ie;
a llibbretta = a mo’ di libriccino; libbretta s. forma femm. del normale masch. libbretto dim.(vedi suff. etto/a) di libbro con etimo dal lat. libru(m), originariamente 'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere; la voce latina in napoletano comportò il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva b ed in luogo di libro (come in italiano) si ebbe libbro;
la voce libbretta è usata spesso nel linguaggio popolare per indicare un attestato di credito o bancario o postale.Da notare che la voce libbretta se preceduta dall’articolo ‘a si rende con ‘a libbretta con la elle scempia; se invece è preceduta dalla preposizione a si rende con a llibbretta con la elle geminata!
appoza/appuza voce verbale 2ª p. sg. imperativo dell’infinito appuzà= chinarsi, inchinarsi tirando su e sporgendo il deretano. Voce derivata dal lat. appulsare frequentativo di appellere= approdare accostando la poppa alla banchina; va da sé che semanticamente la poppa parte posteriore del naviglio si collega con il deretano parte posteriore del corpo umano.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico P.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
R. Bracale Brak
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento